Le due Marianne

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"Le due Marianne - I coniugi Spazzoletti" di Emilio De Marchi

Emilio De Marchi

LE DUE MARIANNE

I CONIUGI SPAZZOLETTI


LE DUE MARIANNE

Personaggi:

Luigi Spazzoletti

Marianna Spazzoletti

Narciso Ballanzini

Marianna Ballanzini

Un servo

Una serva

Il capo stazione


ATTO PRIMO

La Stazione di Palazzuolo. È verso sera

SCENA PRIMA

LUIGI: entrando seguito dalla Sig.ra Spazzoletti: Siamo a tempo, signor capo?

VOCE DEL CAPO: Per dove parte il Signore?

LUIGI: Per Milano?

VOCE: Eh gh'è tempo venticinque minuti.

LUIGI: E dopo questo treno non ce n'è altri?

VOCE: Per Milano el xè l'ultemo...

SIGNORA SPAZZOLETTI: Che bisogno c'era di farmi correre a questo modo?

LUIGI: Che bisogno! Se era tardi non si arrivava a tempo, eh...

SIGNORA: Già, se era tardi non era presto, dicono a Perugia.

LUIGI: Già! (ironico)

SIGNORA: Sempre così quando si viaggia con te; bisogna che tutto finisca in tanto veleno.

LUIGI: Grazie a madama!

SIGNORA: O che non si poteva prendere una carrozza... e non farmi ansare una mezz'ora come un cavallo per una strada piena di polvere?

LUIGI: Eh che non l'ho forse cercata io la carrozza? è colpa mia se c'era la carrozza e non il cavallo? dovevo andar sotto io a tirarla la carrozza? Non farmi girar il bocino.

SIGNORA: Oh non chiedo tanto... Chiedo solamente che mi si tratti come una signora e non come un cavallo.

LUIGI: Sei tu che mi tratti come un cavallo, bimba.

IL CAPO: (Oec, la se scalda!)

SIGNORA: Del resto non è la prima volta e non sarà nemmeno l'ultima. È ormai la storia di tutti i giorni, padron mio.

LUIGI: Tu vuoi dire che ti secco, che ti peso, che non so trattare colle dame, che ti avveleno la vita...

SIGNORA: L'allegria, la chiacchiera, la garbatezza, i salamelecchi li sai trovare quando sei in compagnia de' tuoi amici e specialmente delle signore de' tuoi amici...

LUIGI: Adesso fammi anche la gelosa, bimba.

SIGNORA: Ma per tua moglie tutto è inutile, tutto è caricatura, tutto è spesa inutile; se fossi la tua serva non potresti trattarmi con meno cerimonia.

LUIGI: Guarda che son di Romagna e la mi fuma presto, la mi fuma.

SIGNORA: Sì lei signor Luigi Spazzoletti, lei signor negoziante di tessuti diversi, lei signor presidente della società degli esercenti in fibbie e bottoni; lei sarà un grand'omo di Romagna, ma non creda d'essere un gentiluomo...

LUIGI: Ah, lei crede signora Marianna di Perugia che un uomo che lavora dalla mattina alla sera, che ha la testa negli affari e nelle cambiali in scadenza abbia tempo di ballare che so io? il minuetto intorno a sua moglie?

SIGNORA: Basterebbe, signor Spazzoletti, che non trattasse la su' signora come lo straccio della stoviglia sporca, che non la lasciasse in casa sei, sette, otto ore sola in compagnia della sua cagnolina e del suo pappagallo a rattoppargli le calze, a preparargli le pappe, per entrare la sera torbido, brontolone, scontroso, uggioso, come se la sua casa fosse la gabbia dell'orso e mica la casa di sua moglie. E quando si degna di condur sua moglie in campagna da' suoi amici dovrebbe fare in maniera che fosse ricevuta con più garbo...

LUIGI: Chi ti ha mancato di riguardo a te?

SIGNORA: Se tu usassi una volta con me le moine che hai usate a tavola quest'oggi alla signora Tortorelli...

LUIGI: Ma che ti salta in mente? che mi vai tortorellando? la ti gira? è ora che tu la smetta.

CAPO: La xè squasi cotta!

LUIGI: Se ti ero antipatico non dovevi sposarmi.

