Le avventure di Tom Sawyer

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Mark Twain

Le Avventure di Tom Sawyer

Di

Mark Twain

PREFAZIONE

            Quasi tutte le avventure narrate in questo libro sono accadute veramente: un paio a me in persona, il resto a quei ragazzi che mi furono compagni di scuola. Huck Finn è un personaggio tratto dalla vita; Tom Sawyer pure, anche se non rispecchia un singolo individuo; Tom combina in sé i caratteri di tre ragazzi di mia conoscenza, e perciò appartiene all'ordine composito dell'architettura.

            Le curiose superstizioni delle quali si fa cenno erano assai diffuse tra i bambini e gli schiavi del West al tempo in cui si svolge questa storia; cioè trenta o quarant'anni fa.

            Anche se il mio libro è stato scritto soprattutto per divertire i giovani, spero che non per questo sarà disdegnato dagli adulti, dal momento che tra i miei propositi c'era quello di cercare amabilmente di ricordare anche a loro com'erano una volta, e come la pensavano e come parlavano e quali erano i loro sentimenti, e in quali strane imprese ogni tanto s'impegnavano.

            L'AUTORE

Hartford, 1876

CAPITOLO I

            «Tom!»

            Nessuna risposta.

            «Tom!»

            Nessuna risposta.

            «Dove sarà andato a ficcarsi quel ragazzo? Tom!»

            La vecchia signora si tirò gli occhiali sulla punta del naso e volse, sopra le lenti, lo sguardo nella stanza; poi se li spinse sulla fronte e guardò da sotto in su. Di rado o forse mai, per cercare una cosa piccina come un ragazzo, guardava attraverso le lenti, perché quelli erano i suoi occhiali più eleganti, l'orgoglio del suo cuore, e non dovevano rispondere a un criterio di utilità ma semplicemente conferire «distinzione»: ci avrebbe visto altrettanto bene attraverso due piastre da cucina. Per un attimo ebbe un'aria perplessa, poi disse, con meno vigore, ma sempre abbastanza forte per farsi sentire dalla mobilia: «Oh, se ti metto le mani addosso, io...»

            Non finì la frase, perché si era già chinata a frugare sotto il letto con la scopa, e doveva risparmiare il fiato per menare dei colpi più energici. Ma non riuscì a stanare altro che il gatto.

            «Non ho mai visto un ragazzo come quello!»

            Raggiunse la porta aperta e si fermò sulla soglia, e guardò fuori tra le piante di pomodori e i ciuffi di stramonio che formavano il giardino. Di Tom, nessuna traccia. Allora piegò la testa, a un angolo calcolato per far giungere il più lontano possibile la voce, e gridò:

            «To-o-om! To-o-om!»

            Ci fu un lieve rumore alle sue spalle, e lei si voltò appena in tempo per agguantare un ragazzino per la falda del giubbetto e bloccare la sua fuga. «Sei qui! Dovevo pensarci, a quell'armadio. Cosa stavi facendo, là dentro?»

            «Niente.»

            «Niente! Guardati le mani, e guardati la bocca. Cosa sono quelle macchie!»

            «Non so, zia.»

            «Be', lo so io. È marmellata, ecco che cos'è. Ti ho detto mille volte che se non lasciavi stare quella marmellata ti avrei spellato vivo. Dammi quella bacchetta.»

            La bacchetta ondeggiava nell'aria. La situazione era disperata.

            «Acciderba! Guardati alle spalle, zia!»

            La vecchia signora si voltò di scatto, tirandosi su le gonne per scampare al pericolo, e in un lampo il ragazzo scappò via, arrampicandosi sullo steccato e sparendo dall'altra parte. Zia Polly rimase immobile per qualche istante, riprendendosi dalla sorpresa, poi scoppiò in una risatina.

            «Accidenti a quel ragazzo, possibile che io non impari mai niente? Non me ne ha fatti abbastanza, di scherzi come questo, per sapere che devo stare attenta? Ma un vecchio stupido

è lo stupido più grande che ci sia. Come dice il proverbio, il cane vecchio non impara trucchi nuovi. Ma, Dio buono, non me ne combina mai due uguali, e come fa, uno, a prevedere quello che sta per succedere? Si direbbe che sappia di preciso fino a che punto può mettermi in croce prima che io perda le staffe, e sa che se riesce a tenermi sulla corda per un po', o a farmi ridere, è finita, e non posso più dargli nemmeno uno scapaccione. Non faccio il mio dovere, con quel ragazzo, ecco la verità, e Dio lo sa. Il medico pietoso fa la piaga cancrenosa, come dice il libro sacro. Sto preparando, lo so, un futuro di peccati e di tormenti, per lui e per me. È un demonio, quel ragazzo, ma, Dio santo, è il figlio della mia povera sorella, pace all'anima sua, e non ho il coraggio di picchiarlo. Ogni volta che lascio correre mi rimorde la coscienza; e ogni volta che gliele suono manca poco che mi si spezzi il cuore. Ahimè, l'uomo nato di donna ha vita breve e piena di guai, come dice la Scrittura, e io credo che sia proprio così. Oggi pomeriggio marinerà la scuola, e domani sarò costretta a farlo lavorare, per castigo. È dura farlo lavorare il sabato, quando tutti i ragazzi sono in vacanza, ma lui odia il lavoro più di ogni cosa al mondo, e devo fargli piegare un po' la schiena, o sarò la sua rovina.»

            Tom marinò la scuola, infatti, e si divertì un mondo. Tornò a casa appena in tempo per aiutare Jim, il ragazzetto di colore, a segare la legna per l'indomani, e a preparare, prima di cena, la legna piccola per accendere il fuoco: almeno arrivò in tempo per raccontare le sue avventure a Jim mentre Jim faceva i tre quarti del lavoro. Sid, il fratello minore di Tom (o meglio il suo fratellastro), aveva già finito la sua parte (che consisteva nel raccogliere i trucioli), perché era un ragazzo tranquillo e non avventuroso e turbolento come Tom. Mentre quest'ultimo consumava la sua cena, e rubava lo zucchero ogni volta che se ne presentava l'occasione, zia Polly gli rivolse delle domande che erano piene di astuzia, e molto insidiose: perché voleva indurlo con l'inganno a fare delle rivelazioni compromettenti. Come molte altre anime semplici, aveva la vanità di credersi dotata di un particolare talento per la diplomazia più sotterranea e misteriosa, e si compiaceva di considerare i suoi più trasparenti stratagemmi veri prodigi di un'astuzia sopraffina. «Tom», disse, «a scuola faceva piuttosto caldo, no?»

            «Sì, zia.»

            «Molto caldo, vero?»

            «Sì, zia.»

            «Non ti è venuta voglia di fare il bagno, Tom?»

            Tom fu sfiorato da un'ombra di paura, un pizzico di sgradevole sospetto. Scrutò il viso di zia Polly, che però non gli disse nulla. Disse allora:

            «No, zia. Be', non tanto.»

            La vecchia signora allungò la mano per toccare la camicia di Tom e disse:

            «Tu, però, non sei molto accaldato.»

            E con un certo compiacimento pensò di avere scoperto che la camicia era asciutta senza far capire a nessuno quali erano le sue intenzioni. Tom invece, suo malgrado, aveva già capito dove la zia voleva andare a parare. Perciò si affrettò a prevenire quella che poteva essere la mossa successiva.

            «Qualcuno si è bagnato la testa con la pompa: la mia è ancora umida. Vedi!»

            Zia Polly, seccata, si rese conto di aver trascurato quell'indizio e di essersi fatta mettere nel sacco. Poi ebbe una nuova ispirazione:

            «Tom, per bagnarti la testa con la pompa non hai mica dovuto toglierti il colletto della camicia dove lo avevo cucito io, eh? Sbottonati la giacca!»

            Ogni nube disparve dal viso di Tom, che tranquillamente si sbottonò il giubbetto. Il colletto della camicia era al suo posto, ben cucito.

            «Uffa! T'è andata bene sai? Ero sicura che avevi marinato la scuola e fatto il bagno. Ma ti perdono, Tom, credo che tu sia una specie di gatto strinato, come dice il proverbio: meglio di quello che sembri, questa volta.»

            Le rincresceva un po' che il suo acume avesse fatto fiasco, e un po' la rallegrava che Tom, per una volta, si fosse comportato bene.

            Ma Sidney disse:

            «Che stupido, io credevo che tu gli avessi cucito il colletto col filo bianco, e quello invece è nero.»

            «Perbacco, io gliel'avevo cucito col filo bianco! Tom!»

            Ma Tom non attese il resto. Mentre infilava la porta, disse:

            «Siddy, stavolta te la faccio pagare.»

            Quando si sentì al sicuro, Tom studiò i due grossi aghi che teneva infilzati nei risvolti della giacca, l'uno con un pezzo di filo bianco e l'altro con una gugliata di filo nero. Disse:

            «Non se ne sarebbe mai accorta, se non fosse stato per Sid. Maledizione, certe volte lo cuce col filo bianco e certe volte lo cuce con quello nero. Come vorrei che usasse sempre lo stesso filo: non posso mica ricordarmelo ogni volta. Ma scommetto che stavolta Sid le buscherà. Mi venga un colpo se non è vero.»

            Non era il ragazzo modello del paese. Ma lo conosceva benissimo, il ragazzo modello, e l'odiava con tutto il cuore.

            In un paio di minuti, o meno ancora, aveva scordato tutti i suoi crucci. Non perché i suoi crucci fossero, per lui, di un'ombra meno acerbi e opprimenti di quanto lo siano quelli di un uomo per un uomo, ma perché, per il momento, un nuovo e forte interesse li travolse e li scacciò dalla sua mente; proprio come le sventure umane si dimenticano nell'entusiasmo di nuove imprese. Questo nuovo interesse era rappresentato da un modo di fischiare originale e molto pregevole che Tom aveva appena appreso da un negro, e che non vedeva l'ora di poter praticare in santa pace. Consisteva in un singolare canto da uccello, una specie di liquido gorgheggio, che si produceva toccando il palato con la lingua a brevi intervalli durante la melodia. Il lettore, se è mai stato ragazzo, probabilmente ricorderà come si fa. Attenzione e diligenza lo resero ben presto maestro di quell'arte, e Tom s'incamminò a grandi passi lungo la strada con la bocca piena di armonie e l'anima traboccante di riconoscenza. Provava qualcosa di molto simile a quello che deve provare l'astronomo che ha scoperto un nuovo pianeta. E per quanto riguarda la forza, la purezza e la profondità di questo piacere, non c'è dubbio che il ragazzo avesse un bel vantaggio sull'astronomo.

            Le sere d'estate erano lunghe. Non faceva ancora buio. A un tratto Tom smise di fischiare. Davanti a lui c'era uno sconosciuto: un ragazzo un po' più grande di lui. Ogni nuovo venuto, vecchio o giovane, maschio o femmina che fosse, era fonte di grande curiosità per il povero paesino di St. Petersburg. Questo ragazzo era anche ben vestito: ben vestito in un giorno feriale. Questo era semplicemente inaudito. Il suo berretto era una cosa raffinata, la sua giacca di tela blu, abbottonata fino al collo, era nuova e inappuntabile, e lo stesso poteva dirsi dei calzoni. Aveva le scarpe, pur essendo appena venerdì. Indossava persino la cravatta, un bel nastro a colori vivaci. Aveva un'aria cittadina che si vedeva lontano un miglio e che per Tom fu come un pugno nello stomaco. Più Tom fissava quello splendido fenomeno, più storceva il naso alla vista di tanta eleganza, e più logora e frusta gli sembrava diventare la sua tenuta. Nessuno dei due ragazzi disse una parola. Se uno si muoveva, anche l'altro si muoveva: ma solo di traverso, in cerchio. Stavano sempre faccia a faccia e naso a naso. Alla fine Tom disse:

            «Posso romperti il muso.»

            «Provaci.»

            «Ne sono capacissimo.»

            «Non è vero.»

            «Sì che è vero.»

            «Non è vero.»

            «Sì.»

            «No.»

            «Sì.»

            «No.»

            Una pausa imbarazzata. Poi Tom disse:

            «Come ti chiami?»

            «Non sono affari tuoi.»

            «Be', ora lo sono.»

            «Ma davvero?»

            «Davvero.»

            «Avanti, allora. Forza.»

            «Oh, ti credi tanto furbo, eh? Potrei suonartele con una mano legata dietro la schiena, se volessi.»

            «Be', perché non lo fai? Se dici di poterlo fare...»

            «Be', lo farò, se continui a fare lo stupido con me.»

            «Oh, certo: ho visto intere famiglie nella stessa situazione.»

            «Furbacchione! Si può sapere chi ti credi di essere?»

            «Che bel cappello hai in testa!»

            «Puoi buttarmelo per terra, se non ti piace. Ti sfido a farlo; e chi non accetta la sfida è un vigliacco.»

            «Sei un bugiardo!»

            «Mai come te.»

            «Sei un bugiardo e un fifone.»

            «Ah. Alza i tacchi, va'!»

            «Senti, se non la pianti con le tue provocazioni, prendo un sasso e ti spacco la testa.»

            «Oh, certo, come no.»

            «Be', vuoi vedere?»

            «Coraggio, perché non lo fai? Perché continui a dire: faccio questo e faccio quello? Perché non lo fai, punto e basta? Perché hai fifa, tutto qui.»

            «Io non ho fifa.»

            «Sì che hai fifa.»

            «Non è vero.»

            «Sì che è vero.»

            Un'altra pausa, seguita da altre occhiate e da altri cauti spostamenti laterali. Finalmente furono spalla a spalla. Tom disse:

            «Vattene via!»

            «Vattene via tu!»

            «Io no.»

            «Io nemmeno.»

            Così rimasero, ciascuno dei due con un piede piantato obliquamente davanti a sé come puntello, spingendosi con tutta la forza che avevano, e guardandosi con odio. Ma nessuno dei due riusciva ad avere la meglio sull'altro. Dopo aver lottato fino a essere entrambi accaldati e rossi in viso, ciascuno dei due ridusse lo sforzo con vigile circospezione e Tom disse:

            «Sei un codardo e un moccioso. Lo dirò a mio fratello, quello grande, che ti spiaccica col mignolo, se vuole, e vedrai se non lo fa.»

            «Che m'importa di tuo fratello? Io ho un fratello che è più grande di lui; e che se vuole è capace di farlo volare sopra quello steccato!» (Entrambi i fratelli erano immaginari.)

            «È una bugia.»

            «Non basta che tu lo dica, perché lo sia.»

            Tom tracciò una riga nella polvere con l'alluce e disse:

            «Ti sfido a superare questa riga, e se lo fai te ne do tante che le gambe non ti reggeranno in piedi. Se non accetti la sfida sei un vigliacco.»

            Il ragazzo nuovo calpestò prontamente la riga e disse:

            «Avevi detto che lo facevi, adesso vediamo se lo fai.»

            «Non provocarmi, adesso; lo dico per il tuo bene.»

            «Avevi detto che l'avresti fatto: perché non lo fai?»

            «Porca miseria, dammi due cent e lo faccio.»

            Il ragazzo nuovo tirò fuori dalla tasca due grosse monete di rame e gliele porse con un sorriso beffardo.

            Tom gliele buttò per terra.

            Di lì a un attimo i due ragazzi stavano rotolandosi e contorcendosi sulla terra battuta del sentiero, avvinghiati come gatti; e per lo spazio di un minuto si tirarono e si strapparono capelli e vestiti, si graffiarono e si dettero pugni sul naso, e si coprirono di polvere e di gloria. Finalmente la confusione prese forma, e nel fumo della battaglia apparve Tom che, seduto a cavalcioni del nuovo arrivato, lo martellava di pugni.

            «Di' basta!» disse Tom.

            Il ragazzo cercava di liberarsi e piangeva, quasi solo di rabbia.

            «Di' basta!», e la gragnuola di pugni non cessava.

            Alla fine il forestiero emise un «basta!» soffocato e Tom lo lasciò andare e disse: «Così impari. E bada con chi ti metti, la prossima volta che vuoi fare lo stupido.»

            Il ragazzo nuovo se ne andò spolverandosi i vestiti, singhiozzando, tirando su col naso, e ogni tanto voltandosi indietro e scuotendo la testa, e dicendo minacciosamente a Tom cosa gli avrebbe fatto «la prossima volta che lo avesse incontrato per la strada». Al che Tom rispose con qualche grido di scherno, e cominciò ad allontanarsi facendo la ruota come un pavone; e com'ebbe voltato le spalle l'altro ragazzo agguantò una pietra, la tirò e lo colpì tra le scapole, e poi girò sui tacchi e scappò via come un'antilope. Tom inseguì il traditore fino a casa e così scoprì dove abitava. Allora si appostò per qualche tempo davanti al cancello, sfidando il nemico a venir fuori; ma il nemico si limitò a fargli boccacce dalla finestra, e declinò l'invito. Finalmente apparve la madre del nemico, che diede a Tom del bambino cattivo, dispettoso e maleducato, e che gli intimò di andarsene. Così Tom dovette andarsene, ma prima di farlo disse che gliel'avrebbe «fatta pagare», a quel «vigliacco».

            Quella sera rincasò piuttosto tardi, e allorché s'introdusse cautamente dalla finestra aperta cadde in un'imboscata tesagli dalla zia; la quale, appena vide in che stato erano i suoi vestiti, divenne adamantina nella fermezza con cui aveva deciso di trasformare il suo sabato di vacanza in un giorno di lavori forzati.

CAPITOLO II

            Era venuto il sabato mattina, e tutto il mondo dell'estate era fresco e luminoso, traboccante di vita. C'era una canzone in ogni cuore; e se il cuore era giovane la musica sgorgava dalle labbra. C'era gioia in ogni volto, ed elasticità in ogni passo. I carrubi erano in boccio, e la fraganza dei fiori empiva l'aria.

            Cardiff Hill, che sorgeva oltre il paese, dominandolo, era verde di vegetazione, e distava quanto basta per sembrare una Terra Promessa, irreale, tranquilla e invitante.

            Tom apparve sul marciapiede con un secchio di calce da imbianchino e un pennello col manico lungo. Scrutò attentamente lo steccato, e ogni letizia parve abbandonarlo, mentre sull'animo gli si posava una cappa di spessa melanconia. Trenta metri di steccato alto quasi tre metri! Gli sembrò che la vita non avesse alcun valore, e che l'esistenza fosse solo un peso. Sospirando tuffò il pennello nel secchio e lo passò sull'asse più alta; ripeté l'operazione; lo rifece; confrontò l'insignificante striscia bianca con lo sterminato continente dello steccato ancora da imbiancare e, scoraggiato, si sedette sulla cassetta di una pianta. Jim uscì dal cancello con un secchio di latta, saltando e cantando Buffalo Gals. Andare a prender l'acqua alla pompa del paese era sempre stato un lavoro detestabile, agli occhi di Tom, ma in quel momento non gli parve tale. Ricordò che intorno alla pompa c'era sempre della gente. Ragazzi e ragazze bianchi, negri e mulatti erano sempre là in attesa del loro turno, riposandosi, scambiandosi giocattoli, discutendo, accapigliandosi, facendo baccano. E ricordò che, anche se la pompa era solo a centocinquanta metri di distanza, Jim non impiegava mai meno di un'ora per tornare indietro con un secchio d'acqua; e anche allora bisognava, di solito, mandare qualcuno a chiamarlo. Tom disse:

            «Senti, Jim; vado io a prender l'acqua, se tu imbianchi un po' dello steccato.»

            Jim scosse la testa e disse:

            «Non posso, Padron Tom. La signora mi ha detto di andare a prender l'acqua e di non fermarmi a perder tempo con nessuno. Ha detto che forse Padron Tom mi avrebbe chiesto d'imbiancare lo steccato, e mi ha detto di non dargli retta e di badare agli affari miei: che a imbiancare lo steccato ci pensava lei.»

            «Oh, non badare a quello che ha detto, Jim. Dice sempre così. Dammi il secchio: ci metto un minuto. Non se ne accorgerà nemmeno.»

            «Oh, mi manca il coraggio, Padron Tom. La signora mi torcerebbe il collo. Altroché, se lo farebbe.»

            «Lei! Se non picchia mai nessuno! Ti dà uno scappellotto col ditale, e vorrei proprio sapere chi lo sente. Dice cose da far paura, ma le chiacchiere non fanno male: finché non si mette a gridare, almeno. Jim, ti regalo una biglia. Te ne regalo una di marmo bianco!»

            Jim cominciò a tentennare.

            «Una biglia di marmo bianco, Jim; la più bella che ho.»

            «Mamma mia; è proprio una meraviglia. Ma, Padron Tom, io ho tanta paura della signora.»

            Jim, però, era solo un essere umano: la proposta era troppo attraente. Depose il secchio, prese la biglia bianca. Subito dopo stava correndo lungo la strada col secchio e col sedere che bruciava, Tom stava imbiancando energicamente lo steccato e zia Polly stava lasciando il campo di battaglia con una ciabatta in mano e negli occhi un lampo di trionfo.

            Ma l'energia di Tom non durò a lungo. Cominciò a pensare agli scherzi che si era proposto di fare quel giorno, e le sue pene si moltiplicarono. Presto i ragazzi liberi da impegni sarebbero passati di lì, per organizzare allegre spedizioni di ogni genere, e lo avrebbero ferocemente preso in giro perché era costretto a lavorare: il solo pensiero gli bruciava come un ferro rovente. Tirò fuori tutte le sue ricchezze e le studiò: pezzi di giocattoli, palline e cianfrusaglie; abbastanza, forse, per comprarsi uno scambio di lavori, ma non abbastanza per comprarsi anche solo una mezz'ora di piena libertà. Così rimise in tasca i suoi scarsi mezzi e rinunciò all'idea di provare a corrompere i compagni. In quel momento cupo e disperato fu colto da un'improvvisa ispirazione. Una grande, meravigliosa ispirazione. Raccolse il pennello e riprese tranquillamente a lavorare. Poco dopo comparve Ben Rogers: proprio il ragazzo di cui, più di tutti gli altri, Tom temeva i sarcasmi. Ben non camminava, saltellava: segno evidente che il suo cuore era leggero e grandi le sue speranze. Stava mangiando una mela, e mandava a intervalli un suono lungo e melodioso, seguito da un tonante din don don, din don don, perché in quel momento faceva il vaporetto! Avvicinandosi ridusse la velocità, si spostò in mezzo alla strada, virò a tribordo e orzò pesantemente, e con grande pompa, perché in quel momento Ben faceva il Big Missouri e pensava di pescare nove piedi. Era battello, capitano e campana tutto insieme, perciò doveva immaginarsi dritto in piedi sul ponte di manovra a dare gli ordini e insieme a eseguirli.

            «Macchine ferme, signore! Din din din.» L'abbrivo si era quasi spento, e Ben si diresse lentamente verso il marciapiede. «Macchine indietro! Din din din!» Le sue braccia si raddrizzarono e gli s'irrigidirono sui fianchi. «Macchine indietro a tribordo! Din din din! Ciuf! Ciuf ciuf ciuf!» Con la destra che intanto descriveva alcuni cerchi maestosi, perché rappresentava una ruota di dodici metri. «Macchine indietro a babordo! Din din din! Ciuf ciuf ciuf!» Anche la sinistra prese a descrivere dei cerchi.

            «Ferma a tribordo! Din din din! Ferma a babordo! Macchine avanti a tribordo! Ferma! Poggia col fianco esterno, piano, piano! Din din din! Ciuf ciuf ciuf! Fila quella cima! Sveglia, ora! Forza - fuori la cima da ormeggio - cosa state combinando? Fa' un giro col cappio intorno a quella bitta! Pronti con la passerella, ora: molla! Macchine ferme, signore! Din din din!»

            «Sht! Sht! Sht!» (Provando gli indicatori di livello.)

            Tom continuava a pitturare, senza prestare la minima attenzione al vaporetto. Ben lo guardò un momento, poi disse:

            «Ehilà! Siamo in secca, eh?»

            Nessuna risposta. Tom studiò il suo ultimo tocco con l'occhio di un artista; poi diede al pennello un'altra piccola spinta e studiò il risultato come prima. Ben andò a metterglisi di fianco. Alla vista della mela, Tom aveva l'acquolina in bocca, ma non interruppe il suo lavoro. Ben disse:

            «Ciao, vecchio; devi sgobbare, eh?»

            «Ah, sei tu, Ben! Non me n'ero accorto.»

            «Di', io vado a fare il bagno. Non ci verresti anche tu? Ma certo, tu preferisci lavorare, no? Si capisce!»

            Tom fissò il ragazzo per un attimo e disse:

            «Cos'è il lavoro, secondo te?»

            «Be', quello lì non è un lavoro?»

            Tom prima riprese a verniciare, poi rispose con aria indifferente:

            «Be', forse sì e forse no. Tutto quello che so io è che a Tom Sawyer gli sta bene.»

            «Oh, su, dai, non vorrai farmi credere che ti piace!»

            Il pennello continuava ad andare avanti e indietro.

            «Se mi piace? Be', non vedo perché non dovrebbe piacermi. Non càpita tutti i giorni l'occasione d'imbiancare uno steccato.»

            Questo mise l'intera faccenda in una luce nuova. Ben cessò di mangiucchiare la sua mela. Tom passò delicatamente il pennello sulle tavole, fece un passo indietro per osservare l'effetto, aggiunse un tocco qui e uno là, studiò nuovamente l'effetto, mentre Ben seguiva ogni sua mossa; il suo interesse cresceva sempre più, di pari passo con l'attrazione che quel lavoro esercitava su di lui. Finalmente disse:

            «Di', Tom, fa' imbiancare un pochino pure a me.»

            Tom rifletté; stava per acconsentire; ma poi cambiò idea: «No, no; non credo che sarebbe opportuno, Ben. Vedi, zia Polly ci tiene moltissimo a questo steccato: proprio qui sulla strada, capisci? Ma se fosse quello dietro mi starebbe bene, e lei non ci baderebbe. Sì, ci tiene moltissimo a questo steccato; bisogna pitturarlo con molta cura; non c'è un ragazzo su mille, forse su duemila, secondo me, capace di farlo come si deve.»

            «No... Davvero? Oh, su, dai; fammi provare, solo un pezzettino. Io ti farei provare, Tom, se fossi in te.»

            «Ben, io lo farei, ti giuro; ma zia Polly... Guarda, voleva farlo Jim, ma lei non gli ha dato il permesso. Voleva farlo Sid, ma lei non ha voluto. Ecco, vedi in quale situazione mi trovo? Se dovessi farlo tu, e gli capitasse qualcosa...»

            «Oh, uffa! Starò attento come te. Ora fammi provare. Senti... Ti do il torsolo della mia mela.»

            «Be', ecco. No, Ben; non posso; non me la sento...»

            «Te la do tutta!»

            Tom rinunciò al pennello con viso atteggiato a un'espressione riluttante, ma con la solerzia nel cuore. E mentre l'ex vapore Big Missouri lavorava e sudava sotto i raggi del sole, l'artista a riposo sedeva lì vicino, all'ombra, su una botte, dondolando le gambe, sgranocchiando la sua mela e progettando la strage di altri innocenti. Il materiale non mancava; ogni tanto dei ragazzi passavano di lì; venivano a sfottere, ma restavano a imbiancare. Quando Ben non ne poté più, Tom aveva già ceduto il turno successivo a Billy Fisher per un aquilone in buono stato; e quando Billy gettò la spugna, Johnny Miller prese il suo posto per un topo morto e uno spago per farlo dondolare; eccetera, eccetera, un'ora dopo l'altra. E quando venne la metà del pomeriggio, da quel ragazzo povero in canna che era la mattina, Tom si era trasformato in un riccone che nuotava letteralmente nell'oro. Aveva, oltre alla roba che ho citato, dodici biglie, uno scacciapensieri rotto, un pezzo di vetro di una bottiglia blu (da guardarci il mondo attraverso), un rocchetto, una chiave che non apriva nulla, un frammento di gesso, il tappo di vetro di una caraffa, un soldatino di stagno, una coppia di girini, sei petardi, un gattino cieco da un occhio, una maniglia di ottone, un collare per cane - senza il cane - il manico di un coltello, quattro pezzi di buccia d'arancia e il vecchio telaio sconquassato di una finestra. Per tutto quel tempo si era insieme riposato e divertito - non gli mancava la compagnia - e lo steccato aveva ben tre mani di vernice! Se non avesse finito la calce, avrebbe mandato in rovina tutti i ragazzi del paese.

            Tom si disse che il mondo non era poi così brutto. Senza saperlo, aveva scoperto una delle grandi leggi che governano le azioni degli uomini, e cioè che per indurre un uomo o un ragazzo a desiderare ardentemente una cosa basta rendere quella cosa difficile da ottenere. Se fosse stato un filosofo, grande e saggio, come l'autore di questo libro, a questo punto avrebbe compreso che il lavoro consiste di tutto ciò che uno è costretto a fare, e che il gioco consiste di tutto ciò che uno non è costretto a fare. E questo lo aiuterebbe a capire perché confezionare fiori artificiali o far girare una macina da mulino è un lavoro, mentre buttar giù dei birilli o scalare il Monte Bianco è solo un divertimento. In Inghilterra ci sono dei ricchi signori che d'estate guidano ogni giorno dei tiri a quattro per venti o trenta miglia perché questo privilegio costa loro considerevoli somme di denaro; ma se qualcuno si offrisse di pagarli per svolgere un servizio di tal fatta il passatempo si trasformerebbe in un lavoro, e questo li indurrebbe a rinunciarvi subito.

CAPITOLO III

            Tom si presentò al cospetto di zia Polly, che stava seduta davanti alla finestra aperta di una simpatica stanza sul retro che era tutto insieme camera da letto, angolo per la colazione, sala da pranzo e biblioteca. La balsamica aria estiva, il silenzio riposante, il profumo dei fiori e il ronzio sonnolento delle api avevano fatto effetto, e lei ciondolava la testa sopra il lavoro a maglia: perché non aveva altro compagno all'infuori del gatto, e questo le si era addormentato in grembo. Per sicurezza, si era spinta gli occhiali sui capelli grigi. Aveva pensato che Tom se la fosse svignata già da un pezzo, e rimase stupita di vederlo venirsi a mettere così intrepidamente di nuovo in sua balìa. Il ragazzo disse:

            «Posso andare a giocare, adesso, zia?»

            «Come, di già? Quanto lavoro hai fatto?»

            «È finito, zia.»

            «Tom, non dirmi bugie. Non lo sopporto.»

            «Non ti ho detto una bugia, zia; il lavoro è proprio finito.»

            Zia Polly non diede molto credito a una simile dichiarazione. Uscì di casa per vedere con i propri occhi; e si sarebbe contentata di scoprire che l'asserzione di Tom era vera al venti per cento. Quando trovò che l'intero steccato era stato imbiancato, e non soltanto imbiancato ma verniciato e riverniciato con cura, fin sul marciapiede, lo stupore la lasciò senza parole. Disse:

            «Be', questa poi! Niente da dire; è proprio vero che quando ti metti d'impegno sai lavorare, Tom.» Quindi mitigò la portata del complimento aggiungendo: «Ma capita ben di rado che tu ti metta d'impegno, debbo dire. Be', va' pure a giocare; ma ricordati di tornare a casa, ogni tanto, se non vuoi che ti conci per le feste.»

            Era talmente commossa dalla magnificenza di quell'impresa che se lo portò nella dispensa, scelse una delle mele più belle e gliela consegnò, con una predica sul valore aggiunto, e sul sapore che acquistava un premio quando non era frutto del peccato ma dell'abnegazione e della virtù. E mentre concludeva il discorsetto con un biblico svolazzo, Tom, con un dito, «prese all'amo» una ciambellina dolce.

            Poi sgusciò fuori, e vide Sid che aveva appena cominciato a salire la scala esterna che portava alle stanze sul retro al primo piano. C'erano delle zolle a portata di mano, e in un lampo l'aria ne fu piena. Piovevano tutt'intorno a Sid come chicchi di grandine; e prima che zia Polly potesse riaversi dalla sorpresa e correre in suo aiuto, sei o sette zolle erano andate a segno e Tom, scavalcato lo steccato, era sparito. C'era un cancello, ma di solito il ragazzo aveva troppa fretta per usarlo. Ora che aveva fatto i conti con Sid per aver richiamato l'attenzione della zia sul filo nero, mettendolo nei guai, il suo animo era in pace.

            Tom costeggiò l'isolato e sbucò in un vicolo fangoso che portava sul retro della stalla della zia. Finalmente era al sicuro, dove nessuno avrebbe potuto prenderlo per la collottola e punirlo, e allora si diresse verso la pubblica piazza del paese, dove due compagnie «militari» di ragazzi avevano precedentemente deciso d'incontrarsi per darsi battaglia. Tom era il generale di una di queste armate, Joe Harper (l'amico del cuore) il generale dell'altra. Questi due grandi comandanti non si degnavano di combattere personalmente - cosa che più si addiceva ai mocciosi - ma sedevano insieme su un'altura a dirigere le operazioni sul campo mediante ordini trasmessi da aiutanti. Dopo una battaglia lunga e duramente combattuta, l'esercito di Tom ottenne una grande vittoria. Poi si contarono i morti, si scambiarono i prigionieri, si presero gli accordi per il prossimo disaccordo e si fissò il giorno dello scontro; dopodiché le armate si schierarono e se ne andarono a passo di marcia, e Tom prese la via di casa, tutto solo.

            Mentre passava davanti alla casa dove abitava Jeff Thatcher, vide nel giardino una bambina nuova: una graziosa creaturina con occhi celesti e i capelli biondi intrecciati in due lunghe code, una bianca vestina estiva e un paio di mutandoni ricamati. L'eroe fresco della vittoria cadde senza sparare un colpo. Una certa Amy Lawrence svanì dal suo cuore senza lasciarvi neppure l'ombra di un ricordo. Tom aveva creduto di amarla alla follia; aveva considerato la sua passione una forma di adorazione vera e propria; e ora scopriva che si trattava solo di un capriccetto insignificante. Per conquistarla ci aveva messo dei mesi, e lei si era dichiarata solo la settimana prima; lui era stato il ragazzo più felice e più fiero del mondo per sette brevi giorni, ed ecco che in un lampo lei era uscita dal suo cuore come un estraneo alla fine di una visita occasionale.

            Adorò questo nuovo angelo con occhio furtivo finché vide che lei lo aveva notato; allora finse d'ignorare la sua presenza, e cominciò a pavoneggiarsi assurdamente e puerilmente in tutti i modi per guadagnarsi la sua ammirazione. Insistette per qualche tempo in queste sue grottesche esibizioni; ma di lì a poco, mentre era nel bel mezzo di un pericoloso esercizio ginnastico, guardò di fianco a sé e vide che la bambina si stava dirigendo verso casa. Tom si avvicinò allo steccato e vi si appoggiò, afflitto, nella speranza che lei indugiasse ancora un po'. Lei si fermò un momento sui gradini, e poi si avviò alla porta. Tom emise un sospirone quando lei mise il piede sulla soglia, ma s'illuminò subito in viso perché, un momento prima di sparire, lei gettò una viola del pensiero sopra lo steccato. Il ragazzo si avvicinò di corsa e si fermò a qualche passo dal fiore, poi si protesse gli occhi con la mano e cominciò a cercare lungo la strada come se avesse scoperto qualcosa d'interessante che andava in quella direzione. Subito dopo raccolse una cannuccia e, rovesciando la testa all'indietro, cercò di farla stare in bilico sul naso; e mentre si spostava di qua e di là per tenerla in equilibrio si avvicinava piano piano alla viola; finalmente il suo piede nudo le fu sopra, le sue dita prensili si chiusero sul fiore, e lui si allontanò saltellando col suo tesoro e scomparve dietro l'angolo. Ma solo per un attimo: il tempo strettamente necessario per infilarsi il fiore nel giubbetto, vicino al cuore, o magari vicino allo stomaco, perché non era molto ferrato in anatomia e comunque non troppo esigente.

            Tornò subito indietro e restò fino al tramonto davanti allo steccato, pavoneggiandosi come prima; ma la bambina non si fece più vedere, anche se Tom si consolava un po' con la speranza che in tutto quel tempo si fosse trovata vicino a una finestra, e avesse così notato le sue attenzioni. Finalmente tornò a casa, riluttante, con la povera testa piena di visioni.

            Per tutta la durata della cena il suo umore fu così allegro che la zia non poté far a meno di chiedersi «cosa gli aveva preso, a quel bambino». Tom ricevette una bella sgridata per aver tirato le zolle a Sid, e non degnò la cosa della minima importanza. Cercò di rubare lo zucchero proprio sotto il naso della zia, e si prese il righello sulle nocche. Disse:

            «Zia, Sid però non lo picchi quando è lui che lo prende.»

            «Be', Sid non è un tormento come te. Tu avresti sempre le mani nello zucchero, se ti lasciassi fare.»

            Poco dopo zia Polly andò in cucina e Sid, compiaciuto della propria immunità, tese la mano verso la zuccheriera, in un gesto di trionfo su Tom così smaccato da risultare quasi insopportabile. Ma le dita di Sid scivolarono sulla superficie lucida e la zuccheriera cadde a terra e si ruppe. Tom era ai sette cieli: provava una gioia così grande che riuscì addirittura a frenare la lingua e a stare zitto. S'impose di non dire una parola, neppure quando fosse entrata la zia, ma di star seduto nella più assoluta immobilità finché lei non avesse chiesto chi aveva combinato il malestro; solo allora avrebbe «cantato», e al mondo non ci sarebbe stato piacere più grande di quello consistente nel vedere il bambino modello conciato per le feste. Era così pieno di esultanza che a fatica riuscì a trattenersi quando la vecchia signora tornò indietro e si fermò davanti alle macerie lanciando lampi d'ira da sopra gli occhiali. Disse tra sé: «Ci siamo!» E l'istante dopo si trovò lungo disteso sul pavimento! La mano poderosa era levata per colpire di nuovo quando Tom gridò:

            «Fermati, adesso, cosa mi picchi a fare? È stato Sid a romperla!»

            Zia Polly, perplessa, si fermò, e Tom attese un gesto di pietà riparatrice. Ma lei ritrovò la favella solo per dire:

            «Uhm! Be', con te le sberle non sono mai sprecate. Chissà quale altra marachella hai combinato, mentre ero di là.»

            Poi la coscienza cominciò a rimorderle, e avrebbe tanto voluto dire a Tom qualcosa di gentile e di affettuoso; ma questo, rifletté, sarebbe stato interpretato come un'ammissione di colpa da parte sua, e la disciplina lo vietava. Così restò in silenzio e sbrigò le sue faccende col cuore addolorato. Tom se ne stava in un angolo, imbronciato, rimuginando sulle proprie pene. Sapeva che la zia, dentro di sé, era in ginocchio davanti a lui, e questo gli dava un amaro piacere. Non le avrebbe lanciato segnali, non avrebbe badato ai suoi. Sapeva che ogni tanto, attraverso un velo di lacrime, un'occhiata struggente cadeva su di lui, ma si rifiutava di notarla. Già si vedeva disteso sul letto, moribondo, con la zia che si chinava su di lui, supplicandolo di dire almeno una parola di perdono; ma lui avrebbe voltato la faccia contro il muro e sarebbe morto senza dire quella parola. Ah, cos'avrebbe provato, lei, allora? E già si vedeva ripescato dal fiume e portato a casa, morto, con i riccioli tutti bagnati, e le sue povere mani immobili per sempre, e il suo cuore che aveva smesso di soffrire. Come si sarebbe gettata su di lui, e come lo avrebbe inondato di lacrime, e come avrebbe pregato Iddio di ridarle il suo ragazzo, e come avrebbe giurato di non maltrattarlo mai, mai più! Ma lui sarebbe rimasto là disteso, pallido e freddo, senza fare un movimento: un povero, piccolo infelice, le cui pene erano finite. Aveva tanto eccitato i propri sentimenti col pathos di questi sogni che doveva continuare a inghiottire, tanto gli pareva di soffocare; e gli occhi gli nuotavano in un velo d'acqua, che traboccava quando strizzava le palpebre, e gli correva giù per il naso e gli gocciolava dalla punta. E provava un tale piacere a crogiolarsi così nelle sue pene da non riuscire a tollerare l'idea che una qualche letizia mondana, o un'irritante consolazione, gliene ostacolasse il godimento; era troppo sacro per un simile contatto; e così quando, poco dopo, entrò a passo di danza la cugina Mary, piena di gioia nel rivedere la famiglia dopo una visita interminabile di una settimana in campagna, Tom si alzò per uscire da una porta, cupo in volto e rannuvolato, mentre dall'altra lei faceva entrare una canzone e un raggio di sole. Tom evitò i posti frequentati abitualmente dai ragazzi e cercò dei luoghi desolati che meglio s'intonassero al suo umore. Attirato da una zattera di tronchi ormeggiata vicino alla riva, si sedette sul bordo esterno a contemplare la triste immensità del fiume, sempre augurandosi di poter morire annegato, ma di colpo e inconsapevolmente, senza dover subire lo spiacevole processo imposto dalla natura. Poi pensò al fiore. Lo tirò fuori, spiegazzato e appassito, ed esso accrebbe grandemente la sua lugubre felicità. Chissà se almeno lei lo avrebbe compatito, se avesse saputo! Avrebbe pianto, e desiderato di avere il diritto di buttargli le braccia al collo e consolarlo? O gli avrebbe voltato le spalle, freddamente, come il resto di quel mondo ostile? Questa visione gli diede un tale strazio di gradite sofferenze che Tom continuò a evocarla mentalmente, studiandola da tutti i punti di vista, fino a non poterne più. Alla fine si alzò in piedi sospirando e si allontanò nel buio. Verso le nove e mezzo, o le dieci, percorse la strada deserta fino alla casa dove abitava l'adorabile sconosciuta; indugiò un momento, senza che le sue orecchie tese percepissero alcun suono; una candela spandeva una luce fioca sulla tenda di una finestra al primo piano. Che quella sacra presenza fosse là? Scavalcò lo steccato, avanzò furtivamente tra le piante, fino a fermarsi sotto la finestra; la fissò a lungo, e con emozione; poi si distese a terra sotto il davanzale, sulla schiena, con le mani giunte sul petto, e tra le mani il povero fiore appassito. E così sarebbe morto: là fuori, al freddo, senza un tetto sopra la testa, senza una mano amica che gli tergesse il sudore della morte dalla fronte, senza un viso affettuoso che si chinasse pietosamente su di lui quando fosse iniziata l'agonia. E così lo avrebbe visto lei quando avesse aperto gli occhi sul radioso mattino: e... oh, avrebbe versato una lacrima su quella povera forma senza vita, si sarebbe lasciata sfuggire un piccolo sospiro alla vista di una vita giovane e vigorosa così bruscamente recisa, così prematuramente distrutta?

            La finestra si aprì; la voce discorde di una cameriera profanò la santità della quiete notturna, e uno scroscio d'acqua bagnò fino al midollo i resti del martire supino!

            Mezzo soffocato, l'eroe balzò in piedi con uno sternuto di sollievo; si udì il sibilo come di un proiettile che tagliasse l'aria, mescolato al mormorio di un'imprecazione, e seguito da uno scroscio di vetri infranti, poi una sagoma piccola e indistinta scavalcò lo steccato e disparve nelle tenebre.

            Non molto tempo dopo, mentre Tom, già svestito per andare a letto, stava esaminando i suoi indumenti zuppi alla luce di una candela di sego, Sid si svegliò; ma anche se aveva una vaga idea di fare «riferimenti ad allusioni», dovette ripensarci e tenere il becco chiuso: perché una luce sinistra brillava nell'occhio di Tom. Che si ficcò nel letto senz'aggiungere agli altri suoi fastidi anche quello rappresentato dalle preghiere, mentre Sid mentalmente prendeva nota dell'omissione.

CAPITOLO IV

            Il sole spuntò su un mondo tranquillo e fece piovere i suoi raggi sul pacifico paesino come una benedizione. Dopo colazione, zia Polly radunò la famiglia per il servizio religioso; cominciava con una preghiera costituita, dal fondo alla cima, di solidi corsi di citazioni bibliche legate tra loro da un sottile cemento di originalità; e dall'alto di questa costruzione zia Polly recitava un arcigno capitolo della legge mosaica, come dal Sinai.

            Quindi Tom si rimboccò le maniche, per così dire, e si sottopose alla fatica d'«imparare i suoi versetti». Sid aveva imparato la lezione alcuni giorni prima. Tom concentrò tutte le sue energie nello sforzo d'imparare a memoria cinque versetti; e scelse un pezzo del Discorso della Montagna, perché non riusciva a trovare dei versetti che fossero più brevi.

            Mezz'ora dopo Tom aveva una vaga idea generale della lezione, ma nulla più, perché la sua mente stava attraversando l'intero campo dello scibile umano, e le sue mani erano occupate da divertenti ricreazioni. Mary gli prese il libro per sentirgli la lezione, e lui si sforzò di trovare la strada nella nebbia.

            «Beati i... ehm... ehm...»

            «Poveri...»

            «Sì, i poveri; beati i poveri... ehm... ehm...»

            «In spirito...»

            «In spirito; beati i poveri in spirito perché essi... essi...»

            «Di essi...»

            «Perché di essi. Beati i poveri in spirito perché di essi... è il regno dei cieli. Beati quelli che piangono perché... perché...»

            «Perché sa...»

            «Perché sa... ehm...»

            «Perché sara...»

            «Perché sara... Oh, non lo so!»

            «Saranno!»

            «Oh, saranno! Perché saranno... Perché saranno... ehm... ehm... Che piangono... ehm... ehm... Beati quelli che saranno... che saranno... ehm... quelli che piangono perché saranno... ehm... saranno cosa? Perché non me lo dici, Mary? Perché sei tanto cattiva con me?»

            «Oh, Tom, povero zuccone, non ti sto prendendo in giro. Non lo farei mai. Devi studiarlo ancora. Non scoraggiarti, Tom, ce la farai... E se l'impari ti do una cosa molto, molto bella! Su, ora, da bravo.»

            «Va bene! Cos'è, Mary? Dimmi cos'è.»

            «Non ci pensare, Tom. Sai che se dico che è una bella cosa, è una bella cosa.»

            «Hai ragione, Mary. Va bene, lo studierò ancora.»

            E lo studiò ancora per davvero; e sotto la duplice pressione della curiosità e del futuro premio, ci mise tanto impegno da raggiungere un successo sfolgorante.

            Mary gli regalò un temperino marca Barlow nuovo di zecca, che costava dodici cent e mezzo; e l'ondata di gioia che lo invase fece vibrare le fibre più intime del suo essere. È vero che il temperino non tagliava, ma era un Barlow genuino, e questo aveva un'importanza incalcolabile: anche se è bel mistero, e forse lo resterà in eterno, dove i ragazzi di quelle regioni del West avessero mai pescato l'idea che un'arma di tal fatta si potesse, con suo danno, contraffare. Tom riuscì col temperino a graffiare la credenza, e stava attaccando il cassettone quando fu chiamato a vestirsi per la scuola domenicale.

            Mary gli diede un catino pieno d'acqua e un pezzo di sapone, e lui uscì dalla porta e mise il catino su un panchetto; poi tuffò il sapone nell'acqua e lo depose; si rimboccò le maniche; versò adagio l'acqua per terra, e poi entrò in cucina, e prese ad asciugarsi diligentemente la faccia sull'asciugamano dietro l'uscio. Ma Mary tolse l'asciugamano e disse:

            «Ma non ti vergogni, Tom? Non devi essere tanto cattivo. L'acqua non ti farà male.»

            Tom rimase un tantino sconcertato. Il catino fu riempito di nuovo, e stavolta lui gli si piazzò davanti, per un po', prendendo il coraggio a due mani; poi trasse un profondo respiro e cominciò. Quando entrò in cucina, poco dopo, tenendo gli occhi chiusi e cercando l'asciugamano a tentoni, un'onesta testimonianza d'acqua saponata gli gocciolava dal viso. Ma quando emerse dall'asciugamano, non era ancora a posto; perché il territorio ripulito finiva bruscamente al mento e alle mascelle, come una maschera; sotto e oltre questa linea c'era una scura distesa di terreno non irrigato che davanti si spandeva verso il basso e dietro intorno al collo. Mary prese in mano la faccenda, e quando ebbe finito Tom era ridiventato un bianco, senza possibilità di errore, e i capelli umidi erano accuratamente spazzolati, e i ricci ben disposti sulla fronte con eleganza e simmetria. (In privato lui se li lisciava, laboriosamente e con fatica, e s'incollava i capelli alla testa; perché trovava i ricci effeminati, e i suoi gli riempivano la vita di amarezza.) Poi Mary tirò fuori un vestito che negli ultimi due anni era stato usato solo la domenica: lo chiamavano semplicemente «l'altro vestito», e basta questa frase per capire quali erano le dimensioni del suo guardaroba. Dopo che si fu vestito, la ragazza «gli diede gli ultimi tocchi»; gli abbottonò la linda giacchetta fino al mento, gli rivoltò sulle spalle il largo colletto della camicia, gli diede una spazzolata e gli mise sulla testa il cappello di paglia macchiettata. Tom aveva così un aspetto straordinariamente migliorato, ma sembrava anche a disagio; ed era in tutto e per tutto a disagio come sembrava; perché pulito com'era, e con quel vestito, si sentiva come in prigione, e questo gli dava un tremendo fastidio. Sperò che Mary dimenticasse le scarpe, ma la speranza fu vana; lei gliele ingrassò per bene col sego, com'era l'uso, e le portò fuori. Lui perse la pazienza, e disse che l'obbligavano sempre a fare tutto quello che non voleva. Ma Mary disse in tono persuasivo:

            «Per piacere, Tom: da bravo.»

            Così, ringhiando, s'infilò le scarpe. Presto anche Mary fu pronta, e i tre ragazzi partirono per la scuola domenicale, un posto che Tom odiava con tutto il cuore; mentre a Sid e a Mary piaceva da morire.

            L'orario del catechismo era dalle nove alle dieci e mezzo; poi veniva celebrata la funzione religiosa. Due dei ragazzi restavano sempre volontariamente per la predica; e anche l'altro rimaneva sempre, per più validi motivi. Nei banchi della chiesa, con i loro alti schienali senza cuscini, si pigiavano circa trecento persone; l'edificio era solo una baracca, piccola e brutta, coronato da una specie di cassetta in legno di pino che fungeva da campanile. Sulla porta, Tom rimase indietro di qualche passo e si accostò a un compagno col vestito della festa come lui:

            «Di', Bill, hai un biglietto giallo?»

            «Sì.»

            «In cambio cosa vuoi?»

            «Tu cosa mi dai?»

            «Un pezzo di liquirizia e un amo.»

            «Fa' vedere.»

            Tom esibì la sua merce. Fu trovata soddisfacente, e i beni cambiarono di mano. Poi Tom offrì un paio di biglie bianche per tre biglietti rossi, e qualche altra cianfrusaglia per un paio di quelli blu. Attese al varco altri ragazzi, man mano che arrivavano, e continuò a comprare biglietti di vari colori ancora per dieci o quindici minuti. Poi entrò in chiesa, con uno stuolo di ragazze e di ragazzi puliti e rumorosi, andò al suo posto e attaccò briga col primo ragazzo che gli venne a tiro. L'insegnante, un uomo anziano dall'aria grave, interferì; poi voltò le spalle per un attimo, e Tom tirò i capelli a un ragazzo nel banco più vicino, ma era tutto preso dal suo libro quando il ragazzo si voltò indietro; piantò uno spillo in un altro ragazzo, subito dopo, per sentirlo dire: «Ahi!», e si prese un'altra sgridata dal maestro. I compagni di Tom non erano da meno: irrequieti, chiassosi e turbolenti. Quando andavano a recitare la lezione, non ce n'era uno che sapesse a memoria i suoi versetti, o che arrivasse alla fine senza continui suggerimenti. Bene o male, però, ce la facevano, e ciascuno di essi riceveva il suo premio in bigliettini blu, che sopra avevano tutti un brano delle Scritture; ogni biglietto blu era il premio per due versetti imparati a memoria. Dieci biglietti blu equivalevano a un biglietto rosso, col quale si potevano scambiare; dieci biglietti rossi ne valevano uno giallo; per dieci biglietti gialli il direttore donava allo scolaro una Bibbia dalla rilegatura molto semplice (che in quei tempi beati valeva quaranta cent). Quanti dei miei lettori avrebbero la forza e la costanza d'imparare a memoria duemila versetti, anche per una Bibbia del Doré? Eppure Mary aveva ottenuto due Bibbie in questo modo; era il paziente lavoro di due anni: e un ragazzo di origine tedesca ne aveva vinte quattro o cinque. Una volta recitò senza fermarsi tremila versetti; ma lo sforzo al quale sottopose le sue facoltà mentali era troppo grande, e da allora in poi quel ragazzo non si mostrò molto più sveglio di un idiota: una grave disgrazia per la scuola, perché nelle grandi occasioni in cui c'erano degli ospiti il direttore (come si esprimeva Tom) aveva sempre costretto quel ragazzo a uscire dal banco e a «effondersi». Solo gli scolari più vecchi riuscivano a conservare i biglietti e ad attendere assiduamente al loro tedioso lavoro per il tempo necessario a guadagnarsi una Bibbia, e così la consegna di uno di questi premi era un evento raro e memorabile; per quel giorno lo scolaro vittorioso era così esimio e ragguardevole che l'animo di ogni suo compagno s'infiammava lì per lì di una novella ambizione che spesso durava un paio di settimane. È possibile che lo stomaco mentale di Tom non avesse mai veramente brontolato per uno di quei premi, ma era indiscutibile che tutto il suo essere da molto tempo aspirava alla gloria e all'élat che lo accompagnavano.

            A tempo debito il direttore si piazzò davanti al pulpito, con un libro di preghiere chiuso in mano e l'indice inserito tra le pagine, e ordinò a tutti di fare silenzio. Quando il direttore di una scuola domenicale fa il suo solito discorsetto, un libro di preghiere in mano non è meno necessario dell'inevitabile foglio di musica in mano alla cantante che avanza sulla pedana per cantare un assolo durante un concerto: anche se non riesco a spiegarmene il motivo; dato che né l'uno né l'altra consultano mai il libro o il foglio di musica. Questo direttore era un'asciutta creatura di trentacinque anni, con un pizzo biondiccio e corti capelli dello stesso colore; portava un colletto duro molto alto il cui orlo superiore gli arrivava quasi alle orecchie, e le cui punte aguzze si piegavano in avanti agli angoli della bocca: uno steccato che l'obbligava a guardare sempre diritto davanti a sé, e a girare tutto il corpo quando voleva guardare da una parte. Il mento era adagiato su una cravatta ben stesa, che era larga e lunga come una banconota e aveva gli orli pieghettati; le punte degli stivali erano rivolte all'insù, secondo la moda del momento, come i pattini di una slitta: risultato che i giovanotti ottenevano con pazienza e con fatica sedendo per ore e ore con le punte premute contro un muro. Il signor Walters aveva un'aria serissima, e in cuor suo era molto sincero e onesto; e aveva un rispetto così grande per le cose e i luoghi sacri, e così ben separati li teneva dalle questioni mondane, che a sua insaputa, quando parlava in chiesa, la sua voce assumeva una particolare intonazione che era del tutto assente nei giorni feriali. Cominciò in questa maniera:

            «Adesso, bambini, voglio vedervi tutti seduti ai vostri posti più diritti e composti che potete, e voglio che per un paio di minuti mi prestiate tutta la vostra attenzione. Ecco, così va bene. Questo è il modo in cui dovrebbero comportarsi i buoni bambini e le buone bambine. Vedo una bambina che sta guardando fuori della finestra: forse lei crede che io sia là fuori, magari su uno di quegli alberi a fare un discorso agli uccellini.» (Risolini di apprezzamento.) «Voglio dirvi che sono proprio contento quando vedo tante faccine vispe e pulite raccolte in un posto come questo, per imparare a comportarsi bene e a essere buoni.»

            Eccetera, eccetera. Non occorre riferire il resto dell'orazione. Era di un tipo che non cambia mai, ed è perciò familiare a tutti noi.

            L'ultima parte del discorso fu guastata dalla ripresa di bisticci e di altri passatempi tra certuni dei ragazzi cattivi, e da turbolenze e mormorii che dilagarono in tutta la chiesa, lambendo persino le basi di quelle rocce isolate e incorruttibili che erano Sid e Mary. Ma ogni suono cessò di colpo quando tacque la voce del signor Walters, e la conclusione del discorso fu accolta da uno scoppio di muta gratitudine.

            Buona parte dei mormorii erano stati provocati da un avvenimento che era piuttosto raro: l'ingresso di alcuni visitatori; l'avvocato Thatcher, accompagnato da un uomo molto fragile e anziano, da un prestante signore di mezza età, dall'aria distinta e con i capelli grigio ferro, e da una signora dignitosa che era senza dubbio la moglie di quest'ultimo. La signora teneva per mano una bambina. Tom era stato molto irrequieto, pieno d'insofferenza e di afflizioni, e tormentato dalla sua coscienza: non riusciva a sostenere lo sguardo di Amy Lawrence, non poteva sopportare i suoi occhi innamorati. Ma quando vide la piccola nuova venuta, in un lampo la sua anima s'infiammò di gioia. Ancora un attimo, e stava «esibendosi» con tutta la sua forza: dando scappellotti ai maschi, tirando capelli, facendo boccacce, in una parola, usando ogni arte che gli sembrasse atta ad affascinare una bambina e a conquistarsi la sua simpatia. Il suo giubilo aveva un solo freno: il ricordo dell'umiliazione subita nel giardino di quell'angelo; e quell'impronta nella sabbia stava rapidamente cancellandosi sotto le ondate di felicità dalle quali veniva ora investita. Gli ospiti furono fatti accomodare nel posto d'onore e il signor Walters, com'ebbe finito il suo discorso, li presentò alla scolaresca. Si venne allora a sapere che l'uomo di mezza età era un personaggio favoloso: nientepopodimeno che il giudice di contea: tutto considerato, la creatura più augusta che quei bambini avessero mai visto; e i bambini si chiedevano di che stoffa fosse fatto; e avevano una mezza voglia di sentirlo ruggire, e anche una mezza paura che potesse farlo per davvero. Veniva da Constantinople, a una ventina di chilometri da lì: aveva dunque viaggiato e visto il mondo; con quegli occhi aveva contemplato il palazzo di giustizia della contea, che - dicevano - aveva il tetto di lamiera. Il timore reverenziale che ispiravano queste riflessioni era attestato dal silenzio impressionante e dalle file di occhi sgranati. Quello era il grande giudice Thatcher, il fratello del loro avvocato. Jeff Thatcher si fece subito avanti per familiarizzare col grand'uomo e per farsi invidiare dai compagni. Se avesse potuto sentire i commenti che si scambiavano sottovoce, li avrebbe trovati più dolci di qualsiasi musica.