SIGNORA: Se noi povere donne sapessimo prima quel che sono gli uomini certo non si commetterebbero certi spropositi. Quando ci vogliono sposare o pei nostri begli occhi o... per la nostra bella dote...

LUIGI: Mariannuccia, bada che la va a finir male... Bada che son di Romagna...

SIGNORA: Prima son tutti dolcezza e poesia, promettono mari e monti; a sentirli devono passare la vita ai nostri piedi a respirare il nostro respiro, a specchiarsi nei nostri sguardi, fin che povera allocca ci casca; una volta cascata peggio per lei. Allora ricominciano gli affari, le cambiali, le adunanze, i telegrammi, i bilanci, non c'è più tempo di dir due parole in pace, si mangia in collera, si grida per tutte le sciocchezze, o perché la zuppa è troppo salata, o perché non è salata abbastanza, o perché fa male una scarpa, o perché s'è staccato un bottone, o perché piove, o perché fa caldo, o perché il governo mette la ricchezza mobile e tutti i mali si fanno passare per la pelle della moglie come se la moglie fosse il cuscinetto degli spilli. Per rifarsi, la sera si va alla birreria, a giocare al bigliardo, a far visita alla signora Tortorelli e la moglie a casa a sbadigliare.

LUIGI: Hai finito, gioia? Tu credi che tuo marito sia un ragazzo a cui si possano dare quattro ceffoni sulla via...

SIGNORA: Io credo... che...

LUIGI: Guarda che son stato a Mentana ve'... Non ho avuto paura delle baionette francesi io, e non voglio aver paura delle ciarle d'una bécera insopportabile.

SIGNORA: Il tuo pappagallo è più gentile.

LUIGI: Se credi di farmi ballare come una trottola t'inganni... Ho diritto d'essere rispettato e come uomo e come negoziante e come marito. Son Romagnolo che non ha paura di trecento operai io; né voglio subire la prepotenza d'una... pettegola...

SIGNORA: Ah... pettegola...? in Romagna dite pettegola?

IL CAPO: La va de sora via...

SIGNORA: Mantiene questa parola, sor Luigi Spazzoletti?

LUIGI: La mantengo, la ripeto, la stampo, sora Marianna.

SIGNORA: Basta. Dopo appena due anni di matrimonio è il primo diamante che il signor cav. Spazzoletti regala a sua moglie. La ringrazio. Non ho più nulla a dirle. Mi ritiro qui in sala; quando arriva il treno si compiaccia d'avvertirmene. (entra a destra).

LUIGI passeggia nervoso, irritato: Potessi tu tacere cento anni! queste maledette donne sembran fatte a posta per guastare la pace d'un galantuomo. Oh ma la faremo finita...! non voglio morir tisico io per la lingua della sora Marianna Spazzoletti. Divisione, divisione assoluta di casa e di pane. Un uomo ha la pazienza limitata per un po', due po', tre po',... ma po... poi... (non trova i sigari) Non ho nemmeno un cane di sigaro, corpo d'una saetta, e mi tocca fumar la mia rabbia. Non c'è un tabaccaio qui vicino, sor capo?

CAPO: Qua in fondo alla contrada c'è un botteghin.

LUIGI: Ho tempo di scappare a prendere un paio di sigari?

CAPO: El gh'à tuto el tempo. El treno el xè in ritardo.

LUIGI: Se non respiro un po' d'aria scoppio di rabbia.

CAPO: De sto buco se gode de' bei spettacoli come a un teatrin. Gh'ò pagura che questi due italiani stanotte faran de' brutti sogni... Gh'è xè chi una carrozza.


SCENA SECONDA

Narciso Ballanzini e Marianna Ballanzini

LEI: Vuj, Narcis, dagh on franc al Peder. Ciao, neh Peder, saludem ancamò el zio prevost. Oh Maria Maddalena come l'è scur. Ehi, sor cap, el droppen de fa rostì la rostisciana lor sciori, l'oli di lampad? Signori non è proibito di pestarsi il naso. (depone un gran mazzo di fiori e un canestro chiuso col gattino)

NARCISO: C'è tempo per la Bullona?

CAPO: Gh'è xè tempo... gh'è xè tempo...

LEI: Pazienza, pover mort. Gh'avevi quasi paura de dormì chì.

NARCISO: Te l'ho detto, amor mio, che c'era tempo. Se podeva finì foeura quella bottiglia, corpo di quel biondo! Quel to' zio prevost el gh'à un valtellina, un vero vino benedetto.