            «Guardalo, Jim!, sta andando da loro. Ehi, guarda!, sta per stringergli la mano; gli sta stringendo la mano. Accidenti, non vorresti essere al suo posto?»

            Il signor Walters si «esibì» con gesti e atteggiamenti ufficiali di ogni genere, dando ordini, trinciando giudizi, impartendo direttive qua, là, e ovunque trovasse un obiettivo. Il bibliotecario si «esibì» correndo su e giù con le braccia piene di libri e facendo una grande quantità di quell'inutile chiasso che tanto piace alle piccole autorità. Le giovani maestre si «esibirono» chinandosi dolcemente sugli alunni che poco prima

avevano preso a scapaccioni, alzando ditini ammonitori davanti ai bambini cattivi e dando affettuosi buffetti a quelli buoni. I giovani maestri si «esibirono» con ramanzine e altre piccole dimostrazioni di autorità e di profondo rispetto per la disciplina; e quasi tutti gli insegnanti, maschi e femmine, scoprirono di dover consultare qualche libro nella biblioteca accanto al pulpito; e si trattava di consultazioni che spesso dovevano essere ripetute anche due o tre volte di seguito (con apparente contrarietà da parte loro). Le bambine si «esibivano» in vari modi e i bambini si «esibivano» con tanta diligenza che l'aria era piena di palline di carta e dello scalpiccio dei loro piedi. E sopra tutto questo troneggiava il grand'uomo, degnando tutto e tutti di un giuridico sorriso raggiante e maestoso, e scaldandosi al sole della propria grandezza, perché anche lui stava «esibendosi». C'era solo una cosa che mancava per rendere completa l'estasi del signor Walters, ed era la possibilità di consegnare una Bibbia in premio e mettere in mostra uno dei suoi prodigi. Parecchi alunni avevano dei biglietti gialli, ma nessuno ne aveva abbastanza: come il signor Walters aveva potuto constatare interrogando gli alunni migliori. Avrebbe dato un occhio, in quel momento, per riavere quel ragazzo tedesco, con la testa a posto, si capisce.

            E in quel preciso momento, quando sembrava che ogni speranza fosse vana, Tom Sawyer si avanzò con nove biglietti gialli, nove biglietti rossi e dieci blu, e chiese la Bibbia che gli era dovuta! Fu come un fulmine a ciel sereno. Almeno per altri dieci anni Walters non si sarebbe aspettato un'istanza da quella fonte. Ma c'era poco da obiettare: il conto tornava, e i biglietti erano autentici. Tom fu perciò innalzato allo stesso rango del giudice e degli altri eletti, e la grande notizia fu annunciata dal quartier generale. Fu la sorpresa più grande degli ultimi dieci anni; e così profonda fu la sensazione che il nuovo eroe si trovò catapultato alla stessa altezza del giudice, e la scolaresca ebbe da contemplare a bocca aperta due prodigi in luogo di uno. Tutti i ragazzi erano divorati dall'invidia; ma quelli che ne sentivano i morsi più dolorosi erano quelli che si erano accorti troppo tardi di avere personalmente contribuito a quell'odioso trionfo cedendo i biglietti a Tom in cambio delle ricchezze da lui accumulate con la vendita del privilegio d'imbiancare lo steccato. Questi ragazzi si disprezzavano per essere stati gabbati da uno scaltro truffatore, da un astuto serpente in agguato tra l'erba.

            Il premio fu consegnato a Tom con tutto l'entusiasmo che il direttore riuscì a suscitare, date le circostanze; ma era un entusiasmo un po' povero di sincerità, perché l'istinto di quel povero diavolo gli diceva che lì c'era un mistero impossibile da svelare, forse; era semplicemente assurdo che quel ragazzo avesse ammassato nel suo granaio duemila covoni di biblica sapienza: una dozzina sarebbero bastati a esaurire la sua capacità. Amy Lawrence era fiera e felice, e cercava di costringere Tom a guardarla in faccia; ma lui non voleva. La bambina non capiva perché; quindi se ne afflisse, solo un po'; poi un vago sospetto la prese e la lasciò, per ritornare; allora studiò la situazione, e un'occhiata furtiva le disse tutto: si sentì spezzare il cuore, fu presa da una furiosa gelosia, poi gli occhi le si empirono di lacrime e la bambina odiò il mondo intero; Tom più di tutti, credeva.

            Tom venne presentato al giudice; ma aveva la lingua legata, stentava a respirare, gli batteva il cuore: un po' per la terribile grandezza di quell'uomo, ma soprattutto perché era il padre di lei. Avrebbe voluto cadere in ginocchio e prosternarsi davanti a lui, se fosse stato buio. Il giudice gli mise una mano sulla testa e disse che era proprio un bravo ometto, e gli chiese come si chiamava. Il ragazzo balbettò, boccheggiò e disse il proprio nome.

            «Tom.»

            «Oh, no, non Tom... È...»

            «Thomas.»

            «Ah, così va bene. Io credevo che fosse un po' più lungo, però. Questo va benissimo. Ma oso dire che dovresti averne un altro, e tu me lo dirai, vero?»

            «Di' al signore l'altro tuo nome, Thomas», disse Walters, «e non dimenticare il "signore". Cerchiamo di comportarci bene, eh?»

            «Thomas Sawyer... signore.»

            «Così va bene! Sei un ragazzo in gamba. Proprio in gamba, un vero ometto. Duemila versetti non sono una bazzecola: no davvero. Ma non ti pentirai mai della fatica che hai fatto per impararli; perché la sapienza vale più di ogni altra cosa al mondo; è lei che fa gli uomini grandi e buoni; anche tu, un giorno, Thomas, sarai un uomo grande e buono, e allora ti volterai indietro e dirai: tutto merito dei preziosi privilegi della scuola domenicale della mia infanzia; tutto merito dei miei cari maestri che mi hanno insegnato a studiare; tutto merito del bravo direttore, che mi ha incoraggiato, che ha vegliato su di me, e che mi ha dato una bellissima Bibbia, una Bibbia splendida, elegante, da tenere e da avere tutta per me, sempre; tutto merito della buona educazione! Ecco quello che dirai, Thomas; e nulla al mondo allora ti parrà più prezioso di quei duemila versetti: no davvero, te lo assicuro. E ora ti spiacerebbe dire a me e a questa signora alcune delle cose che hai imparato? No, lo so che non ti spiacerebbe: perché noi siamo fieri dei bambini che studiano e imparano. Ecco, tu conosci senza dubbio i nomi dei dodici apostoli. Non vuoi dirci i nomi dei primi due che furono scelti dal Signore?»

            Tom stava tirandosi un bottone e aveva un'aria piuttosto impacciata. Poi arrossì e abbassò gli occhi. Il signor Walters si sentì mancare. Si disse: È impossibile che questo ragazzo sappia rispondere alla più semplice delle domande... Perché il giudice ha voluto interrogarlo? Tuttavia si sentì costretto a intervenire e disse:

            «Rispondi al signore, Thomas: non aver paura.»

            Ma Tom rimase muto come un pesce.

            «Via, sono sicura che a me lo dirai», disse la signora. «I nomi dei primi due discepoli erano...»

            «Davide e Golia!»

            Tiriamo sul resto della scena il sipario della carità.

CAPITOLO V

            Verso le dieci e mezzo la campana incrinata della chiesetta cominciò a suonare, e poco dopo la gente prese a radunarsi per la predica del mattino. Gli alunni della scuola domenicale si sparpagliarono nella chiesa e andarono a sedersi nei banchi con i genitori, che così potevano sorvegliarli. Zia Polly arrivò, e Tom, Sid e Mary sedettero con lei, Tom nel posto più vicino al passaggio centrale, per poter essere il più lontano possibile dalla finestra aperta e dalle seducenti visioni estive che si potevano godere là fuori. La folla sfilava sotto la navata; il vecchio e povero ufficiale postale, che aveva visto tempi migliori; il sindaco e sua moglie: perché c'era anche un sindaco, là, tra le altre cose superflue; il giudice di pace; la vedova Douglas, bionda, elegante e quarantenne, anima generosa, ricca e di buon cuore, con una villa in collina che era l'unico palazzo del paese, e il più ospitale e, quanto a ricevimenti, di gran lunga il più sontuoso che St. Petersburg potesse vantare; il curvo e venerabile maggiore Ward con la moglie; l'avvocato Riverson, il nuovo notabile venuto da fuori; poi la bella del paese, seguita da una schiera di giovani rubacuori vestite di batista e adorne di nastri; poi, in massa, tutti i giovani impiegati del paese, che si erano fermati nel vestibolo a succhiare il pomo del bastone, formando un muro circolare d'impomatati e melensi ammiratori, finché l'ultima ragazza era passata sotto le loro forche caudine; e ultimissimo veniva il ragazzo modello, Willie Mufferson, prendendosi della madre la stessa cura che avrebbe avuto se la donna fosse stata di vetro. Accompagnava sempre sua madre in chiesa ed era l'orgoglio di tutte le signore. Tutti i ragazzi l'odiavano, tanto era buono; e anche perché glielo avevano tanto «sbandierato sotto il naso». Come sempre la domenica, dalla tasca posteriore gli pendeva - puro caso - il fazzoletto bianco. Tom non aveva il fazzoletto e considerava degli snob i ragazzi che lo avevano. Quando i fedeli furono entrati tutti, la campana suonò ancora una volta, per avvertire i pigri e i ritardatari, poi nella chiesa cadde un rispettoso silenzio rotto solo dalle risatine soffocate e dal brusio del coro nella galleria. Il coro ridacchiava e parlottava per tutta la funzione. C'era una volta il coro di una chiesa che non dava prova di maleducazione, ma ho dimenticato dove fosse. Fu tantissimi anni fa, e me ne ricordo a malapena, ma credo fosse in un paese straniero.

            Il pastore indicò l'inno e lo lesse di gusto fino in fondo, con uno stile tutto suo che era molto ammirato in quelle contrade. La sua voce cominciava in tono medio, e saliva di continuo fino a un certo punto, dove si appoggiava con grande enfasi alla parola più elevata, e da lì si buttava a capofitto come da un trampolino.

            Sarò portato in cielo, su un morbido letto

                                                                        |

                                                                        di rose.

            Mentr'altri lotta e sanguina, tra l'onde

                                                                        |

                                                                        procellose?

            Era considerato un magnifico lettore. Nelle feste che si davano in chiesa era sempre invitato a leggere poesie; e quando aveva finito, le signore alzavano le mani e se le lasciavano cadere languidamente in grembo, e «strabuzzavano gli occhi», e crollavano il capo come per dire: «Le parole non possono esprimerlo; è troppo bello, troppo bello per questa terra mortale.»

            Cantato l'inno, il reverendo Sprague si trasformò in una bacheca e lesse «avvisi» di riunioni, adunanze e così via fino a dar l'impressione che la lista si prolungasse fino al giorno del giudizio: strana abitudine, sempre in voga in America, nei paesini e nelle grandi città, anche in quest'epoca di giornali a profusione. Accade spesso che una tradizione si dimostri tanto più resistente quanto meno giustificabile risulti.

            Poi il pastore pregò. Buona e generosa era quella preghiera, e non disdegnava di entrare nei particolari; chiedeva misericordia per la Chiesa e per i figlioletti della Chiesa; per le altre chiese del villaggio; per il villaggio in sé; per la contea; per lo Stato; per i funzionari dello Stato; per gli Stati Uniti, per le chiese degli Stati Uniti; per il Congresso; per il Presidente; per i membri del Governo; per i poveri marinai, sballottati da mari tempestosi; per i milioni di oppressi che gemevano sotto il tallone delle monarchie europee e dei dispotismi orientali; per coloro che hanno la luce e la buona novella, ma non occhi per vedere né orecchie per udire; per i pagani nelle remote isole oceaniche; e chiudeva con l'augurio che le parole che il pastore stava per pronunciare potessero incontrare benevolenza e simpatia, ed essere come il seme gettato su un terreno fertile, che a tempo debito avrebbe fruttato una messe di bontà. Amen.

            Si udì un frusciare d'indumenti, e i fedeli si misero a sedere. Il ragazzo di cui narra la storia questo libro non apprezzò la preghiera, limitandosi a sopportarla... se arrivò a tanto. Si agitò per tutta la sua durata; tenne conto dei suoi particolari, inconsciamente: perché non ascoltava, ma conosceva benissimo il terreno e il percorso che vi tracciava il sacerdote; e quando la preghiera veniva lardellata di qualche insignificante novità, il suo orecchio la coglieva e la sua interna natura se ne risentiva; ogni aggiunta gli sembrava ingiusta e canagliesca. Nel bel mezzo della preghiera una mosca si era posata sullo schienale del banco davanti al suo, e torturava il suo spirito strofinandosi con calma le zampine; abbracciandosi la testa con le zampe e lisciandosela con tanto vigore da dar quasi l'impressione che volesse staccarsela dal corpo; ed era ben visibile il peduncolo esilissimo del collo; grattandosi le ali con le zampe posteriori e stirandosele sul corpo come se fossero state le code di un frac; facendo fino in fondo la sua toeletta con la stessa tranquillità di chi sapesse di trovarsi perfettamente al sicuro. E al sicuro era davvero; infatti, per quanto gli prudessero le mani dalla voglia di agguantarla, Tom non aveva il coraggio di farlo; persuaso com'era che la sua anima sarebbe stata incenerita in un baleno se avesse osato fare una cosa simile mentre si stava recitando la preghiera. Ma con l'ultima frase la sua mano cominciò a descrivere una curva e ad avanzare furtivamente; e nell'attimo in cui fu intonato l'«Amen» la mosca scoprì d'essere prigioniera di guerra. Ma la zia notò il gesto e lo costrinse a lasciarla andare.

            Il pastore annunciò il suo brano e si mise a illustrare con voce monotona un argomento così noioso che di lì a poco molte teste cominciarono a ciondolare: e pensare che era un argomento che parlava di zolfo e fuoco eterno, e che riduceva la schiera degli eletti e dei predestinati a una compagnia così ristretta da non valer quasi la pena di salvarli. Tom contava le pagine del sermone; dopo la funzione religiosa sapeva sempre quante pagine erano state lette, ma era molto raro che ricordasse qualcosa del contenuto. Questa volta, tuttavia, provò per qualche tempo un autentico interesse. Il pastore tracciò un quadro grandioso e commovente dell'incontro, all'inizio del millennio, delle moltitudini che popolano il mondo, quando il leone e l'agnello dovrebbero giacere insieme e a guidarli dovrebbe essere un bambino. Ma il pathos, la lezione, la morale del grande spettacolo sfuggivano al ragazzo; che pensava solo al prestigio del protagonista davanti alle nazioni spettatrici; a quel pensiero s'illuminò in volto, e si disse che avrebbe tanto voluto essere lui, quel bambino, se il leone era addomesticato per davvero.

            Poi, quando il pastore tornò al suo arido argomento, Tom riprese a soffrire. Dopo un po' si mise a pensare al tesoro che possedeva, e lo tirò fuori. Era un grosso scarafaggio con due mandibole colossali: un «pizzicone», come lo chiamava lui. Lo teneva in uno scatolino per capsule da scacciacani. La prima cosa che fece l'insetto fu pizzicarlo al dito. Naturalmente ne seguì uno schiocco, e l'insetto volò nel passaggio tra i banchi, dove atterrò sul dorso, mentre il dito pizzicato finiva nella bocca del ragazzo. L'insetto giaceva là per terra agitando vanamente le zampine, senza riuscire a raddrizzarsi. Tom lo guardava di sottecchi e avrebbe voluto recuperarlo, ma l'insetto era fuori della sua portata. Altra gente, annoiata dal sermone, si distrasse guardando l'insetto, di cui prese a seguire i movimenti.

            Poco dopo arrivò pigramente un barboncino vagabondo, triste e impigrito dal silenzio e dal languore dell'estate, stanco della sua condizione di schiavo, avido di novità. Avvistò lo scarafaggio; la coda penzolante si alzò e si mise a scuotersi. Il cane scrutò la preda; le girò attorno; la fiutò rimanendo a distanza di sicurezza; tornò a girarle attorno; prese animo e la fiutò più da vicino; quindi arricciò le labbra e fece un cauto tentativo di azzannarla, mancandola di poco; ne fece un altro, e un altro; cominciò a godersi il diversivo; si distese sullo stomaco con l'insetto tra le zampe e tornò ai suoi esperimenti; alla fine si stancò, divenne distratto e indifferente. La testa cominciò a ciondolargli, e a poco a poco il suo mento si abbassò fino a toccare il nemico, che vi si aggrappò. Si udì uno stridulo guaito, il barboncino scosse la testa e lo scarafaggio cadde a un paio di metri di distanza, atterrando ancora una volta sul dorso. Gli spettatori più vicini sussultarono garbatamente d'ilarità interiore, parecchie facce si nascosero dietro ventagli e fazzoletti, e Tom provò un senso di totale appagamento. Il cane aveva un'aria sciocca, e sciocco probabilmente si sentiva; ma nel suo cuore c'era del risentimento, e anche un desiderio di vendetta. Allora si accostò allo scarafaggio e riprese cautamente ad attaccarlo; saltandogli addosso da ogni punto di un cerchio, atterrando con le zampe anteriori a meno di tre centimetri dall'insetto, facendosi ancora più vicino nel tentativo di prenderlo tra i denti, e scuotendo la testa con le orecchie penzoloni. Ma dopo qualche tempo si stancò ancora una volta: provò a divertirsi con una mosca, ma la distrazione durò poco; seguì una formica, col naso rasente il pavimento, e presto se ne stancò; sbadigliò, sospirò, dimenticò tutto dello scarafaggio, e si accovacciò sopra di lui! Si udì allora un selvaggio guaito di dolore, e il barbone sfrecciò sotto la navata; i guaiti non cessarono, come non smise di galoppare il cane; che di corsa passò davanti all'altare e imboccò l'altra corsia; passò davanti alle porte; schiamazzando fu in dirittura d'arrivo; più correva, più cresceva il suo spasimo, fino a quando, dopo un po', non fu altro che una lanosa cometa che orbitava, sfolgorante, alla velocità della luce. Finalmente il frenetico infelice deviò dalla sua rotta e d'un balzo fu in grembo al suo padrone; che lo buttò fuori della finestra, dove la voce dell'angoscia si assottigliò e scomparve in lontananza.

            Ma ormai tutti i fedeli erano rossi in viso e mezzi soffocati dalle risa che si sforzavano di trattenere, e il sermone era a un punto morto. Poco dopo il discorso fu ripreso, ma proseguì debole ed esitante, essendo venuta meno ogni possibilità d'impressionare la gente; infatti, anche le parole più solenni venivano ormai accolte da scoppi soffocati di empia ilarità, al riparo del lontano schienale d'un banco, come se il povero curato avesse detto una battuta straordinariamente spiritosa. Fu un sollievo genuino per tutti i fedeli quando la dura prova terminò e il prete impartì la benedizione.

            Tom Sawyer andò a casa molto allegro, pensando tra sé che anche nelle funzioni religiose c'era qualche soddisfazione quando erano ravvivate da un po' di varietà. Solo un pensiero guastava la sua gioia; d'accordo che il cane giocasse col suo «pizzicone», ma non gli pareva giusto che dovesse rubarglielo a quel modo.

CAPITOLO VI

            Il lunedì mattina sorprendeva Tom Sawyer in un abisso d'infelicità. Sempre in quelle condizioni lo trovava la mattina del lunedì, perché era soltanto l'inizio delle interminabili torture di un'altra settimana di scuola. Generalmente cominciava la giornata rammaricandosi di aver fatto vacanza; perché era quella a rendergli tanto più odioso il ritorno alle pastoie della schiavitù.

            Disteso nel suo letto, Tom pensava. Poco dopo gli frullò l'idea che avrebbe voluto essere malato; così avrebbe potuto stare a casa da scuola. C'era una vaga possibilità. Esaminò a fondo il suo organismo. Non trovando alcuna malattia, riprese le sue investigazioni. Questa volta gli parve di poter riscontrare i sintomi di una colica, e fiduciosamente prese a incoraggiarli. Presto, invece, si attenuarono fino a sparire del tutto. Tom tornò a sprofondarsi nelle sue meditazioni. A un tratto qualcosa scoprì. Gli ballava uno dei denti superiori. Questo sì che era un colpo di fortuna; stava per cominciare a lamentarsi, come «aperitivo», come diceva lui, quando gli venne in mente che, se si fosse presentato in tribunale con quell'argomento, sua zia gli avrebbe tolto il dente, e questo era tutt'altro che piacevole. Pensò allora di tenere il dente di riserva, per il momento, e di cercare in altre direzioni. Per un po' non trovò niente, poi ricordò di aver sentito il dottore parlare di una certa cosa che obbligava il paziente a stare a letto due o tre settimane e che minacciava di fargli perdere un dito. Allora il ragazzo tirò fuori da sotto il lenzuolo il dito del piede che gli faceva male e lo alzò per esaminarlo. Non conosceva, purtroppo, i sintomi necessari. Gli parve, tuttavia, che valesse la pena di tentare, perciò si mise a gemere con notevole energia.

            Ma Sid continuava a dormire, senz'accorgersi di niente.

            Tom gemette più forte, e gli parve di cominciare a sentire un certo dolore al dito.

            Nessuna reazione da parte di Sid.

            Questa volta Tom ansimava per lo sforzo. Si riposò, poi tornò a gonfiare i polmoni ed emise una serie di gemiti riuscitissimi.

            Sid continuava a russare.

            Tom era seccato. Disse: «Sid, Sid!» e lo scosse. Questa tattica funzionò bene, e Tom riprese a lamentarsi. Sid sbadigliò, si stirò, poi, sbuffando, si sollevò su un gomito e cominciò a guardare Tom. Tom continuò a gemere. Sid disse:

            «Tom! Ehi, Tom!»

            Nessuna risposta.

            «Tom, dico a te! Tom! Cos'hai, Tom?» E lo scosse, e lo guardò ansiosamente in faccia.

            Tom gemette:

            «Oh, no, Sid. Non sballottarmi così.»

            «Perché? Cos'hai, Tom? Devo chiamare la zia?»

            «No, non importa. Forse tra poco passerà. Non chiamare nessuno.»

            «Ma devo farlo! Non gemere così, Tom, è terribile. Da quanto tempo sei in questo stato?»

            «Ore. Ahi! Oh, non scuotermi così, Sid. Mi fai morire.»

            «Tom, perché non mi hai svegliato prima? Oh, Tom, no! A sentirti mi viene la pelle d'oca. Tom, cos'hai?»

            «Ti perdono ogni cosa, Sid.» (Gemito.) «Tutto quello che mi hai fatto. Quando non ci sarò più...»

            «Oh, Tom, non stai per morire, eh? No, Tom. Oh, no. Forse...»

            «Perdono tutti, Sid.» (Gemito.) «Diglielo, Sid. E, Sid, da' il mio telaio di finestra e il mio gatto con un occhio solo a quella bambina nuova che è arrivata in paese, e dille...»

            Ma Sid aveva afferrato i suoi vestiti ed era scappato via. Ormai Tom soffriva veramente, tanto bene lavorava la sua immaginazione, e così i suoi lamenti avevano acquistato un tono assolutamente genuino.

            Sid corse giù e disse:

            «Oh, zia Polly, vieni! Tom sta morendo!»

            «Morendo?»

            «Sì, zia. Non perdiamo tempo, vieni, presto!»

            «Sciocchezze! Non ci credo!»

            Ciò nonostante si precipitò di sopra, con Sid e Mary alle calcagna. E anche il suo viso era impallidito, e le tremavano le labbra. Quando fu al suo capezzale disse, boccheggiando:

            «Ehi, Tom! Tom, cos'hai?»

            «Oh, zietta, io...»

            «Cos'hai? Parla! Cos'hai, bambino mio?»

            «Oh, zietta, il dito malato sta andandomi in cancrena!»

            La vecchia signora si lasciò cadere su una sedia e rise un po', poi pianse un po', poi fece entrambe le cose insieme. Questo valse a calmarla, poi lei disse:

            «Tom, che spavento mi hai fatto prendere. Ora smettila con quelle sciocchezze e salta fuori dal letto.»

            I gemiti cessarono e il dolore svanì dal dito. Il ragazzo si sentiva un po' sciocco, e disse:

            «Zia Polly, sembrava proprio in cancrena, e mi faceva così male che non sentivo neanche più il dente.»

            «Il dente, sì, davvero! Si può sapere cos'ha, ora, questo dente?»

            «Ce n'è uno che balla, e mi fa un male da morire.»

            «Calma, calma, non ricominciare a lamentarti. Apri la bocca. Be', sì, hai un dente che si muove, ma non morirai per questo. Mary, portami un filo di seta, e tizzone ardente dalla cucina.»

            Tom disse:

            «Oh, ti prego, zietta, non me lo strappare, non mi fa più male. Che non possa più muovere un dito se non è vero. Ti prego, no, zietta non voglio stare a casa da scuola.»

            «Ah, no, eh? Così hai fatto tutta questa commedia per restare a casa da scuola e andare a pesca? Tom, Tom, io ti voglio tanto bene, e tu sembri far di tutto per spezzare il mio vecchio cuore con la tua immoralità.»

            A questo punto gli strumenti del dentista erano pronti. La vecchia signora assicurò un capo del filo di seta con un nodo scorsoio al dente di Tom e legò l'altro alla colonna del letto. Poi prese il tizzone ardente e all'improvviso lo gettò quasi in faccia al ragazzo. Ora il dente dondolava appeso alla colonna del letto.

            Ma tutti i triboli hanno il loro compenso. Quando andò a scuola dopo colazione, Tom era l'invidia di ogni ragazzo che incontrava, perché il buco nella fila dei denti superiori gli permetteva di espettorare in un nuovo e ammirevole modo. Raccolse un bel codazzo di ragazzi interessati all'esibizione; e uno che si era tagliato un dito e che era stato al centro del rispetto e dell'ammirazione di tutti fino a quel momento ora si trovò all'improvviso senza un solo seguace, e defraudato della sua gloria. Aveva il cuore pesante, e allora disse, con un disdegno che non provava, che sputare come Tom Sawyer era una cosa da nulla; ma un altro ragazzo disse: «Uva acerba!» e lui si allontanò, eroe abbattuto dal suo piedistallo.

            Poco dopo Tom s'imbatté nel giovane paria del paese, Huckleberry Finn, figlio dell'ubriacone del paese. Huckleberry era cordialmente odiato e temuto da tutte le madri del paese perché era pigro, volgare, cattivo e totalmente irrispettoso della legge; e anche perché tutti i loro figli lo ammiravano tanto, e si divertivano - contro tutti i divieti - a frequentarlo, e avrebbero voluto avere il coraggio di essere come lui. Tom era come il resto dei ragazzi rispettabili in quanto invidiava a Huckleberry la sua vistosa condizione di reietto, e aveva ordini severissimi di non giocare con lui. Per questo giocava con lui ogni volta che ne aveva l'occasione. Huckleberry era sempre vestito con gli abiti smessi di uomini adulti, che fiorivano perennemente di stracci svolazzanti. Il cappello era un vasto relitto con un'ampia mezzaluna ritagliata dalla tesa; la giacca, quando ne aveva una da portare, gli arrivava quasi ai calcagni, e aveva i bottoni posteriori sul sedere; una sola bretella gli reggeva i calzoni; il fondo dei quali era cascante e non conteneva nulla; le gambe sfrangiate, se non erano rimboccate, strascicavano nella polvere. Huckleberry andava e veniva di sua spontanea volontà. Col bel tempo dormiva sui gradini delle case, e in una botte vuota quando pioveva; non doveva andare né a scuola né in chiesa, né dare del padrone a nessuno, né obbedire a nessuno; poteva andare a pescare o a nuotare quando e dove gli pareva, e starci tutto il tempo che voleva; nessuno gli proibiva di fare a pugni; poteva stare alzato quanto gli pareva; era sempre il primo ragazzo ad andare a piedi nudi in primavera e l'ultimo a rimettersi le scarpe in autunno; non doveva mai lavarsi, né indossare abiti puliti; poteva dire tutte le parolacce che voleva. In una parola, tutto ciò che serve a rendere piacevole la vita, quel ragazzo ce l'aveva. Così pensava ogni ragazzo perbene di St. Petersburg, perbene ma oppresso e tartassato. Tom salutò il romantico proscritto:

            «Ciao, Huckleberry!»

            «Ciao, come va la vita?»

            «Cos'hai lì?»

            «Un gatto morto.»

            «Fammelo vedere, Huck. Accidenti, com'è rigido. Dove lo hai preso?»

            «Comprato da uno.»

            «Cosa gli hai dato?»

            «Un biglietto blu e una vescica trovata al mattatoio.»

            «Dove l'hai preso il biglietto blu?»

            «Comprato da Ben Rogers due settimane fa per un bastone da cerchio.»

            «Di': a che servono i gatti morti, Huck?»

            «A che servono? A mandare via i porri.»

            «No! Davvero? Io conosco un sistema migliore.»

            «Non ci credo. Che roba è?»

            «Ma come, l'acqua marcia.»

            «L'acqua marcia! Non darei un soldo bucato per l'acqua marcia.»

            «Ah, no? L'hai mai provata?

            «No, io no. Ma Bob Tanner sì.

            «Chi te l'ha detto?»

            «Be', lui l'ha detto a Jeff Thatcher, e Jeff l'ha detto a Johnny Baker, e Johnny l'ha detto a Jim Hollis, e Jim l'ha detto a Ben Rogers, e Ben l'ha detto a un negro, e il negro l'ha detto a me. Ecco!»

            «E con questo? Sono tutti bugiardi. Tutti, almeno, tranne il negro: quello non lo conosco. Ma non ho mai visto un negro che non contasse frottole. Scemenze! Ora dimmi come ha fatto Bob Tanner, Huck.»

            «Be', ha ficcato la mano in un ceppo marcio dove c'era dell'acqua piovana.»

            «Di giorno?

            «Certamente.»

            «Con la faccia rivolta al ceppo?»

            «Sì, almeno credo.»

             «Ha detto qualcosa?»

            «Non credo, non lo so.»

            «Aha! Come si fa a curarsi i porri con l'acqua marcia in un modo così idiota! Ma come, così non serve a niente. Devi andare da solo in mezzo al bosco, dove sai che c'è un ceppo con l'acqua marcia, e quand'è mezzanotte ti avvicini al ceppo con le spalle voltate, metti la mano dentro e dici:

            Chicco d'orzo, chicco d'orzo, l'indiano fa lo gnorri,

            Acqua marcia, acqua marcia, ingoia questi porri,

e poi ti allontani in fretta, di undici passi, con gli occhi chiusi, e poi fai tre giri su te stesso e vai a casa senza parlare con nessuno. Perché se parli lo scongiuro non funziona.»

            «Be', mi sembra un buon sistema; ma Bob Tanner non ha fatto così.»

            «Nossignore, puoi scommetterci che non ha fatto cosÏ; perché in tutto il paese non c'è un ragazzo che abbia più porri di lui; e non ne avrebbe uno, se avesse saputo usare l'acqua marcia come si deve. Io, così, mi sono tolto migliaia di porri dalle mani, Huck. Gioco tanto con le rane che ne ho sempre moltissimi. Certe volte li faccio sparire con un fagiolo.»

            «Sì, il fagiolo funziona. L'ho fatto anch'io.»

            «Sì? Tu come fai?»

            «Prendi il fagiolo e lo spacchi, e tagli il porro perché butti un po' di sangue, e poi metti il sangue su un pezzo del fagiolo, e scavi un buco e lo seppellisci verso mezzanotte al crocevia, quando non c'è la luna, e poi bruci il resto del fagiolo. Vedi, il pezzo col sangue sopra continua a tirare, perché vuole tornare insieme all'altro pezzo, e così aiuta il sangue a risucchiare il porro, che presto viene via.»

            «Sì, Huck, è vero: è vero; però, quando lo seppellisci, se dici: "Giù fagiolo, porro via; se ne vada e così sia!" è meglio. Questo è il sistema usato da Joe Harper, che è stato quasi a Coonville, e quasi dappertutto. Ma di' un po': come li curi, tu, coi gatti morti?»

            «Be, prendi il gatto e vai al cimitero, verso mezzanotte, quando hanno seppellito un poco di buono; e quand'è mezzanotte arriva un diavolo, o magari anche due o tre, solo che non si vedono, si sente solo qualcosa come il vento, o forse sono loro che parlano; e quando portano via quel tale, gli tiri dietro il gatto e dici: "Diavolo segui il cadavere, gatto segui il diavolo, porro segui il gatto. Fra noi due, è finita!" Con questo sistema va via qualunque porro.»

            «Sembra buono. L'hai mai provato, Huck?»

            «No, ma me l'ha detto la vecchia mamma Hopkins.»

            «Be', allora dovrebbe funzionare, perché dicono che è una strega.»

            «Dicono! Ma come, Tom, lo so io che è una strega. È lei che ha stregato mio padre. Lo dice anche lui. Un giorno l'ha incontrata, e ha visto che lo stava stregando, allora ha preso un sasso, e se lei non lo schivava, la prendeva. Be', proprio quella notte è caduto giù dalla tettoia dov'era disteso, ubriaco, e s'è rotto il braccio.»

            «Ma è terribile, accidenti. Come faceva a sapere che lei lo stava stregando?»

            «Dio, lo capisce subito, mio padre. Lui dice che quando continuano a fissarti così, senza mai toglierti gli occhi di dosso, allora ti stanno stregando, soprattutto se borbottano qualcosa. Perché quando borbottano così, stanno dicendo il paternostro all'incontrario.»

            «Di', Hucky, quando vai a provarlo, il gatto?»

            «Stanotte. Stanotte credo che verranno a prendere il vecchio Hoss Williams.»

            «Ma l'hanno sepolto sabato, Huck. Non l'avranno preso sabato notte?»

            «Che cavolo stai dicendo? Come potevano funzionare, i loro incantesimi, fino a mezzanotte? E poi era domenica. I diavoli non sguazzano mica tanto la domenica, direi.»

            «Non ci avevo pensato. È vero. Posso venire con te?»

            «Certo: se non hai paura.»

            «Paura! Sarà difficile. Mi fai un miagolio sotto la finestra?»

            «Sì, e tu rispondi nello stesso modo, se è possibile. L'ultima volta mi hai tenuto a miagolare fino a quando il vecchio Hays si è messo a tirarmi dei sassi, e a dire: "Quel gatto della malora!" Allora gli ho tirato un mattone nella finestra: ma non dirlo.»

            «No. Quella notte non potevo miagolare perché la zia mi sorvegliava; ma stavolta miagolerò. Di', Huck, e quella che roba è?»

            «Nient'altro che una zecca.»

            «Dove l'hai trovata?»

            «Nei boschi.»

            «Cosa vuoi in cambio?»

            «Non so. Non voglio venderla.»

            «D'accordo. È una zecca ben piccola, comunque.»

            «Oh, tutti sono capaci di sparlare di una zecca quando non appartiene a loro. Io mi contento. Per me è una zecca più che sufficiente.»

            «E poi, guarda, di zecche ce n'è tante. Potrei averne mille, se volessi.»

            «E allora perché non le hai? Perché sai benissimo che è impossibile. È ancora molto presto, per le zecche. È la prima che ho visto, quest'anno.»

            «Di', Huck, ti do in cambio il mio dente.»

            «Vediamo.»

            Tom tirò fuori un pezzo di carta e lo svolse con cura. Huckleberry lo studiò con aria pensierosa. La tentazione era fortissima. Finalmente disse:

            «È genuino?»

            Tom si tirò su il labbro e gli mostrò il buco.

            «Be', d'accordo», disse Huckleberry; «affare fatto.»

            Tom chiuse la zecca nella scatolina per cartucce che era stata la prigione del «pizzicone», e i ragazzi si separarono, ciascuno dei due sentendosi più ricco di prima.

            Quando Tom raggiunse la baracca, piccola e isolata, che fungeva da scuola, vi entrò speditamente, con l'aria di chi ci ha messo meno tempo che poteva. Attaccò il cappello a un piolo e si gettò nel banco, alacre e solerte. Il maestro, troneggiante lassù nella sua poltrona sfondata, stava sonnecchiando, cullato dal maleodorante brusio della scolaresca. L'interruzione lo svegliò:

            «Thomas Sawyer!»

            Tom sapeva che quando il suo nome veniva pronunciato per intero era segno di guai.

            «Signore!»

            «Venga qui. Dunque, signore, perché lei è di nuovo in ritardo, come sempre?»

            Tom stava per rifugiarsi in una bugia, quando vide due lunghe trecce di capelli biondi penzolanti su una schiena che, mosso dall'elettrica simpatia dell'amore, riconobbe subito; e vicino a quel banco c'era l'unico posto libero dalla parte delle bambine. Disse istantaneamente:

            «Mi sono fermato a parlare con Huckleberry Finn!»

            Il cuore del maestro si fermò, e il suo sguardo confuso si perse nel vuoto. Il brusio della scolaresca s'interruppe; gli scolari si stavano chiedendo se quel temerario era uscito di senno. Il maestro disse:

            «Lei... Lei ha fatto... Cosa?»

            «Mi sono fermato a parlare con Huckleberry Finn.»

            Impossibile attribuire alle parole un diverso significato.

            «Thomas Sawyer, questa è la confessione più sbalorditiva che mi sia mai capitato di sentire; non basterà la ferula a lavare quest'offesa. Si tolga la giacca.»

            Il braccio del maestro lavorò fino a stancarsi, e lo stock di bacchette si ridusse notevolmente. Poi seguì l'ordine:

            «E ora, signore, vada a sedersi tra le bambine! E questo le sia d'avvertimento.»

            I risolini che si diffusero nell'aula parvero confondere il ragazzo, ma in realtà quel risultato era prodotto dal timore reverenziale che gli ispirava l'idolo sconosciuto e dalla grande gioia che gli dava la fortuna che aveva avuto. Tom sedette in fondo alla panca di abete, e la bambina si scostò da lui con uno sdegnoso movimento della testa. L'aula era piena di sussurri, di gomitate e di strizzate d'occhi, ma Tom sedeva immobile, con le braccia sul banco lungo e basso davanti a sé, e sembrava immerso nello studio del suo libro. A poco a poco l'eccitazione si calmò, e il solito brusio degli scolari s'innalzò ancora una volta nell'aria pesante della stanza. Dopo un po' il ragazzo prese a lanciare occhiate furtive alla bambina. Lei se ne accorse, gli «fece una boccaccia» e gli voltò le spalle per un intero minuto. Quando tornò a girarsi, cautamente, una pesca giaceva davanti a lei. La bambina la respinse; Tom, gentilmente, gliel'offrì di nuovo; lei tornò a respingerla, ma con minore animosità. Tom, paziente, la rimise al suo posto; e lei, allora, la lasciò stare. Tom scarabocchiò sulla lavagna: «Prendila, per favore: ne ho delle altre». La bambina lesse quelle parole, ma non fece alcun gesto. Allora il ragazzo cominciò a disegnare qualcosa sulla lavagna, nascondendo la sua opera con la mano sinistra. La bambina, per qualche tempo, s'impose di non badarci; ma di lì a poco la sua curiosità cominciò a manifestarsi con segni quasi impercettibili. Il ragazzo continuava a lavorare, apparentemente ignaro. La bambina, senza impegnarsi troppo, fece come un tentativo di vedere, ma il ragazzo non mostrò di essersene accorto. Alla fine lei cedette e in tono esitante mormorò:

            «Fammelo vedere.»

            Tom scoprì parzialmente un'orribile caricatura di una casa con due timpani e un cavatappi di fumo che usciva dal camino. Allora l'interesse della bambina cominciò ad appuntarsi sul lavoro, e lei dimenticò ogni altra cosa. Quando il disegno fu finito, lo studiò un momento, poi disse a bassa voce:

            «È carino: fa' un uomo.»

            L'artista drizzò nel giardino un uomo che sembrava una torre di trivellazione. Con un passo avrebbe potuto scavalcare la casa; ma la bambina non era ipercritica; soddisfatta del mostro mormorò:

            «È un bell'uomo... Ora disegna me che sto arrivando.»

            Tom disegnò una clessidra, sormontata da una luna piena e con braccia e gambe che sembravano pagliuzze, e munì le dita tese di un prodigioso ventaglio. La bambina disse:

            «Com'è bello... Vorrei saper disegnare.»

            «È facile», sussurrò Tom. «T'insegno io.»

            «Oh, davvero? Quando?»

            «A mezzogiorno. Tu vai a mangiare a casa?»

            «Resto, se vuoi.»

            «Bene: siamo d'accordo. Come ti chiami?»

            «Becky Thatcher. E tu? Oh, sì, lo so. Ti chiami Thomas Sawyer.»

            «Quello è il nome per quando me le danno. Mi chiamo Tom, quando sono buono. Tu chiamami Tom, eh?»

            «Sì.»

            Tom allora cominciò a scarabocchiare qualcosa sulla lavagna, nascondendo le parole alla bambina. Ma questa volta lei non ebbe esitazioni e chiese di vedere. Tom disse:

            «Oh, non è niente.»

            «Sì che lo è.»

            «No che non lo è; cosa vuoi che te ne importi!»

            «Sì che m'importa, m'importa sì. Dài, fammelo vedere.»

            «Farai la spia.»

            «No che non la farò: possa morire se farò la spia.»

            «Non lo dirai proprio a nessuno? Finché vivi?»

            «No, non lo dirò a nessuno, mai. Ora fammi vedere.»

            «Oh, ma cosa vuoi che te ne importi!»

            «Se mi tratti così, voglio vederlo, Tom.» E mise la manina sulla sua, e ne seguì una piccola baruffa. Con Tom che fingeva di resistere sul serio, e invece lasciava scivolare la mano a poco a poco finché apparvero queste parole: «Ti amo.»

            «Oh, che cattivo, sei!» E gli diede un colpo secco sulla mano, ma era diventata rossa e sembrava contenta lo stesso.

            In quel preciso momento il ragazzo sentì una morsa lenta e fatale che gli si chiudeva sull'orecchio, e una forza irresistibile che lo sollevava in aria. In quella morsa fu trasportato attraverso l'aula e deposto nel suo banco, tra le risate scroscianti dei compagni. Poi il maestro torreggiò sopra di lui, per qualche orribile istante, e finalmente se ne tornò al suo trono senza dire una parola. Ma anche se l'orecchio gli bruciava, il cuore di Tom era giubilante.

            Quando la scolaresca si chetò, Tom fece un sincero tentativo di studiare, ma il tumulto che aveva dentro era troppo grande. Quando toccò a lui leggere ad alta voce, ci si provò e fu un fiasco: poi, durante l'interrogazione di geografia, scambiò i laghi per i monti, i monti per i fiumi, e i fiumi per i continenti, fino a quando in tutto il mondo fu di nuovo il caos; infine, durante l'interrogazione di ortografia, fu «travolto» da una filza di parole semplicissime che non soltanto lo risospinsero tra gli ultimi della classe ma l'obbligarono anche a rinunciare alla medaglia di peltro che aveva portato, dandosi tante arie, per mesi.

CAPITOLO VII

            Quanto più Tom si sforzava di concentrare l'attenzione sul libro, tanto più i suoi pensieri si allontanavano dall'argomento. Così, alla fine, con un sospiro e uno sbadiglio, si dette per vinto. Gli sembrava che l'intervallo di mezzogiorno non arrivasse mai. L'aria era assolutamente immobile. Non spirava un alito di vento. Era il giorno più sonnolento che fosse mai spuntato sulla terra. Il soporifico brusio dei venticinque scolari immersi nello studio intorpidiva l'anima come quel sortilegio che è il ronzio delle api. Lontano, sotto il sole fiammeggiante, Cardiff Hill mostrava le dolci pendici verdeggianti attraverso un velo tremolante di calore che la distanza tingeva di viola; pochi uccelli fluttuavano, alti nell'aria, su pigre ali; non si vedevano altri esseri viventi all'infuori di alcune vacche, e quelle dormivano.

            Il cuore di Tom moriva dalla voglia di essere libero, o almeno di avere qualcosa d'interessante da fare per ammazzare quel tempo spaventoso. La mano gli fece una capatina nella tasca, e il volto gli si accese di una luce di gratitudine che era una preghiera, anche se lui non lo sapeva. Poi, furtivamente, venne fuori la scatolina per le capsule. Tom liberò la zecca e la mise sul banco, lungo e piatto. Anche quella creaturina, in quel momento, fu sommersa, probabilmente, da un'ondata di gratitudine molto simile a una preghiera; ma era tutto piuttosto prematuro perché, quando riconoscente cominciò ad allontanarsi, Tom con uno spillo la fece voltare e la costrinse a prendere un'altra direzione.

            L'amico del cuore gli sedeva accanto, soffrendo proprio come aveva sofferto lui, e ora, in un istante, si scoprì pieno di gratitudine e d'interesse per quel nuovo passatempo. Questo amico del cuore era Joe Harper. I due ragazzi erano amici per la pelle durante l'intera settimana, e nemici giurati il sabato. Joe tolse uno spillo dal bavero e cominciò ad assistere il compagno nell'addestramento della prigioniera. L'interesse per quel passatempo crebbe enormemente. Presto, però, Tom disse che così s'intralciavano a vicenda, e che nessuno traeva dalla zecca tutti i vantaggi che se ne potevano ottenere. Mise allora sul banco la lavagna di Joe e tracciò una riga in mezzo, da cima a fondo.

            «Ecco», disse. «Per tutto il tempo che è dalla tua parte, tu puoi giocarci e io la lascio stare: ma se ti scappa e viene da me, devi lasciarla stare finché io riesco a impedirle di passare la riga.»

            «D'accordo, giochiamo: comincia tu.»

            Dopo un po', la zecca sfuggì a Tom e passò l'equatore. Joe la stuzzicò per qualche tempo, e poi l'insetto scappò via e tornò di là. Questo cambio di base avvenne spesso. Mentre un ragazzo stuzzicava la zecca con un interesse divorante, l'altro assisteva con interesse non minore, le due teste accostate e chine sulla lavagna e le due anime sorde a tutto il resto. Finalmente sembrò che la fortuna smettesse di oscillare e si alleasse a Joe. La zecca tentò una, due tre volte di fuggire, lasciandosi prendere dalla stessa ansia e dalla stessa eccitazione dei ragazzi, ma sempre, proprio quando sembrava che la vittoria, per così dire, fosse a portata di mano, e Tom si sentiva prudere le dita dalla voglia di cominciare, lo spillo di Joe le faceva abilmente cambiare direzione e la tratteneva nel suo campo. Alla fine Tom non resse più. La tentazione era troppo grande. Allora tese il braccio e gli diede un colpetto con lo spillo. Joe si arrabbiò subito. Disse:

            «Tom, lasciala stare.»

            «Volevo solo scuoterla un po', Joe.»

            «Nossignore, non è giusto; lasciala stare e basta.»

            «Porca miseria, così non gioco mai.»

            «Lasciala stare, ti dico!»

            «No!»

            «Sì: è dalla mia parte della riga.»

            «Di' un po', Joe Harper, di chi è quella zecca?»

            «Non m'interessa di chi è la zecca: è dalla mia parte della riga, e tu non la tocchi.»

            «Be', e invece io la tocco, vuoi scommettere? È la mia zecca, e mi venga un accidente se non ne faccio quello che mi pare!»

            Una botta tremenda si scaricò sulle spalle di Tom, e la sua copia su quelle di Joe; e per lo spazio di due minuti la polvere continuò a sollevarsi dalle due giacche e tutta la scolaresca a divertirsi. I ragazzi erano troppo assorti per notare il silenzio che si era diffuso nell'aula poco prima, quando il maestro, in punta di piedi, aveva lasciato la cattedra e si era fermato accanto a loro. Aveva poi assistito a un bel pezzo dello spettacolo prima di contribuirvi col suo numero. A mezzogiorno, quando le lezioni terminarono, Tom volò da Becky Thatcher e le sussurrò all'orecchio:

            «Mettiti il cappello e fa' finta di andare a casa; e quando arrivi all'angolo, svignatela, svolta per il sentiero e torna indietro. Io vado dall'altra parte e mi sgancio nello stesso modo.»

            Così l'una se ne dò con un gruppo di scolari e l'altro con un altro. Di lì a poco i due ragazzi s'incontravano in fondo al sentiero, e quando raggiunsero la scuola l'ebbero tutta per sé. Allora sedettero nello stesso banco, con una lavagna davanti a loro, e Tom dette a Becky il gessetto e tenne la mano di lei nella sua, guidandola, e così crearono insieme un'altra casa sorprendente. Quando poi l'interesse per l'arte cominciò a declinare, i due ragazzi si misero a chiacchierare. Tom era al settimo cielo. Disse:

            «Ti piacciono i topi?»

            «No, li odio!»

            «Be', anch'io: quelli vivi. Ma dicevo quelli morti, da farsi girare intorno alla testa con lo spago.»

            «No, i topi mi piacciono poco, in ogni caso. Sai cosa mi piace? La gomma da masticare!»

            «Oh, a chi lo dici! Vorrei averne un pezzo adesso!»

            «Sì? Io ne ho un pezzo. Te lo lascio masticare per un po', ma poi devi restituirmelo.»

            La proposta era accettabile, e così i due ragazzi masticarono la gomma un po' per uno, dondolando le gambe sotto il banco in un'estasi di felicità.

            «Sei mai stata al circo?» disse Tom.

            «Sì, e uno di questi giorni mio padre mi ci porta un'altra volta, se sono buona.»

            «Io al circo ci sono stato tre o quattro volte: un mucchio di volte. La chiesa non vale una cicca in confronto al circo. Al circo c'è sempre qualcosa da vedere. Io farò il pagliaccio in un circo, quando sarò grande.»

            «Oh, davvero? Sarà bello. Sono così carini, con tutte quelle macchie.»

            «Sì, è vero. E fanno soldi a palate: quasi un dollaro al giorno, dice Ben Rogers. Senti, Becky, sei mai stata fidanzata?»

            «Cos'è?»

            «Come? Fidanzata per sposarsi.»

            «No.»

            «Ti piacerebbe?»

            «Credo di sì. Non so. Com'è?»

            «Com'è? Be', non è niente. Dici solo a un ragazzo che non avrai mai altro che lui, mai mai mai, e poi lo baci, ed è tutto. Tutti sono capaci di farlo.»

            «Lo baci? Perché?»

            «Be', sai, è per... Non so, lo fanno sempre.»

            «Tutti?»

            «Be', sì, tutti quelli che sono innamorati. Ti ricordi cos'ho scritto sulla lavagna?»

            «S... sì.»

            «Cos'era?»

            «Non te lo dico.»

            «Te lo dico io?»

            «S... sì, ma un'altra volta.»

            «No, adesso.»

            «No, adesso no: domani.»

            «Oh, no, adesso, Becky, te ne prego. Lo dirò piano, lo dirò pianissimo.»

            Vedendo che Becky esitava, Tom interpretò il suo silenzio come un consenso e le passò un braccio intorno alla vita e le sussurrò quella frase, dolcemente, con la bocca vicina al suo orecchio. E poi aggiunse:

            «Ora dimmelo tu: nello stesso modo.»

            Lei fece resistenza per un po', e poi disse:

            «Se volti la faccia da un'altra parte, in modo da non potermi vedere, te lo dico. Ma tu non dovrai dirlo mai a nessuno, eh, Tom? Non lo dirai a nessuno, mai?»

            «No, davvero, non lo dirò a nessuno. Ecco, Becky.»

            Distolse il viso. Lei si sporse timidamente verso di lui fino a scompigliargli i riccioli col fiato, e sussurrò: «Ti amo!»

            Poi scappò via e si mise a correre intorno ai banchi e alle panche, inseguita da Tom, e finalmente si rifugiò in un angolo, col grembiulino sulla faccia. Tom le mise le mani intorno al collo e la supplicò:

            «Ecco, Becky, è finita... manca solo il bacio. Non aver paura... Non è niente. Ti prego, Becky.»

            E cominciò a tirare il grembiule cercando di scostarle le mani.

            A poco a poco lei cedette e abbassò le mani; il suo viso, tutto rosso per la lotta, si alzò e si sottomise. Tom baciò le labbra rosse e disse:

            «È fatta, Becky. E d'ora in poi, capisci?, non amerai nessuno tranne me, e non sposerai nessuno tranne me, mai mai e poi mai. Giuri?»

            «Sì, non amerò nessuno tranne te, Tom, e non sposerò nessuno tranne te. Anche tu, però, non sposerai nessuno tranne me.»

            «Certamente. Si capisce. È nei patti. E sempre, venendo a scuola, o quando vai a casa, camminerai con me, quando nessuno ci vede: e alle feste tu sceglierai me e io sceglierò te, perché è così che si fa quando si è fidanzati.»

            «Com'è bello! Non ne avevo mai saputo niente.»

            «Oh, è un vero spasso! Cavolo, quando io e Amy Lawrence...»

            Gli occhi spalancati svelarono a Tom la sua gaffe, e il ragazzo, confuso, s'interruppe.

            «Oh, Tom! Allora io non sono la prima con cui ti sei fidanzato!»

            La bambina si mise a piangere. Tom disse:

            «Oh, non piangere, Becky. Non m'importa più nulla di lei.»

            «Sì che t'importa, Tom: sai benissimo che è così.»

            Tom cercò di passarle un braccio intorno al collo, ma lei lo respinse e girò la faccia contro il muro, e continuò a piangere. Tom ci riprovò, con parole di conforto sulle labbra, e subì una seconda ripulsa. Allora il suo orgoglio ebbe il sopravvento, e Tom si allontanò e uscì all'aperto. Rimase nei paraggi, ansioso e turbato, per un po', sbirciando ogni tanto verso la porta, nella speranza che lei si pentisse e venisse fuori a cercarlo. Ma Becky non lo fece. Allora Tom cominciò a sentirsi male, e a temere di essere dalla parte del torto. Dovette sostenere una dura lotta per convincersi a fare nuove avances, ma si fece coraggio ed entrò nella scuola. Lei era sempre in piedi nell'angolo in fondo, e singhiozzava con la faccia contro il muro. Tom provò una stretta al cuore. Le si avvicinò e rimase là un momento, non sapendo esattamente come procedere. Poi disse, in tono esitante:

            «Becky, io... Non m'importa di nessuno tranne te.»

            Nessuna risposta: solo dei singhiozzi.

            «Becky», con voce implorante.

            «Becky, non vuoi dire qualcosa?»

            Altri singhiozzi.

            Tom tirò fuori la sua gemma più preziosa, un pomo di ottone che veniva dalla cima di un alare, e glielo mise davanti in modo che lei potesse vederlo, e disse:

            «Ti prego, Becky, non vuoi prenderlo?»

            Lei lo buttò per terra. Allora Tom uscì a grandi passi dalla scuola e s'inoltrò fra le colline e scomparve in lontananza, deciso, per quel giorno, a non tornarvi più. Dopo un po' Becky cominciò a nutrire dei sospetti. Corse alla porta; Tom non si vedeva; girò intorno all'edificio fino al campo giochi: non c'era. Allora gridò:

            «Tom! Torna indietro, Tom!»

            Tese l'orecchio, ma nessuno rispose. Non aveva altri compagni che il silenzio e la solitudine. Allora si sedette per piangere ancora e per rimproverarsi, e a questo punto cominciarono ad arrivare gli scolari, e lei dovette nascondere il suo affanno e chetare il suo cuore spezzato, e caricarsi sulle spalle la croce di un pomeriggio lungo, noioso e amaro senza nessuno, tra gli estranei che la circondavano, al quale confidare le sue pene.

CAPITOLO VIII

            Tom svicolò qua e là finché fu ben lontano dalle strade battute dai compagni che tornavano, poi rallentò il passo di cattivo umore. Traversò due o tre volte un «canalino», mosso dalla superstizione, assai diffusa tra i suoi coetanei, che traversando un corso d'acqua si facessero perdere le proprie tracce. Mezz'ora dopo spariva dietro la villa dei Douglas in cima a Cardiff Hill, e la scuola era ormai quasi invisibile nella vallata alle sue spalle. Entrò in un bosco fittissimo, procedette con cautela fino al centro in quell'intrico privo di sentieri, e si mise a sedere su uno strato di muschio sotto una quercia dalla chioma molto ampia. Non spirava un alito di vento; l'afa soffocante del meriggio aveva zittito persino il canto degli uccelli; la natura giaceva in una trance non interrotta da altri suoni che il lontano e occasionale martellare di un picchio, e ciò sembrava rendere ancora più profondo quel silenzio infinito e il senso di solitudine che lo accompagnava. L'anima del ragazzo era in preda alla malinconia; i suoi sentimenti s'intonavano a perfezione con l'ambiente nel quale si trovava. Restò seduto a lungo con i gomiti sulle ginocchia e il mento tra le mani, meditando. Gli sembrava che la vita, nel migliore dei casi, non fosse altro che un'afflizione, e quasi quasi invidiava Jimmy Hodges, appena liberato da ogni affanno. Doveva essere bello, pensava, giacere e dormire e sognare in saecula saeculorum, col vento che sussurrava tra gli alberi e carezzava l'erba e i fiori della tomba, e senza doversi angustiare e preoccupare più di niente. Se solo avesse avuto un buona pagella alla scuola domenicale, se ne sarebbe andato volentieri, e l'avrebbe fatta finita. Quanto alla bambina... Cosa le aveva fatto? Niente. Aveva avuto le migliori intenzioni di questo mondo ed era stato trattato come un cane: proprio come un cane. Un giorno se ne sarebbe pentita: forse quand'era troppo tardi. Ah, poter morire! Almeno per un po'.

            Ma il cuore elastico della gioventù non può essere tenuto compresso troppo a lungo in una forma che non è la sua. Di lì a poco Tom riprese, quasi senz'accorgersene, a meditare sugli affanni della vita. E se avesse voltato le spalle a tutto, adesso, e fosse misteriosamente scomparso? E se fosse andato lontano - lontano lontano, in paesi sconosciuti di là dai mari - e non fosse tornato mai più? Come avrebbe reagito, lei, allora? L'idea di fare il pagliaccio tornò ad affacciarglisi alla mente, solo per riempirlo di disgusto. Perché gli scherzi e la futilità, e i costumi variopinti, erano un'offesa quando venivano a turbare uno spirito lanciato nei vaghi e augusti reami del romanticismo. No, Tom avrebbe fatto il soldato, per tornare a casa solo dopo lunghi anni, carico di vittorie e famoso. No, meglio ancora, si sarebbe unito agli indiani e avrebbe cacciato il bisonte, e sarebbe sceso sul sentiero di guerra sulle catene montuose e nelle vaste e inaccessibili pianure del Far West, per tornare, in un lontano futuro, sotto i colori terrificanti e la corona di penne di un grande capo, a irrompere d'un balzo nella scuola domenicale, un sonnolento mattino d'estate, con un grido di guerra da far accapponare la pelle, riempiendo il cuore di tutti i suoi compagni di un'invidia inappagabile. Ma no, c'era qualcosa di ancora più nobile di questo. Avrebbe fatto il pirata! Ecco! Ora il suo futuro non aveva più misteri per lui, e rifulgeva di un inimmaginabile splendore. Come il suo nome avrebbe riempito il mondo, e fatto rabbrividire la gente! Con quale gloria avrebbe solcato i mari danzanti, sul suo vascello lungo, basso e nero, lo Spirito della tempesta, col suo macabro vessillo sventolante sull'albero di trinchetto! E, allo zenit della sua fama, come sarebbe apparso in paese all'improvviso, per entrare a lunghi passi nella chiesa, tutto abbronzato e segnato dalle intemperie, nel suo farsetto di velluto nero, con i calzoni tagliati al ginocchio, gli stivali, la fusciacca scarlatta, il cinturone irto di pistole da sella, al fianco il coltellaccio arrugginito dal sangue di tanti delitti, il cappello floscio con le piume ondeggianti, la bandiera nera spiegata con sopra il teschio e le tibie incrociate, e sentire in un crescendo di gioia i mormorii: «È Tom Sawyer il Pirata! Il Vendicatore Nero del Mar dei Caraibi!»

            Sì, il dado era tratto; la sua carriera era decisa. Sarebbe scappato di casa per darsi alla pirateria. Avrebbe cominciato la mattina dopo. Per questo, ora doveva cominciare a prepararsi. Doveva radunare tutte le sue risorse. Si accostò a un tronco fradicio, lì vicino, e cominciò a scavare sotto una delle sue estremità col temperino che gli avevano regalato. Presto urtò un pezzo di legno che emise un suono cavo. Mise la mano lì, e recitò solennemente questa formula magica:

            «Quel che non è venuto, venga qui! Quello che c'è, resti lì!»

            Poi grattò via la terra e mise allo scoperto una scandola di pino. Sollevandola, scoperchiò una stanza del tesoro piccola e ben fatta col fondo e con i lati di assicelle. Dentro c'era una biglia. Lo stupore di Tom fu sconfinato! Si grattò la testa con aria perplessa, e disse:

            «Be', questo è il colmo!»

            Stizzito, gettò via la biglia e si mise a ponzare. Il fatto è che lì era fallita una sua superstizione, che lui e tutti i suoi compagni avevano sempre ritenuto infallibile. Se seppellivi una biglia con certe indispensabili formule magiche, e per quindici giorni la lasciavi stare, e poi aprivi il nascondiglio con la formula che aveva appena recitato lui, trovavi che tutte le biglie che avevi perduto in vita tua si erano, nel frattempo, radunate lì, per grande che fosse stato lo spazio che le separava. Ma ora questa cosa non aveva assolutamente funzionato. L'intero edificio della fede di Tom venne scosso dalle fondamenta. Parecchie volte aveva sentito dire che era successa una cosa come questa, ma mai, prima d'allora, che era fallita. Non pensò che, prima d'allora, lui stesso ci aveva già provato diverse volte, senza mai riuscire a rintracciare, in un secondo tempo, il nascondiglio. Per qualche tempo meditò sulla faccenda, e finalmente decise che una strega aveva interferito e rotto l'incantesimo. Volendo verificare questo punto, cercò qua e là finché non trovò una minuscola zona sabbiosa con in mezzo una piccola depressione a forma d'imbuto. Allora si stese per terra, accostò la bocca a quell'imbuto e gridò:

            «Larva di formicaleone, dimmi quello che voglio sapere!

            Larva di formicaleone, dimmi quello che voglio sapere!»

            La sabbia cominciò a muoversi, e poco dopo un insettuccio nero comparve per un attimo, per tornare fulmineamente a seppellirsi, spaventato.

            «Non lo dice! Allora è stata una strega, a farlo. Lo sapevo.»

            Ben conosceva, Tom, la futilità dei tentativi di opporsi alle streghe, e così, scoraggiato, vi rinunciò. Poi però gli venne in mente che tanto valeva recuperare la biglia che aveva appena gettato via, e perciò si mise a cercarla con pazienza. Ma non riuscì a trovarla. Tornò allora alla stanza del tesoro, riprese la posizione nella quale si era messo quando aveva gettato via la biglia, trasse di tasca un'altra biglia e la gettò nello stesso modo, dicendo:

            «Sorella, va' a cercare tua sorella!»

            Localizzò il punto in cui era caduta, poi andò là e si guardò intorno. Ma doveva essere caduta o troppo vicino o troppo lontano, e allora Tom ci provò altre due volte. L'ultima ripetizione venne coronata dal successo. Le due biglie giacevano a meno di trenta centimetri l'una dall'altra.

            In quel preciso momento lo squillo di una trombetta di latta si propagò debolmente sotto le verdi navate della foresta. Tom si liberò della giacca e dei calzoni, trasformò una bretella in una cintura, tolse un po' di sterpi da dietro il tronco marcito, svelando un arco rudimentale con relativa freccia, una spada di legno e una trombetta, e in un lampo aveva afferrato queste cose ed era scappato via a grandi balzi, con le gambe nude e la camicia svolazzante. Poco dopo si fermò sotto un grosso olmo, rispose con uno squillo di tromba, e poi si mise a camminare in punta di piedi e a guardarsi cautamente intorno. A un compagno immaginario disse piano:

            «Fermi, miei prodi! State nascosti fino al mio segnale.»

            Allora comparve Joe Harper, vestito ariosamente e armato fino ai denti come Tom. Tom gridò:

            «Alt! Chi viene qui nella foresta di Sherwood senza il mio salvacondotto?»

            «Guy di Guisborne non ha bisogno del salvacondotto di nessuno! Chi sei tu che... che...»

            «Osi tenere un simile linguaggio», disse Tom, suggerendo perché parlavano «secondo le regole», a memoria.

            «Chi sei tu che osi tenere un simile linguaggio?»

            «In fede mia, io sono Robin Hood, come presto saprà la tua miserabile carcassa.»

            «Sei tu dunque davvero quel famoso fuorilegge? Di buon animo ti contenderò il passo in quest'amena foresta. In guardia!»

            Impugnarono le spade di legno, mollando a terra tutto il resto del loro arsenale, assunsero una posa da duellanti, piede contro piede, e dettero inizio a un combattimento grave e prudente, «due passi avanti e due indietro». Dopo un po' Tom disse:

            «E ora dammi del filo da torcere, se ti riesce!»

            Così si dettero «del filo da torcere», ansimando e sudando dalla fatica. Ben presto Tom gridò:

            «Cadi! Cadi! Perché non cadi?»

            «No! Perché non cadi tu? Stai perdendo.»

            «Ma va' là, questo è niente. Mica posso cadere, io. Nel libro non è così. Il libro dice: "Allora, con un colpo di rovescio, ammazzò il povero Guy di Guisborne!" Devi voltarti e lasciarti colpire alla schiena.»

            Il libro non poteva esser messo in discussione, perciò Joe si voltò, ricevette il colpo e cadde.

            «Adesso», disse Joe alzandosi, «devi lasciarti uccidere anche tu. Non ti sembra giusto?»

            «Come? Io non posso farlo. Non sta scritto nel libro.»

            «Be', è uno schifo, ecco. Non ho altro da dire.»

            «Di' un po', Joe, perché non fai la parte di frate Tuck, o di Much il figlio del mugnaio, e mi batti nel combattimento con l'asta? Altrimenti io posso fare lo sceriffo di Nottingham, per un po', e tu Robin Hood, così sei tu che mi ammazzi.»

            La proposta era soddisfacente, e in questo modo si svolsero le avventure. Poi Tom ridivenne Robin Hood, e la suora traditrice gli fece perdere le forze insieme al sangue che usciva dalla ferita non curata. E alla fine Joe, in rappresentanza di un'intera tribù di piangenti fuorilegge, lo trascinò tristemente in mezzo al bosco, gli mise l'arco tra le mani indebolite, e Tom disse: «Dove cade questa freccia, là seppellite il povero Robin Hood sotto le verdi fronde della foresta». Poi scoccò la freccia e si rovesciò all'indietro, e sarebbe morto; ma cadde su un'ortica, e saltò su fin troppo vivacemente per un cadavere.

            I ragazzi si vestirono, nascosero il loro equipaggiamento e si allontanarono dolendosi che non ci fossero più fuorilegge: cosa pretendeva di aver fatto la civiltà moderna per compensare la loro perdita? E dicevano che avrebbero preferito fare i fuorilegge nella foresta di Sherwood per un anno piuttosto che il presidente degli Stati Uniti per sempre.

CAPITOLO IX

            Quella sera alle nove e mezzo Tom e Sid furono messi a letto come al solito. Recitarono le preghiere, e ben presto Sid si addormentò. Tom restò sveglio e in attesa con un'impaziente irrequietezza. Quando gli parve che fosse quasi l'alba, udì la pendola battere le dieci! C'era da impazzire. Si sarebbe girato e rigirato, come pretendevano i suoi nervi, ma temeva di svegliare Sid. Allora giacque immobile con lo sguardo fisso nelle tenebre. Un silenzio spaventoso avvolgeva il mondo intero. Poi dal silenzio, a poco a poco, cominciarono ad affiorare dei rumori appena percettibili. Il ticchettio della pendola cominciò a imporsi all'attenzione. Vecchie travi cominciarono a scricchiolare misteriosamente. Le scale mandavano fiochi cigolii. Gli spiriti, evidentemente, erano in giro. Un russare sommesso e misurato veniva dalla stanza di zia Polly. E ora cominciava il noioso frinire di un grillo che nessun ingegno umano avrebbe potuto individuare. Poi, dal muro dietro la testata del letto, lo fece rabbrividire l'orrendo ticchettio di un orologio della morte: segno che qualcuno aveva i giorni contati. Poi l'abbaiare di un cane lontano si alzò nell'aria della notte provocando la risposta di un latrato più fioco e più lontano. Tom soffriva le pene dell'inferno. Finalmente si convinse che il tempo era cessato ed era cominciata l'eternità; suo malgrado, cominciò a sonnecchiare; la pendola batté le undici, ma lui non l'udì. E poi arrivò, mescolandosi ai suoi sogni ancora in formazione, un tristissimo miagolio. Lo scosse il sollevarsi del telaio di una finestra vicina. Un grido - «Pussa via, demonio!» - e lo schianto di una bottiglia vuota che si rompeva contro il retro della legnaia di sua zia lo svegliarono del tutto, e bastò un solo minuto perché Tom fosse vestito, fuori della finestra e carponi sul tetto del pezzo della casa fatto a «elle». «Miagolò» con cautela una volta o due, mentre procedeva: poi saltò sul tetto della legnaia, e da lì a terra. Sotto c'era Huckleberry Finn, col suo gatto morto. I ragazzi si allontanarono e scomparvero nell'oscurità. Mezz'ora più tardi stavano camminando in mezzo all'erba alta del cimitero.

            Era uno di quei cimiteri all'antica che usavano nel West. Si trovava su una collina, a due chilometri e mezzo dal paese. Intorno aveva un irregolare steccato di legno che in certi punti si piegava verso l'interno e per il resto verso l'esterno, mentre non stava diritto in nessun posto. Cespugli ed erbacce lo avevano invaso per intero. Tutte le vecchie tombe erano sprofondate. Non c'era una sola lapide in tutto il cimitero: assi logore e tarlate traballavano sopra le fosse, piegandosi in cerca di sostegno e non trovandone alcuno. Una volta vi avevano dipinto sopra: «Consacrato alla memoria» del taldeitali, ma la scritta non si sarebbe potuta più leggere, sul maggior numero di esse, ormai, anche se ci fosse stato un po' di luce.

            Un vento leggero gemeva tra gli alberi, e Tom temeva che fossero gli spiriti dei defunti che si lagnavano di essere disturbati. I ragazzi parlavano poco, e solo sottovoce, perché l'ora e il silenzio e la generale solennità del luogo ne opprimevano lo spirito. Trovarono il tumulo fresco che stavano cercando, e si misero sotto la protezione di tre grandi olmi che crescevano tutti insieme a pochi passi dalla tomba.

            Quindi attesero in silenzio per quello che parve un lunghissimo tempo. Il verso lontano di una civetta era l'unico suono che turbasse l'assoluto silenzio. I pensieri di Tom diventavano opprimenti. Bisognava a ogni costo scambiare qualche parola. Disse allora Tom in un sussurro:

            «Hucky, tu credi che ai morti non dispiaccia che noi siamo qui?»

            Huckleberry mormorò:

            «Vorrei saperlo. C'è un'atmosfera terribilmente solenne, no?»

            «Puoi ben dirlo.»

            Seguì una lunga pausa, durante la quale i ragazzi meditarono sull'argomento. Poi Tom bisbigliò:

            «Di', Hucky: tu credi che Hoss Williams ci senta parlare?»

            «Certo che ci sente. Il suo spirito, almeno.»

            Tom, dopo una pausa:

            «Vorrei averlo chiamato "signore". Ma non volevo mancargli di rispetto. Tutti lo chiamano Hoss.»

            «Non si è mai troppo precisi quando si parla di questi morti, Tom.»

            Questa fu una doccia fredda, e la conversazione tornò a spegnersi. Poco dopo Tom prese il suo compagno per un braccio e disse:

            «Ssst!»

            «Cosa c'è, Tom?» E i due si strinsero l'uno all'altro col cuore in gola.

            «Ssst! Eccolo di nuovo! Non hai sentito?»

            «Io...»

            «Ecco! Adesso si sente!»

            «Dio mio, Tom, arrivano! Stanno proprio arrivando. Che si fa?»

            «Non so. Credi che ci vedranno?»

            «Oh, Tom, loro ci vedono al buio come i gatti. Vorrei non essere venuto.»

            «Oh, non aver paura. Non credo che ci daranno fastidio. Non stiamo facendo niente di male. Se stiamo fermi, forse non si accorgeranno neanche di noi.»

            «Ci proverò, Tom, ma Dio buono, tremo come una foglia.»

            «Ascolta!»

            I ragazzi chinarono la testa e trattennero il respiro. Dall'altro capo del cimitero veniva un suono soffocato di voci.

            «Guarda! Guarda là!» sussurrò Tom. «Che roba è?»

            «È un fuoco fatuo. Oh, Tom, che cosa orribile.»

            Alcune figure indistinte si approssimavano nel buio, facendo dondolare un'antiquata lanterna di latta che punteggiava il suolo d'innumerevoli pagliuzze di luce. Poco dopo Huckleberry sussurrò con un brivido:

            «Sono diavoli, come no! Tre. Dio, Tom siamo perduti! Sei capace di pregare?»

            «Ci proverò, ma non devi aver paura. Non ci faranno niente. "Prima di prender sonno, mio Signore..."»

            «Ssst!»

            «Cosa c'è, Huck?»

            «Sono esseri umani! Uno, almeno. Una delle voci è quella del vecchio Muff Potter.»

            «No, impossibile!»

            «Vuoi scommettere? Non muoverti e non far rumore. Non è tanto sveglio da accorgersi di noi. Ubriaco come al solito, probabilmente: quella vecchia spugna!»

            «D'accordo, starò zitto. Mi sembrano confusi. Non riescono a trovarlo. Eccoli che vengono di nuovo. Fuoco. Acqua. Fuochino. Fuoco! Sono sulla strada giusta, questa volta. Di', Huck, ho riconosciuto un'altra voce: è Joe l'indiano.»

            «Giusto: quell'assassino d'un mezzosangue; Preferirei di gran lunga che fossero dei diavoli. Cosa cavolo staranno architettando?»

            I sussurri, a questo punto, si spensero del tutto, perché i tre uomini avevano raggiunto la tomba, fermandosi a pochi passi dal nascondiglio dei ragazzi.

            «Eccolo qui», disse la terza voce; e il suo proprietario sollevò la lanterna mostrando la faccia del giovane dottor Robinson.

            Potter e Joe l'indiano portavano una barella con sopra una corda e un paio di badili. Deposto il loro carico, cominciarono ad aprire la tomba. Il dottore piazzò la lanterna a un'estremità della fossa e andò a sedersi con le spalle contro uno degli olmi. Era così vicino che i ragazzi avrebbero potuto toccarlo.

            «Svelti, ragazzi!» disse a bassa voce. «La luna potrebbe spuntare da un momento all'altro.»

            I due risposero con un grugnito e continuarono a scavare. Per qualche tempo si udì solo lo stridere dei badili che si sbarazzavano del loro carico di terra e di ghiaia. Era assai monotono. Finalmente una vanga urtò la bara, con un accento ligneo e cavernoso, e in un altro minuto, o forse due, gli uomini l'avevano estratta dal suolo. Fecero saltare il coperchio coi badili, ne tolsero il corpo e lo buttarono garbatamente per terra. La luna sbucò dalle nuvole e rischiarò quella faccia pallida. Preparata la barella, il cadavere vi fu messo sopra, coperto da un telo e legato con la fune. Potter estrasse un grosso coltello a serramanico per tagliare il capo penzolante della corda, poi disse:

            «Con questa schifezza noi abbiamo finito, Segaossa. Tirane fuori altri cinque, o questo resta qui.»

            «Ben detto!» disse Joe l'indiano.

            «Un momento, come sarebbe?» disse il dottore. «Avete voluto essere pagati in anticipo e vi ho pagato.»

            «Sì, e hai fatto di più», disse Joe l'indiano, accostandosi al dottore, che si era alzato in piedi. «Cinque anni fa tu mi hai cacciato fuori dalla cucina di tuo padre, una sera che ero venuto a chiedere qualcosa da mangiare, e hai detto che ero lì per fare qualcosa di male; e quando ho giurato che te l'avrei fatta pagare, mi fosse anche toccato di aspettare cent'anni, tuo padre mi ha fatto mettere in prigione per vagabondaggio. Credevi che me ne fossi dimenticato? Non per niente mi scorre nelle vene sangue indiano. E ora tu sei in mano mia, e dobbiamo fare i conti, sai!»

            Parlando, minacciava il dottore agitandogli il pugno sotto il naso. Ma il dottore lo colpì, senza preavviso, e mandò a gambe levate quel briccone. Potter allora lasciò cadere il coltello ed esclamò:

            «Ehi, un momento, lascia stare il mio socio!» E in un lampo fu addosso al dottore, e i due cominciarono a lottare con tutta la loro forza, calpestando l'erba e arando il terreno con i tacchi. Joe l'indiano balzò in piedi, con gli occhi fiammeggianti di odio, afferrò il coltello di Potter e si avvicinò furtivamente, come un gatto, girando con le gambe piegate intorno ai lottatori, cercando l'occasione buona. Tutt'a un tratto il dottore si liberò, svelse l'asse piantata sulla tomba di Williams e con un colpo ben assestato atterrò Potter; e nello stesso istante il meticcio vide l'occasione buona, e piantò fino all'impugnatura il coltello nel petto del giovane. Il dottore barcollò e cadde in parte su Potter, inondandolo del proprio sangue, e nello stesso momento le nuvole cancellarono l'orribile spettacolo, e i due ragazzi atterriti se la diedero a gambe nelle tenebre.

            Poco dopo, quando la luna emerse nuovamente, Joe l'indiano era ritto sopra le due forme, e le stava contemplando. Il dottore emise qualche suono inarticolato, mandò un paio di lunghi sospiri e tacque. Il meticcio borbottò:

            «Il conto è saldato, che Dio ti maledica.»

            Poi derubò il cadavere. Dopodiché mise il coltello fatale nella mano destra, aperta, di Potter e si sedette sulla cassa scoperchiata. Passarono tre, quattro, cinque minuti e Potter cominciò a muoversi e a gemere. La sua mano si chiuse sul coltello, Potter lo sollevò, gli diede un'occhiata e lo lasciò cadere con un brivido. Poi si rizzò a sedere, spingendo via il cadavere, sul quale posò gli occhi prima di guardarsi confusamente intorno. Il suo sguardo incontrò quello di Joe.

            «Dio santo, cos'è questo, Joe?» disse.

            «È un brutt'affare», disse Joe senza muoversi. «Perché l'hai fatto?»

            «Io? Io non ho fatto niente!»

            «Sta' a sentire! Le chiacchiere non servono a niente.»

            Potter cominciò a tremare e impallidì.

            «Credevo che la sbronza mi sarebbe passata. Stasera era meglio se non bevevo. Ce l'ho ancora nella testa: peggio di quando ci siamo messi in marcia per venire qui. Sono tutto confuso; non ricordo quasi niente. Dimmi, Joe - sinceramente, vecchio mio - sono stato io, Joe? Non volevo; sul mio onore e sull'anima mia, non ho mai voluto, Joe. Dimmi com'è andata, Joe. Oh, è orribile... Così giovane, così promettente.»

            «Be', vi stavate picchiando, e lui ti ha dato l'asse sulla testa, e tu sei andato giù lungo disteso; e poi ti sei rialzato, traballando, e hai preso il coltello e gliel'hai piantato in corpo proprio mentre lui ti dava un'altra botta tremenda, e siete stati lì per terra fino adesso, come se foste morti stecchiti tutt'e due.»

            «Oh, non sapevo quello che facevo. Vorrei morire in questo momento, se non è vero. È stata tutta colpa del whisky e dell'emozione, credo. Finora non avevo mai usato un'arma in vita mia, Joe. Ho attaccato briga, mai però con le armi. Te lo diranno tutti, Joe. Non fare la spia! Dimmi che non farai la spia, Joe, da bravo. Io t'ho sempre voluto bene, Joe, e ho anche preso le tue parti. Non ricordi? Non farai la spia, eh, Joe?» E il povero infelice cadde in ginocchio davanti all'impassibile assassino, e giunse le mani supplichevoli.

            «Sì, tu sei sempre stato onesto e leale con me, Muff Potter, e non ti tradirò. Ecco, è tutto quello che posso dire.»

            «Oh, Joe, sei un angelo! Ti benedirò per questo fin che campo.» E Potter scoppiò in pianto.

            «Su, ora basta. Non è il momento di mettersi a frignare. Tu prendi per di là, e io me la batto da questa parte. Svelto, adesso, e non lasciare tracce.»

            Potter si allontanò al piccolo trotto, un trotto che ben presto diventò una corsa pazza. Il meticcio lo seguì con lo sguardo. Borbottò:

            «Se è frastornato dal colpo e stordito dall'alcool come sembrava che fosse, non penserà al coltello finché non sarà così lontano che avrà paura di tornare indietro a prenderlo, da solo, in un posto come questo... quel vigliacco!»

            Due o tre minuti dopo sull'uomo assassinato, sul cadavere coperto dal telo, sulla bara scoperchiata e sulla tomba aperta non vegliavano altri occhi che quelli della luna. E il silenzio era di nuovo assoluto.

CAPITOLO X

            I due ragazzi corsero a precipizio verso il paese, senza fermarsi, ammutoliti dall'orrore. Di tanto in tanto si voltavano indietro, preoccupati, come se temessero di poter essere seguiti. Ogni ceppo che sorgeva improvvisamente davanti a loro sembrava un uomo e un nemico, e li costringeva a trattenere il respiro; e quando sfrecciarono davanti a certe casette che si trovavano alla periferia del paese, l'abbaiare dei cani da guardia disturbati parve mettere le ali ai loro piedi.

            «Speriamo di arrivare almeno fino alla vecchia conceria, prima di mollare!» sussurrò Tom con la voce rotta tra un respiro e l'altro. «Non ce la faccio più.»

            Il respiro affannoso di Huckleberry fu la sua unica risposta, e i ragazzi appuntarono lo sguardo sulla meta delle loro speranze e ce la misero tutta per raggiungerla. Piano piano guadagnarono terreno, e alla fine, fianco a fianco, irruppero attraverso la porta aperta e si lasciarono cadere, grati ed esausti, nell'ombra protettiva dell'interno. I cuori, a poco a poco, rallentarono i loro battiti e Tom sussurrò:

            «Huckleberry, come andrà a finire, secondo te?»

            «Se il dottor Robinson ci lascia la pelle, andrà a finire con un'impiccagione.»

            «Lo credi davvero?»

            «Se lo credo? Lo so, Tom.»

            Tom rifletté un momento; poi disse:

            «Chi lo denuncerà? Noi?»

            «Sei matto? Metti che capiti qualcosa e che Joe l'indiano non finisca sulla forca; be', ci ammazzerebbe, un giorno o l'altro, quant'è vero che siamo qui sdraiati.»

            «È proprio quello che pensavo anch'io, Huck.»

            «Se qualcuno deve parlare, lo faccia Muff Potter, se è abbastanza stupido. In genere è abbastanza sbronzo.»

            Tom non disse nulla, ma continuò a pensare. Poco dopo mormorò:

            «Huck, Muff Potter non lo sa. Come può parlare?»

            «E perché Muff Potter non lo sa?»

            «Perché aveva appena preso quella botta quando Joe l'indiano lo ha fatto. Credi che abbia potuto vedere qualcosa? Credi che abbia capito qualcosa?»

            «Porca miseria, Tom, è vero!»

            «E poi, stammi a sentire: magari quella botta ha spacciato anche lui!»

            «No, questo è poco probabile, Tom. Era pieno d'alcool; ho visto benissimo; lui, poi, è sempre così. Be', quando mio padre è sbronzo duro, potresti fargli crollare una chiesa sulla testa e non se ne accorgerebbe. Lo dice lui. Con Muff Potter è lo stesso, si capisce. Mentre se uno fosse stato sobrio, penso io, forse quella botta avrebbe anche potuto conciarlo per le feste; non lo so.»

            Dopo un altro silenzio meditabondo, Tom disse:

            «Hucky, sei sicuro di poter tenere il becco chiuso?»

            «Dobbiamo tenere il becco chiuso, Tom. Lo sai. Quell'indiano ci affogherebbe come un coppia di gatti se spifferassimo quel che abbiamo visto e lui non finisse con la corda al collo. Ora stammi a sentire, Tom, giuriamoci - ecco quello che dobbiamo fare - giuriamoci di tenere il becco chiuso.»

            «D'accordo, Huck. È la cosa migliore. Diamoci la mano e giuriamo che noi...»

            «Oh, no, così non va bene per una cosa come questa. Così va bene per le solite cose, le sciocchezze - specialmente con le ragazze, perché quelle ti tradiscono comunque, e se si arrabbiano spifferano tutto - ma per una storia grossa come questa dovrebbe esserci qualcosa di scritto. E il sangue.»

            Tom approvò l'idea con tutto se stesso. Era grande, misteriosa e terribile; l'ora, le circostanze, l'ambiente, tutto armonizzava con essa. Raccolse una scandola pulita di pino che brillava sotto la luna, trasse di tasca un pezzettino di «matita rossa», cercò un po' di luce e scarabocchiò faticosamente queste righe, sottolineando ogni lento tratto all'ingiù con lo stringere la lingua tra i denti e sfogando la pressione nei tratti all'insù:

            "Huck Finn e

            Tom Sawyer giurano

            che terranno la bocca chiusa.

            Possano crepare su due

            piedi e marcire sottoterra

            se mai parleranno."

            Huckleberry era pieno di ammirazione per la facilità mostrata da Tom nello scrivere e per la sublimità del suo linguaggio. Si tolse subito uno spillo dal bavero e stava per pungersi la pelle quando Tom disse:

            «Fermo! Non lo fare. Lo spillo è d'ottone. Potrebbe esserci del verderame.»

            «Cos'è il verderame?»

            «Veleno. Ecco che cos'è. Una volta mandane giù solo un po' e vedrai.»

            Così Tom tolse il filo da uno dei suoi aghi, e ciascuno dei due ragazzi si punse il polpastrello del pollice e ne spremette una goccia di sangue.

            Col tempo, dopo molte strizzate, Tom riuscì a firmare con le proprie iniziali, usando come penna il polpastrello del mignolo. Poi mostrò a Huckleberry come fare un'acca e un'effe, e il giuramento fu portato a termine. Seppellirono la scandola vicino al muro, con sinistre cerimonie e incantamenti, e i ferri che legavano le loro lingue furono considerati chiusi a chiave, e la chiave buttata via.

            Fu allora che una figura s'introdusse furtivamente nell'edificio attraverso una breccia che si apriva all'altro capo dello stabile in rovina; ma i due ragazzi non se ne accorsero.

            «Tom», mormorò Huckleberry, «questo patto ci vincola al silenzio per sempre?»

            «Certamente. Qualunque cosa capiti, dovremo tenere la bocca chiusa. Altrimenti creperemo su due piedi: non lo sai?»

            «Sì, credo che sia proprio così.»

            Continuarono a bisbigliare per qualche tempo. Poco dopo, appena fuori, un cane mandò un lungo, lugubre latrato: a meno di tre metri da loro. I ragazzi, terrorizzati, si strinsero in un abbraccio improvviso.

            «Con chi ce l'ha?» boccheggiò Huckleberry.

            «Non so: guarda dalla fessura. Presto!»

            «No, tu, Tom!»

            «Non posso: non posso farlo, Huck!»

            «Per favore, Tom. Eccolo di nuovo!»

            «Oh, Signore, ti ringrazio!» bisbigliò Tom. «Riconosco la sua voce. È Bull Harbison.»

            «Oh, meno male: Tom, ti confesso che sono quasi morto di paura; avrei scommesso l'osso del collo che era un cane randagio.»

            Il cane tornò ad abbaiare. Ancora una volta i ragazzi ebbero un tuffo al cuore.

            «Oh, Dio! Quello non è Bull Harbison!» mormorò Huckleberry. «Guarda, Tom!»

            Tom, tremando di paura, cedette e accostò l'occhio alla fessura. La sua voce era quasi impercettibile quando lui disse:

            «Oh, Huck, è proprio un cane randagio!»

            «Presto, Tom, presto! Con chi ce l'ha?»

            «Huck, credo che ce l'abbia con tutt'e due: siamo insieme.»

            «Oh, Tom, allora siamo spacciati. E non c'è da sbagliarsi su dove andrò a finire. Sono stato così cattivo!»

            «Me la sono proprio cercata! Ecco cosa ci si guadagna a bigiare la scuola e a fare tutto quello che ti dicono di non fare. Avrei potuto essere buono come Sid, se mi fossi sforzato: macché, non ho voluto, naturalmente. Però, se stavolta me la cavo, giuro che a scuola, la domenica, ci andrò di corsa!»

            E Tom si mise a piagnucolare.

            «Cattivo tu?» E anche Huckleberry si mise a piagnucolare. «Maledizione, Tom Sawyer, tu sei un santo in confronto a me! Oh, Signore, Signore, Signore, vorrei avere solo la metà delle probabilità che hai tu.»

            Tom deglutì e bisbigliò:

            «Guarda, Hucky, guarda! Ci volta le spalle!»

            Hucky guardò con la gioia nel cuore.

            «È vero, accidenti! Ce le voltava anche prima?»

            «Sì che ce le voltava. Ma io, come uno scemo, non ci avevo pensato. Oh, questa è magnifica, sai. Ma allora con chi ce l'ha?»

            I latrati cessarono. Tom drizzò le orecchie.

            «Ssst! Cos'è?» mormorò.

            «Si direbbero... dei maiali che grugniscono. No... È uno che russa, Tom.»

            «Sì? Ma dove, Huck?»

            «Credo che sia là in fondo, all'altro capo. A giudicare dal rumore, almeno. Mio padre ci dormiva, qualche volta, coi maiali, ma quando russa lui sfonda il tetto, che Dio lo benedica. Per giunta, non credo che tornerà mai più in questo paese.»

            Lo spirito d'avventura sorse ancora una volta nell'anima dei ragazzi. «Hucky, te la senti di venire se vado avanti io?»

            «Non è che ci tenga proprio tanto, Tom. E se fosse Joe l'indiano?»

            Tom si perse d'animo. Ma dopo qualche tempo la tentazione risorse in tutta la sua forza e i ragazzi decisero di fare un tentativo, con l'intesa che se la sarebbero svignata se l'uomo avesse improvvisamente smesso di russare. Così s'avviarono in quella direzione, furtivamente, in punta di piedi, l'uno dietro l'altro. Erano arrivati a meno di cinque passi dall'uomo che russava quando Tom mise il piede su uno stecco, che si ruppe con uno schiocco sonoro. L'uomo gemette, si girò e la luna illuminò il suo viso. Era Muff Potter. Quando l'uomo si era mosso, i cuori dei ragazzi si erano fermati, e anche i loro corpi, ma poi la paura passò. Uscirono in punta di piedi, attraverso il rivestimento sfondato, e si fermarono poco lontano per scambiarsi una parola di saluto. Quel latrato lungo e lugubre tornò a innalzarsi nell'aria della notte! Si voltarono e videro il cane sconosciuto fermo a pochi passi da dove giaceva Potter, girato dalla sua parte col naso che puntava verso il cielo.

            «Oh, Cristo, è con lui che ce l'ha!» esclamarono all'unisono i due ragazzi.

            «Sai, Tom, dicono che un cane randagio è venuto ad abbaiare intorno alla casa di Johnny Miller, verso mezzanotte, circa due settimane fa; e un succiacapre è entrato in casa e si è posato sulla ringhiera e ha cantato, quella stessa sera; e non è ancora morto nessuno.»

            «Be', lo so. Mettiamo pure che sia così. Forse che Gracie Miller non è caduta sul focolare ustionandosi terribilmente proprio il sabato successivo?»

            «Sì, ma non è morta. E quel che più conta, sta anche migliorando.»

            «Va bene; aspetta e vedrai. Quella è spacciata, com'è vero che è spacciato Muff Potter. Così dicono i negri, e loro sanno tutto di queste cose, Huck.»

            E si separarono, con aria meditabonda.

            Quando Tom tornò a infilarsi nella finestra della sua camera da letto, la notte era quasi alla fine. Si svestì con mille cautele, e si addormentò congratulandosi con se stesso per il fatto che nessuno era al corrente della sua scappatella. Ignorava che il russante Sid - russante, sì, ma in modo assai sommesso - era sveglio, e che lo era da un'ora.

            Quando Tom si destò, Sid si era già vestito ed era sceso. Qualcosa nella luce, nell'atmosfera, alimentava il sospetto che fosse tardi. Tom trasalì. Perché non lo avevano chiamato? Perché non lo avevano tormentato per farlo alzare, come al solito? Il pensiero lo riempì di sinistri presentimenti. In meno di cinque minuti si vestì e scese le scale, sentendosi pesto e insonnolito. La famiglia era ancora a tavola, ma avevano finito di fare colazione. Non ci furono parole di rimprovero; ma c'erano occhi che guardavano altrove; c'era un silenzio, e un'aria di solennità, che agghiacciò il cuore del colpevole. Tom sedette e assunse un'aria allegra, ma era fatica sprecata; non provocò sorrisi, né altre reazioni, perciò il ragazzo tacque e si lasciò sprofondare il cuore nei calcagni.

            Dopo colazione la zia lo prese in disparte, e Tom quasi si rallegrò nella speranza di essere punito; ma non fu così. La zia pianse e gli domandò come poteva continuare a spezzarle tanto il cuore; e alla fine gli disse di continuare così, e di rovinarsi, e di portare lei alla tomba, con i suoi affanni e i suoi capelli grigi, perché era inutile fare altri tentativi. Questo fu peggio di mille frustate, e ora il cuore di Tom era più indolenzito del suo corpo. Pianse, chiese perdono, promise ripetutamente di emendarsi, e poi fu congedato, con l'impressione di aver ottenuto solo un perdono imperfetto e riscosso solo una scarsa fiducia.

            Si congedò sentendosi troppo infelice anche solo per pensare di vendicarsi su Sid; per cui la pronta ritirata di quest'ultimo attraverso il cancelletto posteriore risultò superflua. Andò a scuola cupo e imbronciato, e ricevette le sue frustate con Joe Harper per aver marinato il giorno prima, con l'aria di una persona che ha il cuore afflitto da ben altre pene ed è assolutamente impervia alle sciocchezze. Poi andò al suo posto, mise i gomiti sul banco e il mento tra le mani, e fissò il muro con lo sguardo vitreo del sofferente che ha raggiunto il limite e non può andare oltre. Il suo gomito premeva contro qualcosa di duro. Dopo molto tempo Tom cambiò lentamente e tristemente posizione, e raccolse quest'oggetto con un sospiro. Era avvolto in un pezzo di carta. Tom lo svolse. Seguì un lungo, profondo, interminabile sospiro, e il suo cuore si spezzò. Era il pomo d'ottone dell'alare! Quest'ultima goccia fece traboccare il vaso.

CAPITOLO XI

            Verso mezzogiorno l'intero paese fu improvvisamente elettrizzato dall'orribile notizia. Non ci fu bisogno del telegrafo, che allora non era neppure nel regno dei sogni; la storia volò di bocca in bocca, di capannello in capannello, di casa in casa con una velocità di poco inferiore a quella del telegrafo. Naturalmente il direttore della scuola quel pomeriggio diede vacanza; la gente avrebbe pensato male di lui se non lo avesse fatto. Un coltello insanguinato era stato rinvenuto vicino all'uomo assassinato, ed era stato riconosciuto da qualcuno come appartenente a Muff Potter: la storia era questa. E si diceva che un abitante del paese, rincasando molto tardi, lo aveva incontrato mentre si lavava nel ruscello verso l'una o le due del mattino, e che Potter se l'era subito svignata: circostanze sospette, il lavarsi soprattutto, che per Potter non era un'abitudine. Si diceva inoltre che il paese era stato frugato da cima a fondo per rintracciare questo «assassino» (il pubblico è tutt'altro che lento quando si tratta di vagliare le prove e giungere a un verdetto), ma che non si era riusciti a trovarlo. Uomini a cavallo erano partiti lungo le strade in ogni direzione, e lo sceriffo contava di catturarlo prima di notte.

            Tutta la cittadinanza andava al cimitero. Tom scordò gli affanni e si unì alla processione, non perché non avrebbe preferito mille volte andare altrove, ma perché un fascino inspiegabile e pauroso lo attirava in quel posto. Arrivato in quell'orribile luogo, si fece largo tra la folla e assistette al macabro spettacolo. Gli sembrava che fosse passato un secolo da quando era stato lì. Qualcuno gli pizzicò un braccio. Si voltò, e i suoi occhi incontrarono quelli di Huckleberry. Entrambi distolsero immediatamente lo sguardo, chiedendosi se qualcuno avesse notato qualcosa nel loro scambio di occhiate. Ma tutti parlavano, assorti dal lugubre spettacolo che avevano davanti agli occhi.

            «Povero diavolo!» «Povero ragazzo!» «Questo dovrebbe servire di lezione agli sciacalli!» «Muff Potter sarà impiccato per questo, se lo acchiapperanno!» Ecco qual era il senso del discorso, e il pastore disse: «È stato un castigo di Dio; qui c'è la Sua mano.»

            Allora Tom rabbrividì da capo a piedi; perché lo sguardo gli era caduto sul volto impassibile di Joe l'indiano. In quel momento la folla cominciò a ondeggiare e ad agitarsi, e delle voci urlarono: «È lui! È lui! Si presenta spontaneamente!»

            «Chi? Chi?», da venti voci.

            «Muff Potter!»

            «Ecco, s'è fermato! Guarda, si sta voltando! Non fatelo scappare!»

            La gente sui rami degli alberi sopra la testa di Tom disse che non stava tentando di scappare: aveva solo un'aria dubbiosa e perplessa.

            «Che diabolica impudenza!», disse uno spettatore; «voleva venire a guardare con comodo la sua opera: non si aspettava compagnia.»

            Poi la folla si divise, e lo sceriffo passò con sussiego, tenendo Potter per un braccio. Il poveretto aveva un'aria smarrita, e negli occhi si leggeva la paura che si era impossessata di lui. Quando si trovò davanti all'assassinato, si mise a tremare come l'avesse colto una paralisi, e si nascose il viso tra le mani e scoppiò in lacrime.

            «Amici, non sono stato io», disse tra i singhiozzi; «sulla mia parola e sul mio onore, non sono stato io.»

            «Chi ti ha accusato?» urlò una voce.

            Il colpo sembrò andare a segno. Potter alzò il viso e si guardò intorno con una patetica disperazione negli occhi. Vide Joe l'indiano ed esclamò:

            «Oh, Joe, Joe, mi avevi promesso che non avresti mai...»

            «È tuo questo coltello?» E gli fu cacciato sotto il naso dallo sceriffo.

            Potter sarebbe caduto se non lo avessero sorretto e aiutato a sedersi per terra. Poi disse:

            «Qualcosa mi diceva che se non fossi tornato a prendere...» Rabbrividì; quindi mosse la mano fiacca col gesto rassegnato di un vinto e disse: «Diglielo, Joe, diglielo... Non serve più».

            Allora Huckleberry e Tom rimasero muti e con gli occhi sbarrati, a sentire quel bugiardo dal cuore di pietra che snocciolava serenamente il suo racconto, aspettandosi che da un momento all'altro il cielo terso gli scagliasse sulla testa una delle folgori di Dio, e stupendosi che la collera divina tardasse tanto a manifestarsi. E quando l'indiano ebbe finito, ed era sempre vivo, dritto e intero, il loro impulso tentennante d'infrangere il giuramento per salvare la vita del povero prigioniero tradito impallidì e scomparve, perché era chiaro che quel briccone si era venduto a Satana, e sarebbe stato fatale immischiarsi negli affari di un simile padrone.

            «Perché non sei scappato? Cos'hai voluto tornare qui a fare?» disse qualcuno.

            «Non potevo farne a meno... Non potevo farne a meno», gemette Potter. «Volevo scappar via, ma sembrava che le gambe mi portassero solo da questa parte.» E riprese a singhiozzare.

            Pochi minuti dopo, durante l'inchiesta, Joe l'indiano ripeté sotto giuramento la sua dichiarazione, con la stessa calma di prima; e i ragazzi, vedendo che il cielo continuava a trattenere le sue folgori, si confermarono nell'opinione che Joe avesse venduto l'anima al diavolo. Era ormai diventato, per loro, l'oggetto più sinistramente interessante che avessero mai contemplato, e non riuscivano a staccare gli occhi affascinati dal suo viso. Intimamente decisero di non perderlo di vista, la notte, ogni volta che se ne fosse presentata l'occasione, nella speranza di poter vedere, anche solo di sfuggita, il suo terribile padrone. Joe l'indiano aiutò gli altri a sollevare il corpo dell'uomo assassinato, e a deporlo su un carro per portarlo via; e tra la folla inorridita si mormorò che la ferita buttava un po' di sangue! I ragazzi pensarono che tale fortunata circostanza avrebbe indirizzato i sospetti nella direzione giusta; ma furono delusi, perché più di un paesano osservò:

            «Era a meno di tre passi da Muff Potter quando ha sanguinato.»

            Il terribile segreto e i rimorsi della coscienza di Tom turbarono i suoi sonni per almeno una settimana dopo il fatto; e un mattino a colazione Sid disse:

            «Tom, tu ti muovi e parli tanto nel sonno da tenermi sveglio metà del tempo.»

            Tom sbiancò in viso e abbassò gli occhi.

            «Brutto segno», disse zia Polly, gravemente. «Cos'hai sulla coscienza, Tom?»

            «Niente. Niente, ch'io sappia.» Ma gli tremava tanto la mano che rovesciò il caffè.

            «E dici delle cose!» disse Sid. «Stanotte hai detto: "sangue, è sangue, ecco che cos'è!" L'hai detto un mucchio di volte. E hai detto: "Non tormentatemi così... Confesserò". Confessare? Cos'è che devi confessare?»

            A Tom si era annebbiata la vista. Impossibile dire cos'avrebbe potuto succedere, ora, ma per fortuna ogni preoccupazione si cancellò dal volto di zia Polly, che senza saperlo andò in aiuto di Tom. Disse:

            «Vero! È quell'orribile delitto. Io stessa me lo sogno quasi ogni notte. A volte sogno di averlo commesso io.»

            Mary disse che anche lei era rimasta molto impressionata. E Sid parve soddisfatto. Tom si tolse di mezzo più in fretta che poté e dopo di allora, per una settimana, si lagnò di un tremendo mal di denti, legandosi ogni sera una benda sotto il mento. Non seppe mai che Sid vegliava per spiarlo durante la notte, che spesso gli toglieva quella benda e poi, appoggiandosi a un gomito, restava in ascolto per lunghi periodi di tempo, prima di rimettergliela a posto. L'inquietudine di Tom scomparve lentamente e il mal di denti, diventato scomodo, fu scartato. Se Sid riuscì davvero a capire qualcosa degli sconnessi brontolii di Tom, lo tenne per sé. A Tom sembrava che i compagni di scuola non la finissero mai di fare inchieste sui gatti morti, impedendogli così di scordare i suoi fastidi. Sid notò che Tom non faceva mai il coroner in nessuna di queste istruttorie, pur avendo avuto l'abitudine di mettersi alla testa di ogni nuova impresa; notò anche che Tom non fungeva mai da testimone: e questo era strano; e Sid non trascurò il fatto che Tom mostrava addirittura una grande avversione per tali inchieste, e le evitava ogni volta che poteva. Sid si stupì, ma non disse nulla. Comunque, anche le inchieste finalmente passarono di moda, e smisero di tormentare la coscienza di Tom.

            Ogni due o tre giorni, durante questo tempo di afflizione, Tom coglieva il momento opportuno per accostarsi alla finestrella del carcere e consegnare di soppiatto all'«assassino», attraverso l'inferriata, quel po' di generi di conforto sui quali era riuscito a mettere le mani. La prigione era una casupola di mattoni che sorgeva in una palude alla periferia del paese, e non poteva permettersi il lusso di avere dei secondini; veramente, era occupata assai di rado. Queste offerte contribuirono grandemente ad alleviare la coscienza di Tom. Gli abitanti del villaggio avevano una gran voglia di prendere Joe l'indiano, coprirlo di catrame e piume, e cacciarlo dal paese per sciacallaggio, ma così temibile era la sua natura che non si trovò nessuno disposto a prendere in mano la faccenda, che perciò fu dimenticata. Joe aveva badato a cominciare entrambe le sue deposizioni con la rissa, senza confessare la violazione di tombe che l'aveva preceduta; pertanto si ritenne più opportuno non portarlo, per il momento, in tribunale.

CAPITOLO XII

            Una delle ragioni per cui l'animo di Tom si era distratto dalle sue pene segrete era che aveva trovato una faccenda nuova e importante della quale interessarsi. Becky Thatcher aveva smesso di venire a scuola. Per qualche giorno Tom aveva lottato col suo orgoglio, cercando di «buttarsela dietro le spalle», ma non c'era riuscito. Così cominciò a ciondolare intorno alla casa di suo padre, verso sera, e a sentirsi molto infelice. Becky era malata. E se fosse morta? Era un pensiero angoscioso. Tom non riusciva più a provare il minimo interesse per la guerra, e nemmeno per la pirateria. La vita, per lui, aveva perso ogni attrattiva, non restava che un mare di desolazione. Tom ripose

il cerchio e il bastone; non lo divertivano più. Sua zia era preoccupata; cominciò a sperimentare su di lui medicine di ogni genere. Era una di quelle persone che hanno una vera e propria infatuazione per i rimedi più ciarlataneschi, e per tutti i sistemi più «moderni» per proteggere o ridare la salute. Era, in queste cose, una sperimentatrice inveterata. Quando, in questo campo, usciva qualcosa di nuovo, non vedeva l'ora di provarlo; non su di sé, perché lei non stava mai male; ma sul primo che le fosse capitato a tiro. Zia Polly era abbonata a tutti i periodici che si occupavano della salute e di altre frenologiche ciurmerie; e la solenne ignoranza di cui queste riviste traboccavano era musica, per le sue orecchie. Tutte le baggianate che contenevano sull'ossigenazione del sangue, su come andare a letto, e come alzarsi, e cosa mangiare, e cosa bere, e quanta ginnastica fare, e in quale stato d'animo tenersi, e cosa mettersi, era tutto vangelo per lei; e non si accorgeva mai che le pubblicazioni mediche del mese in corso dicevano abitualmente tutto il contrario di quello che avevano raccomandato il mese prima. Zia Polly era un'anima candida e sincera come le giornate erano lunghe, e perciò era facile preda di qualsiasi dulcamara. Raccoglieva i suoi periodici e i suoi rimedi miracolosi e, armata di questi strumenti letali, cavalcava il livido cavallo della morte, con «l'inferno alle calcagna», metaforicamente parlando. Ma non ebbe mai il sospetto di non essere, per i suoi vicini sofferenti, un angelo risanatore e un toccasana ambulante.

            L'idroterapia era la nuova moda del momento, e il cattivo stato di Tom fu per lei una manna. Ogni mattina lo faceva uscire all'alba, lo portava nella legnaia e lo affogava in un diluvio d'acqua fredda; poi lo strofinava con un asciugamano che pareva una raspa, facendolo rinvenire; infine lo avvolgeva in un lenzuolo bagnato e lo metteva sotto un mucchio di coperte fino a fargli sudare anche l'anima o meglio, come diceva Tom, «fino a quando le macchie gialle non gli uscivano dai pori».

            Eppure, nonostante tutto questo, il ragazzo diventava sempre più melanconico, pallido e abbattuto. Lei aggiunse bagni caldi, semicupî e immersioni. Il ragazzo era sempre triste come un funerale. Lei cominciò a integrare l'idroterapia con una dieta leggera di pappine di farina d'avena e senapismi. Calcolava la sua capacità come avrebbe fatto con quella di una giara, e ogni giorno lo riempiva di miracolose panacee.

            A questo punto Tom era diventato indifferente alla persecuzione. Questa fase riempì di costernazione il cuore della vecchia signora. Bisognava spezzare a ogni costo quella crosta d'indifferenza. Fu allora che zia Polly sentì parlare per la prima volta dell'Ammazzadolore. Ne ordinò subito in grande quantità. Lo assaggiò e si sentì piena di riconoscenza. Era fuoco puro, allo stato liquido. Abbandonò l'idroterapia e ogni altra cosa, e concentrò le sue speranze sull'Ammazzadolore. Ne diede a Tom un cucchiaio da tè e con l'ansia più profonda attese i risultati. Le sue preoccupazioni svanirono di colpo, il suo spirito si tranquillizzò; l'«indifferenza», infatti, era spezzata. Il ragazzo non avrebbe potuto mostrare un interesse più vivo e convincente nemmeno se la zia gli avesse acceso il fuoco sotto il sedere.

            Tom capì che era venuto il momento di svegliarsi; quella vita poteva essere abbastanza romantica, nella stato di frustrazione e d'infelicità in cui si trovava, ma cominciava a prendere un indirizzo assai poco sentimentale e troppo fastidioso. Perciò Tom ideò vari progetti destinati a dargli un po' di sollievo, e alla fine scelse quello che l'obbligava a dichiararsi entusiasta dell'Ammazzadolore. Dopodiché lo chiese tanto spesso da diventare un autentico seccatore, e sua zia finì per dirgli di servirsi da solo e di smetterla d'importunarla. Se fosse stato Sid, nessun dubbio avrebbe potuto turbare la sua gioia; ma poiché si trattava di Tom, sorvegliava di nascosto la bottiglia. Trovò che la medicina diminuiva veramente, ma non le venne il sospetto che il ragazzo se ne servisse per curare la salute di una crepa nel pavimento del soggiorno.

            Un giorno Tom stava appunto somministrando il medicinale a quella crepa quando arrivò il gatto giallo di sua zia, facendo le fusa, guardando avidamente il cucchiaino e miagolando per averne un po'. Tom disse:

            «Non chiederlo se non lo vuoi, Peter.»

            Ma Peter gli fece capire che lo voleva.

            «Sei sicuro?»

            Peter era sicuro.

            «Tu me l'hai chiesto e io te lo darò, perché ho il cuore tenero; ma se scoprirai che non ti piace, la colpa sarà soltanto tua.»

            Peter ne convenne, e Tom allora gli aprì la bocca e gli versò l'Ammazzadolore in gola. Peter fece un balzo in aria di due metri, poi lanciò un grido di guerra e si mise a girare in cerchio nella stanza, urtando i mobili, rovesciando vasi di fiori e mettendo a soqquadro la casa. Poi si drizzò sulle zampe posteriori e si mise a ballare qua e là, in una frenesia di gioia, con la testa piegata sulla spalla e la voce che proclamava ai quattro venti la sua inappagabile felicità. Quindi riprese a correre come un fulmine nella casa, seminando caos e distruzione nella sua scia. Zia Polly entrò in tempo per vedergli fare alcuni doppi salti mortali, seguiti da un ultimo potentissimo urrà e da un volo attraverso la finestra aperta che trascinò nella caduta i vasi di fiori superstiti. La vecchia signora rimase pietrificata dallo stupore, contemplando lo spettacolo sopra gli occhiali abbassati; disteso sul pavimento, Tom stava morendo dal ridere.

            «Tom, che diavolo gli ha preso a quel gatto?»

            «Non so, zia», disse il ragazzo con voce rotta.

            «Ma come, non ho mai visto nulla di simile. Perché si comportava così?»

            «Non lo so davvero, zia Polly; i gatti si comportano sempre così, quando si divertono.»

            «Ah sì?» C'era qualcosa, nel tono della zia, che diede a Tom una fitta di apprensione.

            «Sì, zia. Cioè, credo.»

            «Credi?»

            «Sì, zia.»

            La vecchia signora si stava chinando, mentre Tom l'osservava con un interesse reso più vivo dall'ansia. Troppo tardi indovinò le sue intenzioni. Il manico del cucchiaio rivelatore era visibile sotto la balza del copriletto. Zia Polly lo raccolse, lo tenne in mano. Tom trasalì e abbassò gli occhi. Zia Polly allora lo sollevò per il solito manico - l'orecchio - e gli diede un sonoro scappellotto col ditale.

            «E ora dimmi, perché hai voluto trattare così quella povera bestia cui manca la favella?»

            «L'ho fatto perché mi faceva compassione... Perché non aveva una zia.»

            «Non aveva una zia!... Stupido. Che c'entra, questo?»

            «C'entra sì. Perché se ne avesse avuta una, ci avrebbe pensato lei a bruciargli le budella! Gli avrebbe arrostito le frattaglie senza rimpianti, manco fosse un essere umano!»

            Zia Polly provò una fitta improvvisa di rimorso. Questo metteva le cose in una nuova luce: ciò che era crudele per un gatto poteva esserlo anche per un ragazzo. Cominciò a intenerirsi: le dispiaceva. Gli occhi le s'inumidirono, e allora mise la mano sulla testa di Tom e disse dolcemente:

            «Io lo facevo per il tuo bene, Tom. E, Tom, ti ha fatto bene.»

            Tom la guardò in faccia mentre un lampo d'ironia rischiarava, quasi impercettibilmente, la gravità della sua espressione:

            «Lo so che facevi per il mio bene, zietta, e anch'io l'ho fatto per il bene di Peter. Avrai notato che ha fatto bene anche a lui. Non l'ho mai visto così vispo...»

            «Oh, fila, Tom, prima che io perda di nuovo la pazienza. E cerca di vedere se ti riesce di fare il bravo, una volta tanto, così non dovrai prendere altre medicine.»

            Tom arrivò a scuola in anticipo. Qualcuno non mancò di notare che questa strana cosa era successa tutti i giorni, negli ultimi tempi. Anche ora, come sempre ultimamente, si trattenne vicino al cancello del cortile invece di giocare con i compagni. Era malato, disse; e ne aveva tutta l'aria. Si sforzava di far credere di guardare dappertutto tranne che nella direzione in cui guardava veramente: verso il fondo della strada. Finalmente comparve Jeff Thatcher e il viso di Tom s'illuminò; guardò da quella parte ancora per un attimo, poi voltò tristemente le spalle. Quando Jeff Thatcher arrivò, Tom lo abbordò e «buttò lì» qualche frase guardinga atta a farlo parlare di Becky, ma quello sciocco non vide neanche l'esca. Tom rimase di vedetta, palpitando di speranza ogni volta che avvistava un allegro vestitino e detestandone la proprietaria appena si accorgeva che non era quella giusta. Alla fine i vestitini cessarono di comparire, e lui cadde nella disperazione più nera; entrò nell'aula deserta e si accinse a trascorrere un mattino di tormenti. Allora un ultimo vestitino varcò il cancello, e il cuore di Tom fece un gran balzo. Un istante dopo era già fuori, e «faceva il diavolo a quattro» come un vero indiano; gridando, ridendo, inseguendo i compagni, saltando lo steccato a rischio della vita, o di un braccio o di una gamba, eseguendo salti mortali, stando ritto sulla testa: facendo insomma tutti gli eroismi che poteva concepire, e tenendo bene aperto, in tutto questo tempo, un occhio furtivo per vedere se Becky Thatcher lo aveva notato. Ma lei sembrava ignara di tutto; non guardò mai dalla sua parte. Possibile che non si fosse accorta della sua presenza? Tom compì allora le sue prodezze nelle immediate vicinanze della bambina; arrivò lanciando grida di guerra, strappò il berretto a un ragazzo, lo scaraventò sul tetto della scuola, piombò in mezzo a un gruppo di ragazzi facendoli cadere da ogni parte, e finì lui stesso lungo disteso sotto il naso di Becky, che per poco non andò a gambe levate; dopodiché la bambina si voltò, col naso per aria, e lui la sentì dire: «Uffa! Certa gente si crede tanto in gamba... che deve sempre mettersi in mostra!»

            Le guance di Tom s'imporporarono. Il ragazzo si alzò da terra e se la svignò, a testa bassa come un cane bastonato.

CAPITOLO XIII

            Ormai Tom aveva deciso. Era triste e disperato. Era, diceva, un ragazzo abbandonato e senz'amici; nessuno gli voleva bene; quando avessero scoperto cosa lo avevano spinto a fare, forse se ne sarebbero pentiti; lui aveva cercato di far bene e migliorarsi, ma non glielo avevano permesso; visto che desideravano soltanto disfarsi di lui, si accomodassero; e dessero pure a lui la colpa delle conseguenze; perché non avrebbero dovuto farlo? Che diritto ha il reietto di lagnarsi? Sì, finalmente ve lo avevano costretto: avrebbe condotto una vita di delitti. Non c'era altra scelta. A questo punto era in fondo a Meadow Land, e la campana della scuola che suonava per «chiamare a raccolta» gli alunni gli rintoccava debolmente all'orecchio. Frenò a stento un singhiozzo, ora, all'idea che mai più, mai più avrebbe udito quell'antico suono familiare: era dura, ma lo avevano costretto; scacciato nel mondo crudele, doveva rassegnarsi: ma li perdonava. Allora sì che i singhiozzi si moltiplicarono.

            In quel preciso momento incontrò il suo amico più fedele, Joe Harper: con uno sguardo gelido e, evidentemente, un grande e cupo proposito nel cuore. Ecco dunque «due anime con una sola volontà». Tom, asciugandosi gli occhi con la manica, cominciò a farfugliare qualcosa circa una decisione di sfuggire ai maltrattamenti e alle incomprensioni domestiche girando il mondo, per non tornare più; e concluse con la speranza che Joe non l'avrebbe dimenticato.

            Ma risultò che questa era proprio la domanda che Joe pensava di fare a Tom, in cerca del quale era venuto a tale scopo. Sua madre lo aveva frustato per aver bevuto della panna che lui non aveva mai toccato e della quale non sapeva nulla; era chiaro che sua madre era stanca di lui e desiderava che se ne andasse; se lei la pensava così, a lui non restava altro da fare che soccombere; le augurava di essere felice, e di non doversi mai pentire di avere mandato il suo povero ragazzo a penare e a morire nel mondo crudele.

            Mentre camminavano tristemente l'uno accanto all'altro, i due ragazzi strinsero un nuovo patto: di aiutarsi e di essere fratelli, e di non separarsi mai finché la morte non li avesse alleggeriti delle loro pene. Poi cominciarono a fare i loro piani. Joe proponeva di fare l'eremita, e di vivere di croste di pane in una remota caverna, e di morire, prima o poi, di freddo, di miseria e di dolore; ma, dopo aver ascoltato Tom, riconobbe che una vita di delitti presentava notevoli vantaggi, e così accettò di fare il pirata.

            Tre miglia a valle di St. Petersburg, in un punto dove il fiume Mississippi era largo poco più di un miglio, c'era un'isola boscosa, lunga e stretta, con una barra di sabbia a un capo, che sembrava il posto ideale. Era disabitata; si trovava molto lontano dalla riva, verso quella opposta, davanti a una foresta densa e quasi totalmente spopolata. Così venne scelta Jackson's Island. Chi dovesse cader vittima delle loro piraterie, era un problema che non gli si affacciò alla mente. Andarono poi a cercare Huckleberry Finn, che accettò subito di unirsi a loro, perché tutte le carriere, per lui, erano uguali; la cosa gli riusciva indifferente. Poco dopo si separarono, per trovarsi in un luogo solitario sulla riva del fiume due miglia a monte del paese, all'ora preferita, che era mezzanotte. Là c'era una piccola zattera di tronchi che intendevano catturare. Ognuno avrebbe portato ami e lenze, e tutte le provviste che poteva rubare nel modo più oscuro e misterioso: come si addice ai fuorilegge; e prima che fosse passato il pomeriggio erano tutti riusciti a godere la gioia ineffabile di spargere la voce che presto il paese avrebbe «sentito qualcosa». Tutti quelli che ricevettero questa vaga informazione furono pregati di «tenere il becco chiuso» e di aspettare.

            Verso mezzanotte Tom arrivò con un prosciutto cotto e qualche utensile di peltro, e si fermò nel folto dei cespugli su un piccolo dirupo che dominava il luogo del convegno. C'erano le stelle, e un grande silenzio. Il fiume maestoso si stendeva davanti a lui come un oceano calmissimo. Per qualche attimo Tom tese l'orecchio, ma nessun suono turbò il silenzio. Poi emise un fischio chiaro e sommesso. Dai piedi del dirupo qualcuno rispose. Tom fischiò altre due volte; questi segnali ricevettero un'identica risposta. Poi una voce disse cautamente:        «Chi va là?»

            «Tom Sawyer, il Vendicatore Nero del Mar dei Caraibi. Dite i vostri nomi.»

            «Huck Finn la Mano Insanguinata e Joe Harper il Terrore dei Mari.»

            Tom aveva tratto questi titoli dai suoi libri preferiti.

            «Bene. Parola d'ordine?»

            Due rochi sussurri formularono la stessa terribile parola simultaneamente nella notte che incombeva:

            «Sangue!»

            Tom allora fece ruzzolare il prosciutto giù dal promontorio e lo seguì, stracciandosi pelle e abiti nell'impresa. C'era un sentiero facile e comodo lungo la riva sotto il promontorio, ma mancava dei vantaggi del pericolo e della difficoltà tanto apprezzati da un pirata.

            Il Terrore dei Mari aveva portato mezza pancetta, e si era quasi ammazzato di fatica per farla arrivare fin là. Finn la Mano Insanguinata aveva rubato una padella e un gran numero di foglie di tabacco conciate a metà, e aveva portato anche dei tutoli per farci delle pipe. Ma nessuno dei pirati fumava o «ciccava» tranne lui. Il Vendicatore Nero del Mar dei Caraibi disse che sarebbe stato un errore partire senza fuoco. Era un'idea saggia; a quei tempi i fiammiferi erano ancora quasi sconosciuti. Videro un fuoco che covava sotto la cenere sopra uno zatterone cento metri a monte e si avvicinarono di soppiatto per impadronirsi di un tizzone. Trasformarono quell'operazione in una grande avventura, dicendo ogni tanto: «Zitti!» e fermandosi di colpo con un dito sulle labbra; sfiorando con le mani immaginarie cocce di stiletti; e ordinando, in sussurri tenebrosi, che se «il nemico» avesse fatto un movimento si sarebbe dovuto «piantarglielo nella pancia fino all'elsa», perché «i morti non parlano». Sapevano benissimo che i barcaioli erano tutti giù in paese a far provviste o a prendersi una sbronza, ma non era motivo sufficiente per sbrigare la faccenda in un modo poco piratesco.

            Salparono, finalmente: Tom al comando, Huck al remo sinistro e Joe a quello di prua. Tom stava al centro della zattera, con la fronte aggrottata e le braccia conserte, e dava gli ordini con voce bassa e severa.

            «Orza, e stringi il vento!»

            «Sissignore!»

            «Via così!»

            «Via così, signore!»

            «Poggia di una quarta!»

            «Fatto, signore!»

            Mentre i ragazzi dirigevano fermamente e monotonamente la zattera verso il centro del fiume, era sottinteso che questi ordini venivano impartiti solo «per bellezza», e che non miravano a nulla di particolare.

            «Che vele porta?»

            «Maestra, gabbia e controfiocco, signore!»

            «Issa gli stralli! Sei coltellacci di trinchetto, forza! Muoversi, muoversi!»

            «Sissignore!»

            «Spiega quel velaccio di maestra! Bracci e scotte! Avanti, miei prodi!»

            «Sissignore!»

            «Barra sottovento... Vira a babordo! Pronti alla virata! Vira, vira! Forza, ragazzi! Di buona lena! Via così!»

            «Via così, signore!»

            La zattera superò il centro del fiume; i ragazzi l'orientarono secondo la corrente e poi tirarono su i remi. Il fiume non era in piena, perciò la corrente non superava le due o tre miglia. Nei tre quarti d'ora successivi nessuno parlò, o quasi. Poi la zattera cominciò a passare davanti al paese lontano. Due o tre luci baluginanti indicavano il luogo dove esso si trovava, serenamente addormentato, oltre l'ampia e cupa distesa d'acqua ingemmata dalle stelle, ignaro dell'eccezionale avvenimento che si stava svolgendo. Il Vendicatore Nero stava immobile con le braccia conserte, «contemplando per l'ultima volta» il teatro delle sue antiche gioie e dei suoi più recenti dolori, e desiderando che «lei» potesse vederlo, in quel momento, in balia del mare tempestoso, pronto ad affrontare con cuore indomito il pericolo e la morte, pronto a incontrare il suo destino con un amaro sorriso sulle labbra. Occorreva solo un piccolo sforzo d'immaginazione per spostare Jackson's Island in un luogo dove l'isola fosse invisibile dal paese, e così Tom «contemplò per l'ultima volta» la terra dei suoi avi col cuore spezzato ma contento. Anche gli altri pirati guardavano quella terra per l'ultima volta; e la guardarono anzi così a lungo da rischiare che la corrente li portasse lontano dall'isola. Ma si accorsero in tempo del pericolo e s'ingegnarono di eluderlo. Verso le due del mattino la zattera si arenò sulla barra dell'isola, duecento metri a monte, e i ragazzi fecero la spola nell'acqua bassa finché non ebbero sbarcato il loro carico. Tra il materiale in dotazione alla piccola zattera c'era una vecchia vela, che essi stesero come una tenda sopra un cantuccio tra i cespugli per riparare le provvigioni; quanto a loro, col tempo bello avrebbero dormito all'aria aperta, come si addiceva ai fuorilegge.

            Accesero un fuoco contro un grosso tronco nel buio della foresta, dopo esservisi inoltrati per venti o trenta passi, e poi fecero friggere in padella un po' di pancetta per cena, e mangiarono metà del pane di granturco che avevano portato. Era una cosa magnifica banchettare così, liberamente, nella foresta vergine di un'isola deserta e inesplorata, lontano dalle dimore degli uomini, e i tre giurarono di non tornare più alla civiltà. Le fiamme sempre più alte li illuminavano in viso e proiettavano la loro luce rossastra sui tronchi d'albero che erano le colonne del loro tempio nella foresta, e sulle foglie lucide e sui festoni delle piante rampicanti. Quando l'ultima croccante fettina di pancetta fu sparita, e l'ultima razione di pane divorata, i ragazzi si stesero sull'erba, soddisfatti. Avrebbero potuto trovare un posto più fresco, ma non volevano privarsi di un elemento così romantico come quel cocente fuoco di bivacco.

            «Non è bello?» disse Joe.

            «È fantastico», disse Tom.

            «Cosa direbbero i ragazzi se potessero vederci?»

            «Cosa direbbero? Be', darebbero l'anima per essere qui, eh, Hucky?»

            «Credo anch'io», disse Huckleberry; «in ogni caso sta bene a me. Io non chiedo di più. Non riesco mai neanche ad avere abbastanza da mangiare, di solito: e qui non possono venire a rompere le scatole e a fare tanto gli smargiassi.»

            «È proprio la vita che fa per me», disse Tom. «Non devi alzarti la mattina, e non devi andare a scuola, e lavarti, e tutto il resto. Vedi, Joe, un pirata non ha niente da fare, quando è a terra, ma un eremita deve pregare, e tanto, e poi non credo che se la spassi molto, così, sempre da solo.»

            «Oh sì, questo è vero», disse Joe, «ma non ci avevo pensato molto, sai. Preferisco di gran lunga fare il pirata, ora che ho provato.»

            «Vedi», disse Tom, «la gente, oggigiorno, non ha simpatia per gli eremiti come un tempo, mentre un pirata è sempre rispettato. E l'eremita deve dormire nel posto più scomodo che gli riesce di trovare, e vestirsi di tela di sacco e cospargersi il capo di cenere, e star fuori sotto la pioggia, e...»

            «Perché si veste di tela di sacco e si mette la cenere in testa?» chiese Huck.

            «Non so. Ma devono fare così. Gli eremiti lo fanno sempre. Anche tu dovresti farlo, se fossi un eremita.»

            «Mi venisse un accidente se lo farei», disse Huck.

            «Allora che faresti?»

            «Non lo so. Questo, però, non lo farei.»

            «Ma Huck, dovresti farlo. Come potresti evitarlo?»

            «Be', non lo sopporterei. Scapperei via.»

            «Scappare! Bella schiappa d'eremita che saresti. Faresti scandalo.»

            La Mano Insanguinata non rispose, avendo altro di meglio da fare. Aveva finito di svuotare un tutolo, e poi vi fissò il gambo cavo di una pianta, lo riempì di tabacco, premette un tizzone sul fornello ed emise una nube di fumo fragrante; era al colmo della felicità. Gli altri due pirati gli invidiavano questo vizio sontuoso, e nel segreto del loro animo decisero di prenderlo al più presto. Poco dopo Huck disse:

            «I pirati cosa devono fare?»

            Tom disse:

            «Oh, si divertono un mondo, loro: catturano vascelli e li danno alle fiamme, prendono i soldi e li seppelliscono nel posto più spaventoso della loro isola, dove ci sono spettri e roba simile per tenerli d'occhio, e ammazzano tutti i passeggeri: li fanno camminare su un'asse.»

            «E si portano le donne sull'isola», disse Joe; «non le ammazzano mica, le donne.»

            «No», assentì Tom, «le donne non le ammazzano: sono troppo nobili per farlo. E poi le donne sono sempre molto belle.»

            «E i vestiti che indossano? Accidenti! Tutti d'oro e d'argento e di diamanti», disse Joe con entusiasmo.

            «Chi?» disse Huck.

            «Come? I pirati.»

            Huck abbassò tristemente lo sguardo alla roba che indossava lui.

            «Non credo di essere vestito da pirata», disse, con un certo rimpianto nella voce; «ma non ho altro che questi.»

            Ma gli altri ragazzi gli spiegarono che i bei vestiti sarebbero arrivati appena avessero dato inizio alle loro avventure. Gli fecero capire che i suoi poveri stracci andavano benissimo, tanto per cominciare, anche se i pirati benestanti avevano l'abitudine di presentarsi, fin dal primo momento, con un guardaroba adeguato.

            A poco a poco la conversazione si spense e la sonnolenza cominciò ad appesantire le palpebre dei tre piccoli derelitti. La pipa cadde dalle dita della Mano Insanguinata, che dormì il sonno dei giusti e degli stanchi. Il Terrore dei Mari e il Vendicatore Nero del Mar dei Caraibi fecero più fatica ad addormentarsi. Recitarono le preghiere mentalmente, e coricati, poiché non c'era nessuno, lì, tanto autorevole da costringerli a inginocchiarsi e a recitarle ad alta voce; veramente loro avevano pensato di non recitarle affatto, ma esitavano a spingersi fino a quel punto, per paura di tirarsi sulla testa, all'improvviso, una speciale folgore dal cielo. Poi si trovarono tutto in una volta sull'orlo del sonno incombente: ma a un tratto arrivò un'intrusa che non voleva «togliersi dai piedi». Era la coscienza. Cominciarono a provare un vago timore di aver fatto male a scappar via; e subito dopo pensarono alla carne rubata, e allora cominciò il vero tormento. Cercarono di tacitare la coscienza ricordandole tutte le volte che avevano rubato mele e dolciumi; ma la coscienza non aveva nessuna intenzione di lasciarsi placare da così esili scuse. Parve loro, alla fine, che fosse impossibile eludere questa dura realtà: prendere dei dolci era solo «grattare», mentre prendere il prosciutto, la pancetta e altra merce di valore come questa era puro e semplice rubare; e nella Bibbia c'era un comandamento contro il furto. Perciò decisero mentalmente che, finché fossero rimasti nel ramo, le loro gesta piratesche avrebbero escluso il reato rappresentato dal furto. Solo allora la coscienza accordò loro una tregua, e questi pirati così stranamente incoerenti scivolarono serenamente nel sonno.

CAPITOLO XIV

            La mattina dopo, quando si svegliò, Tom non capì subito dov'era. Si mise a sedere, si fregò gli occhi e si guardò intorno; allora comprese. Era l'alba, fresca e grigia, e nella grande calma e nel profondo silenzio dei boschi c'era un senso delizioso di pace e di tranquillità. Non si muoveva una foglia; non un suono turbava le solenni meditazioni della Natura. Gocce di rugiada imperlavano l'erba e il fogliame. Il fuoco era coperto da uno strato di cenere bianca, e un fil di fumo azzurro e sottile saliva dritto in aria. Joe e Huck dormivano ancora. Poi, lontano, nei boschi, un uccello emise il suo richiamo; un altro rispose; e poco dopo si udì il martellare di un picchio. A poco a poco il fresco e vago grigiore del mattino sbiancò, e altrettanto gradualmente si moltiplicarono i suoni e la vita si manifestò. La meraviglia della Natura che si scuote il sonno di dosso e riprende il suo lavoro si spiegò davanti agli occhi del ragazzo pensieroso. Un piccolo bruco verde cominciò ad arrampicarsi su una foglia coperta di rugiada, sollevando nell'aria ogni tanto due terzi del suo corpo, per «fiutare il vento», e poi riprendendo ad avanzare, perché «stava misurando», diceva Tom; e quando il bruco gli si avvicinò spontaneamente, lui rimase immobile come un sasso, e le sue speranze crescevano e calavano a seconda che la creaturina continuasse a procedere nella sua direzione o paresse propensa a recarsi altrove; e quando finalmente rifletté, per un tempo interminabile, col corpicciolo inarcato nell'aria, e poi puntò deciso verso la gamba di Tom e cominciò a viaggiare sul suo corpo, il suo cuore esultò; perché questo voleva dire che avrebbe avuto un vestito nuovo: senz'ombra di dubbio, una sgargiante uniforme da pirata. Poi comparve una processione di formiche, sbucate da chissà dove, che cominciarono subito a darsi un gran daffare; una passò lottando eroicamente con un ragno morto cinque volte più grosso di lei, e riuscì addirittura a trascinarselo su per un tronco d'albero. Una coccinella coperta di macchie brune raggiunse l'altezza vertiginosa di un filo d'erba, e Tom si chinò su di lei e disse:

            Coccinella, coccinella, corri, vola,

            La casa brucia e la tua nidiata è sola

al che lei spiccò il volo e andò a vedere cosa stava succedendo: decisione che non sorprese il ragazzo, perché Tom sapeva da un pezzo che quest'insetto è un sempliciotto, e più di una volta si era approfittato della sua credulità. Venne poi uno scarabeo, spingendo energicamente la sua palla, e Tom toccò l'insetto per vederlo stringere al corpo le zampine e fingersi morto. Ormai gli uccelli facevano un baccano infernale. Un uccello gatto, il motteggiatore del nord, si posò su un albero sopra la testa di Tom e in un'estasi di gioia fece con i suoi trilli l'imitazione dei vicini; poi una stridula ghiandaia scese in picchiata, in un lampo di fiamme bluastre, e si fermò su un ramoscello quasi a portata di mano del ragazzo, inclinò la testa da un lato e studiò quegli intrusi con una curiosità divorante; uno scoiattolo grigio e un grosso animale che sembrava una volpe arrivarono insieme, di corsa, fermandosi a tratti per esaminare i ragazzi con uno squittio, perché quelle selvatiche bestiole non avevano probabilmente mai visto prima un essere umano, e a stento sapevano se aver paura o no. Ormai tutta la Natura era completamente sveglia e si stava alzando, lunghe lance di sole perforavano il bosco attraverso il fitto fogliame, vicino e lontano, ed entrarono in scena svolazzando anche delle farfalle.

            Tom svegliò gli altri pirati e tutti corsero via, rumorosamente, con un urlo, e in pochi istanti erano già svestiti e si stavano inseguendo e rotolavano l'uno addosso all'altro nell'acqua limpida e poco profonda della barra di sabbia bianca. Non provavano alcuna nostalgia per il piccolo villaggio che dormiva in lontananza oltre il maestoso deserto d'acqua. Una corrente vagante o un leggero innalzamento del livello del fiume aveva portato via la loro zattera, ma questo gli fece soltanto piacere, perché la scomparsa dell'imbarcazione equivaleva all'aver bruciato il ponte che ancora li univa alla civiltà.

            Tornarono al campo magnificamente rinfrescati, felici e affamati come lupi; e presto fecero di nuovo divampare il fuoco del bivacco. Huck trovò, lì vicino, una sorgente d'acqua limpida e fresca, e i ragazzi si fecero delle tazze con larghe foglie di quercia o di noce e scoprirono che l'acqua, addolcita dall'incanto di quel bosco, era un valido surrogato del caffè. Mentre Joe affettava la pancetta per la colazione, Tom e Huck gli chiesero di aspettare un momento; si diressero verso un cantuccio promettente lungo la riva del fiume e gettarono la lenza; la loro fatica fu ricompensata quasi subito. Joe non aveva ancora avuto il tempo di spazientirsi che erano di ritorno con qualche pesce persico, un paio di persici sole e un piccolo pesce gatto: provviste sufficienti per una famiglia numerosa. Fecero friggere il pesce con la pancetta e rimasero sbalorditi; perché non avevano mai mangiato un pesce così delizioso. Non sapevano che un pesce d'acqua dolce è tanto migliore quanto più rapidamente viene cotto dopo la cattura; e non avevano pensato molto al condimento che rappresentano il dormire all'aria aperta, il fare del moto, sempre all'aria aperta, il bagnarsi nel fiume, e quell'altro importante ingrediente che è la fame.

            Dopo colazione si distesero all'ombra, qua e là, mentre Huck faceva una fumatina, e poi andarono nei boschi per una spedizione esplorativa. Procedevano allegramente, sopra tronchi marciti, tra cespugli aggrovigliati, sotto solenni re della foresta ammantati dalla cupola alle radici di splendidi festoni di piante rampicanti. Ogni tanto sbucavano in qualche piccola radura tappezzata d'erba e ingioiellata di fiori.

            Trovarono un mucchio di cose di cui dilettarsi, ma nessuna che li lasciasse a bocca aperta. Scoprirono che l'isola era lunga quasi cinque chilometri e larga meno di cinquecento metri, e che tra l'isola e la riva più vicina c'era solo uno stretto canale largo appena duecento metri. Ogni ora, o quasi, facevano il bagno, per cui non tornarono al campo che verso la metà del pomeriggio. Erano troppo affamati per mettersi a pescare, ma fecero una gran mangiata di prosciutto, e poi si distesero all'ombra a chiacchierare. Presto però le chiacchiere cominciarono a diradarsi, e poi si spensero. Il silenzio e la solennità che regnavano nel bosco, e il senso di solitudine, cominciavano a pesare sullo spirito dei ragazzi. Si misero a pensare. S'insinuò dentro di loro una sorta di vaga nostalgia che di lì a poco prese una forma più precisa: erano i primi sintomi della nostalgia di casa. Persino Finn la Mano Insanguinata pensava ai suoi gradini e alle sue botti vuote. Ma si vergognavano tutti della loro debolezza, e nessuno era tanto coraggioso da dire quello che gli passava per la testa.

            I ragazzi, già da qualche tempo, avevano notato vagamente un suono singolare in lontananza, proprio come si avverte, certe volte, il ticchettio di un orologio cui non s'è fatto caso. Ma ora questo suono misterioso diventava più distinto, ed esigeva di farsi riconoscere. I ragazzi trasalirono, si scambiarono un'occhiata, e poi ciascuno prese l'atteggiamento di chi ascolta intensamente. Vi fu un lungo silenzio, profondo e ininterrotto; poi da lontano planò fino a loro un rombo cupo e imbronciato.

            «Cos'è?» esclamò Joe, sottovoce.

            «Non so», disse Tom in un sussurro.

            «Non è il tuono», disse Huckleberry, intimidito, «perché il tuono...»

            «Ascolta!» disse Tom; «senti: non parlare.»

            Attesero per un tempo che sembrava un secolo, e poi lo stesso rombo soffocato tornò a turbare il silenzio solenne.

            «Andiamo a vedere.»

            Scattarono in piedi e corsero alla riva da cui era visibile il paese. Divisero i cespugli sulla duna e aguzzarono lo sguardo in quella direzione. Il traghetto a vapore era un paio di chilometri a valle del villaggio e procedeva col favore della corrente. L'ampia coperta sembrava gremita di gente. C'erano tantissime barche a remi che passavano, o che si lasciavano trasportare dalla corrente, nei pressi del traghetto, ma i ragazzi non riuscivano a determinare cosa stesse facendo la gente che c'era sopra. Poco dopo un grosso getto di fumo bianco scaturì dalla fiancata del traghetto, e mentre si allargava e saliva formando una nuvola pigra, all'orecchio dei ragazzi in ascolto giunse la stessa cupa pulsazione sonora di prima.

            «Ci sono!» esclamò Tom; «è annegato qualcuno!»

            «Giusto», disse Huck; «hanno fatto la stessa cosa l'estate scorsa, quando è annegato Bill Turner; sparano un cannone sopra l'acqua, così lui viene a galla. Sì, e poi pigliano delle pagnotte e ci mettono dell'argento vivo e le fanno galleggiare, e dove c'è qualcuno che è affogato, quelle galleggiano fin lì e si fermano.»

            «Sì, ne ho sentito parlare», disse Joe. «Chissà perché il pane fa così.»

            «Oh, non è tanto il pane», disse Tom; «io credo che dipenda soprattutto dalle parole che dicono sul pane prima di buttarlo in acqua.»

            «Ma non dicono niente, sul pane», disse Huck. «Io li ho visti, e non dicono niente.»

            «Toh, questa è bella», disse Tom. «Ma forse lo dicono tra loro. È naturale che sia così. Altrimenti lo saprebbero tutti.»

            Gli altri ammisero che c'era del vero in quello che diceva Tom, perché da un tozzo di pane ignorante, privo delle istruzioni contenute in un incantesimo, non si poteva pretendere che agisse con molta intelligenza, una volta ricevuto un incarico di tale gravità.

            «Acciderba, vorrei essere là», disse Joe.

            «Anch'io», disse Huck. «Cosa non darei per sapere chi è.»

            I ragazzi continuarono a guardare e a tendere l'orecchio. Finalmente un pensiero rivelatore balenò nella mente di Tom, che disse:

            «Ragazzi, ho capito chi è annegato: noi!»

            In un lampo si sentirono degli eroi. Ecco un magnifico trionfo; sentivano la loro mancanza; piangevano la loro perdita; c'erano dei cuori che si spezzavano per causa loro; lacrime che venivano versate; tornavano ricordi accusatori di sgarberie commesse ai danni di quei poveri ragazzi scomparsi, e rimorsi e inutili rimpianti; e, ciò che più contava, gli scomparsi erano sulla bocca di tutti, e non c'era ragazzo che non li invidiasse, nella notorietà alla quale erano improvvisamente assurti. Bello. Valeva la pena di fare il pirata, dopo tutto.

            Quando venne il tramonto, il traghetto tornò al solito lavoro e le barche se ne andarono. I pirati tornarono al campo. La loro nuova fama e le noie che con la loro scomparsa stavano dando a tutti li avevano resi più spacconi e smargiassi di prima. Pescarono, prepararono la cena e la consumarono, e poi si misero a fare congetture su quello che la gente poteva pensare e dire di loro in paese; e le scene che evocavano, d'angoscia e di dolore, erano molto gradevoli, dal loro punto di vista. Ma quando le ombre della notte calarono su di loro, a poco a poco smisero di parlare e rimasero là seduti con lo sguardo fisso al fuoco, e con la mente che se ne andava chissà dove. L'entusiasmo, ormai, era sparito, e Tom e Joe non potevano far a meno di pensare a certe persone che, a casa, non si stavano godendo come loro questa magnifica monelleria. Nascevano le prime apprensioni; i due ragazzi cominciavano a sentirsi turbati e infelici; inavvertitamente, sfuggì loro qualche sospiro. Di lì a poco Joe azzardò una timida domanda: cosa pensavano, gli altri, di un eventuale ritorno alla civiltà? Non subito, ma...

            Tom lo gelò col suo disprezzo. Huck, che era ancora indipendente, prese le parti di Tom, e il dubbioso prontamente «si spiegò» e fu ben lieto di potersela cavare con la reputazione quasi intatta; la macchiava solo un'ombra piccolissima di sospetto: il sospetto che la nostalgia di casa avesse fatto di lui un pusillanime. Intanto, tuttavia, l'ammutinamento era stato domato.

            Via via che s'infittivano le tenebre, Huck cominciò a ciondolare la testa, e poco dopo a russare; Joe lo seguì quasi subito. Tom giacque immobile per un certo tempo, appoggiandosi a un gomito e guardando intensamente i due. Alla fine si rizzò cautamente sulle ginocchia e andò a frugare tra l'erba e i baluginanti raggi di luce proiettati dal fuoco di bivacco. Raccolse e ispezionò diversi pezzi di scorza di sicomoro, che formavano dei mezzi cilindri bianchi e sottili, e finalmente ne scelse due che sembravano fare al caso suo. Allora s'inginocchiò davanti al fuoco e scrisse faticosamente qualche cosa su ciascuno dei due pezzi di corteccia col suo mozzicone di matita rossa; uno lo arrotolò e se lo mise nella tasca della giacca, e l'altro lo depose nel cappello di Joe, che piazzò a breve distanza dal suo proprietario. Mise nel cappello anche certi tesori infantili di quasi inestimabile valore, tra i quali un pezzo di gesso, una palla di caucciù, tre ami da pesca e una di quelle biglie che venivano chiamate dai bambini «boccino di sassetto». Poi, in punta di piedi, si allontanò cautamente tra gli alberi finché non ebbe la certezza che nessuno potesse più udirlo, e allora si mise a correre di buona lena in linea retta verso la barra di sabbia.

CAPITOLO XV

            Pochi minuti dopo Tom era nell'acqua bassa della secca, e procedeva, a guado, verso la costa dell'Illinois. Prima che l'acqua gli arrivasse alla vita era già oltre la metà: lì la corrente non gli permetteva più di camminare, e allora Tom si accinse fiducioso a coprire gli ultimi cento metri a nuoto. Nuotava controcorrente, in diagonale, eppure venne trascinato a valle molto più in fretta di quanto avesse immaginato. Comunque, alla fine raggiunse la riva, e si lasciò portare dalla corrente fino a quando toccò terra e uscì dall'acqua. Si mise la mano sulla tasca della giacca, trovò che il pezzo di corteccia era sano e salvo, e poi prese per i boschi, seguendo la riva coi vestiti gocciolanti. Poco prima delle dieci sbucò in uno spiazzo di fronte al paese e vide il traghetto fermo all'ombra degli alberi e dell'argine. Sotto le stelle ammiccanti tutto taceva. Tom scese dall'argine, badando a dove metteva i piedi, si lasciò scivolare in acqua, fece tre o quattro bracciate a nuoto e salì sulla barca che fungeva da «scialuppa» a poppa del battello. Si distese sotto i banchi e aspettò, col fiato grosso. Poco dopo la campana incrinata squillò, e una voce diede l'ordine di «mollare». Ancora un paio di minuti, e la prua della barca s'impennò nella scia del traghetto che la precedeva: il viaggio era cominciato. Tom era felice del suo successo, perché sapeva che quella era l'ultima traversata del battello prima di notte. Dopo quattordici o quindici minuti - un tempo che gli parve molto lungo - le ruote si fermarono e Tom si lasciò scivolare fuoribordo e nuotò fino a riva, nell'ombra, toccando terra cinquanta metri a valle, dove non correva il rischio d'imbattersi in qualche ritardatario. Corse per stradine poco frequentate, e in breve si trovò davanti allo steccato posteriore della casa di sua zia. Lo scavalcò, si avvicinò alla «elle» e guardò dentro dalla finestra del soggiorno, perché vi splendeva una luce. Vi sedevano zia Polly, Sid, Mary e la madre di Joe Harper, in gruppo, a conversare. Erano accanto al letto, e il letto si trovava tra loro e la porta. Tom andò alla porta e cominciò a sollevare dolcemente il chiavistello; poi spinse piano piano e la porta cedette; continuò a spingere cautamente, tremando ogni volta che mandava un cigolio, finché non gli parve di potervi passare, ginocchioni; allora mise dentro la testa e cominciò a strisciare, con prudenza.

            «Cos'è che fa oscillare la fiamma della candela?» disse zia Polly. Tom affrettò l'andatura. «Diamine, quella porta è aperta, credo. Ma certo. Le stranezze non finiscono mai. Valla a chiudere, Sid.»

            Tom sparì sotto il letto appena in tempo. Rimase là disteso per un po', a riprender fiato, e poi sempre strisciando si avvicinò fin quasi a toccare il piede di sua zia.

            «Ma come stavamo dicendo», disse zia Polly, «non era cattivo, per così dire, solo birichino. Solo sventato, e imprudente, capisce? Non era più responsabile di un puledro. Non ha mai avuto cattive intenzioni, ed era il ragazzo più generoso che fosse mai esistito...» E scoppiò in pianto.

            «Era proprio la stessa cosa col mio Joe: sempre pieno delle sue diavolerie, e pronto a fare qualunque birichinata, ma buono e generoso come se ne trovano pochi; e pensare - il Signore mi perdoni - che l'ho picchiato per aver preso quella panna, senza ricordarmi una sola volta che l'avevo buttata via perché era acida; e non vederlo mai più a questo mondo, mai, mai, mai, povero bambino maltrattato!» E la signora Harper singhiozzava come se le si volesse spezzare il cuore.

            «Spero che Tom stia meglio dov'è adesso», disse Sid; «ma se a volte fosse stato più obbediente...»

            «Sid!» Tom sentì il peso dell'occhiata della vecchia signora, anche se non poteva vederla. «Non una parola contro il mio Tom, ora che se n'è andato! Dio avrà cura di lui: non è il caso che te ne preoccupi tu, bel tomo. Oh, signora Harper, non so come rassegnarmi alla sua perdita, non so come rassegnarmi! Era un tale conforto, per me, anche se certe volte mi faceva scoppiare il cuore, quasi.»

            «Il Signore dà, il Signore toglie. Sia benedetto il nome del Signore! Ma com'è dura, oh, com'è dura! Solo sabato scorso il mio Joe mi ha fatto esplodere un petardo sotto il naso, e io con una sberla l'ho mandato a gambe levate. Mica sapevo, allora, che presto... Oh, se dovesse rifarlo, lo abbraccerei e lo ringrazierei per questo.»

            «Sì, sì, sì, capisco bene ciò che prova, signora Harper, capisco molto bene ciò che prova. Non più tardi di ieri pomeriggio il mio Tom ha riempito il gatto di Ammazzadolore, e io credevo che quella bestia mi buttasse giù la casa. E, Dio mi perdoni, ho dato a Tom uno scappellotto col ditale, povero ragazzo, povera creatura che non c'è più. Ma ormai ha finito di soffrire. E le ultime parole che gli ho sentito dire erano di biasimo...»

            Ma questo ricordo era troppo penoso per la vecchia signora, che si accasciò. Anche Tom si era messo a tirare su col naso: più per autocommiserazione che per altro. Sentiva Mary che piangeva, e che di tanto in tanto intercalava una parola buona su di lui. Tom cominciava ad avere di se stesso un'opinione più elevata di prima. Tuttavia era abbastanza commosso dal dolore di sua zia per provare il desiderio di saltar fuori da sotto il letto e farla morire di gioia: e la teatralità del gesto ben si confaceva alla sua natura, ma il ragazzo resistette e restò immobile. Continuando ad ascoltare, dai brandelli della conversazione riuscì a capire che in principio si era congetturato che i ragazzi fossero morti annegati mentre facevano il bagno; poi qualcuno si era accorto che mancava la piccola zattera; poi certi monelli avevano detto che i ragazzi scomparsi avevano promesso che presto in paese se ne sarebbero sentite «delle belle»; e i più dritti avevano «fatto due più due» e deciso che i ragazzi se l'erano svignata con la zattera, e che dopo un po' di tempo sarebbero riemersi in qualche cittadina lungo il corso del fiume, più a valle; ma verso mezzogiorno la zattera era stata rintracciata, arenata sulla sponda del Missouri otto o dieci chilometri a valle, e allora ogni speranza era venuta meno; dovevano essere annegati, altrimenti la fame li avrebbe fatti tornare a casa al cader della notte, se non prima. Si riteneva che la ricerca dei corpi fosse stata un tentativo infruttuoso solo perché l'annegamento doveva essere avvenuto in mezzo al fiume, dal momento che i ragazzi, essendo dei buoni nuotatori, avrebbero altrimenti raggiunto la riva. Questo era stato mercoledì sera. Se i corpi non fossero saltati fuori entro la domenica, si sarebbe abbandonata ogni speranza, e quel mattino avrebbe avuto luogo il servizio funebre. Tom rabbrividì.

            La signora Harper augurò agli altri una singhiozzante buonanotte e voltò le spalle per andarsene. Allora, mosse da un reciproco impulso, le due donne afflitte si gettarono l'una nelle braccia dell'altra per farsi un bel pianto consolatorio, e si divisero. Zia Polly fu molto più tenera del solito nel dare la buonanotte a Sid e a Mary. Sid tirava un pochino su col naso, e Mary se ne andò piangendo come una fontana.

            Zia Polly si mise in ginocchio e pregò per Tom in un modo così fervido e toccante, e con un amore così smisurato nelle parole e nella vecchia voce tremula, che il ragazzo piangeva nuovamente a calde lacrime molto prima che lei avesse finito.

            Dovette starsene immobile per un pezzo, dopo che zia Polly se ne fu andata a letto, perché la donna continuava di tanto in tanto a lanciare esclamazioni di sconforto, e a girarsi e rigirarsi nel letto. Ma finalmente restò immobile anche lei, gemendo appena sommessamente nel sonno. Allora il ragazzo uscì furtivamente, si drizzò a poco a poco accanto al letto, schermò la candela con la mano e si fermò a guardarla. Il suo cuore era pieno di compassione per lei. Estrasse il suo papiro di sicomoro e lo depose vicino alla candela. Ma a un tratto ebbe un'idea, e rimase lì a pensarci. La brillante soluzione ispiratagli da quell'idea lo illuminò in viso; Tom mise in fretta la corteccia in tasca, poi si chinò a baciare quelle labbra scolorite e fece subito la sua uscita furtiva, chiudendosi la porta alle spalle.

            Tornò all'imbarcadero, non vi trovò nessuno, e salì audacemente sul battello, perché sapeva che a bordo c'era solo un guardiano che a una cert'ora se ne andava a letto e dormiva come un ghiro. Slegò la barca a poppa, vi si lasciò scivolare dentro, e poco dopo stava remando cautamente controcorrente. Quando fu quasi due chilometri a monte del paese, cominciò la traversata, in diagonale, remando con tutta la sua forza. Toccò terra giusto giusto all'altezza dell'imbarcadero sull'altra sponda, perché quello era un lavoro che conosceva bene. Per un attimo provò la tentazione d'impadronirsi della barca, dicendosi che poteva essere considerato un vascello e perciò una preda legittima per un pirata; ma sapeva che l'avrebbero cercata dappertutto, e che una battuta del genere avrebbe potuto concludersi con altre rivelazioni. Allora saltò sulla riva e si addentrò nel bosco. Si sedette e riposò a lungo, sforzandosi in tutti i modi di star sveglio, e poi iniziò stancamente l'ultimo tratto del viaggio. La notte era quasi alla fine. Quando si trovò alla stessa altezza del banco di sabbia dell'isola era giorno fatto. Si riposò di nuovo finché non spuntò il sole, indorando il grande fiume col suo splendore, e poi si tuffò nella corrente. Poco dopo si fermava, gocciolante, alle soglie dell'accampamento e sentì Joe che diceva:

            «No, Tom è leale, Huck, e tornerà. Non diserterà. Sa che sarebbe un'onta per un pirata, e Tom è troppo orgoglioso per fare una cosa simile. Starà macchinando qualcosa. Ma cosa?, mi domando.»

            «Be', ad ogni modo la roba è nostra, no?»

            «Quasi, ma non ancora Huck. Il messaggio dice che lo diventerà se non sarà tornato prima di colazione.»

            «Cosa che ho fatto!» esclamò Tom, con uno splendido effetto teatrale, facendo il suo solenne ingresso nell'accampamento.

            Di lì a poco s'imbandì una sontuosa colazione a base di pesce e pancetta, e mentre i ragazzi si accingevano a divorarla Tom raccontò (con tutti gli abbellimenti necessari) le sue avventure. Quando la storia finì, erano un pugno di eroi vanesi e tracotanti. Poi Tom si nascose in un cantuccio, all'ombra, per dormire fino a mezzogiorno, e gli altri pirati si prepararono a pescare e a proseguire le loro esplorazioni.

CAPITOLO XVI

            Dopo pranzo tutta la banda andò a caccia di uova di tartaruga sulla barra. Giravano qua e là conficcando uno stecco nella sabbia, e quando scoprivano che affondava facilmente si mettevano in ginocchio e scavavano con le mani. A volte, da un solo buco, toglievano anche cinquanta o sessanta uova. Erano degli oggetti bianchi, perfettamente rotondi, un po' più piccoli di una noce. Quella sera banchettarono con una grandiosa frittata, e ne fecero un'altra il venerdì mattina. Dopo colazione raggiunsero la barra, urlando e saltando, e si rincorsero spogliandosi via via, finché non rimasero nudi, e poi continuarono a giocare nell'acqua bassa della barra, più lontano, contro la gagliardia della corrente, che ogni tanto gli faceva lo sgambetto, aumentando notevolmente lo spasso. E ogni tanto si raggruppavano per spruzzarsi l'acqua in faccia col palmo delle mani, accostandosi a poco a poco con la faccia girata, per schivare gli schizzi, e venendo infine alle mani e lottando finché il più forte non riusciva a cacciare sott'acqua il suo vicino, e poi s'immergevano tutti, in un groviglio di gambe e braccia bianche, e venivano a galla, contemporaneamente, soffiando, tossendo, ridendo e boccheggiando per riprender fiato.

            Quando si sentivano spompati, uscivano di corsa e si gettavano sulla spiaggia calda e asciutta, e restavano là distesi a coprirsi di sabbia, e ogni tanto si alzavano per fare un altro tuffo e tornare alle solite prodezze. Finalmente qualcuno trovò che la loro pelle nuda somigliava moltissimo a una calzamaglia color carne; allora tracciarono un cerchio nella sabbia ed ecco il circo: con tre pagliacci in pista, perché nessuno voleva cedere all'altro questo posto gloriosissimo.

            Presero poi le biglie e giocarono a «pista», a «buca» e a «cicca», finché il divertimento perse la sua attrattiva. Allora Joe e Huck fecero un altro bagno, ma Tom non volle rischiare, perché aveva scoperto che togliendosi i calzoni si era sfilato dalla caviglia il suo braccialetto di sonagli di crotalo, e si chiedeva come avesse fatto a sfuggire per tanto tempo ai crampi senza la protezione di quel misterioso amuleto. Non osò entrare in acqua finché non l'ebbe trovato, e allora gli altri erano stanchi e pronti al riposo. Piano piano s'isolarono, si «buttarono giù», e si misero a contemplare nostalgicamente, sull'altra riva del larghissimo fiume, la zona in cui il villaggio sonnecchiava al sole. Tom si sorprese a scrivere «Becky» con l'alluce nella sabbia; lo cancellò e se la prese con se stesso per la propria debolezza. Ma, malgrado questo, lo scrisse di nuovo; non poteva farne a meno. Lo cancellò ancora una volta, e poi si sottrasse alla tentazione radunando gli altri ragazzi e unendosi a loro.

            Ma l'allegria di Joe pareva morta e sepolta. La nostalgia di casa era diventata così forte che il ragazzo sembrava incapace di sopportarne l'infelicità. Aveva le lacrime agli occhi. Anche Huck era malinconico. Tom era giù di corda, ma faceva di tutto per non darlo a vedere. Aveva un segreto che non era ancora pronto a confidare, ma se non si fosse fatto subito qualcosa per vincere questa sediziosa depressione, avrebbe dovuto ricorrervi. Fingendosi allegrissimo, disse:

            «Ragazzi, scommetto che su quest'isola ci sono già stati dei pirati. La esploreremo di nuovo. Hanno nascosto dei tesori, qui, chissà dove. Come vi sentireste a inciampare in uno scrigno tarlato pieno d'oro e d'argento, eh?»

            Ma la proposta suscitò pochi entusiasmi, che svanirono senza commenti. Tom tentò qualche altra seduzione; ma anche questo fallì. Era un lavoro scoraggiante. Joe, seduto, punzecchiava la sabbia con uno stecco, e aveva un'aria molto cupa. Finalmente disse:

            «Oh, ragazzi, lasciamo perdere. Io voglio andare a casa. È così solitario, questo posto.»

            «Oh, no, Joe, tra poco ti sentirai meglio», disse Tom. «Pensa solo al pesce che c'è qui.»

            «Me ne infischio, del pesce. Voglio andare a casa.»

            «Ma, Joe, non c'è un altro posto per nuotare come questo.»

            «Non ho più voglia di nuotare; non mi piace, quando non c'è nessuno in giro a dirmi che non devo fare il bagno. Voglio andare a casa.»

            «Oh, uffa! Moccioso! Avrai voglia di vedere tua madre, immagino.»

            «Sì, ho voglia di vedere mia madre, e anche tu ce l'avresti, se l'avessi. E non sono più moccioso di te.» E Joe tirò un po' su col naso.

            «Be', lasciamo che il piagnucolone vada a casa dalla mamma, eh, Huck? Poverino: vuol vedere sua madre? E così sia. A te piace questo posto, vero, Huck? Noi restiamo, no?»

            Huck disse: «Sssì...», senza il minimo entusiasmo.

            «Non ti rivolgerò più la parola finché campo», disse Joe, alzandosi in piedi. «Ecco!» E, imbronciato, si allontanò e cominciò a vestirsi.

            «Chi se ne frega?» disse Tom. «Nessuno ci tiene. Va' pure a casa a farti rider dietro. Oh, bel pirata che sei. Huck e io non siamo dei piagnucoloni. Noi resteremo qui, vero, Huck? Lasciamolo andare, se vuole. Credo che riusciremo a tirare avanti senza di lui. No?»

            Ciò nonostante Tom era un po' inquieto, e notava con una certa preoccupazione che Joe continuava cupamente a vestirsi. E poi era sconfortante vedere con quale invidia Huck assistesse ai preparativi di Joe, in un silenzio così minaccioso. Finalmente, senza una parola di saluto, Joe cominciò a guadare il canale che li separava dalla costa dell'Illinois. Tom aveva il cuore nei calcagni. Lanciò un'occhiata a Huck. Huck non la sostenne e abbassò lo sguardo. Poi disse:

            «Anch'io voglio andar via, Tom; già cominciavo a sentire la solitudine, e ora sarà peggio. Andiamo via anche noi, Tom.»

            «Io no; voi due potete andarvene, se volete. Io voglio restare.»

            «Sarà meglio che io me ne vada, Tom.»

            «Be', allora vattene: chi te lo impedisce?»

            Huck cominciò a raccattare i suoi indumenti sparsi qua e là. Disse:   «Tom, vorrei che venissi anche tu. Pensaci. Ti aspetteremo, quando saremo di là.»

            «Be', aspetterete un pezzo, tutto qui.»

            Huck cominciò ad allontanarsi, addolorato, e Tom lo seguì con lo sguardo, mentre il cuore gli si apriva a un forte desiderio di vincere il proprio orgoglio e andare con loro. Sperava che i ragazzi si fermassero, ma loro continuavano a guadare lentamente il canale. Tutt'a un tratto Tom si accorse che l'isola era diventata solitaria e silenziosa. Ingaggiò un'ultima lotta col suo orgoglio, e poi partì all'inseguimento dei compagni, urlando:

            «Aspettate! Aspettate! Devo dirvi una cosa!»

            Quelli allora si fermarono e si voltarono indietro. Quando li ebbe raggiunti, Tom cominciò a svelare il suo segreto, e loro lo ascoltarono imbronciati finché non videro dove voleva andare a parare, e allora sbottarono in un grido di guerra di entusiasmo e di approvazione e dissero che era «splendido» e che, se Tom gliel'avesse detto prima, non sarebbero andati via. Lui trovò una scusa plausibile; ma il suo vero motivo era stato il timore che nemmeno quel segreto avrebbe impedito loro di andarsene; per questo lo aveva tenuto di riserva come estrema risorsa.

            I ragazzi tornarono indietro allegramente e ripresero di buona lena i loro giochi, chiacchierando senza posa del fantastico piano di Tom e ammirandone la genialità. Dopo una cena squisita di uova e di pesce, Tom disse che ora voleva imparare a fumare. Joe gradì l'idea, e disse che anche a lui sarebbe piaciuto provare. Così Huck fece delle pipe e le riempì. Questi novizi non avevano mai fumato altro che sigari di foglie di vite, che «mordevano» la lingua e, comunque, non erano considerati roba da uomini.

            Poi si sdraiarono, appoggiandosi ai gomiti, e cominciarono ad aspirare con prudenza, e con poca fiducia. Il fumo aveva un sapore sgradevole, che provocò qualche conato di vomito, ma Tom disse:

            «Accipicchia, è facilissimo! Se avessi saputo che era tutto qui, avrei imparato da un pezzo.»

            «Anch'io», disse Joe. «È una cosa da niente.»

            «Cavolo, quante volte ho guardato la gente che fumava e mi son detto: be', vorrei saperlo fare anch'io; ma non avrei mai pensato di esserne capace», disse Tom. «Io sono proprio fatto così, no, Huck? Tu mi hai sentito parlare così, no, Huck? Dillo tu, Huck, se non è vero.»

            «Sì, un mucchio di volte», disse Huck.

            «Be', anch'io», disse Tom; «oh, centinaia di volte. Una volta laggiù vicino al mattatoio. Non ti ricordi, Huck? C'era Bob Tanner, e Johnny Miller, e Jeff Thatcher, quando l'ho detto. Non ti ricordi, Huck, quando l'ho detto?»

            «Sì, è vero», disse Huck. «È stato il giorno dopo che persi una biglia super bianca... No, è stato il giorno prima!»

            «Ecco, te l'avevo detto», disse Tom. «Huck se lo ricorda.»

            «Io credo che potrei fumare questa pipa tutto il giorno» disse Joe. «Non ho mica la nausea.»

            «Neanch'io», disse Tom. «Io potrei fumarla tutto il giorno, ma sono pronto a scommettere con voi che Jeff Thatcher non ce la farebbe.»

            «Jeff Thatcher! Ma come, andrebbe a gambe levate dopo due boccate. Che ci provi una volta sola, e vedrà!»

            «Sicuro, e anche Johnny Miller... Vorrei vedere Johnny Miller che ci prova, una volta sola.»

            «E io no?» disse Joe. «Cavolo, scommetto che Johnny Miller non ce la farebbe mai. Solo una boccata e andrebbe in coma.»

            «Proprio così, Joe. Di'... Vorrei che i ragazzi ci vedessero in questo momento.»

            «Anch'io!»

            «Sentite, ragazzi, non dite niente a nessuno, e una volta, quando verranno lì a dirti: "Joe, hai una pipa? Ho voglia di fumare!", tu gli dirai, con aria indifferente, come se fosse una cosa da nulla, gli dirai: "Sì. Ho la mia vecchia pipa, e ne ho anche un'altra, ma è il tabacco che non è tanto buono." E io dirò: "Oh, quello va bene, se è abbastanza forte." E allora tu tirerai fuori le pipe, e noi le accenderemo, calmi calmi, e poi vedremo che faccia faranno!»

            «Accidenti, sarà un bello spasso, Tom; vorrei poterlo fare subito!»

            «Anch'io! E quando gli diremo che abbiamo imparato facendo i pirati, come vorranno essere stati con noi!»

            «Oh, altroché! Ci scommetto l'osso del collo!»

            Così proseguiva la conversazione; ma dopo un certo tempo cominciò a ristagnare un tantino, e a diventare sempre più sconnessa. I silenzi si allungarono; le espettorazioni crebbero a dismisura. Ogni poro nella bocca dei ragazzi divenne una fonte zampillante; non riuscivano a svuotare le cantine sotto la lingua abbastanza in fretta per impedire un'inondazione; qualcosa, ogni tanto, gli tracimava in gola, per quanti sforzi facessero, e ogni volta ne seguivano improvvisi conati di vomito. Ormai i due ragazzi erano pallidissimi e abbattuti. La pipa di Joe cadde dalle sue dita inerti. Quella di Tom fece la stessa fine. Le due fontane andavano a tutto spiano, imitate dalle pompe. Joe disse con voce flebile:

            «Ho perso il coltello. Sarà meglio che vada a cercarlo.»

            Tom disse, con labbra tremanti e favella esitante:

            «Ti aiuto. Tu va' da quella parte, e io cerco intorno alla sorgente. No, non occorre che tu venga, Huck... Lo troviamo da soli.»

            Così Huck tornò a sedersi e attese un'ora. Poi si sentì un po' solo e andò a cercarli. Erano nel bosco, ben distanti l'uno dall'altro, pallidissimi entrambi, entrambi addormentati. Ma qualcosa gli disse che, se avevano avuto dei fastidi, se n'erano liberati.

            A cena, quella sera, non furono molto loquaci; avevano un'aria mogia; e quando Huck preparò la sua pipa dopo il pasto, e stava per preparare le loro, dissero di no, che non si sentivano tanto bene: qualcosa che avevano mangiato a cena gli era rimasto sullo stomaco.

CAPITOLO XVII

            Verso mezzanotte Joe si svegliò e chiamò i ragazzi. Nell'aria c'era un senso di oppressione che non sembrava promettere nulla di buono. I ragazzi si strinsero l'un l'altro e cercarono l'amichevole compagnia del fuoco, anche se il caldo umido e fastidioso dell'atmosfera senza un alito di vento era soffocante. Rimasero là seduti, immobili, assorti e in attesa. Oltre il cerchio di luce del falò, ogni cosa veniva inghiottita dall'inchiostro delle tenebre. Poco dopo brillò un tremulo chiarore che per un attimo rivelò vagamente il fogliame e scomparve. Ancora un attimo e se ne mostrò un altro, un po' più forte. Poi un altro. Poi un fievole lamento passò come un sospiro tra i rami della foresta, e i ragazzi sentirono un respiro fugace sulle gote e rabbrividirono all'idea che lo Spirito della Notte fosse passato di lì. Ci fu una pausa. Poi uno strano lampo mutò la notte in giorno e mostrò, separato e distinto, anche il più esile filo dell'erba che cresceva ai loro piedi. E mostrò anche tre facce pallide e smarrite. Un cupo rombo di tuono scosse la volta celeste e si perse in lontananza tra ingrugnati brontolii. Passò un soffio d'aria gelida, facendo stormire tutte le foglie e sollevando la cenere fioccosa sparsa intorno al fuoco. Un altro bagliore accecante rischiarò la foresta, seguito istantaneamente da uno schianto che parve stracciare le chiome degli alberi proprio sopra la testa dei ragazzi. Nella tenebra che pronta sopraggiunse, i tre si strinsero in un abbraccio terrorizzato. Alcune grosse gocce di pioggia caddero ticchettando sulle foglie.

            «Presto, ragazzi, sotto la tenda!» esclamò Tom.

            Corsero via, inciampando nelle radici e tra le piante rampicanti, nel buio, sparpagliandosi in tutte le direzioni. Un vento furioso mugghiava tra gli alberi, facendo fischiare ogni cosa al suo passaggio. Il cielo era illuminato da un lampo accecante dopo l'altro, e percorso da un rombo dopo l'altro di tuoni assordanti. Poi cominciò a cadere una pioggia scrosciante, che l'uragano, nella sua corsa, spingeva davanti a sé in fitte cortine che spazzavano il suolo. I ragazzi si chiamavano ad alta voce, ma il rumore del vento e i boati del tuono coprivano totalmente le loro voci. Finalmente, tuttavia, a uno a uno riuscirono a trovare la strada, e a rifugiarsi sotto la tenda, infreddoliti, pieni di spavento e bagnati fino al midollo; ma essere insieme nell'infelicità sembrava pur sempre una cosa di cui ringraziare il cielo. Non potevano parlare, tanto furiosamente sbatteva la vecchia vela, anche se gli altri rumori gliel'avrebbero permesso. La tempesta infuriava sempre più, e poco dopo la vela si strappò dai suoi legacci e, svolazzante, fu portata via dal vento. I ragazzi si presero per mano e corsero, con molti ruzzoloni e altrettante ammaccature, al riparo di una grossa quercia che sorgeva sulla riva del fiume. A questo punto la battaglia era al colmo. Sotto le incessanti conflagrazioni di lampi che incendiavano i cieli, ogni cosa si stagliava in tutta la sua nitida e solare precisione: gli alberi incurvati, il fiume ondoso bianco di schiuma, la spuma che il vento staccava dalla cresta dei marosi, i vaghi contorni degli alti promontori sull'altra riva, intravisti tra le nuvole basse e sfilacciate e le oblique cortine di pioggia. Ogni tanto qualche albero gigantesco cedeva alla furia degli elementi e si abbatteva con uno schianto tra i cespugli; e i continui scoppi di tuono ora giungevano in raffiche esplosive e assordanti, forti e netti, e indicibilmente spaventosi. La bufera culminò in uno sforzo ineguagliabile che per un attimo parve sul punto di mandare l'isola in frantumi, bruciarla, sommergerla fino alle cime degli alberi, spazzarla via e assordare ogni creatura che vi si trovava, il tutto nell'identico, medesimo momento. Fu una notte di tregenda per gli scavezzacolli che non avevano un tetto sopra la testa.

            Ma finalmente la battaglia terminò e le forze si ritirarono, con sempre più tenui, anche se minacciosi, brontolii, e la pace riprese a regnare. I ragazzi tornarono al campo spaventatissimi; ma scoprirono che c'era ancora qualcosa di cui ringraziare il cielo, perché il grande sicomoro ai piedi del quale avevano fatto il letto, colpito dai fulmini, era tutto una rovina; e loro non si trovavano là sotto quando era avvenuta la catastrofe.

            Tutto, al campo, era zuppo d'acqua, compreso il falò; perché non erano che degli sventati, come tutti i ragazzi della loro generazione, e non avevano preso nessuna precauzione contro la pioggia. C'era di che disperarsi, perché erano bagnati fradici e infreddoliti. Furono eloquenti nella loro angoscia: ma poi scoprirono che il fuoco aveva scavato così a fondo sotto il grosso tronco contro il quale era stato acceso (nel punto in cui faceva una curva verso l'alto e si staccava dal suolo) che una spanna di brace, o giù di lì, era sfuggita al diluvio; allora i tre ragazzi lavorarono pazientemente, con frammenti di legno e di corteccia raccolti sotto tronchi riparati, finché non riuscirono a riaccendere il fuoco. Poi vi ammucchiarono grandi rami secchi fino ad avere una fornace crepitante, e così il cuore tornò ad allargarglisi. Asciugarono il prosciutto cotto e mangiarono a quattro palmenti, e alla fine del pasto si sedettero intorno al fuoco e cianciarono, esaltati, della loro avventura notturna fino al mattino, perché non c'era un angolo asciutto dove stendersi a dormire.

            Quando il sole cominciò a filtrare tra le piante, i ragazzi furono presi da una forte sonnolenza e andarono a dormire sulla spiaggia. Di lì a poco cominciarono a sentirsi scottare la pelle, e allora stancamente si misero a preparare la colazione. Dopo il pasto si sentivano rigidi e arrugginiti, mentre tornava la nostalgia di casa. Tom notò i sintomi, e si fece in quattro per tener su di morale i suoi pirati. Ma Joe e Huck non avevano voglia di giocare né a palline né al circo, né di fare il bagno, né d'altro. Tom rammentò ai compagni il loro grande segreto, e provocò un momento di allegria. Approfittandone, riuscì a interessarli a un nuovo gioco. Si trattava di questo: perché non smetterla di fare i pirati, per un po', e giocare invece agli indiani, tanto per cambiare? Joe e Huck furono attratti dall'idea; così non passò molto prima che si fossero svestiti e rigati da capo a piedi di melma nera, come tante zebre, tutti capi, naturalmente, e poi se ne andarono a rotta di collo per i boschi ad attaccare una colonia inglese.

            Di lì a poco si divisero in tre tribù ostili e si scagliarono l'uno addosso all'altro dai luoghi donde si tendevano imboscate con terribili gridi di guerra, e si uccisero e scotennarono a migliaia. Fu una giornata cruenta. Di conseguenza, fu soddisfacente.

            Tornarono al campo verso l'ora di cena, affamati e contenti. Ma ora sorgeva una difficoltà: indiani ostili non potevano spezzare insieme il pane dell'ospitalità senza prima fare la pace, e questo era semplicemente impossibile senza fumare la pipa della pace. Che a loro risultasse, non c'erano altri sistemi. Quasi quasi due di quei selvaggi avrebbero voluto essere rimasti pirati. Ma non c'era niente da fare, e così, ostentando tutta l'allegria cui poterono fare appello, chiesero la pipa e trassero la loro boccata, mentre essa faceva il giro, secondo l'etichetta.

            E guarda un po': si rallegrarono di aver fatto i pellerossa, perché ci avevano guadagnato qualcosa; scoprirono infatti di poter fumare un po', adesso, senza dover correre a cercare un coltello smarrito; non si sentivano abbastanza nauseati da star male sul serio. Non erano certo i tipi da sprecare un'occasione così promettente per mancanza di applicazione. No, dopo cena si allenarono cautamente, con discreto successo, e trascorsero qualche ora giubilante. Erano più fieri e più felici della loro nuova arte di quanto lo sarebbero stati scotennando e spellando vivi tutti i membri delle Sei Nazioni. E noi li lasceremo lì a fumare, a ciarlare e a darsi delle arie, giacché per il momento non abbiamo più bisogno di loro.

CAPITOLO XVIII

            Ma non c'era nessuna ilarità, in paese, quel tranquillo sabato pomeriggio. Gli Harper e la famiglia di zia Polly prendevano il lutto con molte lacrime e grande dolore. Un insolito silenzio regnava nel villaggio, di per sé già abbastanza silenzioso. Gli abitanti attendevano ai loro affari con aria preoccupata, e parlavano poco; ma sospiravano spesso. Ai bambini il sabato festivo sembrava un peso. Non mettevano entusiasmo nei loro giochi, e a poco a poco vi rinunciarono.

            Nel pomeriggio Becky Thatcher si sorprese a gironzolare con aria depressa nel cortile deserto della scuola, sentendosi molto malinconica. Ma non vi trovò nulla che le fosse di conforto. Diceva tra sé e sé:

            «Oh, se avessi ancora il suo pomo di alare d'ottone! Ma ora non ho niente che me lo ricordi», e soffocò un piccolo singhiozzo.

            Poco dopo si fermò e disse tra sé:

            «È successo proprio qui. Oh, se dovesse succedere ancora, non direi quello che ho detto... non lo direi per tutto l'oro del mondo. Ma ormai lui se n'è andato; non lo rivedrò mai, mai, mai più.»

            Questo pensiero l'accasciò, e Becky si allontanò con le lacrime che le rigavano le gote. Allora passò un folto gruppo di bambini e di bambine - compagni di giochi di Tom e di Joe - che si fermarono a guardare oltre lo steccato scolorito parlando in tono reverente di come Tom avesse fatto questo e quello l'ultima volta che lo avevano visto, e di come Joe avesse detto così e cosà (parole gravide di orribili presagi, come potevano vedere facilmente adesso!); e ogni oratore indicava il punto esatto dove allora si trovavano i ragazzi dispersi, e poi aggiungeva qualcosa come: «E io stavo proprio così... Proprio come sto adesso, e come se tu fossi lui... Ero così vicino... E lui sorrideva, proprio così... E allora mi sono sentito qualcosa dentro, dappertutto, come... Terribile, sai... E non avevo capito di cosa si trattasse, naturalmente, ma ora lo capisco!»

            Poi ci fu una discussione su chi avesse visto vivi, per l'ultima volta, i due ragazzi morti, e molti reclamarono quella macabra distinzione, e presentarono prove più o meno inquinate dal testimone; e quando finalmente si decise chi aveva visto per l'ultima volta i defunti, e scambiato con loro le ultime parole, i fortunati assunsero una sorta di sacra importanza, e furono guardati a bocca aperta e invidiati da tutti gli altri. Un povero ragazzo che non aveva altro da rivendicare disse, mostrando nel ricordo un orgoglio piuttosto evidente:

            «Be', Tom Sawyer una volta me le ha date.»

            Ma questo tentativo di raggiungere la gloria fu un fiasco. Quasi tutti i ragazzi potevano vantarsi di aver avuto qualcosa del genere, e ciò sviliva troppo la pretesa. La comitiva si allontanò, senza fretta, continuando a evocare con voci intimidite ricordi di quei perduti eroi.

            La mattina dopo, finita l'ora del catechismo, la campana, invece di diffondere nell'aria i soliti rintocchi, cominciò a suonare a morto. Era una domenica molto silenziosa, e quel suono funebre sembrava in armonia col pensoso silenzio che gravava sopra la natura. I paesani cominciarono a radunarsi, attardandosi un momento nel vestibolo per conversare sottovoce del triste avvenimento. Ma in chiesa non si udì alcun mormorio; solo il funereo frusciare dei vestiti, mentre le donne raggiungevano i loro posti, turbava il silenzio dell'interno. Nessuno poteva ricordare un'altra occasione in cui la chiesetta fosse stata così piena. Ci fu infine un'ultima pausa d'attesa, un silenzio pieno d'ansia, e poi entrò zia Polly, seguita da Sid e Mary, e poi dalla famiglia Harper, tutti in nero dalla testa ai piedi; e l'intera congregazione, compreso il vecchio pastore, si alzò rispettosamente e restò in piedi fino a quando i parenti dei defunti non si furono seduti nel primo banco. Ci fu un'altra pausa di raccoglimento, rotta a tratti da singhiozzi soffocati, e poi il pastore aprì le mani e pregò. Venne cantato un inno commovente, e letto il testo della predica: «Io sono la resurrezione e la vita».

            Mentre si svolgeva la funzione, il sacerdote tracciò un tale quadro delle virtù, dei pregi e delle grandi speranze stroncate dei ragazzi dispersi che tutti i presenti, persuasi della verosimiglianza di questi ritratti, provarono una fitta di rimorso ricordando come, in passato, avessero ostinatamente chiuso gli occhi davanti alla realtà, vedendo sempre, in quelle povere creature, solo imperfezioni e difetti. Il pastore, inoltre, riferì molti episodi commoventi nella vita degli scomparsi, che ne illustravano la natura dolce e generosa, e la gente ora poteva vedere facilmente la bellezza e la nobiltà di questi fatti, e ricordare con profondo rammarico che quando avevano avuto luogo erano parsi a tutti bricconate della più bell'acqua, ben degne della frusta. Man mano che il patetico racconto procedeva, i fedeli erano sempre più commossi, e infine tutti cedettero alla commozione e si unirono ai parenti in lacrime in un coro di singhiozzi angosciati, mentre lo stesso predicatore dava sfogo ai suoi sentimenti inondando il pulpito di lacrime.

            Dalla galleria venne un fruscio al quale nessuno fece caso; dopo un attimo la porta della chiesa cigolò; il pastore sollevò dal fazzoletto gli occhi lacrimosi, e rimase di stucco! Prima un paio d'occhi, poi un altro, seguirono quelli del pastore, e poi, quasi obbedendo a un solo impulso, tutti i fedeli si alzarono in piedi sgranando gli occhi mentre i tre morticini avanzavano lungo la navata, Tom in testa, seguito da Joe, e Huck che, tirandosi dietro i suoi stracci cascanti, chiudeva con aria impacciata la retroguardia. Si erano nascosti nella galleria, che nessuno usava mai, per ascoltare il loro elogio funebre!

            Zia Polly, Mary e gli Harper si gettarono sui risuscitati, soffocandoli di baci e profondendosi in ringraziamenti a Dio, mentre il povero Huck se ne stava impacciato e confuso, non sapendo con precisione cosa fare o dove nascondersi a tanti occhi importuni. Esitò, e stava per filarsela, quando Tom lo prese per un braccio e disse:

            «Zia Polly, non è giusto. Qualcuno dev'essere contento di vedere Huck.»

            «E così sia! Io sono contenta di vederlo, povero orfanello!» E le affettuose attenzioni prodigategli da zia Polly erano l'unica cosa capace di metterlo più a disagio di prima.

            A un tratto il pastore gridò con quanto fiato aveva in gola:

            «"Sia lodato Iddio da cui provengono tutte le benedizioni": cantate! E metteteci un po' di entusiasmo!»

            Così fu. L'inno si alzò in un boato trionfale, e mentre faceva tremare le travi della chiesa Tom Sawyer il Pirata volse lo sguardo sui giovani invidiosi che lo attorniavano e confessò, in cuor suo, che quello era il momento più bello della sua vita.

            Quando i fedeli uscirono, in una folla compatta, quasi quasi si dichiararono pronti a farsi prendere in giro un'altra volta pur di sentire nuovamente quell'inno cantato con tanto trasporto.

            Quel giorno Tom ricevette più baci e scapaccioni - a seconda dei vari stati d'animo di zia Polly - di quanti se ne fosse meritati in un anno; e non sapeva quali dei due meglio esprimessero la riconoscenza di zia Polly verso Dio e il suo affetto per lui.

CAPITOLO XIX

            Quello era il gran segreto di Tom: il disegno di tornare a casa con i pirati suoi confratelli e di assistere ai propri funerali. Avevano raggiunto la sponda del Missouri su un tronco d'albero, sabato al tramonto, toccando terra otto o dieci chilometri a valle del paese; avevano dormito nei boschi alla periferia dell'abitato fin quasi all'alba, e poi erano passati di nascosto per vicoli e stradine e avevano finito i loro sonni nella galleria della chiesa, in mezzo a un caos di panche mutilate.

            A colazione, lunedì mattina, zia Polly e Mary furono molto affettuose con Tom, e molto attente ai suoi desideri. La conversazione fu insolitamente animata. Nel corso di essa zia Polly disse:

            «Be', non dico che non è stato un bello scherzo, Tom, farci soffrire tutti per quasi una settimana perché voi ragazzi ve la poteste spassare, ma è un peccato che tu abbia potuto essere tanto crudele da farmi soffrire così. Se hai potuto attraversare il fiume su un tronco d'albero per assistere al tuo funerale, potevi anche venire a farmi capire in qualche modo che non eri morto, ma solo scappato di casa.»

            «Sì, questo avresti potuto farlo, Tom», disse Mary; «e io credo che tu lo avresti fatto, se ci avessi pensato.»

            «Sì, Tom?» disse zia Polly, col viso illuminato da un malinconico sorriso. «Dimmi, ora, lo avresti fatto, se ci avessi pensato?»

            «Io... Be', non so. Avrebbe rovinato tutto.»

            «Tom, io speravo che tu mi amassi abbastanza per farlo», disse zia Polly, in un tono addolorato che mise il ragazzo a disagio. «Sarebbe stato già qualcosa se ti fosse importato abbastanza per pensarci, anche se non l'hai fatto.»

            «Via, zietta, non c'è niente di male», intercedette Mary; «è solo il modo sventato che ha Tom di fare le cose: ha sempre tanta fretta che non pensa mai a nulla.»

            «Peggio ancora. Sid ci avrebbe pensato. E sarebbe venuto e l'avrebbe fatto. Tom, ti volterai indietro, un giorno, quando sarà troppo tardi, e vorrai avermi voluto un poco più di bene quando ti sarebbe costato così poco.»

            «Su, zia, lo sai che ti voglio bene», disse Tom.

            «Ne sarei più sicura se tu me lo dimostrassi.»

            «Ora vorrei averci pensato», disse Tom, in tono contrito; «ma ti ho sognato, in ogni caso. È qualcosa, no?»

            «Non è molto - anche i gatti sognano - ma è meglio che niente. Cos'hai sognato?»

            «Be', mercoledì sera ho sognato che eri seduta là vicino al letto, e Sid era seduto vicino alla cassetta della legna, e Mary accanto a lui.»

            «Be', era vero. Ci mettiamo sempre così. Sono lieta che nei tuoi sogni ci sia stato un posticino anche per noi.»

            «E ho sognato che la madre di Joe Harper era qui.»

            «Ma c'era! Che altro hai sognato?»

            «Oh, tante cose. Ma è così confuso, adesso.»

            «Be', cerca di ricordare; non ci riesci?»

            «Mi sembra, in qualche modo, che il vento... che il vento soffiasse sulla... sulla...»

            «Sforzati, Tom! Il vento ha soffiato su qualcosa, su!»

            Tom si premette le dita sulla fronte per un minuto d'ansia, e poi disse:

            «Ci sono! Ci sono! Ha soffiato sulla candela!»

            «Misericordia! Continua, Tom, va' avanti!»

            «E mi sembra che tu abbia detto: "Diamine, quella porta..."»

            «Continua, Tom!»

            «Fammi pensare un momento... Un momento solo. Oh, sì: hai detto che credevi che la porta fosse aperta.»

            «Com'è vero che sto seduta qui! No, Mary? Continua!»

            «E poi... E poi... Be', non ne sono sicuro, ma mi pare che tu abbia detto a Sid di andare a... a...»

            «Allora? Allora? Cosa gli ho detto di fare, Tom? Cosa gli ho detto di fare?»

            «Gli hai detto... Tu... Oh, gliel'hai fatta chiudere!»

            «Be', per tutti i santi del paradiso! Non ho mai sentito una cosa simile da quando sono nata! Non venitemi più a dire che i sogni non significano qualcosa. Prima che sia passata un'ora, Sereny Harper saprà tutto. Vorrei proprio vedere come lo spiega, con le sue ciance sulla superstizione. Continua, Tom!»

            «Oh, adesso sta facendosi tutto chiaro come il giorno. Poi tu hai detto che non ero cattivo, ma solo sventato e birichino, e non più responsabile di... di... credo fosse un puledro, o qualcosa del genere.»

            «Ed è stato così! Toh! Dio buono! Continua, Tom!»

            «E poi ti sei messa a piangere.»

            «È vero. Proprio così. Non per la prima volta, se è per questo. E poi...»

            «Poi si è messa a piangere anche la signora Harper, e ha detto che Joe era lo stesso, e che le dispiaceva di averlo picchiato per aver preso la panna quando invece l'aveva buttata via lei...»

            «Tom! Lo spirito era su di te! Profezie: ecco quello che stavi facendo! Signore Iddio!... Continua,Tom!»

            «Poi Sid ha detto... ha detto...»

            «Io non credo di aver detto niente», disse Sid.

            «Sì che l'hai detto, Sid», disse Mary.

            «Chiudete la bocca e fatelo continuare! Cos'ha detto, Tom?»

            «Ha detto... Credo che abbia detto che sperava che io stessi meglio dov'ero finito, ma che se certe volte fossi stato più buono...»

            «Ecco, senti? Proprio le parole che ha detto!»

            «E tu l'hai fatto tacere.»

            «Puoi ben dirlo! Doveva esserci un angelo. C'era un angelo, da qualche parte!»

            «E la signora Harper ha parlato di Joe che l'aveva spaventata con un petardo, e tu hai accennato a Peter e all'Ammazzadolore...»

            «Quant'è vero che sono al mondo!»

            «E poi s'è fatto un gran parlare di come si era dragato il fiume per cercarci, e del funerale fissato per la domenica, e poi tu e la vecchia signora Harper vi siete abbracciate piangendo, e lei se n'è andata.»

            «È successo proprio così! Proprio così è successo, com'è vero che sono qui seduta. Tom, non avresti potuto fare un racconto più preciso se fossi stato presente! E poi cosa? Continua, Tom.»

            «Poi ho pensato che pregavi per me... e potevo vederti e sentire ogni parola che dicevi. E sei andata a letto, e io ero così afflitto che ho preso un pezzo di scorza di sicomoro e ci ho scritto sopra: "Non siamo morti: siamo solo andati a fare i pirati", e l'ho messo sul tavolo vicino alla candela; e poi tu sembravi così buona, mentre dormivi, là distesa, che credo di essermi chinato su di te e di averti baciato sulle labbra.»

            «Davvero, Tom, davvero? Solo per questo ti perdono tutto!» E strinse il ragazzo in un vigoroso abbraccio che lo fece sentire il più ribaldo dei mascalzoni.

            «È stato molto gentile, anche se era soltanto un... sogno», disse Sid, tra sé, con una voce appena percettibile.

            «Silenzio, Sid! Uno fa in sogno esattamente le stesse cose che farebbe da sveglio. Ecco una bella mela Milum che avevo tenuto per te, Tom, se ti avessero ritrovato... E ora corri a scuola. Io ringrazio il buon Dio e Padre di tutti noi per averti restituito alla nostra famiglia, quel Dio che è tanto paziente e misericordioso verso quelli che credono in Lui e obbediscono ai Suoi comandamenti, anche se Dio sa quanto ne sono indegna; ma se solo i meritevoli potessero contare sulle Sue benedizioni e sull'aiuto della Sua mano per superare le difficoltà, ci sarebbe poca gente, a questo mondo, capace di sorridere, o anche di trovare l'eterno riposo nel Suo seno quando calerà la notte eterna. Andate, Sid, Mary, Tom... Toglietevi dai piedi... Mi avete fatto perdere già abbastanza tempo.»

            I bambini uscirono per andare a scuola e la vecchia signora per far visita alla signora Harper e sconfiggere il suo realismo col fantastico sogno di Tom. C'era un'idea che frullava nella testa di Sid quando i ragazzi uscirono di casa, ma il ragazzo preferì tenerla per sé. L'idea era questa:

            «Che storia incredibile... Un sogno così lungo, senza un solo errore!»

            Ma che eroe Tom era ormai diventato! Non si permetteva neanche più di saltare e fare il buffone per la strada, e si muoveva invece con un'aria arrogante e dignitosa, l'aria che si addiceva a un pirata consapevole di trovarsi sotto gli occhi di tutti. E in effetti era proprio così; Tom cercava di mostrarsi indifferente agli sguardi e alle battute che la gente pronunciava al suo passaggio, ma al suo orecchio era una musica ineffabile. I bambini più piccoli di lui lo seguivano a frotte, fieri di farsi vedere con lui e da lui tollerati quasi fosse il tamburino alla testa di un corteo, o l'elefante che guidava uno zoo in paese. I ragazzi della stessa età fingevano d'ignorare la sua scappatella, ma erano egualmente rosi dall'invidia. Avrebbero dato qualunque cosa per avere quella sua pelle bruna, abbronzata dal sole, e la sua brillante notorietà; e Tom non avrebbe rinunciato a nessuna delle due per tutto l'oro del mondo.

            A scuola i bambini diedero a lui e a Joe tanta importanza, e dimostrarono la loro ammirazione con occhiate così eloquenti che i due eroi non tardarono a diventare degli insopportabili «boriosi». Cominciarono a narrare le loro avventure a un avido uditorio: ma era solo l'inizio; era poco probabile che la storia avesse anche una fine, con delle fantasie come le loro sempre pronte a sfornare nuovo materiale. E finalmente, quando estrassero le loro pipe e si misero serenamente a tirare boccate di fumo qua e là, fu raggiunto il colmo della gloria.

            Tom decise allora che poteva fare a meno di Becky Thatcher. La gloria era più che sufficiente. Sarebbe vissuto per la gloria. Ora che era diventato famoso, forse lei avrebbe voluto «far pace». Be', facesse pure: doveva capire anche lei che Tom poteva essere indifferente come certe altre persone. Finalmente Becky arrivò. Tom finse di non vederla. Si allontanò per unirsi a un crocchio di bambini e bambine, e cominciò a parlare. Ben presto egli notò che la bimba saltellava allegramente avanti e indietro con le guance rosse e gli occhi saettanti, fingendo di essere intenta a inseguire le compagne, e strillando di gioia quando ne catturava una, ma notò anche che catturava sempre le sue prede nelle sue vicinanze, e che in tali occasioni pareva anche scoccare nella sua direzione uno sguardo significativo. La cosa appagò tutta la dispettosa vanità che era in lui; e così anziché conquistarlo, ottenne il solo scopo di renderlo ancora più «borioso», e di fargli evitare con più attenzione di mostrarle di essersi accorto della sua presenza. Alla fine Becky smise di ruzzare e si aggirò qua e là con aria irresoluta, sospirando una volta o due e lanciando sguardi furtivi e assorti verso Tom. Poi Becky notò che ora Tom stava parlando più specificamente con Amy Lawrence che con tutti gli altri. Provò una fitta di dolore e fu presa di colpo da inquietudine e turbamento. Provò ad allontanarsi, ma i suoi piedi erano traditori, e la portavano invece verso il gruppo. Disse - con finta vivacità - a una bambina che era quasi accanto a Tom:

            «Ma come, Mary Austin! Cattivaccia, perché non sei venuta al catechismo?»

            «Ci sono venuta: non mi hai visto?»

            «No, accidenti! C'eri? E dov'eri seduta?»

            «Ero nell'aula della signorina Peter, dove vado sempre. Io ti ho vista.»

            «Sì? Be', è strano che io non ti abbia vista. Volevo parlarti del picnic.»

            «Oh, che bello. Chi l'organizzerà?»

            «La mamma mi dà il permesso di farne uno.»

            «Oh, che gioia; spero che inviti anche me.»

            «Ma certo. Il picnic è per me. Inviterà tutti quelli che voglio io, e io voglio che tu ci venga.»

            «È un'idea proprio carina. Quando sarà?»

            «Tra poco. Forse durante le vacanze.»

            «Oh, come ci divertiremo! Inviterai tutti i compagni e le compagne?»

            «Sì, tutti quelli che sono amici miei.. o che vogliono esserlo», disse guardando di sottecchi Tom, che però continuò imperterrito a parlare con Amy Lawrence della terribile bufera sull'isola, e di come il fulmine avesse «mandato in frantumi» il grande sicomoro mentre lui si trovava «a meno di tre passi di distanza».

            «Oh, posso venire anch'io?» disse Gracie Miller.

            «Sì.»

            «E io?» disse Sally Rogers.

            «Sì.»

            «E anch'io?» disse Susy Harper. «E Joe?»

            «Sì.»

            E così via, tra gioiosi battimani, finché tutti i membri del gruppo non ebbero chiesto di essere invitati, tutti tranne Amy e Tom. Poi Tom le voltò freddamente le spalle, sempre chiacchierando, e portò Amy con sé. A Becky tremarono le labbra, mentre gli occhi le si empivano di lacrime; nascose questi segni sotto un'allegria forzata e riprese a chiacchierare, ma il picnic aveva ormai perduto ogni interesse, per lei, come tutte le altre cose della terra; se ne andò più presto che poté, trovò un nascondiglio e si fece quello che il suo sesso chiama «un bel pianto». Poi restò seduta tristemente nel suo banco, pensando al suo orgoglio ferito, fino allo squillo della campana. Allora si alzò in piedi, con un lampo di vendetta nell'occhio, diede una scossa alle trecce e si disse che sapeva lei cosa fare.

            Durante l'intervallo Tom, tronfio e giubilante, continuò a civettare con Amy. E non smise un istante di gironzolare qua e là per trovare Becky e straziarla con la sua esibizione. Finalmente la scovò, ma tutto il suo entusiasmo sbollì di colpo. Becky sedeva comodamente su una panchina dietro la scuola, sfogliando un libro illustrato con Alfred Temple; e tanto assorti erano, e tanto vicine le loro teste sopra il libro, da sembrare ignari di ogni altra cosa al mondo. La gelosia corse, incandescente, nelle vene di Tom, che cominciò a rimproverarsi per avere sprecato l'occasione offertagli da Becky per una riconciliazione. Si diede dello stupido, e tutte le insolenze che riuscì a farsi venire in mente. Avrebbe pianto di rabbia. Amy continuava a ciarlare allegramente, mentre andavano a passeggio, perché il suo cuore cantava, ma la lingua di Tom aveva perso la sua funzione. Il ragazzo non udiva ciò che Amy stava dicendo, e ogni volta che lei s'interrompeva, in attesa di una risposta, riusciva solo a balbettare un goffo assenso, che il più delle volte, oltre tutto, era fuori luogo. I suoi piedi continuavano a portarlo dietro la scuola, dove l'odioso spettacolo dei due sulla panchina gli pungeva la vista. Non poteva farne a meno. E lo faceva uscire dai gangheri vedere, come gli sembrava di vedere, che mai una volta Becky Thatcher nutrisse anche solo il sospetto che lui era nel mondo dei vivi. Lei invece se n'era accorta benissimo; e sapeva di stare vincendo la sua battaglia, ed era lieta di vederlo soffrire come aveva sofferto lei. L'allegro chiacchiericcio di Amy diventava insopportabile. Tom accennò a cose di cui doveva occuparsi; cose che bisognava fare; e il tempo fuggiva. Ma invano: la bambina continuava a cinguettare. Tom pensò: «Oh, accidenti, non riuscirò mai a liberarmene?» Infine dovette occuparsi di quelle cose; lei disse ingenuamente che sarebbe stata «in giro», finite le lezioni. E lui si affrettò ad allontanarsi, odiandola per questo.

            «Chiunque altro!» pensava Tom, digrignando i denti. «Qualunque altro ragazzo del paese tranne quel damerino di Saint Louis, che crede di vestirsi così bene e di essere tanto aristocratico! Oh, benissimo. Te le ho date la prima volta che hai messo il naso in questo paese, bello mio, e te le darò ancora! Aspetta solo di capitarmi a tiro! Ti darò una lezione tale che...»

            E fece l'atto di suonarle a un ragazzo immaginario, prendendo a pugni e calci l'aria e ficcandogli le dita negli occhi.

            «Ah, sì, eh? Di': "Basta", va bene? Ecco, allora ti serva di lezione!»

            E così, con sua soddisfazione, si concluse il pestaggio immaginario.

            A mezzogiorno Tom corse a casa. La sua coscienza non riusciva a sopportare altre manifestazioni della riconoscente felicità di Amy, e la sua gelosia non tollerava nuovi morsi dell'altro dolore. Becky riprese a guardare le figure con Alfred, ma vedendo che i minuti passavano e Tom non veniva a incassare la sua razione di sofferenze, il suo trionfo cominciò ad appannarsi e il suo interesse si spense; seguirono momenti di serietà e svagatezza, poi di melanconia; due o tre volte la bambina tese l'orecchio al suono di un passo, ma fu una speranza vana: non arrivò alcun Tom. Alla fine si sentì molto infelice, e avrebbe voluto non aver tirato tanto la corda. Quando il povero Alfred, vedendo che la stava perdendo senza saper come, si mise a esclamare: «Oh, eccone una bella! Guarda questa!», lei perse finalmente la pazienza e disse: «Oh, non seccarmi! Non me ne importa niente!», e scoppiò in lacrime, alzandosi per allontanarsi.

            Alfred le fu subito al fianco, e voleva provare a consolarla, ma lei disse:

            «Vattene e lasciami in pace, per piacere! Ti odio!»

            Allora il ragazzo si fermò, chiedendosi cosa potesse aver fatto - perché Becky aveva detto di voler guardare le figure per tutto l'intervallo di mezzogiorno - e lei continuò a camminare, piangendo. Poi Alfred, pensieroso, entrò nella scuola deserta. Si sentiva umiliato e furente. Non tardò a scoprire la chiave del mistero: la bambina, semplicemente, si era servita di lui per sfogare il suo rancore su Tom Sawyer. Quest'idea, quando gli venne, non contribuì certamente ad attenuare la sua antipatia per Tom. Avrebbe voluto che ci fosse un sistema per metterlo nei guai senza correre, personalmente, troppi rischi. Proprio allora gli cadde sotto gli occhi l'abbecedario di Tom. Ecco l'occasione buona. Con animo riconoscente lo aprì alla lezione del pomeriggio e versò dell'inchiostro sulla pagina. Becky, sbirciando in quel momento nell'interno dalla finestra alle sue spalle, vide il gesto e tirò dritto senza farsi scorgere. Poi si avviò verso casa, nell'intento di trovare Tom e riferirglielo: Tom l'avrebbe ringraziata e i loro guai sarebbero finiti. Prima d'essere a metà strada, però, aveva cambiato idea. Il ricordo di come Tom l'aveva trattata quando stava parlando del picnic tornò ad assalirla, bruciante, e la riempì di vergogna. Decise di lasciare che lo frustassero per il sillabario danneggiato, e in più di odiarlo per sempre.

CAPITOLO XX

            Tom arrivò a casa di pessimo umore, e la prima cosa che gli disse la zia gli mostrò che aveva portato le sue pene a un mercato poco promettente:

            «Tom, ho idea di spellarti vivo.»

            «Zietta, cos'ho fatto?»

            «Be', hai fatto abbastanza. Ecco che vado da Sereny Harper come una vecchia rimbambita, convinta di riuscire a farle bere tutte quelle corbellerie su quel sogno, quand'ecco che, bada bene, lei ha saputo da Joe che tu eri stato qui e avevi sentito tutti i discorsi che abbiamo fatto quella sera. Tom, non so proprio cosa può diventare un ragazzo che si comporta così. Mi sento proprio a terra quando penso che hai potuto lasciarmi andare da Sereny Harper, a farmi prendere per un'imbecille, senza dire una parola.»

            Questo era un nuovo aspetto della cosa. Prima, l'astuzia del mattino a Tom era sembrata un bello scherzo, e anche molto ingegnoso. Ora sembrava solo meschino e di cattivo gusto. Chinò la testa e per un attimo non trovò niente da dire; poi disse:         «Zietta, vorrei non averlo fatto... Ma non ci ho pensato.»

            «Oh, figliolo, tu non pensi mai. Non pensi mai ad altro che al tuo egoismo. Hai potuto pensare di venire fin qui da Jackson's Island, di notte, a ridere dei nostri affanni, e hai potuto pensare d'ingannarmi con una frottola su un sogno; ma non hai mai potuto pensare a compatirci e a preservarci dal dolore.»

            «Zietta, ora capisco che è stata una cattiva azione, ma non volevo essere cattivo; l'ho fatta in buona fede. E poi, quella sera, non sono venuto qui a ridere di te.»

            «Perché sei venuto, allora?»

            «Era per dirti di non stare in pensiero per noi, perché non eravamo annegati.»

            «Tom, Tom, sarei la donna più felice di questo mondo se potessi credere che hai avuto un pensiero gentile come questo, ma sai benissimo che non l'hai mai avuto... E lo so anch'io, Tom.»

            «L'ho proprio avuto, invece, zietta: mi venga un accidente se non è vero.»

            «Oh, Tom, non dire bugie... Non lo fare. Serve solo a peggiorare cento volte la situazione.»

            «Non è una bugia, zietta; è la verità. Volevo che tu non soffrissi: ecco l'unica ragione per cui sono venuto.»

            «Darei il mondo intero per poterci credere: ti farebbe perdonare un sacco di monellerie, Tom. Sarei quasi contenta che tu fossi scappato e che ti fossi comportato così male. Ma non è ragionevole; perché non me l'hai detto, figliolo?»

            «Ma accidenti, vedi, zietta, quando tu ti sei messa a parlare del funerale, io mi sono entusiasmato all'idea di venire a nasconderci in chiesa, e non riuscivo, in un certo senso, a convinceremo a rinunciarvi. Per questo mi sono rimesso in tasca la corteccia e ho tenuto la bocca chiusa.»

            «Quale corteccia?»

            «La corteccia sulla quale avevo scritto per dirti che eravamo andati a fare i pirati. Ora vorrei che tu ti fossi svegliata quando ti ho dato un bacio: davvero, sono sincero.»

            Le linee dure nel viso di sua zia si addolcirono, e negli occhi le brillò un'improvvisa tenerezza.

            «Mi hai proprio dato un bacio, Tom?»

            «Ma sì, certo.»

            «Sei sicuro di averlo fatto, Tom?»

            «Ma sì, zietta, l'ho fatto: ne sono sicurissimo.»

            «Perché mi hai dato un bacio, Tom?»

            «Perché ti volevo tanto bene, e tu eri lì sul letto che ti lamentavi, e io ero tanto pentito.»

            Quelle parole suonavano sincere. La vecchia signora non poté nascondere un tremito nella voce quando disse:

            «Dammi un altro bacio, Tom!... E fila a scuola, adesso, e non mi seccare più.»

            Appena il ragazzo fu uscito, corse a un armadio e ne trasse la giacca sbrindellata con la quale Tom era andato a fare il pirata. Poi si fermò con l'indumento in mano e disse tra sé:

            «No, non me la sento. Povero ragazzo, sarà stata un'altra bugia: ma è una bugia benedetta, benedetta, tanta consolazione mi ha dato. Spero che il Signore... So che il Signore lo perdonerà, perché ha dimostrato di avere il cuore buono a raccontarmi una cosa simile. Ma non voglio saperlo, se è stata una bugia. Non ci guarderò.»

            Ripose la giacca nell'armadio e per un minuto rimase lì a pensare. Due volte alzò la mano per riprendere l'indumento, e due volte se ne astenne. Si arrischiò ancora una volta, fortificandosi col pensiero: «È una pietosa bugia... È una pietosa bugia... Non permetterò che mi rattristi.» Dopodiché frugò nella tasca della giacca. Ancora un attimo e stava leggendo, tra le lacrime che le scorrevano dagli occhi, il pezzo di corteccia di Tom; e diceva:

            «Ora potrei perdonare quel ragazzo anche se avesse commesso un milione di peccati!»

CAPITOLO XXI

            C'era qualcosa nell'atteggiamento di zia Polly, quando baciò Tom, che fece dileguare la sua tristezza e tornò a renderlo allegro e spensierato. Il ragazzo s'incamminò verso la scuola, e all'inizio di Meadow Lane ebbe la fortuna d'incontrare Becky Thatcher. I suoi atteggiamenti erano sempre determinati dall'umore. Senza un attimo di esitazione corse da lei e disse:

            «Mi sono comportato molto male oggi, Becky, e mi dispiace tanto. Non farò più, mai più, così finché campo: facciamo la pace, per piacere, eh?»

            La bambina si fermò e lo guardò in faccia con aria sprezzante:

            «Vi sarò grata se baderete agli affari vostri, signor Thomas Sawyer. Non vi rivolgerò mai più la parola.»

            Alzò il mento in aria e tirò via. Tom rimase così sbalordito che non ebbe nemmeno la presenza di spirito per dire: «E chi se ne infischia, signorina Smorfiosa?» finché il momento giusto fu passato. Così non disse nulla. Ciò nonostante, era arrabbiato forte. Ciondolò nel cortile della scuola augurandosi che Becky fosse un maschio, e pensando alle botte che le avrebbe dato in questo caso. Finalmente l'incontrò e, mentre passava, le scoccò una frecciata. Lei rispose per le rime, e la rottura fu completa. A Becky, nel calore del suo risentimento, sembrava di non poter quasi aspettare che la scuola «li chiamasse dentro», tanto era impaziente di veder frustare Tom per l'abbecedario rovinato. Se per un attimo aveva avuto l'intenzione di denunciare Alfred Temple, la battuta offensiva di Tom gliel'aveva fatta passare completamente.

            Povera bambina, non sapeva quali neri nuvoloni stavano frettolosamente radunandosi sopra la sua testa. Il maestro, il signor Dobbins, aveva raggiunto la mezza età con un'ambizione insoddisfatta. Il più vivo dei suoi desideri era sempre stato quello di fare il medico, ma la miseria aveva decretato che non dovesse diventare nulla di più eminente di un maestro di scuola di campagna. Ogni giorno il signor Dobbins prendeva dalla cattedra un libro misterioso e, quando non doveva interrogare, ogni tanto si sprofondava nella lettura. Teneva questo libro chiuso a chiave. Non c'era un solo bricconcello nella scuola che non morisse dalla voglia di dargli un'occhiata, ma l'occasione non si presentava mai. Ogni bambino, maschio o femmina che fosse, aveva una sua teoria sulla natura di questo libro; ma non ce n'erano due che coincidessero, e sembrava impossibile arrivare ad accertare la verità dei fatti. Ora, passando davanti alla cattedra, che si trovava vicino alla porta, Becky notò la chiave nella toppa! Era un'occasione unica. Si guardò intorno, scoprì di essere sola, e dopo un attimo aveva il libro in mano. Il frontespizio - l'Anatomia di un professor qualche cosa - non le disse nulla; allora Becky cominciò a sfogliarlo. Arrivò subito a un'illustrazione, incisa e colorata con cura: una figura umana. In quel momento un'ombra cadde sulla pagina, e Tom Sawyer entrò dalla porta e vide di sfuggita la figura. Becky afferrò il libro per chiuderlo, ed ebbe la sfortuna di strappare a metà, proprio in mezzo, la pagina con l'illustrazione. Ficcò il volume nella cattedra, girò la chiave e scoppiò in lacrime di vergogna e di collera:

            «Tom Sawyer, non potresti essere più cattivo di così, ad avvicinarti a una persona di nascosto per vedere cosa sta guardando.»

            «Come potevo sapere che stavi guardando qualcosa?»

            «Tom Sawyer, dovresti vergognarti; sai benissimo che farai la spia; e, oh, come farò, come farò? Mi frusteranno, e non sono mai stata frustata a scuola.»

            Poi batté il piedino per terra e disse:

            «Sii pure cattivo quanto vuoi! Io so una cosa che succederà. Aspetta e vedrai! Ti odio, ti odio, ti odio!» E uscì di corsa dall'aula con un nuovo scoppio di pianto.

            Tom rimase immobile, piuttosto turbato da questo attacco furibondo. Finalmente si disse:

            «Che strano! Come sono stupide le ragazze. A scuola non l'hanno mai picchiata? E con questo? Cos'è una bastonatura? Tipico, tipico delle ragazze: pelle delicata e cuore di pulcino. Be', ma è naturale che non farò la spia al vecchio Dobbins, su quel che ha fatto questa stupidella, perché ci sono altri modi, meno meschini, di fare i conti con lei; ma che importa? Il vecchio Dobbins chiederà chi è stato a stracciare il suo libro. Nessuno risponderà. Allora lui farà quello che fa sempre: chiederà prima all'uno e poi all'altro, e quando arriva alla ragazza giusta lo saprà, senza bisogno che qualcuno faccia la spia. Le ragazze hanno la faccia che fa la spia per loro. Sono

senza spina dorsale. Le buscherà. Be', è un brutto impiccio perBecky Thatcher, perché non c'è via di scampo.» Tom studiò la cosa ancora per qualche istante, e poi aggiunse: «Ma le sta bene; a lei piacerebbe vedermi in un guaio simile: si arrangi!»

            Si unì al gruppo di scolari che giocavano nel cortile. Di lì a poco arrivò il maestro e la scuola «li chiamò dentro». Tom non provava un grande interesse per i suoi studi. Ogni volta che guardava di soppiatto dalla parte delle bambine, il viso di Becky lo turbava. Tutto considerato, non voleva compatirla, eppure non poteva farne a meno. In quello che stava per succedere non trovava alcun motivo di esultanza. Finalmente venne fatta la scoperta dell'abbecedario, e da allora, per un po', la mente di Tom fu tutta presa dai casi suoi. Becky uscì dal letargo della sua disperazione e mostrò un discreto interesse per gli sviluppi della situazione. Non si aspettava che Tom potesse cavarsi d'impiccio negando di essere stato lui a versare l'inchiostro sul libro; e aveva ragione. Il diniego parve solo peggiorare le cose per Tom. Becky pensava che ne sarebbe stata lieta, e si sforzò di credere che era proprio così, ma scoprì di non esserne certa. Quando le cose volsero al peggio, ebbe l'impulso di alzarsi per denunciare Alfred Temple, ma fece uno sforzo e si costrinse a tacere perché, si disse, «lui farà la spia sulla figura che ho strappato, questo è certo. Non direi una parola nemmeno se si trattasse di salvargli la vita!»

            Tom si prese le frustate e tornò al posto senza fare tragedie, perché pensava che poteva anche darsi che fosse stato lui a rovesciare inavvertitamente l'inchiostro sull'abbecedario, mentre giocava con i compagni: aveva negato per salvare la forma e rispettare la tradizione, e aveva insistito nel diniego per principio.

            Lentamente passò un'ora intera; il maestro sedeva sul suo trono, col mento sul petto, l'atmosfera era resa sonnolenta dal brusio dei ragazzi che studiavano. Dopo un po' il signor Dobbins raddrizzò le spalle, sbadigliò, poi aprì il cassetto della cattedra e tese la mano verso il suo libro, ma sembrava incerto se prenderlo o lasciarlo. Quasi tutti gli alunni alzarono distrattamente lo sguardo, ma tra loro ce n'erano due che seguivano con occhio vigile i suoi movimenti. Il signor Dobbins toccò per qualche tempo il suo libro con aria assente, poi lo tolse dal cassetto e cercò sulla seggiola la posizione migliore per mettersi a leggere.

            Tom scoccò un'occhiata a Becky. Aveva visto la sua stessa espressione sul muso di un coniglio raggiunto dai cacciatori, con un fucile puntato alla testa. Di colpo dimenticò la lite che aveva avuto con lei. Presto, bisognava far qualcosa, e farla subito, anche! Ma proprio l'imminenza del pericolo paralizzava la sua inventiva. Bene! Aveva un'ispirazione! Sarebbe corso a prendere il libro, si sarebbe gettato fuori dalla porta e sarebbe

fuggito! Ma ebbe appena un attimo di esitazione, e l'occasione

andò perduta: il maestro aveva aperto il volume. Ah, se Tom avesse potuto tornare indietro! Troppo tardi; ormai non c'era più nessuna possibilità di aiutare Becky. Ancora un attimo, e il maestro squadrò la scolaresca. Tutti gli occhi si abbassarono sotto il peso del suo sguardo; c'era qualcosa in quello sguardo, che faceva tremare di paura anche gli innocenti. Nell'aula cadde un silenzio durante il quale si sarebbe potuto contare fino a dieci; il maestro stava gonfiandosi di rabbia. Poi parlò:

            «Chi ha strappato questo libro?»

            Non un suono. Si sarebbe sentito cadere uno spillo. Il silenzio perdurò; il maestro scrutava un viso dopo l'altro cercandovi i segni della colpa.

            «Benjamin Rogers, hai strappato tu questo libro?»

            Un diniego. Un'altra pausa.

            «Joseph Harper, sei stato tu?»

            Altro diniego. L'inquietudine di Tom cresceva sempre più sotto la lenta tortura di questo modo d'agire. Il maestro studiò le file dei maschi, rifletté un momento, poi si rivolse alle femmine:

            «Amy Lawrence?»

            Una scossa del capo.

            «Gracie Miller?»

            Lo stesso segno.

            «Susan Harper, sei stata tu?»

            Un altro no. La bambina successiva era Becky Thatcher. Tom tremava da capo a piedi per l'emozione, e aveva ormai l'impressione che la situazione fosse disperata.

            «Rebecca Thatcher...» (Tom guardò il suo viso: era sbiancata dal terrore) «... hai strappato tu... No, guardami in faccia...» (le sue mani si alzarono in un gesto supplichevole) «... hai strappato tu questo libro?»

            Un'idea passò come un fulmine nel cervello di Tom. Il ragazzo scattò in piedi e gridò:

            «Sono stato io!»

            L'intera scolaresca rimase a bocca aperta davanti a quest'incredibile follia. Tom attese qualche istante per riprendere il controllo delle sue facoltà; e quando si fece avanti per ricevere il castigo, la sorpresa, la gratitudine e l'adorazione per lui che brillavano negli occhi della povera Becky gli parvero un compenso sufficiente per cento fustigazioni. Ispirato dallo splendore del suo gesto, ricevette senza un grido la più spietata fustigazione che il signor Dobbins avesse mai somministrato; e con pari indifferenza ricevette la crudeltà supplementare rappresentata dall'ordine di restare a scuola per due ore dopo la fine delle lezioni: perché sapeva chi lo avrebbe atteso fuori fino alla fine della sua cattività, senza considerare quel monotono indugio una perdita di tempo.

            Quella sera Tom andò a letto pensando a come vendicarsi di Alfred Temple; perché, vergognosa e contrita, Becky gli aveva confessato tutto, senza dimenticare il proprio tradimento; ma anche il desiderio di vendicarsi doveva presto dar luogo a più gradevoli fantasticherie, e Tom infine si addormentò con le ultime parole di Becky che come in sogno gli suonavano all'orecchio:

            «Tom, come hai potuto essere così nobile?»

CAPITOLO XXII

            Le vacanze si avvicinavano. Il maestro, sempre severo, divenne più severo e più esigente che mai, perché voleva che la scuola facesse una bella figura il giorno degli «esami». La sua canna e la sua ferula non avevano più un momento di requie: almeno tra gli scolari più piccini. Solo i ragazzi più grandi, e le signorine dai diciotto ai vent'anni, sfuggivano alle vergate. E le vergate del signor Dobbins erano molto energiche; perché anche se aveva, sotto la parrucca, una testa perfettamente calva e lucente, il signor Dobbins era arrivato solo alla mezza età, e i suoi muscoli non davano alcun segno d'indebolimento. Mentre il gran giorno si approssimava, venne a galla tutta la tirannia che c'era in lui; il quale sembrava provare un piacere vendicativo nel punire anche le più piccole mancanze. La conseguenza era che i ragazzi più piccini passavano i giorni nel terrore e nella sofferenza e le notti a meditare la vendetta. Non perdevano un'occasione per fare una birbonata al maestro. Ma lui era sempre in vantaggio. Il castigo che seguiva ogni vendetta riuscita era così grandioso e solenne che i ragazzi lasciavano sempre il campo malconci. Finalmente organizzarono un complotto e idearono un piano che prometteva una splendida vittoria. Ingaggiarono il figlio del pittore d'insegne, gli esposero il progetto e chiesero il suo aiuto. Il ragazzo aveva le sue ragioni per gioire dell'iniziativa, perché il maestro era a pensione presso la famiglia di suo padre e gli aveva offerto più di un motivo per odiarlo. Di lì a qualche giorno la moglie del maestro doveva fare una visita a certi amici che stavano in campagna, e così nulla avrebbe interferito con i loro piani; il maestro si preparava per le grandi occasioni lubrificandosi bene di whisky le budella, e il figlio del pittore d'insegne disse che quando il signor Dobbins, la sera dell'«esame», avesse raggiunto il giusto punto di cottura, lui avrebbe potuto «sistemare la cosa» mentre il maestro sonnecchiava nella sua poltrona; poi lo avrebbe svegliato al momento giusto e spedito in fretta a scuola.

            A tempo debito arrivò l'importante occasione. Alle otto di sera la scuola era vivamente illuminata e adorna di corone e di festoni di foglie e di fiori. Il maestro sedeva come un re nella sua poltrona su una pedana sopraelevata, con la lavagna alle spalle. Sembrava passabilmente alticcio. Tre file di banchi da ambo i lati e sei file davanti a lui erano occupate dai notabili del paese e dai genitori degli alunni. Alla sua sinistra, dietro le file dei compaesani, c'era una spaziosa pedana provvisoria sulla quale stavano seduti gli scolari che dovevano prender parte agli esercizi della sera; file di ragazzini, lavati e vestiti in modo tale da metterli in uno stato d'intollerabile disagio; file di goffi ragazzi grandi; banchi di neve di bambine e signorine fasciate di batista e mussolina, e notevolmente imbarazzate dalle loro braccia nude, dagli antichi ciondoli delle loro nonne, dai loro nastrini rosa e azzurri, e dai fiori nei capelli. Tutto il resto della sala era pieno degli scolari che non partecipavano.

            Cominciarono gli esercizi. Un ragazzo piccolissimo si alzò in piedi e recitò timidamente: «Chi si aspetterebbe che uno alla mia età / si mettesse a parlare in società?», eccetera, accompagnandosi con i gesti spasmodici e penosamente precisi che avrebbe potuto fare una macchina, posto che la macchina fosse un po' in disordine. Ma arrivò alla fine sano e salvo, anche se spaventato da morire, e si guadagnò una bella salva di applausi quando fece il suo inchino abborracciato e batté in ritirata.

            Una bambina dall'aria confusa balbettò «"Maria aveva un agnellino"», eccetera, eseguì una pietosa riverenza, ricevette la sua razione di applausi e tornò a sedersi, rossa in faccia e felice.

            Tom Sawyer si avanzò con presuntuosa sicurezza e si librò nell'inestinguibile e indistruttibile discorso «Datemi la libertà o datemi la morte», con bello slancio e frenetica gesticolazione, ma s'interruppe a metà. Lo prese una terribile paura del pubblico, le gambe gli fecere giacomo giacomo e gli sembrava di soffocare. Vero, aveva la palese comprensione della platea: ma aveva anche il silenzio della platea, che era peggio ancora della comprensione. Il maestro aggrottò la fronte, e questo completò il disastro. Tom lottò un poco e poi si ritirò, totalmente sconfitto. Ci fu un debole tentativo di applaudire, ma si esaurì presto.

            Seguirono «Il ragazzo stava sul ponte in fiamme», «Calarono gli assiri» e altre gemme dell'arte declamatoria. Poi ci furono i saggi di lettura, e una gara di ortografia. L'esigua schiera dei latinisti si produsse con onore. Toccò poi al clou della serata: i «componimenti» originali delle signorine. Una alla volta si avanzarono fino all'orlo della pedana, si schiarirono la voce, spiegarono davanti a sé il loro manoscritto (legato con un bel nastro) e procedettero alla lettura, con particolare attenzione all'«espressione» e alla punteggiatura. I temi erano gli stessi che erano stati svolti in analoghe occasioni dalle loro madri prima di loro, dalle loro nonne, e senza dubbio da tutti i loro avi in linea femminile fino alle Crociate. Uno era «Amicizia»; un altro «Ricordi del tempo che fu»; poi «La religione nella storia»; «Terra di sogno»; «Avventure della cultura»; «Affinità e divergenze tra le varie forme di governo»; «La melanconia»; «Amore filiale»; «Le brame del cuore», eccetera, eccetera.

            Una delle caratteristiche prevalenti in queste composizioni era una melanconia vezzeggiata e coltivata con cura; un'altra era un'effusione prodiga e opulenta di «bello scrivere»; un'altra era la tendenza a ficcarci dentro a tutti i costi parole e frasi particolarmente apprezzate finché non erano totalmente consumate; e una peculiarità che cospicuamente le caratterizzava, e le rovinava, era l'inveterato e intollerabile sermone che agitava la sua coda mozza alla fine di ciascuna di esse. Di qualunque argomento potesse trattarsi, si faceva uno sforzo sovrumano per presentarlo sotto questo o quell'aspetto che la morale e la religione potessero contemplare con edificazione. L'evidente insincerità di queste prediche non bastava a far decadere, nelle scuole, quest'uso perverso, così come non basta al giorno d'oggi; e forse non basterà mai finché il mondo continuerà a girare. Non c'è scuola, in tutto il nostro paese, dove le signorine non si sentano obbligate a concludere i loro componimenti con un predicozzo; e troverete che la predica della ragazza più frivola e meno religiosa della scuola è sempre la più lunga e la più inflessibilmente pia. Ma basta così. Le verità sgradevoli sono difficili da mandar giù. Torniamo all'«esame». Il primo componimento di cui fu data lettura era un tema intitolato: «È questa, dunque, la Vita?» Forse il lettore riuscirà a sopportarne uno stralcio:

            «Nelle ordinarie condizioni della vita, con quali incantevoli emozioni lo spirito delle giovinette pregusta qualche sognata occasione festiva! La fantasia è occupata a schizzare rosee immagini di gaiezza. Con gli occhi dell'immaginazione, la voluttuosa ammiratrice della moda già si vede tra la folla festosa, "l'osservata di ogni osservatore". Le sue forme aggraziate, adorne di candide vesti, volteggiano nei labirinti della danza gioiosa; il suo occhio è il più vivo, il suo passo è il più lieve nell'allegro trattenimento. In così deliziose fantasie rapido passa il tempo, e viene l'ora tanto attesa del suo ingresso in quel mondo paradisiaco di cui ha fatto così splendidi sogni. Come tutto appare fatato al suo sguardo rapito! Ogni nuova scena è più affascinante dell'ultima. Ma dopo un po' ella scopre che sotto questo bell'aspetto tutto è vanità; l'adulazione che un tempo incantava la sua anima, ora suona stridula al suo orecchio; la sala da ballo ha perduto il suo fascino; e con la salute in pezzi e il cuore amareggiato essa le volta le spalle con la convinzione che i piaceri mondani non potranno mai soddisfare le brame dello spirito!»

            Eccetera eccetera. Di tanto in tanto, durante la lettura, si sentiva un brusio di approvazione, accompagnato da sommesse esclamazioni: «Che carino!» «Com'è eloquente!» «Quant'è vero!», eccetera, e quando la storia si concludeva con un predicozzo particolarmente insopportabile, gli applausi erano addirittura entusiastici.

            Si alzò allora una fanciulla esile e malinconica, il cui volto presentava quel pallore «interessante» che deriva dalle pillole e dalla cattiva digestione, e lesse una «poesia». Due strofe basteranno.

L'addio all'Alabama di una donzella del Missouri

            Addio, dolce Alabama! Io t'amo tanto!

            Ma per poco lasciarti ora dovrò!

            In petto il cuore è gonfio di pianto

            E nei ricordi sprofondata sto!

            Perché ho percorso le tue valli in fiore;

            Sognato dei tuoi fiumi sulla riva;

            Dei torrenti sentito il gran romore

            E mirato la luna che saliva.

            Non è vergogna se col cuore greve

            Io m'allontano da questa terra antica;

            Se con pena non agile e non lieve

            Saluto questa gente che mi è amica.

            Tu m'eri patria e asilo, Stato mio,

            Che da lungi la mia voce ancora chiama;

            Quando la tête in un rimescolio,

            A te volgo le spalle, mia Alabama!

            Pochissimi dei presenti sapevano cosa volesse dire tête, ma la poesia ebbe comunque un grandissimo successo.

            Fece poi la sua comparsa una signorina dalla carnagione scura, con gli occhi neri e i capelli neri, che tacque per un momento di grande effetto, prese un'espressione tragica e cominciò a leggere in tono misurato:

Una visione

Scura e tempestosa era la notte. Sotto l'altissima volta del cielo non una sola stella palpitava; ma le profonde intonazioni di un tuono minaccioso vibravano continuamente all'orecchio; mentre lampi terribili sfogavano il loro malumore nelle nebbiose sfere celesti, con l'aria di spregiare il dominio esercitato sui terrori che incutevano dall'illustre Benjamin Franklin! Anche i venti impetuosi uscivano in frotta dalle loro mistiche dimore e impazzavano qua e là come per aumentare col loro aiuto la sfrenatezza della scena. In un momento simile, così cupo, così spaventoso, il mio spirito anelava a un briciolo di umana comprensione; quand'ecco che

            L'amica più cara, mio conforto, mia guida e mio vanto,

            Gioia nel dolore, estasi nella gioia, mi fu accanto.

Si muoveva come uno di quegli esseri splendenti raffigurati nei solari sentieri dell'Eden dalla fantasia dei romantici e dei giovani, regina di bellezza di null'altro adorna che della propria trascendente venustà. Così lieve era il suo passo da non produrre alcun suono, e se non fosse stato per il magico brivido impartito dal suo tocco benigno, come altre bellezze non appariscenti sarebbe scivolata via senza farsi notare: senza farsi cercare. Una strana tristezza improntava i suoi lineamenti, come lacrime di ghiaccio sulla cappa decembrina, mentre indicava gli elementi in lotta fra di loro e m'invitava a contemplare i due esseri che intendeva presentarmi.

            Questo incubo formava un manoscritto di circa dieci pagine, e finiva con una predica così micidiale per le speranze di salvezza dei non-presbiteriani che vinse il primo premio. Questo componimento venne giudicato il migliore della serata. Il sindaco del paese, consegnando il premio all'autrice, tenne un discorso appassionato in cui disse che quel tema era «la cosa di gran lunga più eloquente che gli fosse mai capitato di ascoltare, e che lo stesso Daniel Webster avrebbe ben potuto esserne fiero».

            Sarà il caso di osservare, di sfuggita, che il numero dei componimenti in cui si faceva un uso massiccio della parola «vezzoso», e dove ci si riferiva all'esperienza umana come a una «pagina di vita», era superiore alla media.

            A questo punto il maestro, tanto alticcio da rasentare la giovialità, scostò la poltrona, volse le spalle al pubblico e prese a disegnare alla lavagna una carta dell'America, sulla quale intendeva far svolgere l'esame di geografia. Ma le mani gli tremavano tanto che il risultato fu davvero pietoso, e dalla platea si levarono piccoli scrosci di risa soffocate. Sapendo di cosa si trattava, il signor Dobbins cercò di rimediare. Cancellò alcune linee e le rifece; ma riuscì solo a tracciarle ancora più storte, dando sfogo a risate più sonore. Dedicò allora tutta la sua attenzione a quel lavoro, come se fosse ben deciso a non farsi smontare dall'ilarità del pubblico. Si sentiva tutti gli occhi addosso; gli sembrava di andar meglio, eppure le risate continuavano; aumentavano addirittura nel modo più sfacciato. E il pubblico ne aveva ben donde. C'era una botola, sopra la sua testa, che dava nel solaio; giù da questa botola venne una gatta appesa a una corda per i fianchi; aveva uno straccio legato intorno alla testa e alle mascelle per impedirle di miagolare; scendeva lentamente, cercando di raddrizzarsi per artigliare la corda e poi ricadendo per annaspare con le zampe in aria. Le risate si fecero sempre più forti, la gatta era a meno di quindici centimetri dalla testa dell'insegnante, tutto preso dal suo lavoro; giù, giù, un po' più in basso, e la gatta con i suoi artigli disperati afferrò la parrucca, vi si tenne stretta e in un lampo fu issata nuovamente nel solaio col trofeo sempre in suo possesso! E come si specchiava, la luce, sulla pelata del maestro, perché il figlio del pittore d'insegne gliel'aveva dorata!

            Questo episodio pose fine alla serata. I ragazzi erano stati vendicati. Cominciavano le vacanze.

            NOTA. I «componimenti» citati in questo capitolo sono presi, senza modifiche, da un volume intitolato Prose e poesie di una signora del West, ma corrispondono esattissimamente ai temi svolti dalle studentesse, e di conseguenza sono molto più riusciti di quanto potrebbero esserlo delle semplici imitazioni.

CAPITOLO XXIII

            Attratto dal carattere vistoso delle loro «insegne», Tom s'iscrisse al nuovo ordine dei Cadetti della Temperanza. Promise di astenersi dal fumare, dal masticare tabacco e dal bestemmiare fino a quando fosse rimasto nell'ordine. In questo modo scoprì una cosa nuova: e cioè che promettere di non fare una cosa è il sistema più sicuro del mondo per far sì che uno voglia andare subito a fare proprio quella cosa. Tom scoprì subito di essere tormentato dal desiderio di bere e di bestemmiare; il desiderio divenne così intenso che solo la speranza di potersi mostrare in pubblico con la sua fusciacca rossa lo trattenne dal dimettersi dall'ordine. Il Quattro Luglio si avvicinava; ma Tom vi rinunciò subito - vi rinunciò prima di aver portato i suoi ceppi per più di quarantott'ore - e concentrò le sue speranze sul vecchio Frazer, il giudice di pace, che a quanto si

diceva era sul letto di morte e, essendo un funzionario di grado così elevato, avrebbe avuto un solenne funerale. Per tre giorni Tom mostrò un profondo interesse per le condizioni di salute del giudice, e chiedeva ansiosamente sue notizie. A volte le sue speranze erano grandi, così grandi che Tom si azzardava a tirar fuori le sue decorazioni e a far le prove davanti allo specchio. Ma il giudice aveva un modo di fluttuare scoraggiante quanto mai. Finalmente fu dichiarato in via di guarigione, e poi in convalescenza. Tom era disgustato; e gli sembrava di aver subìto un torto. Diede immediatamente le dimissioni, e quella notte il giudice ebbe una ricaduta e morì. Tom decise che non si sarebbe mai più fidato di un uomo simile. Il funerale fu una cosa bellissima. I Cadetti sfilarono con uno stile inteso a far crepare d'invidia l'ex iscritto.

            Tom era di nuovo libero, però; questo era già molto. Ora poteva bere e bestemmiare, ma scoprì con sorpresa di non averne voglia. Il semplice fatto di poterlo fare gliene aveva tolto il desiderio, privando quell'azione di ogni fascino.

            Ben presto Tom scoprì che i giorni di quelle vacanze tanto ambite non passavano mai.

            Provò a tenere un diario, ma in tre giorni non accadde nulla, e allora lo abbandonò.

            Il primo di tutti i minstrel show negri arrivò in paese, e fece scalpore. Tom e Joe Harper radunarono una compagnia di attori e furono felici per due giorni.

            Persino il glorioso Quattro Luglio fu, in un certo senso, un insuccesso, perché piovve a dirotto; di conseguenza non si tenne la sfilata, e l'uomo più grande della terra (come credeva Tom), il signor Benton, un autentico senatore degli Stati Uniti, fu una tremenda delusione, perché non solo non era alto sette metri, ma non vi si avvicinava nemmeno.

            Arrivò un circo. Dopodiché i ragazzi giocarono al circo per tre giorni in tende fatte di tappeti di stracci - prezzo di ammissione: tre spilli per i maschi, due per le bambine - e poi anche il circo venne abbandonato.

            Arrivarono un frenologo e un mesmerizzatore: e se ne andarono com'erano venuti, lasciando il paese più triste e noioso che mai.

            Ci furono due o tre feste organizzate dai genitori di qualche ragazzo, ma erano così poche e così divertenti che riuscivano solo a rendere ancora più dolorosi i dolorosi vuoti tra l'una e l'altra.

            Becky Thatcher era andata a passare le vacanze con i genitori nella sua casa di Constantinople: così la vita aveva perso ogni attrattiva.

            Il terribile segreto del delitto era una cronica tortura. Era un vero e proprio cancro, inguaribile e doloroso.

            Poi venne il morbillo.

            Per due lunghe settimane Tom giacque prigioniero, sordo al mondo e a ciò che vi accadeva. Stava malissimo, non gl'importava di nulla. Quando alla fine si rimise in piedi e si diresse fiaccamente verso il centro del paese, ogni essere vivente, grande o piccolo, aveva subìto un ingrato cambiamento. C'era stato un «revival», e tutti avevano «scoperto la religione»; non soltanto gli adulti, ma anche i ragazzi e le bambine. Tom andò in giro, sperando nell'impossibile, sperando cioè di vedere almeno il muso di un santo peccatore, ma non ebbe che delusioni. Trovò Joe Harper che studiava il Testamento, e gli voltò tristemente le spalle per non vedere quello spettacolo penoso. Cercò Ben Rogers, e lo sorprese a visitare i poveri con una borsa di opuscoli religiosi. Scovò Jim Hollis, che richiamò la sua attenzione sul prezioso avvertimento che il Signore gli aveva dato mandandogli il morbillo. Ogni ragazzo che incontrava aggiungeva un'altra tonnellata al peso della sua depressione; e quando, disperato, corse finalmente a rifugiarsi tra le braccia di Huckleberry Finn e fu accolto con la citazione di un versetto della Scrittura, il suo cuore si spezzò, e Tom arrancò faticosamente fino a casa e si mise a letto, rendendosi conto che, di tutti gli abitanti del paese, lui solo era perduto, e perduto per sempre.

            E quella notte venne un tremendo temporale, con pioggia scrosciante, orridi colpi di tuono e accecanti cortine di lampi. Tom mise la testa sotto le coperte e attese in un orrore d'incertezza che si compisse la sua sorte; perché non aveva ombra di dubbio che tutta quella baraonda fosse per lui. Credeva di aver forzato la pazienza della divinità oltre ogni limite di sopportazione, e che questo fosse il risultato. Avrebbe potuto sembrargli uno spreco di mezzi e munizioni uccidere un insetto con una batteria di cannoni, ma non trovava nulla d'incongruo nel mettere in piedi un temporale costoso come quello per togliere il tappeto sotto i piedi a un insetto come lui.

            Poco dopo la tempesta si calmò e scomparve senza raggiungere il suo scopo. Il primo impulso del ragazzo fu quello di ringraziare il cielo e promettere di cambiar vita. Il secondo fu di attendere: quel temporale poteva essere l'ultimo.

            L'indomani i medici tornarono; Tom aveva avuto una ricaduta. Le tre settimane che passò coricato sulla schiena questa volta gli parvero un secolo. Quando uscì di casa, finalmente, quasi quasi non gl'importava nemmeno di essere stato risparmiato, ricordando la solitudine della sua vita, lo stato di abbandono nel quale si trovava. Vagò svogliatamente per le strade e trovò Jim Hollis che faceva il giudice in un tribunale minorile che stava processando una gatta per assassinio, alla presenza della sua vittima, un uccello. Trovò Joe Harper e Huck Finn in fondo a un vicolo che mangiavano un melone rubato. Poveri ragazzi. Anche loro, come Tom, avevano avuto una ricaduta.

CAPITOLO XXIV

            Finalmente l'atmosfera sonnolenta venne turbata, e vigorosamente.

            In tribunale cominciò il processo per l'omicidio nel cimitero. Diventò subito il principale argomento di tutte le chiacchiere del villaggio. Tom non riusciva a staccarsene un istante. Ogni accenno al delitto gli faceva balzare il cuore in gola, perché la sua coscienza sporca e i suoi timori riuscivano quasi a persuaderlo che quelle osservazioni venivano fatte a portata del suo udito per «metterlo alla prova»; non vedeva come qualcuno potesse sospettarlo di sapere qualcosa del delitto, e tuttavia non riusciva a stare tranquillo in mezzo a quel turbine di pettegolezzi. Continuava a sudar freddo ogni volta che ne sentiva parlare. Un giorno portò Huck in un posto fuori mano per fare quattro chiacchiere con lui. Sarebbe stato un sollievo sciogliere la lingua per un po', spartire il fardello delle sue angosce con un altro sofferente come lui. Inoltre, voleva assicurarsi che Huck avesse tenuto il becco chiuso.

            «Huck, ne hai mai parlato con nessuno?»

            «Di che?»

            «Lo sai.»

            «Oh. Certo che non ne ho parlato.»

            «Neanche una parola?»

            «Neanche mezza, Dio mi è testimone. Perché me lo domandi?»

            «Be', avevo paura.»

            «Ma scusa, Tom Sawyer, tu non vivresti due giorni se questa cosa saltasse fuori. Lo sai.»

            Tom si sentiva più tranquillo. Dopo una pausa:

            «Huck», disse, «nessuno potrebbe costringerti a parlare, eh?»

            «Costringermi a parlare? Be', se volessi che quel demonio di un meticcio mi annegasse come un gatto, potrebbero costringermi a parlare. Non c'è altro modo.»

            «Be', allora è tutto a posto. Credo che siamo al sicuro, fino a quando terremo il becco chiuso. Ma giuriamo di nuovo, in ogni caso. È più sicuro!»

            «D'accordo.»

            Così tornarono a giurare con sinistra solennità.

            «Cos'hai sentito dire, Huck? Non parlano d'altro.»

            «Cos'ho sentito? Be', Muff Potter, Muff Potter, sempre Muff Potter. Ho una tale fifa che vorrei poter andare a nascondermi in qualche posto.»

            «Sono le stesse cose che dicono in casa mia. Secondo me è spacciato. Qualche volta non ti dispiace per lui?»

            «Quasi sempre... Quasi sempre. È un buono a nulla; ma non ha mai fatto male a una mosca. Va un po' a pesca per racimolare i soldi per potersi ubriacare... e il più del tempo se ne sta in ozio; ma, Dio buono, lo facciamo tutti: quasi tutti, almeno... i predicatori e gente simile. Ma non è cattivo: un giorno mi ha dato mezzo pesce, quando non era abbastanza per due; e un mucchio di volte mi ha come dato una mano quando ero particolarmente scalognato.»

            «Be', a me aggiustava gli aquiloni, Huck, e mi attaccava gli ami alla lenza. Vorrei che potessimo farlo uscire di là.»

            «Dio! Non ce la faremmo mai, Tom. E non servirebbe a niente; lo riprenderebbero.»

            «Sì... È vero. Ma mi scoccia sentir parlare tanto male di lui quando, accidenti, lui non ha mai fatto... quella cosa.»

            «Anche a me Tom. Cristo, li sento dire che è il peggior criminale del paese, e si meravigliano che non sia stato già impiccato.»

            «Sì; parlano sempre così. Li ho sentiti dire che, se fosse evaso, lo avrebbero linciato.»

            «E lo farebbero, anche.»

            I ragazzi fecero una lunga chiacchierata, che però fu per loro di limitata consolazione. Mentre calava la notte, si sorpresero a gironzolare nelle vicinanze della prigione piccola e isolata, forse con la vaga speranza che capitasse qualcosa che potesse trarli dalle difficoltà in cui si trovavano. Ma non accadde nulla; sembrava che non ci fossero né angeli né fate interessati a questo sventurato prigioniero.

            I ragazzi fecero quello che spesso avevano fatto prima: si accostarono all'inferriata della cella e diedero a Potter un po' di tabacco e dei fiammiferi. Era al pianterreno, e non c'erano guardie.

            La gratitudine che mostrava per questi doni aveva sempre turbato la loro coscienza: questa volta la ferita fu più profonda che mai. Si sentirono dei vigliacchi e dei traditori in sommo grado quando Potter disse:

            «Voi siete sempre stati molto buoni con me, ragazzi... più buoni di chiunque altro in questo paese. E io non lo dimentico, nossignore. Spesso dico tra me, dico: "Una volta aggiustavo tutti gli aquiloni e i giocattoli dei ragazzi, e gli mostravo dov'erano i posti migliori per pescare, e li aiutavo, quando potevo, e ora che è nei guai tutti hanno dimenticato il vecchio Muff, tranne Tom e Huck: loro non se lo dimenticano" mi dico, "e io non mi dimentico di loro!" Be', ragazzi, ho fatto una cosa orribile: dovevo essere ubriaco e fuori di me, ecco l'unica spiegazione che posso dare, e ora mi faranno dondolare, e questo è giusto. Giusto, e anche meglio, forse; lo spero, in ogni caso. Be', non parliamone più. Non voglio rattristarvi; voi mi avete aiutato. Ma quel che voglio dire è: non ubriacatevi mai, così non finirete mai qui dentro. Spostatevi un po' a sinistra: così, ecco; è un gran conforto vedere facce amiche quando uno si trova in un tal mare di guai, e qui non viene a trovarmi nessuno tranne voi. Facce amiche, facce buone. Montate l'uno sulla schiena dell'altro, e lasciatemele toccare. Così. Diamoci la mano: infilate le vostre tra le sbarre, ché la mia non ci passa. Che manine piccole, e deboli... Però a Muff Potter hanno dato un grande aiuto, e se potessero lo aiuterebbero di più.»

            Quando Tom andò a casa si sentiva profondamente infelice, e i suoi sogni quella notte furono pieni di orrori. Il giorno dopo, e quello successivo, gironzolò intorno al tribunale, sentendo l'impulso quasi irresistibile di entrare, ma costringendosi a restarne fuori. Huck stava facendo la medesima esperienza. I due ragazzi si evitavano con cura. Di tanto in tanto l'uno o l'altro si allontanava, ma una stessa sinistra attrazione finiva sempre col riportarli là. Tom teneva le orecchie aperte quando gli sfaccendati uscivano dall'aula, lemme lemme, ma raccoglieva invariabilmente notizie scoraggianti: le maglie della legge si stavano stringendo sempre più implacabilmente intorno al povero Potter. Alla fine del secondo giorno tutto il paese diceva che nulla aveva scosso la testimonianza di Joe l'indiano, e che non c'era il minimo dubbio su quello che sarebbe stato il verdetto della giuria.

            Quella sera Tom rimase fuori fino a tardi, e andò a letto passando dalla finestra. Era in uno stato di tremenda eccitazione. Ore, passarono, prima che riuscisse a prender sonno. Il mattino seguente tutto il paese accorse in tribunale, perché quello doveva essere il gran giorno. I due sessi erano equamente rappresentati nella sala piena come un uovo. Dopo una lunga attesa i giurati entrarono nell'aula e presero posto; poco dopo Potter, pallido e smunto, timoroso e disperato, fu introdotto nell'aula, incatenato, e fatto sedere dove gli occhi di tutti i curiosi potevano vederlo; non meno cospicuo era Joe l'indiano, imperturbabile come sempre. Ci fu un altro intervallo, e poi arrivò il giudice, e lo sceriffo dichiarò aperta l'udienza. Seguirono i soliti bisbigli tra gli avvocati, e il fruscio delle carte stropicciate. Questi dettagli, e i relativi ritardi, crearono un'atmosfera di attesa che era tanto solenne quanto impressionante.

            Venne poi citato un testimone il quale disse di aver trovato Muff Potter che si stava lavando nel ruscello nelle prime ore del mattino in cui era stato scoperto il delitto, e che l'uomo aveva subito tagliato la corda. Dopo qualche altra domanda il pubblico ministero disse:

            «Se la difesa ha domande da fare...»

            L'imputato alzò gli occhi per un attimo, ma li riabbassò quando il suo avvocato disse:

            «Non ho domande da fargli.»

            Il testimone successivo fornì la prova del ritrovamento del coltello vicino al cadavere. Il pubblico ministero disse:

            «La parola alla difesa.»

            «Non ho domande da fargli», rispose l'avvocato di Potter.

            Un terzo testinome giurò di aver visto spesso il coltello in mano a Potter.

            «La parola alla difesa.»

            L'avvocato di Potter rinunciò a interrogarlo.

            Le facce degli spettatori cominciavano a mostrare un certo fastidio. Che intenzioni aveva quell'avvocato, di lasciar impiccare il suo cliente senza fare il minimo sforzo per salvarlo?

            Molti altri testimoni parlarono dell'atteggiamento colpevole tenuto da Potter quando fu portato sul luogo del delitto. Poterono scendere dal banco senza essere interrogati dal difensore.

            Ogni dettaglio delle circostanze compromettenti emerse al cimitero quel mattino che tutti i presenti ricordavano così bene fu rievocato da testimoni attendibili, ma nessuno di essi venne interrogato dall'avvocato di Potter. Il pubblico non nascose la sua perplessità, espresse la sua insoddisfazione con alcuni mormorii e si attirò un rabbuffo del giudice. Poi il pubblico ministero disse:

            «In base alle testimonianze giurate di cittadini la cui sola parola è al di sopra di ogni sospetto noi abbiamo dimostrato senz'ombra di dubbio che l'autore di quest'orribile delitto è l'infelice nella gabbia degli imputati. A questo punto rinunciamo a presentare altre prove.»

            Il povero Potter si lasciò sfuggire un gemito, si portò le mani al viso, e prese a dondolarsi lentamente avanti e indietro, mentre un penoso silenzio si diffondeva nell'aula. Molti uomini erano commossi, e la pietà di molte donne si traduceva in lacrime. L'avvocato difensore si alzò in piedi e disse:

            «Vostro onore, nelle nostre osservazioni all'inizio di questo processo noi avevamo adombrato l'intenzione di provare che il nostro cliente commise quest'azione spaventosa mentre si trovava sotto l'influenza di un cieco e irresponsabile delirio prodotto dall'alcool. Ora abbiamo cambiato idea; rinunciamo all'eccezione.» (Poi, rivolto al cancelliere.) «Si chiami Tom Sawyer.»

            Un profondo stupore si dipinse sul volto dei presenti, non escluso quello di Potter. Tutti gli occhi si appuntarono con morbosa curiosità su Tom mentre il ragazzo si alzava e prendeva posto sul banco dei testimoni. Aveva un'aria piuttosto sconvolta perché era molto spaventato. Gli fecero prestare il giuramento.

            «Thomas Sawyer, dov'eravate il diciassette giugno, verso mezzanotte?»

            Tom guardò di sottecchi la faccia di Joe l'indiano e la lingua lo tradì. Il pubblico ascoltava col fiato sospeso, ma le parole non volevano uscire. Dopo qualche istante, tuttavia, il ragazzo ritrovò un pochino della sua forza e riuscì a infonderne abbastanza nella voce da farsi udire almeno da una parte del pubblico:

            «Al cimitero!»

            «Un po' più forte, per cortesia. Non abbiate paura. Voi eravate...»

            «Al cimitero.»

            Un sorriso sprezzante passò rapido sul viso di Joe l'indiano.

            «Eravate nei paraggi della tomba di Horse Williams?»

            «Sissignore.»

            «Parlate un po' più forte. A che distanza eravate dalla tomba?»

            «Alla stessa distanza, più o meno, che c'è tra me e lei.»

            «Eravate nascosto oppure no?»

            «Ero nascosto.»

            «Dove?»

            «Dietro gli olmi che sorgono sul ciglio della tomba.»

            Joe l'indiano trasalì, con un sussulto quasi impercettibile.

            «C'era qualcuno con voi?»

            «Sissignore. C'ero andato con...»

            «Aspettate... Aspettate un momento. Non c'è nessun bisogno di fare il nome del vostro compagno. Lo citeremo al momento opportuno. Avevate portato qualcosa là con voi?»

            Tom esitò e parve confuso.

            «Dite pure, ragazzo mio... Non siate diffidente. La verità è sempre degna di rispetto. Cos'avevate portato laggiù?»

            «Solo un... un... gatto morto.»

            Ci fu una piccola esplosione d'ilarità, che il giudice prontamente soffocò.

            «Produrremo lo scheletro di quel gatto. Ora, ragazzo mio, diteci tutto quello che è successo; ditecelo a modo vostro: non saltate nulla e non abbiate paura.»

            Tom cominciò il suo racconto: in tono esitante, dapprima, ma poi, via via che s'infervorava, le parole gli uscirono di bocca sempre più facilmente; in breve cessò ogni rumore, lasciando nella sala soltanto il suono della sua voce; ogni occhio era puntato su di lui; con la bocca socchiusa e il fiato sospeso il pubblico pendeva dalle sue labbra, perdendo la nozione del tempo, rapito dal fascino terribile della storia. La tensione raggiunse il colmo allorché il ragazzo disse: «E quando il dottore mollò un colpo con l'asse e Muff Potter cadde a terra, Joe l'indiano saltò su col coltello e...»

            Crack! Veloce come il lampo, il meticcio balzò verso una finestra, si fece largo fra tutti quelli che cercavano di fermarlo e sparì.

CAPITOLO XXV

            Tom fu ancora una volta un fulgido eroe: il beniamino dei vecchi, l'invidia dei giovani. Il suo nome finì sulla stampa immortale, perché il giornale del paese tessé le sue lodi. Qualcuno pensava addirittura che un giorno sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti, se non fosse finito, prima, sulla forca.

            Come sempre, il mondo incostante e irragionevole si strinse Muff Potter al seno, e lo vezzeggiò con la stessa larghezza con cui prima lo aveva maltrattato. Ma questi comportamenti al mondo fanno onore; per questo non sta bene trovarvi da ridire.

            I giorni di Tom erano giorni di gloria e di esultanza, ma le sue notti erano stagioni di orrore. Joe l'indiano infestava tutti i suoi sogni, e sempre con la sua condanna negli occhi. Quasi nessuna tentazione poteva convincere il ragazzo a uscir di casa dopo il tramonto. Il povero Huck si trovava nello stesso stato di terrore e d'infelicità, perché Tom aveva raccontato tutta la storia all'avvocato la sera prima del gran giorno in tribunale, e Huck aveva una paura folle che la parte da lui avuta in quell'affare potesse ancora trapelare, nonostante la fuga di Joe l'indiano gli avesse risparmiato la sofferenza di dover testimoniare in tribunale. Il poverino aveva fatto promettere il segreto all'avvocato, ma... e con questo? Da quando la coscienza turbata di Tom era riuscita, una sera, a spingerlo fino alla casa dell'avvocato, e a strappare quell'orribile storia da labbra che erano state suggellate con il più lugubre e il più spaventoso dei giuramenti, la fiducia di Huck nella razza umana si era quasi cancellata. Di giorno la gratitudine di Muff Potter faceva sì che Tom si rallegrasse di aver parlato; ma di notte il ragazzo pensava che avrebbe fatto meglio a cucirsi la lingua. Per metà del tempo Tom temeva che Joe l'indiano non sarebbe mai stato catturato; per l'altra metà temeva che lo fosse. Era sicuro che non sarebbe mai più riuscito a respirare liberamente finché quell'uomo non fosse morto e lui non avesse visto il suo cadavere.

            Ricompense erano state offerte, il paese era stato rastrellato, ma Joe l'indiano non era saltato fuori. Uno di quei prodigi autorevoli e onniscienti, un detective, venne da St. Louis, ficcanasò qua e là, scosse la testa, fece la faccia di chi la sa lunga e ottenne uno di quei fantastici successi che invariabilmente collezionano i membri di quell'arte. Vale a dire, «trovò un indizio». Ma non s'impicca un «indizio» per omicidio, e così, dopo che il detective ebbe finito e se ne fu tornato a casa, Tom si sentì insicuro come prima.

            I giorni passavano lenti, e il peso dell'apprensione che ciascuno si lasciava alle spalle diminuiva un poco per volta.

CAPITOLO XXVI

            Nella vita di ogni ragazzo educato come si deve viene sempre un momento in cui lo prende un desiderio irresistibile di andare in qualche luogo a cercare un tesoro nascosto. Un giorno questo desiderio assalì Tom all'improvviso. Il ragazzo andò a cercare Joe Harper, ma non riuscì a trovarlo. Poi cercò Ben Rogers; era andato a pesca. Finalmente incontrò Huck Finn la Mano Insanguinata. Huck era disponibile. Tom lo condusse in un angolo appartato e in confidenza gli parlò della faccenda. Huck era pronto. Huck era sempre pronto a prender parte a ogni impresa che offrisse qualche motivo di divertimento e non richiedesse l'impiego di capitali, perché aveva una fastidiosa sovrabbondanza di quel tempo che non è denaro.

            «Dove scaviamo?» disse Huck.

            «Oh, quasi dappertutto.»

            «Come, sono nascosti dappertutto?»

            «No, per niente. Sono nascosti in posti molto speciali, Huck: certe volte su isole, certe volte in casse marcite sotto la punta di un ramo di un vecchio albero secco, proprio là dove cade l'ombra a mezzanotte; ma soprattutto sotto il pavimento delle case infestate dagli spiriti.»

            «Chi li nasconde?»

            «Be', i ladri, naturalmente: chi dovrebbe nasconderli, secondo te? I direttori delle scuole domenicali?»

            «Non so. Se il tesoro fosse mio, mica lo nasconderei: lo spenderei e mi darei alla pazza gioia.»

            «Anch'io; ma i ladri non la pensano così: lo nascondono sempre e lo lasciano là.»

            «Non vanno più a cercarlo?»

            «No, loro pensano di farlo, ma di solito dimenticano i segni, oppure muoiono. Comunque, il tesoro resta là per un pezzo e si arrugginisce; e poco dopo qualcuno trova una vecchia carta gialla che spiega come si trovano le tracce: una carta che per decifrarla ci vuole più di una settimana perché sono quasi tutti segni e geroglifici.»

            «Gero cosa?»

            «Geroglifici: disegni e ghirigori, sai, che sembra che non abbiano alcun significato.»

            «Hai trovato una di quelle carte, Tom?»

            «No.»

            «Be', allora, come farai a trovare i segni?»

            «Non mi serve nessun segno. Lo seppelliscono sempre in una casa infestata dagli spiriti, o su un'isola, o sotto un albero secco con un ramo sporgente. Be', noi abbiamo un po' esplorato Jackson's Island, e un giorno o l'altro possiamo continuare; e c'è la vecchia casa degli spiriti in fondo alla salita di Still-House, e di alberi con i rami secchi ce n'è a mucchi, a carettate.»

            «Ci sono tesori sotto tutti i rami secchi?»

            «Che discorsi! No!»

            «Allora come farai a trovare quello buono?»

            «Li provo tutti.»

            «Accidenti, Tom, ci vorrà tutta l'estate.»

            «Be', e con questo? Poniamo che tu riesca a trovare una pentola d'ottone con cento dollari dentro, tutti belli arrugginiti, o un baule marcito pieno di diamanti. Che ne dici?»

            A Huck brillarono gli occhi.

            «È troppo, fin troppo per me. Dammi solo i cento dollari, e i diamanti te li lascio tutti.»

            «D'accordo. Ma puoi star sicuro che i diamanti io non li butto via. Ce n'è che valgono venti dollari l'uno. È difficile trovarne uno che valga meno di tre quarti di dollaro; o di un dollaro, anche.»

            «No! Davvero?»

            «Certo: chiedilo a chiunque. Non ne hai mai visto uno, Huck?»

            «Ch'io ricordi, no.»

            «Oh, i re ne hanno un mucchio.»

            «Be', io non conosco nessun re, Tom.»

            «Lo credo. Ma se dovessi andare in Europa, chissà quanti te ne vedresti ballare intorno.»

            «Ballano?»

            «Se ballano? Sei proprio tonto! No!»

            «Allora, perché hai detto che ballano?»

            «Uffa! Volevo dire solo che li avresti visti... Non che ballano, si capisce: perché dovrebbero ballare? Ma voglio dire solo che li vedresti... sparsi qua e là, insomma, dappertutto. Come quel vecchio gobbo di Riccardo.»

            «Riccardo? E il cognome?»

            «Non ce l'aveva, il cognome. I re hanno solo il nome di battesimo.»

            «No?»

            «Sì. Te lo dico io.»

            «Be', contenti loro, Tom; io però non vorrei essere un re e avere solo il nome di battesimo, come un negro. Ma senti: dove vuoi metterti a scavare, prima?»

            «Be', non so. E se cominciassimo da quel vecchio albero secco che c'è sulla collina dall'altra parte della salita di Still-House?»

            «D'accordo.»

            Allora si procurarono un badile e un piccone malandato e iniziarono la loro camminata di cinque chilometri. Arrivarono accaldati e ansimanti, e si gettarono per terra all'ombra di un vicino olmo per riposarsi e fare una fumatina.

            «Mi piace», disse Tom.

            «Anche a me.»

            «Senti, Huck, se qui troviamo un tesoro, tu cosa farai della tua parte?»

            «Be', mangerò una torta al giorno, con un bicchiere d'acqua di selz, e andrò a tutti i circhi che vengono in paese. Puoi star certo che me la spasserò.»

            «Be', non metterai da parte niente?»

            «Da parte? Per cosa?»

            «Come, per avere di che vivere anche dopo.»

            «Oh, non servirebbe a niente. Mio padre, un giorno o l'altro, tornerebbe in paese e ci metterebbe su le grinfie, se io non mi spicciassi, e ti assicuro che spazzerebbe via tutto in un battibaleno. Tu, Tom, cosa faresti della tua?»

            «Io mi compro un tamburo nuovo, e una spada vera, e una cravatta rossa, e un cucciolo, e mi sposo.»

            «Ti sposi?»

            «Proprio così.»

            «Tom, tu... Accidenti, tu hai le pigne in testa.»

            «Aspetta e vedrai.»

            «Be', questa è la cosa più scema che potresti fare, Tom. Guarda i miei genitori. Botte! Per la miseria, non facevano che picchiarsi. Me lo ricordo bene.»

            «Non significa niente. La ragazza che sposo io non è mica una che picchia.»

            «Io credo che siano tutte uguali, Tom. Ti fanno rigar dritto, tutte quante. Sarà meglio che ci pensi ancora un po'. Te lo dico io. Com'è che si chiama, questa squinzia?»

            «Non è una squinzia, è una ragazza.»

            «Guarda, è sempre la stessa cosa. Chi dice squinzia, chi dice ragazza: vanno bene tutt'e due. In ogni modo, come si chiama, Tom?»

            «Te lo dico un'altra volta: adesso no.»

            «Va bene, come vuoi. Solo che se tu ti sposi io sarò più solo che mai.»

            «No, non è vero, verrai a vivere con me. E adesso piantiamola e mettiamoci a scavare.»

            Lavorarono e sudarono per una mezz'ora. Nessun risultato. Faticarono per un'altra mezz'ora. Sempre senza risultati. Huck disse:

            «Li seppelliscono sempre così fondi?»

            «Certe volte, non sempre. Di solito, no. Forse non abbiamo trovato il posto giusto.»

            Allora ne scelsero uno nuovo e ricominciarono. Il lavoro andava un po' a rilento, eppure facevano progressi. Per qualche tempo sgobbarono in silenzio. Finalmente Huck si appoggiò al badile, si terse con la manica le gocce che gl'imperlavano la fronte e disse:

            «Dove scaverai la prossima volta, quando avremo finito qui?»

            «Forse dovremmo provare sotto il vecchio albero che c'è in cima a Cardiff Hill, dietro la casa della vedova.»

            «Credo anch'io che dovrebbe andar bene. Ma la vedova non ce lo porterà via, Tom? È sulla sua terra.»

            «Portarcelo via? Che ci provi! Chi trova uno di questi tesori nascosti, è lui il padrone. Non conta nulla di chi è la terra dov'era seppellito.»

            La risposta era soddisfacente. Il lavoro riprese. Poco dopo Huck disse:

            «Accidenti, dobbiamo avere sbagliato posto un'altra volta. Che ne pensi?»

            «È molto strano, Huck. Non capisco. Certe volte ci si mettono le streghe. Mi sa tanto che adesso dipende da questo.»

            «Storie! Di giorno le streghe non hanno alcun potere.»

            «Già, è vero. Non ci avevo pensato. Ah, ora capisco qual è il problema! Che razza di stupidi siamo! Bisogna vedere dove cade l'ombra del ramo a mezzanotte, ed è lì che si deve scavare!»

            «Allora, porca miseria, abbiamo fatto tutta questa fatica per niente. Accidenti, bisogna tornare di notte. È lontano. Tu ce la fai a svignartela?»

            «Altroché. E bisogna farlo stanotte, perché se qualcuno vede i buchi capirà subito cosa c'è sotto e si metterà a cercarlo.»

            «D'accordo, stasera vengo a miagolare sotto casa tua.»

            «Va bene. Nascondiamo gli attrezzi tra i cespugli.»

            Quella sera i ragazzi furono lì all'ora stabilita. Era un luogo solitario, e un'ora solennizzata da antiche tradizioni. Gli spiriti sussurravano tra le foglie che stormivano, i fantasmi se ne stavano annidati negli angoli bui, il cupo abbaiare di un cane saliva a ondate da lontano, una civetta rispondeva con la sua nota sepolcrale. I ragazzi erano soggiogati da quest'atmosfera suggestiva e parlavano poco. Quando fu passato un po' di tempo, giudicarono che fosse mezzanotte; segnarono il punto dove cadeva l'ombra e si misero a scavare. Le speranze cominciavano a crescere. L'interesse era sempre più vivo, e di pari passo procedeva il loro zelo. La buca diventava sempre più profonda, ma ogni volta che il loro cuore trasaliva nell'udire che il piccone urtava contro qualche cosa, i ragazzi pativano una nuova delusione. Era solo un sasso o una radice. Finalmente Tom disse:

            «È inutile, Huck, ci siamo sbagliati un'altra volta.»

            «Be', ma non possiamo esserci sbagliati. Abbiamo segnato il punto preciso dell'ombra.»

            «Lo so, ma c'è un'altra cosa.»

            «Cosa?»

            «Cavolo, per l'ora abbiamo tirato a indovinare. Come niente, poteva essere troppo presto o troppo tardi.»

            Huck lasciò cadere il badile.

            «Ecco», disse. «Ecco il vero problema. Qui bisogna lasciar perdere. Non potremo mai sapere l'ora giusta, e poi questo lavoro mi fa troppa paura, qui a quest'ora di notte con le streghe e i fantasmi che svolazzano a destra e a manca. Ho come l'impressione di aver sempre qualcuno alle spalle; e mi manca il coraggio di voltarmi perché magari ce ne sono degli altri, davanti, che aspettano il momento buono. È da quando sono qui che ho la pelle d'oca.»

            «Be', Huck, ti capisco benissimo. Quasi sempre ci mettono un morto, quando seppelliscono un tesoro sotto un albero, per fargli la guardia.»

            «Signore!»

            «Sì, è così. L'ho sentito dire.»

            «Tom, non mi va molto di scherzare quando ci sono di mezzo dei morti. Con quelli si è destinati a finir male.»

            «Neanche a me piace farli arrabbiare, Huck. Metti che questo qui dovesse cacciar fuori il suo teschio e dire qualcosa!»

            «No, Tom! È orribile.»

            «Be', proprio così, Huck. Non mi sento affatto tranquillo.»

            «Di', Tom, perché non ce ne andiamo a provare in qualche altro posto?»

            «Va bene, forse è meglio.»

            «Dove?»

            Tom rifletté un momento, poi disse:

            «La casa degli spiriti. Là.»

            «Accipicchia. Non mi piacciono le case degli spiriti, Tom. Cavolo, sono molto peggio dei morti. Forse i morti possono parlare, ma non vengono a gironzolarti intorno avvolti in un sudario quando meno te l'aspetti, e a spiarti all'improvviso dietro le spalle e a digrignare i denti come fanno loro. Una cosa simile non la sopporterei, Tom: nessuno riuscirebbe a sopportarla.»

            «Sì; ma, Huck, gli spettri girano solo di notte: non c'impediranno di scavare di giorno.»

            «Be', questo è vero. Ma sai benissimo che in quella casa degli spiriti la gente non ci va né di giorno né di notte.»

            «Be', questo dipende soprattutto dal fatto che la gente, in ogni caso, non va volentieri dove hanno ucciso un uomo. Ma nessuno ha mai visto niente, di notte, in quella casa: solo qualche luce azzurra che passava davanti alla finestra; di spettri veri e propri, neanche l'ombra.»

            «Be', quando vedi passare una di quelle luci azzurre, Tom, puoi scommettere che lì vicino c'è uno spettro. È ovvio. Perché sai che sono solo gli spettri che le usano.»

            «Sì, è vero, ma comunque loro non girano di giorno, e perché allora dovremmo aver paura?»

            «Quand'è così, va bene. Andiamo pure nella casa degli spiriti, se lo dici tu; ma secondo me è un bel rischio.»

            A questo punto si erano già avviati lungo la discesa. Là in mezzo alla valle rischiarata dalla luna, sotto di loro, sorgeva la casa «degli spiriti», completamente isolata, con gli steccati abbattuti da un pezzo, le erbacce che l'assediavano fino allo scalino della porta d'ingresso, il camino crollato e in rovina, i telai delle finestre asportati, un angolo del tetto sfondato. Per un poco i ragazzi la guardarono, quasi aspettandosi di vedere una luce bluastra passare rapida dietro una finestra; poi, parlando sottovoce, come si confaceva all'ora e alle circostanze, svoltarono a destra, per fare un largo giro intorno alla casa degli spiriti, e tornarono a casa per i boschi che coprivano l'altro versante di Cardiff Hill.

CAPITOLO XXVII

            Il giorno dopo verso mezzogiorno i ragazzi arrivarono all'albero secco; erano venuti a prendere gli arnesi. Tom non vedeva l'ora di raggiungere la casa degli spiriti; fino a un certo punto anche Huck, che però disse all'improvviso:

            «Senti, Tom, sai che giorno è oggi?»

            Tom ripassò mentalmente i giorni della settimana e poi alzò prontamente lo sguardo con un'espressione sbigottita:

            «Santo cielo! Non ci avevo pensato, Huck!»

            «Be', neanch'io, ma tutt'a un tratto m'è venuto in mente che era venerdì.»

            «Accidenti; la prudenza non è mai troppa, Huck. Potremmo metterci in un bell'imbroglio a cominciare una roba simile di venerdì.»

            «Potremmo? Ci metteremmo in un bell'imbroglio di sicuro! Forse ci sono dei giorni fortunati, ma il venerdì non è tra questi.»

            «Questo lo sanno anche gli idioti. Non crederai d'essere stato il primo a scoprirlo, Huck.»

            «Be', io non l'ho mai detto, eh? E non è solo che oggi è venerdì. Stanotte ho fatto un sogno orribile: ho sognato dei topi.»

            «No! Segno certo di guai. Bisticciavano tra loro?»

            «No.»

            «Be', Huck, meglio così. Quando non bisticciano, è solo un segno che ci sono guai in vista, sai. Tutto quello che dobbiamo fare è tenere gli occhi aperti e starne fuori. Lasciamo perdere questa faccenda, per oggi, e giochiamo. Conosci Robin Hood, Huck?»

            «No. Chi è Robin Hood?»

            «Come, era uno degli uomini più grandi che ci fossero mai stati in Inghilterra... e il migliore. Era un bandito.»

            «Perdiana, vorrei esserlo anch'io. Chi derubava?»

            «Solo sceriffi e vescovi e gente ricca e re, e persone simili. Ma non dava mai fastidio ai poveri. Gli voleva bene. Divideva sempre con loro in parti uguali.»

            «Be', doveva essere proprio un galantuomo.»

            «Puoi giurarci che lo era, Huck. Oh, era l'uomo più nobile che fosse mai esistito. Di uomini così non ce ne sono più, te lo assicuro. Avrebbe potuto suonarle a chiunque, in Inghilterra, con una mano legata dietro la schiena; ed era capace di prendere il suo arco di tasso e di centrare ogni volta una moneta da dieci cent, a due chilometri e mezzo.»

            «Cos'è un arco di tasso?»

            «Non lo so. È un tipo d'arco, naturalmente. E se colpiva quella monetina solo sull'orlo era capace di mettersi a piangere... e a bestemmiare. Ma giochiamo a Robin Hood: è un nobile passatempo. T'insegno io.»

            «Intesi.»

            Così giocarono a Robin Hood per tutto il pomeriggio, scoccando ogni tanto uno sguardo di desiderio alla casa degli spiriti giù nella valle e accennando alle prospettive del giorno dopo e alle possibilità che presentavano. Quando il sole cominciò a sprofondare verso occidente, s'incamminarono verso casa tagliando obliquamente le lunghe ombre degli alberi e scompavero ben presto nelle foreste di Cardiff Hill.

            Sabato, poco dopo mezzogiorno, i ragazzi si trovarono di nuovo sotto l'albero secco. Fecero una fumatina e una chiacchierata all'ombra, e poi scavarono un po' nella loro ultima buca, senza troppe speranze, ma solo perché Tom aveva detto che c'erano tanti casi in cui i cercatori avevano rinunciato al tesoro dopo esservi giunti a meno di dieci centimetri di distanza, e poi era arrivato un altro e l'aveva tirato fuori con un sol colpo di vanga. Stavolta, tuttavia, la cosa non riuscì, perciò i ragazzi si misero in spalla gli arnesi e se ne andarono, sicuri di non avere scherzato con la fortuna, ma di aver adempiuto a tutti gli obblighi connessi alla professione di cacciatore di tesori.

            Quando raggiunsero la casa degli spiriti, c'era qualcosa di tanto misterioso e sinistro nell'assoluto silenzio che regnava, là, sotto il sole cocente, e qualcosa di tanto deprimente nella solitudine e nella desolazione di quel luogo, che per un attimo i due ragazzi ebbero paura di avventurarsi nell'interno. Poi avanzarono lentamente fino alla porta e diedero, tremando, una sbirciata. Videro una stanza senza il pavimento, invasa dalle erbacce, con i muri scrostati, un antico focolare, finestre vuote, una scala in rovina; e qua, là, e dappertutto, pendevano ragnatele lacere e abbandonate. Finalmente entrarono, pian piano, col cuore che aveva affrettato i suoi battiti, parlando sottovoce, le orecchie pronte a cogliere il minimo rumore, e i muscoli tesi e pronti all'istantanea ritirata.

            Di lì a poco la familiarità modificò i loro timori, ed essi dedicarono a quel luogo un esame critico e interessato, piuttosto fieri della propria audacia, e anche un po' stupiti. Poi vollero dare un'occhiata al piano di sopra. Farlo era un po' come tagliarsi la via della ritirata, ma i due ragazzi presero a sfidarsi reciprocamente, e il risultato, naturalmente, non poteva che essere quello: buttarono gli arnesi in un cantone e intrapresero l'ascensione. Lassù c'erano le stesse tracce di abbandono. In un angolo trovarono un armadio che prometteva misteri, ma la promessa fu una frode: non c'era niente dentro. Ormai avevano ritrovato il coraggio, e la fiducia in se stessi. Stavano per scendere e mettersi al lavoro quando...

            «Ssst!» disse Tom.

            «Cosa c'è?» sussurrò Huck, sbiancando di paura.

            «Ssst! Ecco! Senti?»

            «Sì! Oh, mio Dio! Scappiamo!»

            «Sta' fermo! Non ti muovere! Stanno venendo proprio verso la porta.»

            I ragazzi si sdraiarono sul pavimento con gli occhi davanti ai buchi lasciati dai nodi nell'assito, e attesero, sconvolti dal terrore.

            «Si sono fermati... No... Vengono... Eccoli. Non dire un'altra parola, Huck. Dio santo, come vorrei essere fuori di qui!»

            Entrarono due uomini. Ciascuno dei due ragazzi disse tra sé:

            «Ecco il vecchio spagnolo sordomuto che è stato due o tre volte in paese, ultimamente... L'altro invece non l'ho mai visto prima.»

            «L'altro» era un individuo lacero e arruffato, con una faccia che non prometteva nulla di buono. Lo spagnolo era avvolto in un serape; aveva due baffi bianchi e cespugliosi, lunghi capelli bianchi che gli spuntavano da sotto il sombrero, e portava degli occhiali verdi. Quando entrarono, «l'altro» stava parlando a bassa voce; si sedettero per terra, rivolti verso la porta, con le spalle al muro, e quello che parlava continuò il suo discorso. Seguitando, il suo atteggiamento diventò meno cauto e le sue parole più chiare.

            «No», disse, «ci ho pensato, e non mi piace. È pericoloso.»

            «Pericoloso!» brontolò lo spagnolo «sordomuto», con grande sorpresa dei ragazzi. «Pulcino bagnato!»

            Quella voce lasciò i ragazzi a bocca aperta e tremanti. Era la voce di Joe l'indiano! Ci fu una lunga pausa di silenzio. Poi Joe disse:

            «Cosa c'è di più pericoloso del lavoretto che abbiamo fatto lassù? Eppure non è successo niente.»

            «È diverso. Così a monte del fiume, e senza una casa nei dintorni. Nessuno saprà mai che ci abbiamo provato, in ogni caso, visto che non ci siamo riusciti.»

            «Be', cosa c'è di più pericoloso che venire qui di giorno? Chiunque ci vedesse, sospetterebbe subito di noi.»

            «Lo so. Ma non c'erano altri posti adatti, dopo quel lavoro fatto con i piedi. Io voglio andarmene da questa baracca. Volevo farlo ieri, solo che era inutile far tanto casino con quegli infernali ragazzi che giocavano lassù sulla collina, in piena vista.»

            «Quegli infernali ragazzi» tornarono a tremare di paura quando udirono questa battuta, e pensarono alla fortuna che avevano avuto quando si erano ricordati che era venerdì e avevano deciso di aspettare un giorno. In cuor loro avrebbero voluto aver atteso un anno. I due uomini tirarono fuori un po' di roba da mangiare e fecero uno spuntino. Dopo un silenzio lungo e pensieroso Joe l'indiano disse:

            «Senti, ragazzo, tu torna alla tua parrocchia, a monte del fiume. Aspetta lì finché non hai mie notizie. Io correrò il rischio di fare ancora un salto in paese, per dare un'occhiata. Quel lavoro "pericoloso" lo faremo dopo che mi sarò guardato intorno e avrò capito che le cose si mettono bene. Poi, via nel Texas! Ci andremo insieme!»

            La proposta sembrò soddisfacente. Poco dopo i due uomini si misero a sbadigliare, e Joe l'indiano disse:

            «Sono morto di sonno! Tocca a te fare la guardia.»

            Si raggomitolò tra le erbacce e in breve tempo cominciò a russare. Il suo compagno lo scosse due o tre volte, e lui tacque. Poco dopo anche alla sentinella cominciò a ciondolare la testa; il mento continuava ad abbassarsi: e gli uomini si misero a russare, tutt'e due.

            I ragazzi trassero un lungo respiro di gratitudine. Tom mormorò:

            «Questo è il momento buono... Vieni!»

            Huck disse: «Non posso... Morirei, se dovessero svegliarsi.»

            Tom insistette, ma Huck non si lasciò convincere. Alla fine Tom si alzò lentamente e con cautela, e s'incamminò da solo. Ma il primo passo che fece strappò al pavimento sconnesso un così spaventoso cigolìo che il ragazzo si lasciò cadere a terra quasi morto di paura. Non fece mai un secondo tentativo. I ragazzi giacquero lassù contando i lentissimi minuti finché parve loro che il tempo si fosse fermato e l'eternità cominciasse a incanutire; e poi ringraziarono il cielo quando notarono che finalmente il sole cominciava a tramontare.

            A questo punto uno dei due dormienti smise di russare. Joe l'indiano si levò a sedere, si guardò intorno, sorrise cupamente al suo compagno, che aveva chinato la testa sulle ginocchia, lo scosse col piede e disse:

            «Ecco! Bella sentinella che sei! Tutto bene, comunque: non è successo niente.»

            «Santo cielo! Ho dormito?»

            «Oh, un po', un po'. Per noi è quasi ora di muoverci, fratello. Cosa facciamo di quel tanto di malloppo che ci resta?»

            «Non so: io direi di lasciarlo qui, come abbiamo fatto sempre. Inutile portarlo via finché non si parte per il sud. Seicentocinquanta dollari d'argento sono una bella zavorra.»

            «Be', d'accordo: dovremo tornare qui ma... Pazienza.»

            «Intesi, allora. Ma direi di venirci di notte, come prima... È meglio.»

            «Sì, ma stammi a sentire; può darsi che passi un bel po' di tempo prima che io abbia l'occasione buona per sbrigare quel lavoro; potrebbero capitare degli incidenti, se non gli troviamo un posto proprio buono; seppelliamolo, e in un buco bello fondo.»

            «Buona idea», disse il compare, che attraversò la stanza, si mise in ginocchio, sollevò una delle pietre posteriori del focolare e tirò fuori un sacchetto che mandava un allegro tintinnio. Ne tolse venti o trenta dollari per sé e altrettanti per Joe l'indiano, e passò il sacchetto a quest'ultimo, che era in ginocchio, nell'angolo, e stava scavando col suo lungo coltello da caccia.

            I ragazzi dimenticarono tutti i loro timori, tutti i loro affanni in un istante. Con occhi gongolanti seguivano ogni movimento. Che fortuna! La sua magnificenza superava ogni immaginazione! Seicento dollari era una somma più che sufficiente per arricchire una mezza dozzina di ragazzi! Ecco una caccia al tesoro che si presentava sotto i migliori auspici: non ci sarebbe stata nessuna antipatica incertezza sul punto in cui scavare. Ogni due secondi si davano una gomitata: gomitate eloquenti e di facile comprensione, perché volevano dire soltanto: «Oh, ma non sei contento, adesso, che siamo qui?»

            Il coltello di Joe urtò contro un ostacolo.

            «Ehi!» disse lui.

            «Cosa c'è?» disse il suo compare.

            «Un'asse mezza marcia... No, è una cassa, mi pare. Qui, dammi una mano, e vediamo che roba è. Non importa, ho fatto un buco.»

            Vi ficcò dentro la mano e la tirò fuori.

            «Per la miseria, sono quattrini!»

            I due uomini esaminarono il pugno di monete. Erano d'oro. I ragazzi sopra la loro testa erano eccitati come loro, e altrettanto felici.

            Il compare di Joe disse:

            «Questo lo sbrighiamo in un lampo. C'è un vecchio piccone arrugginito tra le erbacce là nell'angolo, dall'altro lato del focolare: l'ho visto un momento fa.»

            Corse a prendere il piccone e la vanga dei ragazzi. Joe l'indiano prese il piccone, lo guardò con aria critica, scosse la testa, borbottò qualcosa tra i denti e poi cominciò a usarlo.

            La cassa venne dissotterrata in un lampo. Non era molto grande; era cerchiata di ferro e doveva essere stata assai robusta prima che la lenta erosione degli anni l'intaccasse. Gli uomini contemplarono il tesoro per un po' in un silenzio beato.

            «Fratello, lì ci sono migliaia di dollari», disse Joe l'indiano.

            «Si è sempre detto che la banda di Murrel ha lavorato da queste parti, un'estate», osservò il forestiero.

            «Lo so», disse Joe l'indiano; «e questa sembra proprio roba loro, direi.»

            «Ora non hai più bisogno di fare quel lavoro.»

            Il meticcio aggrottò la fronte. Disse:

            «Tu non mi conosci. Non sai tutto di quella storia, perlomeno. Questa non è affatto una rapina; è una vendetta!» E una luce malvagia si accese nei suoi occhi. «Mi servirà il tuo aiuto. E quando avremo finito, via, nel Texas. Torna dalla tua Nance e dai tuoi ragazzi, e aspetta che io mi faccia vivo.»

            «Va bene, se lo dici tu. E cosa facciamo di questo? Lo riseppelliamo?»

            «Sì.» (Di sopra un tripudio di gioia.) «No! No, per il grande Sachem!» (Di sopra la desolazione più profonda.) «Me n'ero quasi dimenticato. C'era della terra fresca su quel piccone!» (In un lampo i ragazzi furono ripresi dal terrore.) «Cosa ci fanno, qui, una vanga e un piccone? Perché sopra c'è della terra fresca? Chi li ha portati qui? E dov'è andato? Hai sentito qualcuno, tu? Visto qualcuno? Cosa? Riseppellirli e lasciarli qui perché quelli, tornando, vedano la terra smossa? No davvero, no davvero. Li porteremo nella mia tana.»

            «Ma certo! Potevo pensarci prima. Alludi al numero uno?»

            «No, al due: sotto la croce. L'altro posto non va bene: troppo frequentato.»

            «D'accordo. È quasi buio. Abbastanza per andarcene di qui.»

            Joe l'indiano si alzò in piedi e passò da una finestra all'altra, guardando fuori con prudenza. Alla fine disse:

            «Chi potrebbe aver portato qui quegli arnesi? Credi che possano essere di sopra?»

            Il respiro dei ragazzi li lasciò. Joe l'indiano mise la mano sul coltello, si fermò un momento, indeciso, e poi si diresse verso la scala. I ragazzi pensarono all'armadio, ma anche le forze li avevano abbandonati. I passi venivano su per le scale, cigolando; e l'angoscia intollerabile di quella situazione strappò alla paralisi la mente dei ragazzi, che stavano per balzare verso l'armadio quando si udì uno schianto di legno tarlato, e Joe l'indiano precipitò al suolo tra le macerie della scala distrutta. Si rialzò imprecando, e il suo compare disse:

            «Che t'importa? Perché ti scaldi tanto? Se c'è qualcuno, e se sono lassù, lascia che ci stiano: chi se ne frega? Se vogliono saltar giù, adesso, e mettersi nei guai, padronissimi. Tra quindici minuti sarà buio: ci seguano pure, allora, se vogliono; io non ho niente in contrario. Secondo me, chi ha portato qua dentro quegli arnesi ci ha visto, e ci ha preso per fantasmi o diavoli o chissà che. Scommetto che stanno ancora scappando.»

            Joe brontolò per qualche minuto; poi convenne con l'amico che era meglio usare quel po' di luce che restava per prepararsi alla partenza. Poco dopo sgusciarono fuori della casa nell'ombra sempre più fitta del crepuscolo e puntarono verso il fiume con la loro preziosa cassetta.

            Tom e Huck si alzarono in piedi, fiacchi sulle gambe ma molto sollevati, e li seguirono con lo sguardo dalle fessure fra i tronchi della casa. Pedinarli? No di certo: furono ben contenti di tornare a toccar terra senza rompersi l'osso del collo, e di prendere il sentiero che portava in paese scavalcando la collina. Non parlarono molto, erano troppo occupati a mandarsi al diavolo: a maledire la sfortuna che li aveva spinti a portar lì la vanga e il piccone. Non fosse stato per questo, Joe l'indiano non avrebbe mai avuto dei sospetti. Avrebbe nascosto l'argento insieme all'oro e lasciato tutto lì finché la sua «vendetta» non fosse stata compiuta, e poi avrebbe avuto la sventura di scoprire che quei soldi erano spariti. Scalogna, scalogna nera, avere portato lì gli arnesi! Decisero di sorvegliare lo spagnolo, quando fosse venuto in paese a cercare l'occasione buona per compiere la sua vendetta, e di seguirlo al «numero due», ovunque quel posto potesse trovarsi. Poi un'idea orribile si affacciò alla mente di Tom:

            «Vendetta? Huck, e se fosse a noi che sta pensando?»

            «Oh, no!» disse Huck, sentendosi quasi venir meno.

            Studiarono a fondo la situazione, e quando entrarono in paese erano d'accordo nel ritenere che forse Joe l'indiano alludeva a qualcun altro: o perlomeno che non poteva alludere che a Tom, dato che solo Tom aveva testimoniato.

            Di lieve, di lievissimo conforto fu per Tom il sapere d'esser solo nel pericolo! Molto meglio, pensava, sarebbe stato essere in compagnia.

CAPITOLO XXVIII

            L'avventura di quel giorno turbò paurosamente i sogni che Tom fece durante la notte. Quattro volte allungò le mani verso quel favoloso tesoro, e quattro volte esso gli svanì tra le dita mentre il sonno lo abbandonava e la veglia lo riportava alla dura realtà della sua cattiva sorte. Mentre giaceva nel suo letto, nelle prime ore del mattino, rievocando gli episodi della sua grande avventura, notò che essi sembravano curiosamente smorzati e lontani, un po' come se fossero accaduti in un altro mondo, o in un tempo remotissimo. Pensò allora che la grande avventura doveva essere stata essa stessa solo un sogno! C'era un fortissimo argomento a favore di quest'idea, e precisamente che la quantità di monete da lui vista era troppo grande per essere vera. Tom non aveva mai visto prima cinquanta dollari tutti in una volta, e come tutti i ragazzi del suo ambiente e della sua età immaginava che ogni riferimento alle «centinaia» e alle «migliaia» fosse un fantasioso modo di dire, e che somme simili in realtà non esistessero. Non aveva mai pensato, nemmeno per un attimo, che una somma colossale come cento dollari potesse trovarsi sul serio, in monete visibili e palpabili, nelle tasche di qualcuno. Se si fossero analizzate le sue idee di un tesoro nascosto, si sarebbe scoperto che consistevano di una manciata di monete vere - monetine da dieci cent, naturalmente - e di un moggio di dobloni vaghi, splendidi, inafferrabili.

            Ma gli episodi della sua avventura diventarono sensibilmente più nitidi e più chiari sotto l'attrito della riflessione, e perciò Tom finì presto per trovarsi sempre più propenso a credere che la cosa, dopo tutto, forse non era stata affatto un sogno. Restava un margine d'incertezza che occorreva eliminare. Decise di fare colazione in fretta e furia, e di andare a trovare Huck.

            Huck sedeva sulla falchetta di una battana, dondolando svogliatamente i piedi nell'acqua con un'aria molto melanconica. Tom concluse che era meglio lasciare a Huck il compito d'introdurre l'argomento. Se non l'avesse fatto, sarebbe stata la prova che l'avventura era stata solo un sogno.

            «Ciao, Huck!»

            «Ciao.»

            Silenzio per un minuto.

            «Tom, se avessimo lasciato quei maledetti arnesi sotto l'albero secco avremmo i soldi in tasca. Oh, non è orribile?»

            «Non è un sogno, allora, non è un sogno! Vorrei quasi che lo fosse, in qualche modo. Mi venga un colpo se non è vero.»

            «Cos'è che non è un sogno?»

            «Oh, la storia di ieri. Quasi quasi credevo che lo fosse.»

            «Un sogno! Se quelle scale non fossero crollate, avresti visto che razza di sogno era! Ne ho avuti da vendere per tutta la notte, di sogni, con quel demonio di uno spagnolo guercio che continuava a corrermi dietro, Dio lo faccia scomparire!»

            «No, speriamo che non lo faccia scomparire! Speriamo di trovarlo! E di rintracciare i soldi!»

            «Tom, non lo troveremo mai. Un'occasione come quella, nella vita, capita una volta sola; e ormai se n'è andata. Mi verrebbe una bella tremarella, in ogni caso, se dovessi rivederlo.»

            «Be', anche a me; però mi piacerebbe rivederlo, e seguirlo... fino al suo numero due.»

            «Numero due: già, è vero. Ci ho pensato. Ma non ci capisco niente. Tu cosa credi che sia?»

            «Non so. Troppo difficile. Senti, Huck: magari è il numero di una casa!»

            «Giusto!... No, Tom, non è il numero di una casa. Se lo è, non è in questo buco. Non ci sono neanche i numeri, qui.»

            «Già, è vero. Fammi pensare un momento. Ecco: è il numero di una stanza; in una taverna, sai!»

            «Oh, ecco il trucco! Di taverne ne ce sono solo due. Si fa presto a scoprire qual è.»

            «Tu resta qui, Huck. Torno subito.»

            Tom sparì in un lampo. Non ci teneva a farsi vedere in pubblico insieme a Huck. Si assentò per una mezz'ora. Scoprì che nella taverna migliore il numero due era occupato da tempo da un giovane avvocato, che vi alloggiava ancora. Nella locanda meno pretenziosa il numero due era un mistero. Il figlio del taverniere disse che lo tenevano sempre chiuso, e che lui non aveva mai visto entrarvi o uscirne qualcuno tranne che di notte; non conosceva alcun motivo particolare per questo stato di cose; aveva avuto una certa curiosità, ma non particolarmente forte; aveva approfittato del mistero per trastullarsi con l'idea che quella camera fosse «infestata dagli spiriti»; aveva notato che la sera prima c'era stata una luce, nell'interno.

            «Ecco quello che ho scoperto, Huck. Credo che sia proprio il numero due che cerchiamo noi.»

            «Credo anch'io, Tom. Adesso che farai?»

            «Lasciami riflettere.»

            Tom rifletté a lungo. Poi disse:

            «Sta' a sentire. La porta di dietro di quel numero due è la porta che dà in quel vicoletto cieco fra la taverna e la vecchia bicocca del deposito di mattoni. Adesso tu raccogli tutte le chiavi che riesci a trovare e io rubo tutte quelle della zia, e la prima notte buia andiamo là a provarle. E bada di stare attento a Joe l'indiano, perché ha detto che voleva venire in paese a cercare l'occasione buona per compiere la sua vendetta. Se lo vedi, seguilo e basta; e se non va in quel numero due, il posto non è quello.»

            «Cristo, io non voglio seguirlo da solo!»

            «Ma sarà notte, di sicuro. Potrebbe non vederti addirittura: e se anche ti vedesse, forse non penserebbe proprio niente.»

            «Be', se sarà buio pesto credo che lo seguirò. Non so... Non so. Ci proverò.»

            «Se è buio, Huck, lo seguo io, ci puoi scommettere! Cavolo, potrebbe aver scoperto che non può compiere la sua vendetta, e andarsi subito a prendere quei soldi.»

            «È vero, Tom, è vero. Lo seguirò: lo seguirò, accidenti.»

            «Questo si chiama parlare! Non arrenderti, Huck, e neanch'io mi arrenderò.»

CAPITOLO XXIX

            Quella sera Tom e Huck erano pronti per la loro avventura. Gironzolarono nei paraggi della taverna fin dopo le nove, l'uno sorvegliando il vicolo da lontano e l'altro la porta della taverna. Nessuno entrò nel vicolo e nessuno ne uscì; nessuno che somigliasse allo spagnolo entrò o uscì dalla porta della taverna. La notte prometteva di essere bella; così Tom andò a casa con l'intesa che, se il cielo avesse raggiunto una ragionevole gradazione di oscurità, Huck sarebbe venuto a «miagolare», al che lui avrebbe lasciato la sua stanza di nascosto per andare a provare le chiavi. Ma la notte rimase serena, e Huck concluse la vigilanza e verso le dodici si ritirò a dormire in una botte da zucchero vuota.

            Martedì i ragazzi ebbero la stessa sfortuna. Mercoledì pure. Ma la notte del giovedì sembrava più promettente. A tempo debito Tom sgattaiolò fuori con la vecchia lanterna di latta di sua zia e un grande asciugamano per bendarla. Nascose la lanterna nella botte da zucchero di Huck e la vigilanza cominciò. Un'ora prima di mezzanotte la taverna chiuse i battenti e le sue luci (le uniche di tutto il vicinato) furono spente. Non si era visto nessuno spagnolo. Nessuno era entrato nel vicolo o ne era uscito. Tutto si presentava sotto i migliori auspici. In paese regnava la più completa oscurità, e l'assoluto silenzio era rotto solo, a tratti, dal brontolare di un tuono lontano.

            Tom prese la lanterna, l'accese nella botte, l'avvolse strettamente nell'asciugamano, e i due avventurieri strisciarono nel buio verso la taverna. Huck restò di sentinella e Tom si addentrò nel vicolo a tentoni. Seguì un periodo d'ansiosissima attesa che gravò come una montagna sullo spirito di Huck. Cominciava a desiderare di poter vedere un raggio di luce della lanterna: lo avrebbe spaventato, ma almeno gli avrebbe fatto capire che Tom era ancora vivo.

            Sembrava che fossero passate delle ore da quando Tom era sparito. Certo doveva essere svenuto; forse era morto; forse gli era scoppiato il cuore dalla paura e dall'emozione. Nella sua inquietudine, Huck si sorprese ad avvicinarsi sempre più al vicolo, paventando cose orrende d'ogni genere, e aspettandosi da un momento all'altro una catastrofe che gli avrebbe mozzato il respiro. Veramente non c'era molto da mozzare, perché Huck sembrava capace di respirare solo con fatica, e presto il cuore gli si sarebbe fermato, tanto forte batteva. A un tratto brillò un lampo di luce e Tom fu improvvisamente al suo fianco:

            «Scappa!» disse; «scappa, se vuoi salvarti la vita!»

            Non c'era bisogno di ripeterlo; una volta bastava; Huck stava già facendo cinquanta o sessanta chilometri l'ora prima che la ripetizione avesse luogo. I ragazzi non si fermarono finché non ebbero raggiunto la baracca di un mattatoio abbandonato all'estremità inferiore del paese. Proprio mentre si mettevano al riparo scoppiò il temporale e si mise a diluviare. Appena ebbe ripreso fiato, Tom disse:

            «Huck, è stato orribile! Ho provato due chiavi, più piano che potevo; ma sembrava che facessero un rumore così forte che non riuscivo quasi a respirare, tanto ero spaventato. E non giravano nemmeno nella toppa. Be', senza badare a quello che facevo, ho impugnato la maniglia e la porta si è aperta! Non era chiusa! Sono entrato e ho tolto l'asciugamano e... Per lo spettro del grande Cesare!»

            «Cosa?... Cos'hai visto, Tom?»

            «Huck, avevo quasi messo il piede sulla mano di Joe l'indiano!»

            «No!»

            «Sì. Era là disteso sul pavimento, che dormiva della grossa, con la sua vecchia benda sull'occhio e le braccia spalancate.»

            «Cristo, e tu cos'hai fatto? S'è svegliato?»

            «No, non s'è mosso d'un millimetro. Ubriaco, immagino. Mi sono limitato a raccogliere l'asciugamano e a scappar via!»

            «Non ci avrei manco pensato, io, all'asciugamano!»

            «Be', io sì. Mia zia mi avrebbe conciato per le feste, se lo avessi perduto.»

            «Di', Tom, quella cassetta l'hai vista?»

            «Huck, non sono stato lì a guardarmi intorno. Non ho visto né la cassetta né la croce. Non ho visto nient'altro che una bottiglia e una tazza di latta sul pavimento vicino a Joe l'indiano! Sì, e ho visto nella stanza due barili e tante altre bottiglie. Capisci, adesso, perché quella stanza è infestata dagli spiriti?»

            «No, perché?»

            «Ma come! È infestata dal whisky! Forse tutte le Taverne della Temperanza hanno una camera infestata dagli spiriti, eh, Huck?»

            «Be', credo anch'io che forse sia così. Chi avrebbe immaginato una cosa del genere? Ma di', Tom, questo allora è il momento migliore per portar via quella cassetta, se Joe l'indiano è sbronzo.»

            «Ah sì? Provaci tu!»

            Huck rabbrividì.

            «Be', no... Forse è meglio di no.»

            «Anch'io dico che è meglio di no, Huck. Una bottiglia sola vicino a Joe l'indiano non basta. Se ce ne fossero state tre, sarebbe stato abbastanza sbronzo e l'avrei fatto.»

            Ci fu una lunga pausa di riflessione, e poi Tom disse:

            «Stammi a sentire, Huck, non proviamoci più con questa storia finché non siamo sicuri che Joe l'indiano è fuori. Mi fa troppa paura. Ma se ogni notte facciamo la guardia, avremo l'assoluta certezza di vederlo uscire, una volta o l'altra, e allora gli fregheremo la cassetta in un baleno.»

            «Be', io ci sto. Farò la guardia per tutta la notte, e la farò ogni notte, anche, e tu sbrigherai l'altra parte del lavoro.»

            «D'accordo, lo farò. Tutto quello che devi fare tu è correre per un isolato di Hooper Street e miagolare; e se dormo mi tiri un po' di ghiaia contro la finestra, per svegliarmi.»

            «D'accordo, affare fatto!»

            «E ora che il temporale è finito, Huck, io vado a casa. Tra un paio d'ore comincerà a far chiaro. Torna indietro e fa' la guardia fino ad allora, eh?»

            «Ho detto che l'avrei fatto, Tom, e lo farò. Sorveglierò quella taverna ogni notte per un anno. Dormirò tutto il giorno e farò la guardia tutta la notte.»

            «Così va bene. E a dormire dove vai?»

            «Nel fienile di Ben Rogers. Lui mi dà il permesso, e così pure il negro di suo padre, zio Jake. Io vado a prender l'acqua per zio Jake ogni volta che gli serve, e ogni volta che glielo chiedo lui mi dà qualcosa da mangiare, se può metterla da parte. Quello è un negro gentilissimo, Tom. Gli sono simpatico perché non lo tratto mai come se valessi più di lui. Qualche volta mi sono messo a tavola e ho mangiato con lui. Ma questo non devi dirlo. Quando si ha molta fame si fanno certe cose che di solito non si farebbero.»

            «Be', se di giorno non ho bisogno di te, Huck, ti lascerò dormire. Non verrò a disturbarti. Ma appena vedi che di notte sta per succedere qualcosa, corri sotto la mia finestra e miagola.»

CAPITOLO XXX

            La prima cosa che Tom seppe il venerdì mattina fu una bella notizia: la famiglia del giudice Thatcher era tornata in paese la sera prima. Per un attimo sia Joe l'indiano che il tesoro passarono in secondo piano, e Becky prese il posto più importante negli interessi del ragazzo. Tom la vide, e insieme si divertirono un mondo giocando a nascondino e a palla avvelenata con una frotta di compagni di scuola. La giornata si concluse in un modo particolarmente appagante: Becky chiese con insistenza a sua madre di organizzare il tanto promesso e tanto rinviato picnic per l'indomani, e lei diede il suo consenso. La gioia della bambina fu senza limiti, e quella di Tom non più moderata della sua. Si diramarono gli inviti prima del tramonto, e i ragazzi del paese furono subito travolti dalla febbre dei preparativi, mentre pensavano con piacere a tutto ciò che li aspettava. L'eccitazione permise a Tom di restare sveglio fino a tardi, con la speranza di sentire il «miao» di Huck e di entrare in possesso di un tesoro con cui stupire, l'indomani, Becky e gli altri partecipanti al picnic; ma il ragazzo restò deluso. Quella notte non ci fu nessun segnale.

            Finalmente venne il giorno, e verso le dieci o le undici un'allegra e rumorosa comitiva si raccolse davanti alla casa del giudice Thatcher, dove tutto era pronto per la gita. I vecchi non avevano l'abitudine, allora, di rovinare le scampagnate dei giovani con la loro presenza. Si pensava che i più piccoli fossero al sicuro sotto l'ala di qualche signorina diciottenne e di qualche giovanotto di ventitré o ventiquattro anni. Il vecchio battello a vapore del traghetto fu noleggiato per l'occasione: finalmente l'allegra brigata sfilò lungo la strada principale carica di panieri pieni di roba da mangiare. Sid era malato e dovette rinunciare alla gita; Mary restò a casa per fargli compagnia. L'ultima cosa che la signora Thatcher disse a Becky fu:

            «Tornerete molto tardi. Forse sarà meglio che tu passi la notte con una delle bambine che abitano vicino alla stazione del traghetto, bambina mia!»

            «Allora starò con Susy Harper, mamma.»

            «Benissimo. E bada a comportarti bene, e non dare fastidio a nessuno.»

            Poco dopo, mentre camminavano l'uno al fianco dell'altra, Tom disse a Becky:

            «Senti, ora ti dico quello che faremo. Invece di andare da Joe Harper, saliremo in cima alla collina e ci fermeremo dalla vedova Douglas. Ci offrirà il gelato! Ce l'ha quasi tutti i giorni, montagne di gelato. E sarà contentissima di vederci.»

            «Oh, ci divertiremo un mondo!»

            Poi Becky rifletté un momento e disse:

            «Ma cosa dirà la mamma?»

            «Come farà a saperlo?»

            La bambina ruminò un poco sull'idea e disse con qualche riluttanza:

            «Non credo che sia giusto, ma...»

            «Ma cosa? Tua madre non lo saprà, e allora che male c'è? Lei vuole solo che tu non corra rischi; e scommetto che te l'avrebbe detto lei, di andarci, dalla vedova, se ci avesse pensato. Ne sono sicuro!»

            La munifica ospitalità della vedova Douglas era un'esca tentatrice che, aiutata dalle argomentazioni di Tom, ebbe ben presto partita vinta. Così fu deciso di non dir nulla a nessuno del programma serale.

            Poco dopo Tom pensò che forse Huck poteva venire a dare il segnale proprio quella notte. L'idea fece sbollire molti dei suoi entusiasmi. Eppure non se la sentiva di rinunciare allo spasso che prevedeva di trarre da quella visita alla vedova Douglas. E perché avrebbe dovuto rinunciarvi? ragionò. Se il segnale non era venuto la sera prima, perché avrebbe dovuto avere maggiori probabilità di arrivare quella sera? Il piacere sicuro della serata ebbe la meglio sull'incertezza del tesoro; e Tom puerilmente decise di cedere all'inclinazione più forte e di vietarsi, per quel giorno, di ripensare alla cassetta piena di soldi.

            Cinque chilometri a valle del paese il vaporetto si fermò davanti a una conca boscosa e gettò gli ormeggi. La comitiva scese a terra, e ben presto le distese della foresta e gli speroni rocciosi echeggiarono da ogni parte di grida e di risate. Tutti i diversi modi di sudare e di stancarsi furono sperimentati, e un po' alla volta gli escursionisti tornarono alla base corroborati da un sano appetito, e là ebbe inizio la distruzione di tutto quel ben di Dio. Dopo il festino ci fu un rinfrescante periodo di riposo e di chiacchiere all'ombra di querce maestose. Poco dopo qualcuno gridò:

            «Chi viene alla caverna?»

            Tutti. Saltarono fuori pacchi di candele, e subito ci fu una gran corsa su per la collina. L'imboccatura della caverna era in alto, sul versante, e aveva la forma di un'a maiuscola. La sua massiccia porta di quercia non era chiusa. Dentro c'era una cameretta, gelida come una ghiacciaia e rivestita dalla Natura di uno strato compatto di calcare imperlato di un freddo sudore. Era romantico e misterioso stare là immersi nella profonda oscurità a guardar fuori verso la vallata verde e risplendente sotto il sole. Ma la situazione perse ben presto tutta la sua solennità, e ricominciarono gli scherzi. Appena si accendeva una candela, tutti si gettavano su chi la teneva in mano; seguivano una lotta e una gagliarda difesa, ma la candela non tardava a essere buttata a terra o spenta, e allora la caverna si empiva di risate e cominciava un nuovo inseguimento. Ma tutte le cose hanno una fine. Piano piano il corteo s'incamminò per la ripida discesa della strada principale, e la fila baluginante di luci mostrò confusamente le maestose pareti di roccia fin quasi al punto dove si univano, formando la volta della grotta, venti metri sopra la testa degli escursionisti. Questa strada principale non era larga più di due o tre metri. Ogni quattro o cinque passi altri crepacci altissimi e sempre più stretti si diramavano a destra e a sinistra, perché la caverna di McDougal non era altro che un vasto labirinto di tortuose gallerie che s'incrociavano le une con le altre per finire chissà dove. Si diceva che una persona avrebbe potuto camminare giorni e giorni nel suo intricato garbuglio di cunicoli e fessure, senza mai trovare la fine della grotta; e che avrebbe potuto andare sempre più giù, sprofondando nella terra, con lo stesso risultato: un labirinto sotto l'altro, senza fine. Nessuno «conosceva» la caverna. Era una cosa impossibile. Quasi tutti i giovani ne conoscevano un tratto, e nessuno aveva l'abitudine di avventurarsi molto al di là di questo tratto conosciuto. Tom Sawyer la conosceva più o meno come gli altri.

            La processione fece quasi un chilometro lungo la strada principale, e poi i ragazzi, a gruppi e a coppie, cominciarono a infilarsi nei rami laterali, a correre lungo quei cupi corridoi e a cogliersi di sorpresa nei punti in cui le gallerie tornavano a sboccare l'una nell'altra. Si poteva sfuggire alla caccia dei compagni anche per mezz'ora senza uscire dal territorio «conosciuto».

            Più tardi, un gruppo dopo l'altro, i ragazzi si ritrovarono all'imboccatura della caverna, ansanti, ridenti, impiastricciati dalla testa ai piedi di sego di candela, imbrattati d'argilla e immensamente felici della gita. Scoprirono allora con stupore di aver perso la nozione del tempo: stava per calare la notte. La squillante campana del battello li chiamava da mezz'ora. Ma questa conclusione delle avventure della giornata era romantica e perciò soddisfacente. Quando il traghetto, col suo eccitatissimo carico, entrò nella corrente, nessuno si sarebbe rammaricato del tempo perduto, tranne forse il comandante del vapore.

            Huck era già di vedetta quando le luci dell'imbarcazione passarono luccicando davanti alla banchina. Non udì rumori a bordo, perché i ragazzi erano tranquilli e silenziosi come, di solito, chi è stanco morto. Si chiese che barca fosse quella, e perché non si fermasse alla banchina; poi smise di pensarci e concentrò l'attenzione sugli affari suoi. La notte era sempre più buia e nuvolosa. Scoccarono le dieci, e il rumore dei veicoli cessò, luci sparse cominciarono a spegnersi, tutti i pedoni ritardatari scomparvero, il paesino si mise a dormire e lasciò la piccola vedetta sola col silenzio e coi fantasmi. Scoccarono le undici, e si spensero le luci della taverna: buio dappertutto, adesso. Huck attese per quello che gli parve un tempo lunghissimo, ma non accadde nulla. La sua fiducia cominciava a indebolirsi. Ne valeva la pena? Ne valeva davvero la pena? Perché non piantare tutto e andarsene a dormire?

            Il suo orecchio colse un piccolo rumore. Huck si scosse, attentissimo, ora. La porta nel vicolo si chiuse dolcemente. Con un salto Huck fu all'angolo del deposito di mattoni. Dopo un attimo lo sfiorarono due uomini, uno dei quali sembrava avere qualcosa sotto il braccio. Doveva essere quella cassetta! Ecco, stavano portando via il tesoro. Perché, ora, chiamare Tom? Sarebbe stato assurdo: gli uomini se la sarebbero svignata con la cassetta e nessuno li avrebbe mai più trovati. No, Huck si sarebbe messo sulle loro tracce e li avrebbe seguiti; avrebbe contato sulle tenebre per non farsi scoprire. Così, ragionando con se stesso, Huck uscì dal nascondiglio e si mise alle calcagna dei due uomini, come un gatto, a piedi nudi, lasciandoli allontanare, ma non tanto da perderli di vista.

            Risalirono per tre isolati la strada lungo il fiume, poi svoltarono a sinistra in una traversa. Allora andarono diritto fino al sentiero che portava in cima a Cardiff Hill; e questo sentiero imboccarono. Passarono senza esitare davanti alla casa del vecchio gallese, a metà strada, e continuarono a salire. Bene, pensò Huck, andranno a seppellirlo nella vecchia cava. Nella cava, invece, non si fermarono nemmeno. Proseguirono, fino alla sommità. S'infilarono nello stretto sentiero tra gli alti cespugli di sommacco, e sparirono di colpo nelle tenebre. Huck, allora, affrettò il passo e ridusse la distanza, perché non avrebbero mai potuto vederlo. Fece un tratto di strada di corsa; poi rallentò l'andatura, temendo di guadagnare troppo terreno; fece un altro pezzetto di strada, poi si fermò del tutto; tese l'orecchio; nessun rumore; nessuno, tranne quello che gli sembrava il battito del proprio cuore. Dalla cima del colle venne il grido di una civetta: brutto segno! Ma nessun suono di passi. Era andato tutto storto, santo cielo? Stava per rimettersi a correre, quando un uomo si schiarì la voce a meno di un metro da lui! Huck si sentì balzare il cuore in gola, ma tornò a inghiottirlo; e poi restò là fermo tremando come se gli fossero venute dodici febbri terzane in una volta, e sentendosi così fiacco sulle gambe da pensare che sarebbe sicuramente caduto per terra. Sapeva dov'era. Sapeva di trovarsi a meno di cinque passi dalla scaletta di pietra che portava nel giardino della vedova Douglas. «Benissimo», pensò, «lo seppelliscano pure lì; non sarà difficile da trovare.»

            Poi si udì una voce bassa: una voce molto bassa. Era quella di Joe l'indiano:

            «Le venga un colpo, forse ha compagnia: ci sono delle luci, così tardi com'è.»

            «Io non vedo niente.»

            Era la voce del forestiero: il forestiero della casa degli spiriti. Un gelo mortale si diffuse nel cuore di Huck: questa, dunque, era la «vendetta»! Il suo primo pensiero fu di scappare. Poi ricordò che più di una volta la vedova Douglas era stata gentile con lui, e forse quegli uomini volevano ammazzarla. Avrebbe desiderato avere il coraggio di avvertirla; ma sapeva di non averlo; sapeva che quegli uomini avrebbero potuto sorprenderlo. Huck pensò tutte queste cose, e molte altre ancora, nell'istante che trascorse tra la battuta del forestiero e quella successiva di Joe l'indiano, che fu:

            «Perché è nascosta dai cespugli. Ecco... Da questa parte... Ora le vedi, no?»

            «Sì. Be', credo proprio che ci siano degli ospiti. Meglio rinunciare.»

            «Rinunciare, e lasciare per sempre questo paese? Rinunciare, e forse non avere mai più un'altra occasione? Ti ripeto, come ho detto prima, che del malloppo non me ne importa niente: puoi tenertelo. Ma suo marito mi ha trattato male... Molte volte mi ha trattato male... Ed è stato, in particolare, il giudice di pace che mi ha fatto pizzicare per vagabondaggio. E non è tutto! Non è la milionesima parte della storia! Mi faceva frustare... frustare davanti alla prigione, come un negro!... Sotto gli occhi di tutto il paese! Frustare!... Capisci? Prima ha fatto di me quello che ha voluto e poi è morto. Ma io mi vendicherò su di lei!»

            «Oh, non ucciderla! Non lo fare!»

            «Ucciderla? Chi ha parlato di ucciderla? Lui sì che l'ucciderei, se fosse qui; ma lei no. Quando vuoi vendicarti su una donna, non l'ammazzi mica... Sciocchezze! Le rovini i connotati. Le tagli il naso... Le fai una tacca sulle orecchie come su quelle di una troia!»

            «Perdio, questo è...»

            «La tua opinione tientela per te! Sarà molto più salutare. La legherò al letto. Se muore dissanguata, è colpa mia? Non piangerò di certo, se succede. Amico mio, tu mi aiuterai in questa faccenda... Nel mio interesse... È per questo che sei qui... Da solo potresi non esserne capace. Se ti tiri indietro, ti ammazzo! Lo capisci? E se sarò costretto ad ammazzarti, ammazzerò anche lei... E allora credo proprio che nessuno saprà mai chi ha fatto questo lavoretto.»

            «Be', se si deve fare, facciamolo. Più presto ci sbrighiamo, meglio è... Tremo tutto.»

            «Farlo adesso?... Adesso che ha degli invitati? Senti... Di questo passo mi verranno dei sospetti nei tuoi confronti, sai. No... Aspetteremo che abbia spento la luce... Non c'è fretta.»

            Huck capì che a queste parole sarebbe seguito un lungo silenzio: cosa ancora più terribile di tutti quei discorsi sanguinari; allora trattenne il respiro e fece cautamente un passo indietro; posò il piede con cura e con fermezza, dopo essere rimasto in precario equilibrio su una gamba sola, col rischio di cadere, prima da una parte e poi dall'altra. Fece un altro passo indietro con la stessa elaborazione e correndo gli stessi rischi; poi un altro e un altro ancora, e un rametto gli si ruppe sotto i piedi! Trattenne il respiro e tese l'orecchio. Nessun rumore, il silenzio era perfetto. La sua gratitudine fu immensa. Allora Huck si girò tra le due pareti di sommacchi - con la stessa lentezza di un piroscafo - e continuò ad allontanarsi, in fretta ma con cautela. Quando sbucò dai cespugli davanti alla cava si sentì al sicuro, e allora alzò gli agili tacchi e si mise a correre. Continuò a correre lungo la discesa finché non ebbe raggiunto la casa del gallese. Bussò alla porta, e poco dopo si affacciarono alle finestre le teste del vecchio e dei suoi due nerboruti figlioli.

            «Cos'è tutto questo baccano? Chi bussa? Cosa vuoi?»

            «Fatemi entrare... Presto! Vi dirò tutto.»

            «Perché, chi sei?»

            «Huckleberry Finn... Presto, fatemi entrare!»

            «Huckleberry Finn, proprio! Non è un nome che spalanchi molte porte, direi! Ma fatelo entrare, ragazzi, e vediamo qual è il problema.»

            «Per piacere, non dite mai che ve l'ho detto io», furono le prime parole di Huck appena l'ebbero fatto entrare. «Per piacere, non ditelo a nessuno... Mi ammazzerebbero di certo... Ma certe volte la vedova è stata buona con me, e voglio dire... Ve lo dirò se promettete di non dire mai che sono stato io.»

            «Corpo di bacco, ha qualcosa da dire, o non si comporterebbe così!» esclamò il vecchio. «Sputa, ragazzo, e nessuno parlerà mai.»

            Tre minuti dopo il vecchio e i suoi figli, ben armati, erano in cima al colle e in punta di piedi stavano imboccando, con le armi in pugno, il sentiero tra i sommacchi. Huck non li accompagnò oltre. Si nascose dietro un grande masso e tese l'orecchio. Ci fu un silenzio lento e trepidante, e poi tutt'a un tratto una gragnuola di colpi e un grido. Huck non attese i particolari. Balzò in piedi e corse giù per la discesa, con tutta la forza di cui le sue gambe erano capaci.

CAPITOLO XXXI

            Al primo sospetto dell'alba, la domenica mattina, Huck salì a tentoni la collina e bussò lievemente all'uscio del vecchio gallese. Gli inquilini dormivano ancora, ma il loro sonno era regolato da un grilletto assai sensibile, per via dell'emozionante episodio notturno. Una voce gridò da una finestra:

            «Chi è là?»

            La voce atterrita di Huck rispose sommessamente:

            «Fatemi entrare, per piacere! Sono Huck Finn!»

            «Ecco un nome davanti al quale questa porta non resterà mai chiusa, ragazzo!... E benvenuto!»

            Queste parole suonarono nuove all'orecchio del piccolo vagabondo, ed erano le più gentili che avesse mai sentito. Per quanti sforzi facesse, non ricordava che l'ultima fosse stata mai usata nel suo caso.

            La porta venne aperta prontamente e Huck entrò. Gli offrirono una seggiola, e il vecchio e la sua coppia di figli grandi e grossi si vestirono rapidamente.

            «Adesso, ragazzo mio, spero proprio che tu abbia una gran fame, perché la colazione sarà pronta appena sarà spuntato il sole, e bella calda, per giunta, puoi contarci. Io e i ragazzi speravamo, stanotte, che tu ti fermassi qui da noi.»

            «Avevo tanta fifa da morire», disse Huck, «e sono scappato via. Ho preso il largo quando le pistole hanno sparato, e per cinque chilometri non mi sono mai fermato. Ora sono venuto perché volevo sapere com'è andata, capite? E sono venuto prima di giorno perché non volevo incontrare quei due diavoli, anche se erano morti.»

            «Be', povero ragazzo, hai proprio l'aria di aver passato una brutta notte... Ma c'è un letto qui per te, quando avrai fatto colazione. No, non sono morti, ragazzo... E ci dispiace molto. Vedi, dalla tua descrizione, sapevamo benissimo dove mettere le mani per beccarli; così ci siamo avvicinati in punta di piedi fino ad arrivare a meno di cinque metri di distanza - buio come una cantina era quel sentiero tra i sommacchi - e proprio allora mi sono accorto che stavo per starnutire. Che razza di scalogna! Ho cercato di trattenermi, ma è stato inutile: doveva venire, ed è venuto! Ero il primo della fila, con la pistola spianata, e quando lo starnuto ha fatto sussultare quei gaglioffi, che hanno subito cercato di nascondersi tra i cespugli ai lati del sentiero, ho gridato: "Fuoco, ragazzi!" e sparato senza sosta nella direzione da cui proveniva il fruscio. Altrettanto facevano i ragazzi. Ma se la sono svignata in un baleno, quelle canaglie, e noi dietro, giù per i boschi. Non li abbiamo neanche toccati, secondo me. Loro hanno sparato un colpo per uno, quando sono stati sorpresi, ma le pallottole ci sono passate vicino, con un sibilo senza farci niente. Quando non abbiamo più sentito il rumore dei loro passi abbiamo rinunciato all'inseguimento e siamo scesi ad avvertire i poliziotti. Quelli hanno formato una squadra di volontari e sono andati a sorvegliare la riva del fiume, e appena farà giorno lo sceriffo con un'altra squadra andrà a fare una battuta nei boschi. Tra poco i miei ragazzi si uniranno a loro. Vorrei avere una qualche descrizione di quei furfanti: sarebbe molto utile. Ma tu, ragazzo, non hai potuto vedere com'erano, al buio, immagino.»

            «Oh, sì, li ho visti in paese, e li ho seguiti.»

            «Splendido! Descrivili... Descrivili, ragazzo mio!»

            «Uno è il vecchio spagnolo sordomuto che è stato da queste parti un paio di volte, e l'altro è un tipo dall'aria cattiva, stracciato...»

            «Basta così, ragazzo, li conosciamo! Li abbiamo incontrati nei boschi, un giorno, dietro la casa della vedova, e se la sono squagliata. Via, ragazzi, e ditelo allo sceriffo... Farete colazione domattina!»

            I figli del gallese partirono immediatamente. Mentre stavano uscendo dalla stanza Huck saltò in piedi ed esclamò:

            «Oh, vi prego, non dite a nessuno che sono stato io a fare la spia! Oh, vi prego!»

            «Come vuoi tu, Huck, ma dovresti avere il merito di quello che hai fatto.»

            «Oh, no, no! Vi prego, non lo dite!»

            Quando i due giovanotti se ne furono andati, il vecchio gallese disse:

            «Non lo diranno... E anch'io non dirò niente. Ma perché non vuoi che si sappia?»

            Huck non volle fornire altre spiegazioni: disse solo che sapeva già troppe cose su uno di quegli uomini, e non voleva, per nessuna cosa al mondo, che quell'uomo sapesse che lui sapeva qualcosa contro di lui; altrimenti, ci avrebbe lasciato la pelle di sicuro.

            Il vecchio promise ancora una volta di serbare il segreto e disse:

            «Perché hai seguito questi tizi, ragazzo? Avevano un'aria sospetta?»

            Huck tacque, mentre cercava una risposta che non fosse troppo compromettente. Poi disse:

            «Be', vedete, io sono un poco di buono - almeno lo dicono tutti, e non è che gli do torto - e certe volte non riesco a dormire, perché ci penso, e vorrei cambiar vita. Ieri sera è andata così. Non riuscivo a dormire, e allora me ne sono andato un po' in giro, verso mezzanotte, rimuginando tutte queste cose, e quando sono arrivato alla baracca, quel vecchio deposito di mattoni vicino alla Taverna della Temperanza, sono tornato ad appoggiarmi al muro per pensarci ancora un po'. Be', proprio allora arrivano quei due e mi passano davanti, portando qualcosa sotto il braccio, e ho pensato che fosse roba rubata. Uno fumava, e l'altro voleva del fuoco; così si sono fermati proprio davanti a me, e i sigari li hanno illuminati in faccia, e io vedo che quello grosso era lo spagnolo sordomuto, coi baffi bianchi e con la benda sull'occhio, e l'altro era un diavolaccio malvestito e stracciato.»

            «Hai potuto vedere gli stracci alla luce dei sigari?»

            La domanda sconcertò Huck, che poi disse:

            «Be', non so, ma in un modo o nell'altro mi è parso di vederli.»

            «Poi loro hanno ripreso a camminare e tu...»

            «Li ho seguiti... Sì. Proprio così. Volevo vedere cosa stava succedendo... Si muovevano così furtivamente! Li ho pedinati fino alla scaletta della vedova, e sono rimasto nascosto nelle tenebre, e ho sentito lo straccione difendere la vedova, e lo spagnolo giurare che le avrebbe rovinato i connotati, proprio come ho detto a voi e ai vostri due...»

            «Cosa? Il sordomuto ha detto tutto questo?»

            Huck aveva fatto un altro terribile errore! Stava facendo del suo meglio per impedire al vecchio di sospettare anche lontanamente quale potesse essere la vera identità dello spa

gnolo; eppure, malgrado tutti i suoi tentativi, la sua lingua sembrava decisa a metterlo nei guai. Huck fece parecchi sforzi per trarsi d'impaccio, ma l'occhio del vecchio non lo abbandonava un istante, e il ragazzo infilava uno sfondone dopo l'altro. Finalmente il gallese disse:

            «Ragazzo mio, non avere paura di me, non ti torcerei un capello per tutto l'oro del mondo. No... Ti proteggerei; ti proteggerei. Questo spagnolo non è sordomuto: te lo sei fatto sfuggire senza volere; ora non puoi far finta di niente. Tu sai qualcosa di quello spagnolo di cui vuoi tenermi all'oscuro. Abbi fiducia in me... Dimmi cos'è, e fìdati di me: non ti tradirò.»

            Huck guardò per un momento negli occhi sinceri del vecchio, poi si sporse verso di lui e gli sussurrò all'orecchio:

            «Non è uno spagnolo... È Joe l'indiano!»

            Il gallese sobbalzò così violentemente che per poco non cadde dalla sedia. Dopo un attimo disse:

            «Adesso è tutto abbastanza chiaro. Quando hai parlato di nasi tagliati e orecchie intaccate, ho creduto che fosse un tuo svolazzo, perché i bianchi non si vendicano così. Ma un indiano! Questo è un altro paio di maniche.»

            Il colloquio proseguì durante la colazione, e in quell'occasione il vecchio disse che l'ultima cosa che avevano fatto, lui e i suoi figli, prima di andare a letto, era stato di prendere una lanterna ed esaminare i gradini e le loro adiacenze per vedere se c'erano tracce di sangue. Non ne avevano trovata neanche una, ma si erano imbattuti in un grosso fagotto di...

            «Di cosa?»

            Se le parole fossero state un fulmine, non avrebbero potuto guizzare con una più sbalorditiva subitaneità dalle labbra sbiancate di Huck. I suoi occhi erano spalancati, adesso, e il respiro sospeso: mentre aspettava la risposta. Il gallese trasalì, trasalì a sua volta, fissandolo per qualche secondo - tre, cinque, dieci - poi rispose:

            «Di arnesi da scasso. Perché, cosa ti prende?»

            Huck si abbandonò sulla sedia, respirando silenziosamente, ma profondamente: la gioia che provava era inesprimibile. Il gallese lo scrutava con un'espressione grave, incuriosita: e finalmente disse:

            «Sì, arnesi da scasso. Si direbbe che la cosa ti sollevi molto. Ma perché ti sei tanto spaventato? Cosa credevi che avessimo trovato?»

            Huck era alle strette; quell'occhio indagatore non lo lasciava mai: avrebbe dato qualsiasi cosa per trovare una risposta plausibile. Non gli venne nessuna idea; quell'occhio penetrante e indagatore scavava sempre più a fondo; alla mente di Huck si affacciò una risposta assurda: ma non c'era il tempo di ponderarla, e perciò la buttò lì, a casaccio, fievolmente:

            «Libri di catechismo, magari.»

            Il povero Huck era troppo angosciato per sorridere, ma il vecchio rise forte e allegramente, scosse da capo a piedi i dettagli della propria anatomia, e concluse dicendo che una risata come quella era tanto oro, perché riduceva le spese del dottore. Quindi aggiunse:

            «Povero ragazzo, vecchio mio; sei pallido e stremato; non stai affatto bene. Non c'è da meravigliarsi che tu sia un po' incostante e squilibrato. Ma ti riprenderai. Sonno e riposo ti rimetteranno in sesto, spero.»

            Huck era irritato al pensiero di essere stato un simile babbeo, e di aver tradito un'eccitazione così sospetta, perché aveva abbandonato l'idea che l'involto portato via dalla taverna fosse il tesoro appena aveva sentito i discorsi vicino alla scaletta della vedova. Aveva solo pensato che non fosse il tesoro, però; non aveva avuto la certezza che non lo fosse; e così il cenno a un fagotto trovato da quelle parti lo aveva troppo turbato per consentirgli di mantenere il dominio di sé. Nel complesso, tuttavia, era contento del piccolo episodio, perché ora sapeva senz'ombra di dubbio che il fagotto non era quel fagotto, e così il suo animo era sereno e straordinariamente tranquillo. In effetti, tutto, adesso, sembrava andare per il verso giusto: il tesoro doveva essere ancora nel numero due, quel giorno gli uomini sarebbero stati catturati e messi in prigione, e quella notte lui e Tom avrebbero potuto impadronirsi dell'oro senza problemi e senza il timore di essere sorpresi sul più bello.

            Mentre stavano finendo di fare colazione qualcuno bussò alla porta. Huck corse a nascondersi, perché non aveva nessuna voglia di essere immischiato negli ultimi avvenimenti. Il gallese introdusse parecchie signore e signori, tra i quali la vedova Douglas, e notò che alcuni gruppi di abitanti del paese stavano salendo la collina per andare a vedere la scaletta. La notizia si era dunque diffusa.

            Il gallese dovette narrare ai visitatori la storia di quella notte. La vedova fu assai franca nell'esprimere la sua gratitudine verso chi quella notte l'aveva salvata dall'indiano.

            «Non ne parliamo neppure, signora. C'è un'altra persona alla quale siete forse più obbligata che a me e ai miei ragazzi, ma non mi autorizza a fare il suo nome. Non ci saremmo mai trovati là, se non fosse stato per lei.»

            Questo, naturalmente, suscitò una curiosità così grande da far quasi passare in secondo piano l'avvenimento principale; ma il gallese lasciò che rodesse il cervello dei suoi visitatori, e per mezzo loro la trasmise all'intero paese, perché si rifiutò di svelare il suo segreto. Quando ebbe saputo tutto il resto, la vedova disse:

            «Io mi sono addormentata mentre leggevo a letto, e ho continuato a dormire mentre fuori c'era tutto quel baccano. Perché non siete venuti a svegliarmi?»

            «Abbiamo pensato che non ne valesse la pena. Era difficile che quelli tornassero; non avevano più gli arnesi da lavoro, e a che serviva svegliarvi e farvi prendere una fifa da morire? I miei tre negri hanno montato la guardia davanti alla vostra casa per tutto il resto della notte. Sono appena tornati.»

            Giunsero altri visitatori, e la storia dovette essere detta e ridetta per un altro paio d'ore. Non c'era il catechismo durante le vacanze scolastiche, ma tutti si recarono in chiesa di buon'ora. Il fatto emozionante venne discusso a fondo. Giunse notizia che non si era ancora trovata la minima traccia degli scellerati. Quando il sermone finì, la moglie del giudice Thatcher affiancò la signora Harper, che stava uscendo dalla chiesa col resto dei fedeli, e disse:

            «La mia Becky dormirà tutto il giorno? Me lo immaginavo, che sarebbe stata stanca morta.»

            «La vostra Becky?»

            «Sì», disse con un'espressione sorpresa. «Ieri sera non s'è fermata da voi?»

            «Ma no.»

            La signora Thatcher impallidì, e cadde a sedere su un banco proprio mentre zia Polly, chiacchierando animatamente con un'amica, passava di lì. Zia Polly disse:

            «Buongiorno, signora Thatcher. Buongiorno, signora Harper. Ho un ragazzo che non s'è fatto vivo. Credo che il mio Tom sia rimasto a casa vostra, ieri sera: da una delle due. E ora non si azzarda a venire in chiesa. Dovrò fare i conti con lui.»

            La signora Thatcher scosse debolmente la testa e diventò più pallida che mai.

            «Non è rimasto da noi», disse la signora Harper, cominciando ad aver un'aria allarmata. Un'espressione di grande ansietà si dipinse sul viso di zia Polly.

            «Joe Harper, hai visto il mio Tom stamattina?»

            «No, signora.»

            «Quando l'hai visto per l'ultima volta?»

            Joe si sforzò di ricordare, ma non era sicuro. La gente aveva smesso di uscire dalla chiesa. Un brusio si alzò dai fedeli e una profonda inquietudine si diffuse su ogni volto. I bambini, e i loro giovani maestri, furono sottoposti ad ansiosi interrogatori. Tutti dissero di non aver notato se Tom e Becky erano a bordo del battello durante il viaggio di ritorno; era buio; nessuno aveva pensato di controllare se mancava qualcuno. Un giovanotto finalmente confessò il suo timore che fossero ancora nella grotta! La signora Thatcher svenne; zia Polly scoppiò in lacrime torcendosi le mani.

            La notizia passò di bocca in bocca, di crocchio in crocchio, di strada in strada; e in meno di cinque minuti le campane suonavano a distesa e tutto il paese era in subbuglio! L'episodio di Cardiff Hill perse di colpo tutta la sua importanza, i ladri furono dimenticati, i cavalli sellati, le barche spinte in acqua, il traghetto staccato dagli ormeggi, e prima che l'orrore avesse mezz'ora di vita duecento uomini si stavano riversando, per la strada e lungo il fiume, verso la caverna.

            Per tutto il lungo pomeriggio il paese sembrò vuoto e morto. Molte donne andarono a trovare zia Polly e la signora Thatcher, e cercarono di consolarle. Piansero insieme a loro, e questo era anche meglio delle parole.

            Per tutto il lungo tedio della notte il villaggio restò in attesa di novità; ma quando finalmente spuntò l'alba, l'unica ambasciata che arrivò fu: «Mandate altre candele, e roba da mangiare.» La signora Thatcher era quasi impazzita dal dolore, e così pure zia Polly. Il giudice Thatcher inviava dalla grotta messaggi di speranza e d'incoraggiamento, ma le sue parole non riuscivano a scacciare la tristezza.

            Il vecchio gallese rincasò verso l'alba, imbrattato di sego di candela, incrostato d'argilla e quasi morto di fatica. Trovò Huck ancora nel letto che gli era stato assegnato, e in delirio per la febbre. I medici erano tutti alla caverna, e allora, a prendersi cura del paziente, venne la vedova Douglas. Disse che avrebbe fatto del suo meglio per assisterlo perché - fosse buono, cattivo o mezzo e mezzo - era pur sempre una creatura del Signore, e nessuna creatura del Signore doveva essere abbandonata a se stessa. Il gallese disse che Huck aveva dei lati buoni, e la vedova disse:

            «Senza dubbio. È il segno di Dio. Non se ne dimentica mai. Lo mette su tutte le creature che escono dalle Sue mani.»

            Nelle prime ore del mattino squadre di uomini esausti cominciarono a tornare in paese, ma i più forti tra i suoi abitanti proseguirono le ricerche. Tutto quello che si poté sapere fu che si stava perlustrando la parte più lontana della caverna che non era stata mai esplorata; che si stava frugando attentamente in ogni angolo e in ogni crepaccio; che ovunque si andasse, in quel labirinto di cunicoli, si vedevano delle luci passare rapidamente qua e là in lontananza, mentre le grida e i colpi di pistola diffondevano il loro cupo rimbombo in quella rete di buie gallerie. In un punto della caverna ben lontano dal settore abitualmente visitato dai turisti, si erano scoperti i nomi «Becky» e «Tom» tracciati col fumo di candela sulla parete rocciosa e, lì vicino, un pezzo di nastro sporco di sego. La signora Thatcher lo riconobbe e lo bagnò di lacrime. Era l'ultima reliquia che avrebbe mai avuto della sua bambina, disse; e nessun altro ricordo di lei avrebbe mai potuto esserle più caro, perché era stato l'ultimo a separarsi dal suo corpo ancora vivo prima che sopraggiungesse una morte spaventosa. Qualcuno disse che ogni tanto, dentro la caverna, brillava una luce lontana, e che allora si alzava un grido di gioia e tutti gli uomini si precipitavano sotto quelle volte rimbombanti, solo per andare incontro a una tremenda delusione; non erano i bambini; era la lampada di un soccorritore.

            Così passarono monotone le ore di tre giorni e tre notti terribili, e il villaggio sprofondò in una specie di torpore disperato. Nessuno aveva più voglia di far niente. La casuale scoperta, appena fatta, che il proprietario della Taverna della Temperanza teneva dei liquori nei suoi locali fece poca impressione all'opinione pubblica, per straordinario che fosse l'avvenimento. In un intervallo di lucidità Huck portò debolmente il discorso sull'argomento delle taverne e infine chiese, oscuramente temendo il peggio, se da quando lui era ammalato avevano scoperto qualcosa nella Taverna della Temperanza.

            «Sì», disse la vedova.

            Huck balzò a sedere sul letto, con gli occhi spiritati:

            «Cosa? Cos'era?»

            «Liquori!... E il locale è stato chiuso. Mettiti giù, figliolo: che spavento mi hai fatto prendere!»

            «Ditemi solo una cosa... Solo una... Per piacere! È stato Tom Sawyer a trovarli?»

            La vedova scoppiò in lacrime.

            «Zitto, zitto, figliolo, zitto! Te l'ho già detto, non devi parlare. Tu sei molto, molto malato!»

            Dunque, non avevano trovato altro che dei liquori; chissà che chiasso ci sarebbe stato, se avessero trovato dell'oro. Così il tesoro era sparito per sempre... sparito per sempre. Ma cos'aveva da piangere, la vedova? Strano che non facesse altro che piangere.

            Questi pensieri si fecero strada, oscuramente, nella testa di Huck, cagionandogli una stanchezza così grande da farlo cadere addormentato. La vedova allora si disse:

            «Ecco... Dorme, povero disgraziato. Se è stato Tom Sawyer a trovarli? Speriamo che qualcuno trovi lui, povero Tom! Ah, ormai non ne restano molti che abbiamo ancora abbastanza fiducia, o abbastanza forza, per continuare le ricerche.»

CAPITOLO XXXII

            Ma torniamo alla parte che ebbero Tom e Becky nel picnic. Anche loro camminarono, con gli altri, lungo le tenebrose gallerie, visitando le note meraviglie della grotta: meraviglie battezzate con nomi fin troppo pittoreschi come «Il salone», «La cattedrale», «Il palazzo di Aladino» e così via. Poco dopo i ragazzi si misero a giocare a nascondino, e Tom e Becky parteciparono al gioco con entusiasmo fino a quando la fatica cominciò a farsi sentire; allora s'incamminarono per un tortuoso sentiero, tenendo alte le candele per decifrare l'intricata ragnatela di nomi, date, indirizzi e motti con cui erano state affrescate (col fumo di candela) le pareti rocciose. Sempre gironzolando e chiacchierando tra loro, non si accorsero di essere finiti in una parte della caverna le cui pareti non erano affrescate. Scrissero col fumo i loro nomi sotto una sporgenza e proseguirono. Poco dopo raggiunsero un luogo dove un piccolo corso d'acqua, gocciolando sopra una cornice e portando con sé un sedimento calcareo, aveva, nel lento trascorrere dei secoli, formato un Niagara, tutto crespi e merletti, di pietra luccicante e indistruttibile. Tom insinuò il suo corpicino dietro questa meraviglia per illuminarla e farla ammirare a Becky. Scoprì allora che era come una tenda davanti a una specie di ripida scaletta naturale chiusa tra due pareti anguste, e subito lo invase l'ambizione di essere uno scopritore. Becky rispose al suo richiamo, e fecero un segno col fumo per orientarsi in un secondo tempo e iniziarono la loro esplorazione. Girarono di qua e di là, sprofondando negli abissi della grotta, fecero un altro segno, e si allontanarono lungo una diramazione in cerca di novità da raccontare al mondo soprastante. A un certo punto si trovarono in una spaziosa caverna dal soffitto della quale pendeva una moltitudine di lucenti stalattiti della lunghezza e della circonferenza della gamba di un uomo; fecero tutto il giro, pieni di ammirazione e di stupore, e poi ne uscirono per una delle numerose gallerie che vi sboccavano. Quella strada in breve li portò davanti a un'incantevole sorgente, il cui bacino era tutto incrostato di una trina di cristalli scintillanti; la sorgente era in mezzo a una caverna le cui pareti erano sostenute da molti fantastici pilastri risultanti dall'unione di grandi stalattiti e stalagmiti, in conseguenza dell'incessante gocciolìo dell'acqua nei secoli. Sotto la volta si erano ammassati grossi grappoli di pipistrelli, a migliaia; la luce disturbò quelle creature, che si misero a svolazzare a centinaia, squittendo e avventandosi furiosamente contro le candele. Tom conosceva le loro abitudini, e i pericoli di quel comportamento. Prese Becky per mano e la tirò nel primo corridoio che gli si parò davanti; appena in tempo, perché un pipistrello spense la luce di Becky con le ali mentre la bambina usciva dalla caverna. I pipistrelli li inseguirono a lungo; ma i fuggitivi si precipitavano in ogni nuovo cunicolo che si parasse di fronte a loro, e finalmente riuscirono a liberarsi di quei pericolosi inseguitori. Poco dopo Tom trovò un lago sotterraneo di cui, alla fioca luce della candela, non si poteva scorgere l'altra riva. Avrebbe voluto esplorarne le adiacenze, ma concluse che prima sarebbe stato meglio sedersi e prendersi un po' di riposo. Allora, per la prima volta, il profondo silenzio di quel luogo smorzò con la sua mano viscida l'entusiasmo dei due bambini. Becky disse:

            «Accipicchia, non ci avevo fatto caso, ma è un pezzo che non sento più gli altri.»

            «A pensarci bene, Becky, dovremmo essere sotto di loro, ma non so a che distanza e in quale direzione. Non possiamo sentirli, da qui.»

            Becky cominciò a mostrare un po' di timore.

            «Chissà da quanto tempo siamo quaggiù, Tom. Sarebbe meglio tornare indietro.»

            «Sì, credo anch'io. Forse sarebbe meglio.»

            «Riesci a trovare la strada, Tom? Io faccio una gran confusione, con tutte quelle svolte.»

            «Credo che ci riuscirei, a trovare la strada, ma... E i pipistrelli? Se ci spengono entrambe le candele, saremo in un bel guaio. Proviamo un'altra strada, per non passare di là.»

            «Va bene, ma speriamo di non perderci. Sarebbe terribile!» E la bambina rabbrividì al pensiero di quell'orrenda possibilità.

            S'incamminarono per una galleria, e in silenzio ne percorsero un buon tratto, spingendo lo sguardo in ogni nuova apertura per vedere se avesse qualcosa di familiare: ma sembravano tutte sconosciute. Ogni volta che Tom faceva un sopralluogo, Becky cercava sul suo viso qualche segno d'incoraggiamento, e lui allora diceva allegramente:

            «Oh, va tutto bene. Non è questa, ma la troveremo subito!» Dopo ogni insuccesso, invece, si sentiva sempre meno fiducioso, e alla fine si mise a scantonare nelle diramazioni a caso, nella speranza disperata di trovare quella che cercava. Diceva sempre che «tutto andava bene», ma aveva il cuore oppresso da una tale paura che le parole si erano svuotate d'ogni forza di persuasione, e sembrava che avesse detto, invece: «Tutto è perduto!» Becky gli si stringeva al fianco in preda alla paura, e faceva del suo meglio per trattenere le lacrime, senza riuscirci. Alla fine disse:

            «Oh, Tom, non pensiamo ai pipistrelli; torniamo indietro di là! Mi sembra che così vada di male in peggio.»

            Tom si fermò di colpo.

            «Ascolta!» disse.

            Profondo silenzio: un silenzio così profondo che persino il loro respiro era cospicuo nella quiete. Tom gridò. La sua voce echeggiò sotto le volte delle gallerie e si spense in lontananza

con un fievole suono che sembrava uno scroscio di risa beffarde.

            «Oh, non farlo più, Tom, è troppo orribile», disse Becky.

            «È orribile, ma sarà meglio che lo faccia, Becky; potrebbero sentirci, sai.» E urlò di nuovo.

            Quel «potrebbero» faceva ancora più orrore della spettrale risata, tanto platealmente rivelava il venir meno delle loro speranze. I bambini, immobili, tesero l'orecchio; ma non ci fu alcun esito. Tom tornò immediatamente sui suoi passi, affrettandosi. Non doveva passare molto tempo prima che una certa indecisione nel suo atteggiamento rivelasse a Becky un'altra spaventevole realtà: non riusciva più a trovare la strada per tornare indietro!       «Oh, Tom, non hai fatto segni!»

            «Becky, che stupido sono stato! Che stupido! Non pensavo che avremmo potuto aver bisogno di tornare indietro! No, non riesco a trovare la strada. È tutto confuso.»

            «Tom, Tom, siamo perduti! Siamo perduti! Non riusciremo mai più a uscire da quest'orribile posto! Oh, perché ci siamo separati dagli altri?»

            La bambina si lasciò cadere a terra e scoppiò in un pianto così disperato che Tom fu atterrito dall'idea che potesse morire, o perdere la ragione. Si sedette accanto a lei e l'abbracciò; lei gli affondò il viso nel petto, aggrappandosi a lui, e balbettando gli confessò i suoi terrori, i suoi vani rimpianti, e gli echi lontani trasformarono ogni parola in una risata di scherno. Tom la pregò di non perdersi d'animo, e lei disse che non ce la faceva più. Allora lui si mise a darsi la colpa e a insultarsi per averla messa in quella sventurata situazione: questo ebbe un effetto migliore. Becky disse che avrebbe cercato di sperare ancora, che si sarebbe alzata e lo avrebbe seguito ovunque avesse deciso di andare, purché non parlasse più così. Perché non aveva più colpe di lei, disse.

            Allora si rimisero in cammino, a casaccio, senza meta: tutto quello che potevano fare era muoversi, continuare a muoversi. Per un po' la speranza fece mostra di rinascere: non perché ce ne fosse motivo, ma solo perché è nella sua natura rifiorire, quando la molla non è stata distrutta dalla vecchiaia e dalla familiarità con l'insuccesso.

            Poco dopo Tom prese la candela di Becky e la spense. Questa economia aveva un significato ben preciso. Le parole non erano necessarie. Becky capì, e le sue speranze tornarono a svanire. Sapeva che Tom aveva in tasca una candela intera e tre o quattro pezzi: eppure doveva fare economia.

            Piano piano la stanchezza cominciò a farsi sentire; i bambini cercarono di non badarvi, perché era terribile pensare di sedersi quando il tempo era diventato così prezioso; muoversi, in una direzione, in una direzione qualsiasi, voleva almeno dire far progressi e poteva recare qualche frutto; ma sedersi era come invitare la morte ad abbreviare il suo inseguimento.

            Alla fine le fragili membra di Becky si rifiutarono di portarla oltre. La bambina si mise a sedere. Tom si riposò insieme a lei, e parlarono della loro casa, e degli amici che avevano là, e dei loro letti comodi, e soprattutto della luce! Becky pianse, e Tom cercò di trovare qualche sistema per consolarla, ma i suoi incoraggiamenti avevano ormai perso tutta la loro efficacia e sembravano sarcasmi. Così grande, tuttavia, era il peso della stanchezza che Becky a poco a poco scivolò nel sonno. Tom ringraziò il cielo. Rimase là seduto a guardare la sua faccia tesa e la vide tornar liscia e naturale sotto l'influenza di sogni piacevoli; e poco dopo le spuntò sulle labbra un sorriso che non se ne andò. Quel viso sereno riverberò un po' della sua pace e della sua tranquillità sullo spirito di Tom, che allora tornò col pensiero a tempi lontani e vaghi ricordi. Mentre era immerso nelle sue meditazioni, Becky si svegliò con una risata argentina: che subito, però, le si spense sulle labbra, e fu seguita da un gemito.

            «Oh, come ho potuto dormire! Vorrei non essermi mai più, mai più svegliata! No, no, Tom, non è vero! Non fare quella faccia! Non lo dirò più.»

            «Sono contento che tu abbia dormito, Becky: ti sentirai riposata, adesso, e troveremo una via d'uscita.»

            «Possiamo provare, Tom; ma ho visto un paese così bello nel mio sogno. Io credo che stiamo andando lì.»

            «Forse no, forse no. Coraggio, Becky, e continuiamo a cercare.»

            Si alzarono e ripresero la loro peregrinazione, senza speranze, tenendosi per mano. Si sforzarono di calcolare da quanto tempo erano nella grotta, ma tutto quello che sapevano era che sembravano giorni e settimane, mentre era chiaro che non poteva essere così, perché le candele non si erano ancora consumate.

            Molto tempo dopo - non avrebbero saputo dire quanto - Tom disse che dovevano camminare in punta di piedi e tendere l'orecchio per sentire il rumore dell'acqua che scorre: dovevano trovare una sorgente. Finalmente ne trovarono una, e Tom disse che era ora di riposarsi una seconda volta. Erano stanchi morti, tutt'e due, ma Becky disse che se la sentiva di fare un altro po' di strada. La sorprese che Tom fosse di diverso parere. Non riusciva a capirlo. Si misero a sedere, e Tom fissò la candela alla parete davanti a loro con un po' d'argilla. Presto furono assaliti da una folla di pensieri; per qualche tempo nessuno disse nulla. Poi Becky ruppe il silenzio:

            «Ho tanta fame, Tom!»

            Tom tirò fuori qualcosa dalla tasca.

            «Ricordi questa?» disse.

            Becky abbozzò quasi un sorriso.

            «È la nostra torta nuziale, Tom.»

            «Sì: vorrei che fosse grande come una botte, perché è tutto quello che abbiamo.»

            «L'avevo messa da parte perché potessimo sognarci sopra, Tom, come fanno gli adulti con le torte nuziali: invece sarà il nostro...»

            Lasciò la frase a metà. Tom divise la torta e Becky mangiò di gusto, mentre Tom sbocconcellava la sua parte. C'era acqua fresca in abbondanza per completare il banchetto. Poco dopo Becky propose di rimettersi in cammino. Per un attimo Tom rimase muto. Poi disse:

            «Becky, te la senti di ascoltare una cosa che devo dirti?»

            Il viso di Becky impallidì, ma la bambina disse che se la sentiva.

            «Be', allora, Becky, dobbiamo stare qui, dove c'è acqua da bere. Quel pezzetto è la nostra ultima candela!»

            Becky diede sfogo alle lacrime e ai lamenti. Tom fece il possibile per confortarla, ma con scarsi risultati. Alla fine Becky disse:

            «Tom!»

            «Sì, Becky?»

            «Noteranno la nostra assenza e verranno a cercarci!»

            «Sì, certo! Certo che verranno!»

            «Tom? Forse stanno cercandoci già adesso.»

            «Acciderba, forse sì! Speriamo.»

            «Quando potrebbero accorgersi della nostra assenza, Tom?»

            «Quando tornano alla barca, immagino.»

            «Tom, potrebbe essere buio, allora: si accorgerebbero che non siamo arrivati?»

            «Non so. Ma tua madre, in ogni modo, noterebbe la tua assenza appena fossero tornati a casa.»

            L'espressione spaventata che comparve sul viso di Becky fece rinsavire Tom, che si accorse di aver commesso un errore. Becky non doveva tornare a casa, quella sera! I bambini ammutolirono, perduti nei loro pensieri. Ancora un attimo e una nuova manifestazione di dolore da parte di Becky fece capire a Tom che la cosa alla quale stava pensando lui aveva colpito anche lei: che poteva benissimo passare una metà della mattinata festiva prima che la signora Thatcher scoprisse che Becky non era a casa della signora Harper. I due bambini fissarono lo sguardo sul mozzicone di candela e lo videro sciogliersi con spietata lentezza; videro il mezzo pollice di stoppino drizzarsi, alla fine, solitario; videro la debole fiammella salire e scendere, salire e scendere, arrampicarsi sull'esile colonna di fumo, indugiare un momento sulla cima... E poi regnò l'orrore della più completa oscurità.

            Quanto tempo fosse passato prima che Becky lentamente si accorgesse che stava piangendo tra le braccia di Tom, né l'uno né l'altra avrebbero saputo dire. Tutto quello che seppero fu che, dopo quello che sembrò un lunghissimo periodo di tempo, uscirono ambedue dall'inerte torpore del sonno e tornarono ancora una volta ai loro tormenti. Tom disse che ormai poteva essere domenica, forse lunedì. Si sforzò di far parlare Becky, ma il suo dolore era troppo grande, e tutte le sue speranze erano svanite. Tom disse che la loro assenza doveva essere stata notata da un pezzo, e che senza dubbio le ricerche erano in corso. Avrebbe urlato, così forse sarebbe arrivato qualcuno. Ci provò: ma nelle tenebre gli echi lontani mandavano un suono così terrificante che non ci provò più.

            Le ore passavano lente, e la fame riprese a tormentare i prigionieri. Rimaneva una parte della mezza torta di Tom: se la divisero e la mangiarono. Ma sembrava che i morsi della fame si fossero fatti più forti di prima. Quel misero pezzetto di cibo gli aveva solo stuzzicato l'appetito.

            Poco dopo Tom disse:

            «Ssst! Hai sentito?»

            Trattennero il respiro e tesero l'orecchio. Si udì un suono che sembrava un urlo, fioco e lontanissimo. Tom rispose immediatamente e, presa Becky per mano, cominciò a dirigersi a tentoni da quella parte. Poco dopo tornò a tendere l'orecchio: il suono tornò a farsi sentire e stavolta sembrava più vicino.

            «Sono loro!» disse Tom; «arrivano! Forza, Becky: siamo salvi!»

            La gioia dei prigionieri era quasi intollerabile. Lenta, però, era la loro marcia, perché i trabocchetti erano piuttosto frequenti, e occorreva stare in guardia. Ne trovarono uno poco dopo, e dovettero fermarsi. Il terreno poteva sprofondare di un metro come di trenta: impossibile superare l'ostacolo, in ogni modo. Tom si distese bocconi e tastò con la mano. Non riuscì a toccare il fondo. Dovevano star lì ad aspettare l'arrivo dei soccorritori. Tesero l'orecchio: era evidente che le urla, già lontane, si allontanavano sempre più! Ancora un attimo e non si udì più nulla. Che dolore straziante! Tom urlò fino a restare senza voce, ma non servì a nulla. A Becky si rivolse con parole di speranza; ma passò un secolo di trepidante attesa e non si udì alcun suono.

            A tentoni i bambini tornarono alla sorgente. Il tempo continuò a scorrere, lentissimo; il sonno li vinse di nuovo, e quando si svegliarono erano affamati e in preda alla più nera disperazione. Ormai, secondo Tom, doveva essere martedì.

            Allora il ragazzo ebbe un'idea. C'erano, lì vicino, dei cunicoli laterali. Meglio esplorarne qualcuno che sopportare oziosamente il peso del tempo che passava, inesorabile. Tom tolse di tasca un gomitolo di spago da aquiloni, lo legò a una sporgenza e partì con Becky, lui davanti e lei dietro, svolgendo il gomitolo man mano che si allontanava. Percorsi venti passi, il cunicolo finiva su una specie di «trampolino».

            Tom s'inginocchiò per tastare il terreno sotto di sé, e poi oltre lo spigolo, fin dove arrivava con le mani; si sforzò di allungarsi ancora un po', sulla destra, e in quel momento, a meno di venti metri di distanza, la mano di un uomo che reggeva una candela spuntò da dietro una roccia! Tom lanciò un urlo di gioia, e nello stesso istante la mano fu seguita dal corpo al quale apparteneva: quello di Joe l'indiano! Tom rimase paralizzato; non riusciva a muoversi. Provò un grandissimo senso di sollievo quando vide, un istante dopo, lo «spagnolo» darsela a gambe e sparire. Tom si chiese come mai Joe non avesse riconosciuto la sua voce e non fosse venuto ad ammazzarlo per aver testimoniato in tribunale. Ma gli echi dovevano averla alterata. Senza dubbio era così, ragionò. La paura gli aveva indebolito ogni muscolo del corpo. Allora si disse che, se avesse trovato la forza per tornare alla sorgente, sarebbe rimasto là, e nulla avrebbe potuto spingerlo a correre il rischio d'incontrare un'altra volta Joe l'indiano. Badò a non dire a Becky cos'aveva visto. Le spiegò di aver gridato «per scaramanzia».

            Ma la fame e l'angoscia, a lungo andare, sono più forti della paura. Un'altra monotona attesa vicino alla sorgente e un altro lungo sonno operarono dei cambiamenti. I bambini si svegliarono torturati da una fame furibonda. Tom credeva che fosse già mercoledì, o giovedì, o addirittura venerdì o sabato e che le ricerche fossero state abbandonate. Propose di esplorare un'altra galleria. Era pronto ad affrontare Joe l'indiano e tutti gli altri terrori di quella caverna. Ma Becky era debolissima. Era caduta in uno stato di terribile apatia da cui niente riusciva a scuoterla. Disse che avrebbe atteso, adesso, lì dov'era, che avrebbe atteso la morte: non ci sarebbe stato molto da aspettare. Disse a Tom di andar pure a esplorare con lo spago dell'aquilone, se voleva; ma lo supplicò di tornare indietro ogni tanto a dirle qualcosa; e gli fece promettere che, quando fosse giunto il momento fatale, le sarebbe stato vicino e le avrebbe tenuto la mano finché tutto non fosse finito. Tom la baciò, con un nodo alla gola che gli dava l'impressione di soffocare, e si finse sicuro di trovare i soccorritori o una via di scampo; poi prese in mano il gomitolo di spago e a tentoni si avviò, sulle mani e sulle ginocchia, lungo uno dei cunicoli, stremato dalla fame e ormai presago che la fine era imminente.

CAPITOLO XXXIII

            Venne anche il pomeriggio del martedì, e declinando arrivò al tramonto. Il villaggio di St. Petersburg era sempre in lutto. I bambini dispersi non erano stati trovati. Pubbliche preghiere erano state offerte a Dio per la loro salvezza, e moltissime preghiere private nelle quali il postulante aveva messo tutto il suo cuore; ma le notizie che venivano dalla grotta erano sempre cattive. La maggior parte dei soccorritori avevano abbandonato le ricerche ed erano tornati alle loro occupazioni quotidiane, dicendo che era chiaro che i bambini non sarebbero stati più trovati. La signora Thatcher stava molto male, e per gran parte del tempo delirava. La gente diceva che era straziante sentirla invocare la sua bambina, e alzare la testa e tendere l'orecchio anche per un intero minuto, per poi tornare ad abbandonarla con un gemito sul guanciale. Zia Polly era caduta in uno stato di profonda prostrazione, e i suoi capelli grigi erano diventati quasi bianchi. Martedì sera il villaggio andò a dormire in preda alla tristezza e alla desolazione.

            Nel cuore della notte le campane si misero a suonare a tutto spiano, e in un lampo le strade si riempirono di gente seminuda che pareva impazzita e che urlava: «Uscite! Uscite! Li hanno trovati! Li hanno trovati!». Trombe e padelle aggiunsero la loro voce a quel clamore, la popolazione si radunò e si mosse verso il fiume, andò incontro ai bambini che arrivavano su un carro scoperto tirato da compaesani urlanti, gli si affollò intorno, lo seguì nella sua marcia verso casa e sfilò trionfalmente per il corso gridando un evviva dopo l'altro!

            Il paese era illuminato; nessuno tornò a letto; fu la notte più memorabile che St. Petersburg avesse mai visto. Nella prima mezz'ora una processione di abitanti del villaggio sfilò attraverso la casa del giudice Thatcher, abbracciò gli scampati e li baciò, strinse la mano della signora Thatcher, cercò di parlare senza riuscirvi, e se ne andò piangendo a calde lacrime.

            La felicità di zia Polly era completa, quasi completa quella della signora Thatcher. Lo sarebbe stata, tuttavia, appena il messaggero inviato con la grande notizia alla caverna avesse potuto informare suo marito.

            Tom giaceva su un sofà, circondato da un pubblico rapito, e raccontò la storia di quella stupenda avventura, con molte aggiunte per renderla più avvincente; e concluse con la descrizione di come avesse lasciato Becky per avventurarsi in una nuova esplorazione; di come avesse seguìto due cunicoli fin dove arrivava lo spago; di come ne avesse seguìto un terzo, tendendo lo spago fin quasi a spezzarlo, e fosse stato in procinto di tornare indietro quando aveva visto, in lontananza, un puntolino che faceva pensare alla luce del giorno; allora aveva lasciato cadere lo spago e a tentoni si era diretto da quella parte, aveva infilato la testa e le spalle in un buco e aveva visto scorrere il grande Mississippi! E se per caso fosse stato di notte, non avrebbe visto quel puntino luminoso, e non avrebbe più esplorato quel cunicolo! Spiegò poi come fosse tornato da Becky per darle la bella notizia, e come lei gli avesse detto di non seccarla con quelle storie, perché era stanca e sapeva che presto sarebbe morta, anzi, che non vedeva l'ora di morire. Spiegò come fosse riuscito faticosamente a convincerla, e come la bambina fosse quasi morta di gioia quando a tentoni era strisciata fino al punto da cui aveva potuto vedere coi suoi occhi l'azzurro pezzetto di cielo; come lui era uscito dal buco e poi aveva aiutato lei a uscirne; come si erano seduti per terra e avevano pianto di gioia; com'era passata una barca con certi uomini a bordo e Tom li aveva chiamati e gli aveva spiegato la situazione e la fame che avevano: come gli uomini, dapprima, non avessero creduto a una storia così inverosimile, «perché», dissero, «siete otto chilometri a valle della montagna dove c'è la caverna»; poi li avevano presi a bordo, avevano remato fino a una casa, li avevano rifocillati, li avevano fatti riposare fino a due o tre ore dopo il tramonto, e poi li avevano accompagnati a casa.

            Prima dell'alba il giudice Thatcher e il gruppetto dei soccorritori che lo accompagnavano furono rintracciati nella caverna grazie alle funicelle che si erano lasciati dietro e informati della grande notizia.

            Tre giorni e tre notti di affanni e di fame nella grotta non potevano cancellarsi tanto facilmente, come Tom e Becky scoprirono ben presto. I due bambini furono confinati a letto per tutto il mercoledì e tutto il giovedì, e sembrava che la loro stanchezza, invece di andarsene, aumentasse col passar del tempo. Tom si alzò per qualche ora giovedì, venerdì fece un salto in paese, e sabato si sentiva come nuovo; ma Becky non lasciò la sua stanza fino a domenica, e quando ne uscì aveva l'aria di chi è guarito da una lunga malattia.

            Tom seppe del malanno di Huck e andò a trovarlo venerdì, ma non lo fecero entrare in camera da letto; lo stesso accadde sabato e domenica. Da lunedì poté andarci tutti i giorni, con l'impegno di non parlare della sua avventura e di non toccare argomenti troppo emozionanti. La vedova Douglas era presente per controllare che si attenesse ai patti. A casa Tom seppe del fattaccio di Cardiff Hill; e anche che il corpo dello straccione era stato trovato, finalmente, nel fiume, presso il pontile del traghetto: forse era annegato mentre cercava di fuggire.

            Una quindicina di giorni dopo il suo salvataggio dalla grotta, Tom uscì di casa per andare a trovare Huck, che era diventato abbastanza forte, ormai, per ascoltare storie emozionanti, e Tom ne aveva alcune che potevano interessargli, a parer suo. La casa del giudice Thatcher era sulla sua strada, e Tom si fermò per salutare Becky. Il giudice e alcuni amici lo fecero chiacchierare, e qualcuno ironicamente gli chiese se non gli sarebbe piaciuto tornare nella caverna. Tom disse di sì, che non gli sarebbe dispiaciuto.

            Il giudice disse:

            «Be', ce ne sono degli altri come te, Tom, non ne ho il minimo dubbio. Ma ci abbiamo pensato noi. Nessuno potrà più perdersi in quella caverna.»

            «Perché?»

            «Perché due settimane fa ho fatto rivestire di ferro il suo portone e l'ho chiusa con tre lucchetti; e le chiavi le tengo io.»

            Tom diventò bianco come un lenzuolo.

            «Che ti piglia, ragazzo? Presto, correte! Andate a prendere un bicchier d'acqua!»

            L'acqua fu portata e gettata sul viso di Tom.

            «Ah, ora va meglio. Ma cosa ti aveva preso, Tom?»

            «Oh, giudice, Joe l'indiano è nella caverna!»

CAPITOLO XXXIV

            In pochi minuti la notizia si era diffusa, e una dozzina di barche cariche di uomini stavano dirigendosi verso la caverna di McDougal, e il traghetto, gremito di passeggeri, presto li seguì. Tom Sawyer era nella barca che trasportava il giudice Thatcher. Quando la porta della caverna venne aperta, alla fioca luce che filtrava nell'interno si presentò uno spettacolo pietoso. Joe l'indiano era steso per terra, morto, col viso accostato alla fessura della porta, come se i suoi occhi pieni di rimpianto avessero voluto contemplare fino all'ultimo momento la luce e l'allegria del mondo libero che c'era fuori. Tom rimase commosso, perché sapeva per esperienza quanto quell'infelice doveva aver sofferto. Ciò nonostante, insieme alla compassione, provò un vivo senso di sollievo e di sicurezza, che gli rivelò, in una misura mai pienamente apprezzata prima d'allora, quant'era stato grande il peso del terrore che lo aveva oppresso dal giorno in cui aveva alzato la voce contro quel bandito sanguinario.

            Il coltello da caccia di Joe l'indiano si trovava vicino al cadavere, con la lama spezzata in due. La grossa trave alla base della porta era stata, con un tenace e monotono lavoro, scavata dal coltello; un lavoro inutile, perché davanti alla trave la roccia formava una specie di gradino, e su quel durissimo materiale il coltello non era valso a nulla: l'unico danno fatto riguardava la sua lama. Ma il lavoro sarebbe stato inutile anche senza quell'ostruzione rocciosa, perché anche se la trave fosse stata scavata per intero Joe l'indiano non sarebbe riuscito a passare sotto la porta, e lo sapeva. Si era dunque messo a incidere il legno in quel punto solo per far qualcosa; per passare il tempo; per usare le sue tormentate facoltà. Di solito negli anfratti del vestibolo si potevano trovare una mezza dozzina di mozziconi di candela lasciati dai turisti; ma adesso non ce n'era più nessuno. Il prigioniero li aveva cercati, li aveva tirati fuori e li aveva mangiati. Era anche riuscito ad acchiappare alcuni pipistrelli, e aveva mangiato anche questi, lasciando soltanto gli artigli. Quel povero disgraziato era morto di fame. In un punto a portata di mano, una stalagmite era cresciuta lentamente, per secoli, sul fondo della grotta, formata dall'acqua che gocciolava dalla stalattite soprastante. Il prigioniero aveva rotto la stalagmite, e sul troncone aveva messo una pietra in cui aveva praticato una piccola cavità per accogliere la preziosa goccia che cadeva una volta ogni venti minuti con la sinistra regolarità del tic-tac di un orologio: un cucchiaino ogni ventiquattr'ore. Quella goccia cadeva quando le piramidi erano nuove; quando Troia cadde; quando furono gettate le fondamenta di Roma; quando Cristo venne crocifisso; quando il Conquistatore creò l'impero britannico; quando Colombo salpò; quando il massacro di Lexington era una «notizia». Cade tuttora; e continuerà a cadere quando tutte queste cose saranno sprofondate attraverso il pomeriggio della storia e il crepuscolo della tradizione per essere inghiottite dalla cupa notte dell'oblio. Ogni cosa ha uno scopo e una missione? Cadde forse questa goccia pazientemente per cinquemila anni per rispondere ai bisogni di questo effimero insetto umano, e ha un altro importante scopo da raggiungere fra diecimila anni? Non importa. Molti anni sono trascorsi da quando lo sventurato meticcio scavò la pietra per raccogliere quelle gocce inestimabili, ma ancor oggi il turista guarda più a lungo di ogni altra cosa quel patetico sasso e quell'acqua che gocciola lentamente, quando viene a vedere i prodigi della caverna di McDougal. La tazza di Joe l'indiano occupa il primo posto nella lista delle meraviglie della grotta; e nemmeno il «palazzo di Aladino» può starle alla pari.

            Joe l'indiano fu sepolto vicino all'imboccatura della grotta; e la gente accorse in barca e sui carri dal paese e da tutti i borghi e le fattorie in un raggio di dieci chilometri; portavano i bambini, e provviste d'ogni genere, e ammettevano che al funerale se l'erano spassata quasi quasi come all'impiccagione.

            Il funerale pose fine agli sviluppi di un'altra faccenda; la richiesta al governatore dell'indulto per Joe l'indiano. La petizione aveva raccolto un considerevole numero di firme; si erano tenute molte riunioni lacrimose ed eloquenti, e si era eletto un comitato di sciocchine che dovevano, nel lutto più stretto, andare a piangere dal governatore e supplicarlo di essere un somaro, un somaro misericordioso pronto a mettersi la legge sotto i piedi. Si credeva che Joe l'indiano avesse ucciso cinque abitanti del paese, ma che importanza aveva? Fosse stato Satana in persona, ci sarebbe stato un mucchio di smidollati pronti a scarabocchiare i loro nomi sotto una domanda d'indulto, e a lasciarvi cadere una lacrima dalle loro condutture sempre guaste e gocciolanti.

            La mattina dopo il funerale Tom portò Huck in un luogo appartato per parlare seriamente con lui. Huck, ormai, aveva saputo tutto dell'avventura di Tom dal gallese e dalla vedova Douglas, ma Tom disse che secondo lui c'era una cosa che non gli avevano detto; ed era di quella cosa che voleva parlare adesso. Il viso di Huck si rattristò.

            «So benissimo di che si tratta», disse. «Tu sei entrato nel numero due e non hai trovato altro che whisky. Nessuno mi ha detto che eri tu, ma io sapevo che dovevi essere stato tu, appena ho sentito parlare del whisky; e sapevo che non avevi trovato i soldi perché in un modo o nell'altro ti saresti messo in contatto con me e me l'avresti detto, anche se con tutti gli altri tenevi il becco chiuso. Tom, qualcosa mi ha sempre detto che non saremmo mai riusciti a metter le mani su quel malloppo.»

            «Ma come, Huck, io non ho mai denunciato quel taverniere. Sai benissimo che la sua taverna era perfettamente in regola il sabato che io sono andato al picnic. Non ricordi che quella notte tu dovevi fare la guardia là davanti?»

            «Oh, sì! Accidenti, sembra che sia passato un anno. È stato proprio quella notte che ho seguito Joe l'indiano dalla vedova.»

            «L'hai seguito?»

            «Sì: ma tieni il becco chiuso. Credo che Joe l'indiano abbia ancora degli amici. Non vorrei che se la pigliassero con me e che mi facessero qualche brutto scherzo. Se non fosse stato per me, a quest'ora sarebbe già nel Texas.»

            Poi Huck, in via strettamente confidenziale, raccontò tutta la sua avventura a Tom, che fino a quel momento conosceva solo la parte sostenuta dal gallese.

            «Be'», disse Huck, finalmente, tornando alla questione principale, «chi ha fregato il whisky nel numero due ha fregatopure i soldi, penso io: per noi comunque il caso è chiuso, Tom.»

            «Huck, quei soldi non sono mai stati nel numero due!»

            «Cosa?» Huck studiò attentamente il viso dell'amico. «Tom hai trovato qualche traccia di quei soldi?»

            «Huck, sono nella caverna!»

            A Huck lampeggiarono gli occhi.

            «Dillo ancora, Tom!»

            «I soldi sono nella caverna!»

            «Tom - parola! - scherzi o dici sul serio?»

            «Sul serio, Huck: non sono mai stato così serio in vita mia. Ci stai ad andare là con me e ad aiutarmi a tirarli fuori?»

            «Certo che ci sto! Purché si possa andare avanti e indietro senza perdersi.»

            «Huck, possiamo farlo senza inguaiarci neanche tanto così.»

            «Magnifico! Cosa ti fa credere che i soldi...»

            «Huck, aspetta solo che arriviamo là. Se non li troviamo, prometto di regalarti il mio tamburo e tutto quello che ho al mondo. Lo giuro, accidenti.»

            «D'accordo: affare fatto. Quando?»

            «Anche subito, se ti va. Ti senti abbastanza bene?»

            «È lontano, dentro la caverna? Sto un po' in piedi da tre o quattro giorni, ormai, ma non posso camminare per più di un chilometro o un chilometro e mezzo, Tom: almeno, non credo che potrei.»

            «Sono circa otto chilometri per la strada che sanno tutti, Huck, ma c'è una scorciatoia che conosco solo io. Huck, ti porto fin là in barca. Vado giù con la corrente e torno a riva, tutto da solo. Tu non dovrai alzare un dito.»

            «Partiamo subito, allora, Tom.»

            «Va bene. Ci serve un po' di pane e un po' di carne, e le pipe, e un sacco o due, e due o tre gomitoli di spago per gli aquiloni, e alcuni di quei così nuovi che chiamano zolfanelli. Non so dirti quante volte avrei voluto averne qualcuno quando mi sono trovato là dentro.»

            Poco dopo mezzogiorno i ragazzi presero a prestito un barchino da un compaesano assente e si misero subito in moto. Quando furono diversi chilometri sotto la Conca della Grotta, Tom disse:

            «Ora, vedi quella riva? Sembra tutta uguale, dalla caverna in giù: niente case, niente cataste di legna, i cespugli tutti uguali. Ma vedi quel punto bianco lassù, dove c'è stata una frana? Be', quello è uno dei miei segni. Adesso andiamo a riva.»

            Sbarcarono.

            «Ora, Huck, dal posto dove siamo potresti toccare con una canna da pesca quel buco dal quale sono uscito. Vedi se riesci a trovarlo.»

            Huck frugò dappertutto e non trovò nulla. Tom entrò fieramente in una macchia di cespugli di sommacchi e disse:

            «Ecco qua! Guardala, Huck: è la tana più comoda del mondo. Ma acqua in bocca, eh? Ho sempre voluto fare il predone, ma sapevo che ci voleva una cosa così, e il problema era dove trovarla. Adesso ce l'abbiamo, e non lo diremo a nessuno, tranne Joe Harper e Ben Rogers... perché naturalmente dev'esserci una banda, altrimenti che figura ci facciamo? La banda di Tom Sawyer: suona bene, no, Huck?»

            «Be', sì, certo, Tom. E chi deprediamo?»

            «Oh, chi capita. Viandanti caduti in un agguato: è così che si fa, più o meno.»

            «E li ammazziamo.»

            «No, non sempre. Li teniamo nella caverna finché non ci pagano il riscatto!»

            «Cos'è il riscatto?»

            «Soldi. Li costringi a racimolare dagli amici tutto quello che possono, e dopo che li hai tenuti un anno, se il riscatto non è stato messo insieme, li ammazzi. In genere si fa così. Solo, non si ammazzano le donne. Si fanno prigioniere, ma non si ammazzano. Sono sempre belle e ricche, e hanno una gran fifa. Gli porti via orologi e gioielli, ma ti levi sempre il cappello e parli pulito. Non c'è nessuno più educato di un predone: sta scritto in tutti i libri. Be', le donne s'innamorano di te, e quando sono nella grotta da una settimana o due smettono di piangere, e da allora non riesci più a liberartene. Anche se tu le cacciassi via, tornerebbero subito indietro. Sta scritto in tutti i libri.»

            «Accipicchia, Tom, è fantastico. Credo sia meglio che fare il pirata.»

            «Sì, sotto certi aspetti è meglio, perché si è vicini a casa, si può andare al circo, e tutto.»

            Ormai era tutto pronto e i ragazzi s'introdussero nel buco, Tom davanti e Huck dietro. Arrancarono fino all'estremità più lontana della galleria, poi legarono i loro spaghi giuntati e proseguirono. Ancora due o tre passi e furono alla sorgente, dove Tom si sentì scuotere da un brivido improvviso. Il ragazzo mostrò a Huck il frammento di stoppino posato su un blocco d'argilla contro il muro, e descrisse in che modo lui e Becky avevano visto la fiamma mandare gli ultimi guizzi e poi spegnersi.

            Poi i ragazzi abbassarono la voce, perché il silenzio e l'oscurità di quel posto erano un peso sul cuore. Ripresero la marcia, e poco dopo entrarono nell'altro cunicolo di Tom e lo seguirono fino al «trampolino». Le candele rivelarono che non era proprio un precipizio, ma solo un'erta parete d'argilla, alta otto o nove metri. Tom sussurrò:

            «Ora ti faccio vedere una cosa, Huck.»

            Tenne alta la candela e disse:

            «Guarda oltre l'angolo, più lontano che puoi. La vedi? Là, su quel masso laggiù... Fatta col fumo di candela.»

            «Tom, è una croce!»

            «Ora, dov'è il tuo numero due? "Sotto la croce", eh? Proprio là dove ho visto Joe l'indiano alzare la candela, Huck!»

            Huck fissò per qualche tempo il mistico segno, e poi disse con voce tremante:

            «Tom, andiamocene via!»

            «Cosa? E lasciamo qui il tesoro?»

            «Sì, lasciamolo. Qui c'è lo spettro di Joe l'indiano, questo è certo.»

            «No, Huck, no. Sarà nel posto dov'è morto, verso l'imboccatura della caverna: a otto chilometri da qui.»

            «No, Tom, non è così. Sta vicino ai soldi, lui. Conosco le abitudini degli spettri, e anche tu.»

            Tom cominciava a temere che Huck avesse ragione. Mille dubbi gli si affollarono nella mente. Ma poco dopo gli venne un'idea.

            «Senti, Huck, siamo proprio degli stupidi! Lo spettro di Joe l'indiano non andrà mica vicino a una croce!»

            L'argomento era ben scelto e ottenne il suo effetto.

            «Tom, non ci avevo pensato. Ma è vero. Che fortuna, per noi, quella croce. Scendiamo laggiù a cercare quella cassetta.»

            Tom scese per primo, tagliando, mentre scendeva, rozzi scalini nell'argilla. Huck lo seguì. Dalla piccola caverna dove si trovava il grande masso si diramavano quattro gallerie. I ragazzi ne esaminarono tre senza risultato. Scoprirono un piccolo recesso in quella più vicina alla base del masso, con un giaciglio formato da un mucchio di coperte; c'erano anche una vecchia bretella, qualche cotica di pancetta, e le ossa ben ripulite di due o tre polli. Ma non c'era nessuna cassetta piena di soldi. I ragazzi frugarono dappertutto, ma invano. Tom disse:

            «Sotto la croce, ha detto. Be', questo è il punto più sotto la croce che ci sia. Non può essere sotto il masso, perché quello poggia direttamente contro il suolo.»

            Frugarono dappertutto ancora una volta, e poi si misero a sedere, scoraggiati. Huck non sapeva cosa proporre. Poco dopo Tom disse:

            «Guarda qui, Huck: ci sono delle impronte e del sego di candela sull'argilla da una parte di questo masso, ma non dalle altre. Perché? Scommetto che i soldi sono sotto il masso. Voglio scavare nell'argilla.»

            «Non è una cattiva idea, Tom!» disse Huck, vivacemente.

            Tom tirò subito fuori il «vero Barlow», e non aveva fatto un buco più profondo di dieci centimetri quando la lama del temperino toccò il legno.

            «Ehi, Huck! Hai sentito?»

            Allora anche Huck si mise a raspare e a scavare. Ben presto si scoprirono delle assi, che furono rimosse. Avevano occultato una crepa naturale che portava sotto il masso. Tom vi penetrò e protese il più possibile la mano che reggeva la candela, ma disse che non riusciva a vedere il fondo del cunicolo. Propose di esplorarlo. Si chinò e passò sotto; lo stretto sentiero scendeva a poco a poco. Tom ne seguì il corso tortuoso, prima a destra, poi a sinistra, tallonato da Huck. Finalmente girò un angolo ed esclamò:    «Dio buono, Huck, guarda qui!»

            Era la cassetta del tesoro, proprio lei, che occupava una grotta piccola e accogliente, insieme a un barile vuoto da polvere da sparo, una coppia di fucili nei loro astucci di cuoio, due o tre paia di vecchi mocassini, una cintura di cuoio e qualche altro oggetto senza valore zuppo dell'acqua che stillava dalla roccia.

            «Finalmente ce l'abbiamo fatta!» disse Huck, passando le mani tra le monete annerite. «Dio buono, ora sì che siamo ricchi, Tom!»

            «Huck, io ho sempre pensato che ce l'avremmo fatta. È troppo bello per essere vero, ma ce l'abbiamo fatta, come no! Ehi, non perdiamo tempo, portiamolo fuori. Vediamo se riesco ad alzare la cassetta.»

            Pesava una ventina di chili. Tom riusciva a sollevarla, goffamente, ma non a portarla comodamente.

            «Lo immaginavo», disse; «la portavano come se fosse pesante, quel giorno nella casa degli spiriti: l'ho notato. Credo di aver fatto bene a pensare di portare i sacchi.»

            Presto il denaro fu nei sacchi, e i ragazzi lo portarono su per il cunicolo fino al masso con la croce.

            «Ora andiamo a prendere i fucili e tutto il resto», disse Huck.

            «No, Huck, lasciamoli là. È proprio la roba che ci vuole quando andiamo a fare i predoni. La terremo sempre là, e ci faremo anche le orge. È il posto ideale per le orge.»

            «Cosa sono le orge?»

            «Non lo so. Ma i predoni fanno sempre delle orge, e naturalmente dobbiamo farle anche noi. Vieni, Huck, siamo stati qua dentro anche troppo. Sta facendosi tardi, credo. Ho anche fame. Mangeremo e ci faremo una fumata quando saremo alla barca.»

            Finalmente sbucarono nella macchia d'arbusti di sommacco, guardarono fuori, cautamente, videro che la costa era libera, e poco dopo erano sulla barca, a mangiare e a fumare. Mentre il sole scendeva verso l'orizzonte si staccarono dalla riva e iniziarono il viaggio di ritorno. Tom risalì il fiume lungo la costa nel lungo crepuscolo estivo, chiacchierando allegramente con Huck, e toccò terra che era già buio.

            «Ora, Huck», disse Tom, «nasconderemo i soldi sotto il tetto della legnaia della vedova, e domattina verrò su a contarli e a dividerli, e poi gli troveremo un posto nei boschi dove siano al sicuro. Tu resta qui a fare la guardia finché torno col carretto di Benny Taylor. Ci metto meno di un minuto.»

            Sparì, e poco dopo tornò indietro col carretto, vi mise dentro i due sacchetti, vi buttò sopra alcuni stracci vecchi, e partì, tirandosi dietro il suo carico. Quando arrivarono alla casa del gallese, i due ragazzi si fermarono per riposarsi un po'. Stavano per ripartire quando il gallese uscì di casa e disse:

            «Ehi, chi va là?»

            «Huck e Tom Sawyer.»

            «Bene! Venite con me, ragazzi, state facendo aspettare tutta la compagnia. Su, svelti, correte avanti; il carretto ve lo tiro io. Accidenti, non è leggero come potrebbe essere. Cosa c'è, su, mattoni o ferrovecchio?»

            «Ferrovecchio», disse Tom.

            «Mi pareva; i ragazzi di questo paese faticano di più e perdono più tempo a raccogliere mezzo dollaro di ferrovecchio da vendere alla fonderia, invece di guadagnare il doppio con un lavoro regolare. Ma la natura umana è fatta così. Presto, presto!»

            I ragazzi volevano sapere perché dovevano far presto.

            «Non importa: lo vedrete quando saremo dalla vedova Douglas.»

            Huck disse con qualche apprensione, perché da gran tempo era avvezzo a essere accusato falsamente:

            «Signor Jones, non abbiamo fatto niente.»

            Il gallese scoppiò in una risata.

            «Be', non so, Huck, ragazzo mio. Non so. Non siete buoni amici, tu e la vedova?»

            «Sì. Be', lei per me è stata una buona amica, in ogni caso.»

            «Benissimo, allora. Di cosa dovresti aver paura?»

            Huck, col suo cervello di lumaca, non aveva ancora trovato una risposta soddisfacente a questa domanda allorché venne spinto, insieme a Tom, nel salotto della signora Douglas. Il signor Jones lasciò il carretto vicino alla porta e li seguì.

            La stanza era vivamente illuminata, e c'erano tutti gli abitanti del paese che avevano un po' d'importanza. C'erano i Thatcher, gli Harper, i Rogers, zia Polly, Sid, Mary, il pastore, il direttore del giornale, e tanti altri, e tutti in ghingheri. La vedova accolse i due ragazzi con l'entusiasmo con cui si potevano accogliere due individui conciati come loro. Erano coperti d'argilla e di sego di candela. Zia Polly arrossì fino alle orecchie dall'umiliazione, e aggrottò la fronte e scosse la testa guardando Tom. Ma nessuno soffrì la metà di quello che soffrivano i due ragazzi. Il signor Jones disse:

            «Tom non era ancora tornato a casa, e così avevo rinunciato alla sua presenza; invece l'ho incontrato per caso, insieme a Huck, proprio davanti alla mia porta, e allora, in fretta e furia, li ho portati qui.»

            «E avete fatto bene», disse la vedova. «Venite con me, ragazzi.»

            Li portò in una camera da letto e disse:

            «Ora lavatevi e vestitevi. Ecco due abiti completi: camicia, calzini e tutto. Sono di Huck... No, non ringraziarmi, Huck. Uno l'ha comprato il signor Jones e l'altro io. Ma andranno bene a tutt'e due. Mettetevi quelli. Vi aspettiamo: venite giù, quando siete abbastanza presentabili.»

            E uscì.

CAPITOLO XXXV

            Huck disse:

            «Tom, possiamo ancora svignarcela se riusciamo a trovare una corda. La finestra non è troppo alta.»

            «Uffa! Perché vuoi svignartela?»

            «Be', io non sono abituato a tutta quella gente. Non la sopporto. Io non vado giù, Tom.»

            «Oh, al diavolo! Non è niente. Non me ne importa un fico. A te, ci penso io.»

            In quel momento apparve Sid.

            «Tom», disse, «la zia ti ha aspettato per tutto il pomeriggio. Mary ti aveva preparato il vestito della domenica, e tutti cominciavano a stare in pensiero. Ehi, ma non sono macchie d'argilla e di sego di candela quelle che hai lì?»

            «Senti, signorino, bada agli affari tuoi. Cos'è, comunque, tutta questa baraonda?»

            «È una delle feste della vedova, quelle che organizza sempre. Stavolta è in onore del gallese e dei suoi figli, per l'impaccio da cui l'hanno cavata l'altra notte. E sai? Posso dirti una cosa, se la vuoi sapere.»

            «Be', cosa?»

            «Ma come, che il vecchio signor Jones vorrebbe fare una sorpresa alla gente che si trova qui stasera, anche se io ho sentito che oggi ne parlava con la zia, in segreto, ma credo che ormai non sia più un segreto per nessuno. Lo sanno tutti: anche la vedova, per quanto si sforzi di far credere che non lo sa. Oh, il signor Jones aveva bisogno che Huck fosse qui: non poteva tirar fuori il suo gran segreto senza Huck, capisci?»

            «Segreto su cosa, Sid?»

            «Sul fatto che Huck ha seguito i malfattori fino a casa della vedova. Io credo che il signor Jones volesse stupire tutti con la sua sorpresa, ma scommetto che farà cilecca.»

            Sid ridacchiò. Sembrava molto contento e soddisfatto.

            «Sid, sei stato tu a dirlo?»

            «Oh, non importa chi è stato. Qualcuno l'ha detto, e basta.»

            «Sid, c'è solo una persona in questo paese tanto malvagia da fare una cosa simile, e quella persona sei tu. Se tu fossi stato al posto di Huck, te la saresti data a gambe e non avresti mai detto a nessuno dei banditi. Non sai far altro che delle cattiverie, e non sopporti di vedere che qualcuno sia lodato per aver fatto una buona azione. Ecco: e non ringraziarmi, come dice la vedova.» E Tom gli diede uno scappellotto e lo aiutò a uscire dalla porta con due o tre calci bene assestati. «E adesso va' a dirlo alla zia, se hai il coraggio, così domani prendi il resto!»

            Pochi minuti dopo gli ospiti della vedova erano a tavola per la cena, e una dozzina di bambini furono fatti accomodare intorno ad alcuni tavoli più piccoli nella stessa sala, secondo l'uso di quel paese e di quell'epoca. Al momento giusto il signor Jones pronunciò il suo discorsetto, nel quale ringraziò la vedova per l'onore che faceva a lui e ai suoi figli, ma disse che c'era un'altra persona la cui modestia...

            Eccetera eccetera. Rivelò il suo segreto sulla parte avuta da Huck nell'avventura nel modo più abile e drammatico che seppe immaginare, ma la sorpresa prodotta dalla sua rivelazione fu in gran parte frutto di simulazione, e non così straordinaria e impressionante come avrebbe potuto essere in circostanze più favorevoli. La vedova, tuttavia, si finse assai stupita, e fece a Huck tanti complimenti, e lo ringraziò talmente, che il ragazzo quasi dimenticò il quasi intollerabile sconforto del suo vestito nuovo nello sconforto assolutamente intollerabile di essere diventato il bersaglio degli sguardi e degli elogi di tutti.

            La vedova disse che intendeva ospitare Huck sotto il suo tetto e dargli un'istruzione; e che, quando fosse riuscita a mettere da parte un po' di soldi, gli avrebbe trovato un lavoro, anche modesto. Era arrivato il momento di Tom, che disse:

            «Huck non ne ha bisogno. È ricco!»

            Solo la ferrea decisione di non uscire dai limiti della buona educazione impedì agli intervenuti di scoppiare nella risata che la battuta meritava. Ma il silenzio era un po' impacciato. A romperlo fu Tom.

            «Huck è pieno di soldi. Forse non ci crederete, ma ne ha un mucchio. Oh, non c'è bisogno di sorridere: ve lo posso dimostrare. Aspettate un momento.»

            Tom corse fuori. I presenti si scambiarono occhiate perplesse e interessate, poi il loro sguardo indagatore cadde su Huck, che era muto come un pesce.

            «Sid, cos'ha Tom?» disse zia Polly. «È così... Be', non sono mai riuscita a capirlo, quel ragazzo. Non potrò mai...»

            Tom entrò nella stanza, lottando col peso dei suoi sacchi, e zia Polly non finì la frase. Tom rovesciò sul tavolo quella massa di gialle monete e disse: «Ecco: cosa vi avevo detto? Metà è di Huck e metà è mia!»

            Davanti a quello spettacolo tutti rimasero senza fiato. Avevano gli occhi sgranati, e per qualche attimo nessuno parlò. Poi ci fu l'unanime richiesta di una spiegazione. Tom disse che era in grado di fornirla, e la fornì. Fu una storia lunga, ma interessantissima. Quasi nessuno ne spezzò l'incanto con un'interruzione. Quando Tom ebbe finito, il signor Jones disse:

            «Credevo di aver preparato una piccola sorpresa per quest'occasione, ma ora vedo che non vale niente. Sono pronto a riconoscere che questa rende la mia del tutto insignificante.»

            Si contò il denaro. La somma ammontava a poco più di dodicimila dollari. Era più di quanto ciascuno dei presenti avesse mai visto in vita sua, anche se c'erano diverse persone con un patrimonio che valeva assai di più.

CAPITOLO XXXVI

            Il lettore capirà che la fortuna toccata a Tom e a Huck fece molto scalpore nel povero paesino di St. Petersburg. Una somma così grande, tutta in denaro sonante, sembrava quasi incredibile. Fu discussa, covata con gli occhi ed esaltata finché la ragione di molti compaesani cominciò a vacillare sotto il peso di quella malsana eccitazione. Ogni casa «degli spiriti» di St. Petersburg e dei paesi del circondario fu demolita, asse per asse, e le sua fondamenta messe a nudo e rovistate in cerca di tesori nascosti, e non da ragazzi, ma da uomini: uomini seri e tutt'altro che romantici, in gran parte. Ovunque Tom e Huck facessero la loro comparsa, venivano corteggiati, ammirati, seguiti con lo sguardo. I ragazzi non ricordavano che le loro osservazioni avessero mai avuto un peso qualsiasi: ma ora tutto quello che dicevano veniva ricordato e ripetuto; tutto quello che facevano sembrava, in qualche modo, degno di nota; avevano perso, evidentemente, la facoltà di fare e dire banalità; inoltre, si frugò nella loro storia passata e si scoprì che recava l'impronta di una notevole originalità. Il giornale del paese pubblicò due profili biografici dei ragazzi.

            La vedova Douglas investì i soldi di Huck al sei per cento e il giudice Thatcher, su richiesta di zia Polly, fece lo stesso con quelli di Tom. Ciascuno dei due aveva ormai una rendita che era semplicemente prodigiosa: un dollaro per ogni giorno lavorativo dell'anno e mezzo dollaro per le domeniche. Era proprio quello che prendeva il pastore: no, era quello che gli avevano promesso, e che in genere non riusciva a riscuotere. Un dollaro e un quarto la settimana, in quei giorni semplici e lontani, bastava per il vitto, l'alloggio e le tasse scolastiche di un ragazzo; per non parlare dei vestiti e del sapone.

            Il giudice Thatcher si era fatto una grande opinione di Tom. Diceva che un ragazzo come tutti gli altri non sarebbe mai riuscito a tirar fuori sua figlia da quella caverna. Quando Becky disse al padre, in confidenza, che Tom a scuola si era fatto punire al posto suo, il giudice rimase visibilmente commosso; e quando lo pregò di perdonare la grossa bugia che Tom aveva detto per spostare quel castigo dalle spalle della bambina alle sue, il giudice disse, in uno scoppio di entusiasmo, che era stata una nobile, una generosa, una magnanima bugia: una bugia che meritava di passare alla storia, a testa alta, fianco a fianco con la tanto elogiata Verità di George Washington sull'accetta! Becky pensò che suo padre non aveva mai avuto un'aria più solenne e più superba di quando si era messo a camminare su e giù per la stanza e, battendo il piede per terra, aveva detto così. Andò subito a riferirlo a Tom.

            Il giudice Thatcher sperava che Tom, un giorno, diventasse un grande avvocato o un grande condottiero. Disse che intendeva provvedere affinché Tom fosse ammesso all'Accademia Militare Nazionale, e poi preparato nella migliore scuola di legge del paese, per poter essere pronto all'una o all'altra di queste carriere, o a tutt'e due.

            La ricchezza di Huck Finn, e il fatto che il ragazzo era sotto la protezione della vedova Douglas, lo fecero entrare in società - no, ve lo trascinarono, ve lo precipitarono - causandogli sofferenze per lui quasi insopportabili. I domestici della vedova lo tenevano lindo e tirato a lucido, pettinato e spazzolato, e ogni sera lo mettevano a letto tra odiose lenzuola che non avevano una sola macchia, una sola, che Huck potesse stringersi al cuore e riconoscere come amica. Doveva mangiare col coltello e con la forchetta; doveva usare tovagliolo, tazza e piatto; doveva studiare sul suo libro; doveva andare in chiesa; doveva parlare con tanta proprietà che le parole, nella sua bocca, avevano perso ogni sapore; da qualunque parte si voltasse, le sbarre e i ceppi della civiltà lo chiudevano e lo legavano mani e piedi.

            Sopportò coraggiosamente il martirio per tre settimane, e poi un giorno non si presentò all'appello. Per quarantott'ore la vedova, angosciata, lo cercò dappertutto. La gente era molto preoccupata; lo cercarono per mare e per terra, dragarono il fiume per ripescarne il corpo. La terza mattina, di buon'ora, Tom Sawyer andò saggiamente a curiosare tra certe vecchie botti vuote, giù, dietro il mattatoio abbandonato, e in una di esse trovò il profugo. Huck aveva dormito là; aveva appena fatto colazione con quello che era riuscito a rubacchiare e ora se ne stava là disteso a fumare pacificamente la sua pipa. Era sporco, spettinato e vestito con gli stessi indumenti stracciati che lo avevano reso pittoresco nei giorni in cui era libero e felice. Tom lo stanò, gli parlò dei fastidi che aveva procurato e lo esortò ad andare a casa. La faccia di Huck perse la sua espressione soddisfatta e prese un aspetto melanconico. Il ragazzo disse:

            «Non me ne parlare, Tom. Ci ho provato, e non funziona; non funziona, Tom. Non fa per me; non ci sono abituato. La vedova è buona con me, e mi vuol bene; ma non sopporto quelle abitudini. Ogni mattina mi fa alzare sempre alla stessa ora; mi costringe a lavarmi, poi mi pettinano come se volessero staccarmi la testa; non mi lascia dormire nella legnaia; devo portare quei benedetti vestiti che mi soffocano, Tom; si direbbe, in qualche modo, che non facciano passare l'aria; e sono così maledettamente belli che non posso né sedermi, né sdraiarmi, né rotolarmi da nessuna parte; non mi sono ficcato in una cantina da... be', anni, si direbbe; devo andare in chiesa, e non faccio che sudare: come odio quelle schifosissime prediche! Là dentro non posso acchiappare una mosca, non posso ciccare, devo portare le scarpe per tutta la domenica. La vedova mangia quando suona la campana; va a letto quando suona la campana; si alza quando suona la campana... Tutto è così maledettamente regolare che uno davvero non ce la fa.»

            «Be', tutti vivono così, Huck.»

            «Non cambia niente, Tom. Io non sono "tutti" e non resisto più. È terribile sentirsi così legati. Ed è troppo facile procurarsi da mangiare: così, che gusto c'è? Devo chiedere il permesso per andare a pescare; devo chiedere il permesso per andare a nuotare: mi venga un accidente se non devo chiedere il permesso per fare qualunque cosa. Ecco, dovevo parlare così pulito che mi sentivo a disagio; ogni giorno, per non perdere il gusto, dovevo andare su in soffitta a bestemmiare per un po', altrimenti sarei morto, Tom. La vedova non voleva che fumassi, non voleva che alzassi la voce, non voleva che sbadigliassi, che mi stirassi, che mi grattassi davanti alla gente.» Poi, in un accesso di violenta irritazione, e quasi di sdegno: «E come se non bastasse, non faceva che pregare! Non ho mai visto una donna come quella! Ho dovuto scappare, Tom, vi sono stato costretto. E poi la scuola sta per ricominciare, e avrei dovuto andarci; ecco, Tom, questo proprio non lo sopporterei. Stammi a sentire, Tom, essere ricchi non è poi quella pacchia che dicono. Vuol dire una scocciatura dietro l'altra, una fregatura dietro l'altra, e augurarsi la morte. Invece questa roba che ho addosso mi sta bene, e questo barile mi sta bene, e non voglio lasciarli più. Non mi sarei mai messo in tutto questo pasticcio, Tom, se non fosse stato per quei soldi; ecco, prendi tu anche la mia parte e dammi, ogni tanto, un dieci centesimi; non troppo spesso, però, perché non me ne importa un fico secco delle cose che non sono un po' difficili da ottenere... E va' tu dalla vedova a scusarti da parte mia.»

            «Oh, Huck, sai che non posso farlo. Non è giusto; e poi, se ci provi ancora un po', vedrai che questa cosa finirà per piacerti.»

            «Per piacermi! Sì, come mi piacerebbe una stufa rovente se dovessi starci seduto sopra abbastanza a lungo. No, Tom, io non voglio essere ricco, e non voglio abitare in quelle maledette case dove mi sento soffocare. Mi piacciono i boschi, e il fiume, e le botti, e non le mollo. Maledizione! Proprio quando avevamo trovato i fucili, e una caverna, ed era tutto pronto per fare i predoni, ecco che questa dannata fesseria viene a rovinarci tutto.»

            Tom approfittò dell'occasione:

            «Senti, Huck, solo perché sono ricco, non crederai che abbia rinunciato all'idea di fare il predone.»

            «Sì? Oh, accidenti, parli sul serio, Tom?»

            «Com'è vero che sono qui seduto. Ma, Huck, non possiamo farti entrare nella banda se non sei rispettabile, capisci?»

            La gioia di Huck era sbollita.

            «Non potete, Tom? Non mi avevi lasciato fare il pirata?»

            «Sì, ma è diverso. Il predone è più distinto del pirata, in generale. Nella maggior parte dei paesi appartengono all'alta nobiltà: sono duchi e roba simile.»

            «Ma, Tom, non siamo sempre stati amici? Non mi lasceresti fuori adesso, eh, Tom? Non mi faresti uno scherzo così, eh, Tom?»

            «Io non vorrei e non lo voglio fare, Huck, ma cosa direbbe la gente? Ma come, direbbe: "Puh! La banda di Tom Sawyer! Begli elementi che ha!" Alludendo a te, Huck. Non ti farebbe piacere, e neanche a me.»

            Per qualche tempo Huck rimase muto, mentre una lotta violenta si svolgeva nel suo cuore. Alla fine disse:

            «Be', tornerò per un mese dalla vedova per fare un altro tentativo e vedrò se riesco a farci il callo, se mi fai entrare nella banda, Tom.»

            «Benissimo, Huck, siamo intesi! Andiamo, vecchio mio, e pregherò la vedova di lasciare un po' correre, va bene?»

            «Davvero, Tom, davvero? È magnifico. Se lascia correre sulle cose più difficili, fumerò di nascosto e bestemmierò di nascosto, e o la va o la spacca. Quando raduniamo la banda per metterci a fare i predoni?»

            «Oh, subito. Chiamiamo i ragazzi e facciamo l'iniziazione, stasera stessa, magari.»

            «Facciamo cosa?»

            «L'iniziazione.»

            «Che roba è?»

            «È giurare di darsi man forte, e di non rivelare mai i segreti della banda, anche se ti fanno a pezzettini, e di uccidere, con tutta la famiglia, chiunque faccia del male a uno della banda.»

            «È fantastico... È davvero fantastico, Tom, ti assicuro.»

            «Be', lo so che è fantastico. E tutti questi giuramenti vanno fatti a mezzanotte, nel posto più solitario e più terribile che si possa trovare: la cosa migliore sarebbe una casa infestata dagli spiriti, ma le hanno demolite tutte quante, ormai.»

            «Be' mezzanotte va bene, comunque, Tom.»

            «Sì, è vero. E bisogna giurare su una bara, e firmare col sangue.»

            «Questo sì che mi piace! Cavolo, è un milione di volte meglio che fare il pirata. Resterò dalla vedova finché crepo, Tom; e se riesco a diventare un predone come si deve, uno che faccia parlare di sé, credo proprio che anche lei sarà contenta di avermi levato dalla strada e accolto in casa sua.»

CONCLUSIONE

            Così termina questa cronaca. Essendo in senso stretto la storia di un ragazzo, essa deve fermarsi qui; non potrebbe durare ancora molto senza diventare la storia di un uomo. Quando si scrive un romanzo sugli adulti, si sa con precisione dove bisogna fermarsi: cioè, con un matrimonio; ma quando si parla di ragazzi, ci si ferma dove si può.

            Quasi tutti i personaggi incontrati in questo libro sono ancora vivi, stanno bene e sono felici. Un giorno, forse, potrà valer la pena di riprendere la storia dei più giovani, per vedere che razza di uomini e di donne sono diventati; perciò il partito più saggio sarà, per il momento, quello di non rivelare alcunché di questa parte delle loro vite.