LEI: Fa piasè, di no su di spegasc. E1 gh'è ancamò el me miscin?

NARCISO: Cossa t'è vegnù in ment de porta via quel gattin.

LEI: Guarda, el gh'à due oggitt che paren do' stell. (gnau) baciando il canestro: Cara, cara el me borlin.

NARCISO: El mancava domà lu per fa l'arca de Noè. Minga assee di caneritt, di gajnn, di cagnoeu.

LEI: Di merli...

NARCISO: Anche a me piaciono gli animali, ma più cotti che crudi. Vuj, Marianna, te set che quel to' zio prevost l'è on ritrovato! Tutti gli anni supera se stesso. Quel polastrell alla cacciatora con funghetti l'era sublime; ma era un nulla in confronto de quel zampone di Modena adagiato in un letto di spinaci.

LEI: El par che a casa toa no te faga mangià che carisna.

NARCISO: Non essere in collera, dolce consorte. Se nol fuss per el decoro conjugale tiraria foeura el marsinin. Quel valtellina el gh'aveva denter un certo gas acetilene. (siede)

LEI: Fa no el salam. Guarda che te se settet sui me' fior. Tiret su, lassem settam mi che son stracca come un asnin.

NARCISO: Ci stiamo tutti e due: guarda: Narciso e Marianna, con un innocente animale nel mezzo e un mazzo di fiori. Un idillio soave!

LEI: Fa piasè, parla pu italian, se no disaran che t'è bevuu...

NARCISO: Mentirei se dicessi di no; mentirei di più se dicessi che el vin del zio prevost non è il più potabilissimo dei vini. Mi se torni a nass voej famm battezzà da quel degno sacerdote.

LEI: T'è capii de di no su di asnad. Guarda puttost che non te abbiet a indormentass come l'ann passaa...

NARCISO: L'è vera, l'è mej che me moeva. L'ann passaa, proprio come oggi, te se ricordet Marianna? che scènna... El se ricorda, sor cap?

CAPO: Che cosa el dise? oh è lei sor Ballanzini. Servitor devotissimo.

NARCISO: Stavo ricordando qui alla mia legittima quel che c'è capitato l'ann passaa come incoeu quand sem tornaa dal disnà del zio prevost, che Dio conservi lui e la sua cantina. Appena in vagon se sem indormentaa tutt due come due anacoreti, mi e la Marianna; per cui passa Bruzzano, passa Affori, passa la Bovisa, e num... chi dorme non fa peccato. El mal l'è ch'è passaa anche la Bulona... senza aprir ciglio, vera Marianna? dormi tu che dormo anch'io, rivom a Milan. Lì non so come l'è stada...

MARIANNA: El vagon l'era scura come in bocca al lof...

NARCISO: Scende la gente, distacchen el vagon, e nun... chi dorme non piglia pesci.

CAPO: Effeto de la vernaccia...

NARCISO: Em dormii fino al canto del gallo, cioè fin quand on alter condutteur l'è vegnuu denter a domandà: - Dove vanno questi signori? - Se el tardava un po' ancamò se dessedavem a Saronn...

MARIANNA: Tutta colpa toa che te se minga bon de tegnim dessedada. Mi già el me sognett dopo disnà el faroo anche in di fiamm del purgatori.

NARCISO: Roba de farne un quadretto alla madonna del Mont. Bisogna ben che staga in pee, se voej resist alla tentazion de schiscagh un visorin.

MARIANNA: Moevet, moevet, va de fuera a ciappà de l'aria, per amor di Dio. Mancaria anca questa...

NARCISO (si muove e passa nella sala vicina)

MARIANNA (combattendo col sonno): Crodi anca mì del sogn... Quel vinett de malvasia el scalda i orecc come un fer de soppressà. Ma basta una volta el tradiment. (gnau) Sì car el me miscin, parlèm mi e ti, tégnem dessedada. Te vedaret che bel sit a ca mia. Una bella casetta, un bel giar... din... (sonnecchia) te faroo una bella nanna de bomba... sina; te daroo el lattin col bis... cott dolz...

NARCISO: Vuj, Marianna, senten vuna bella. Vo denter in sala che l'è pussee scur de chi, foo per settam giò e a momenti me setti in scossa una sciora...

MARIANNA: Ah brutt macaco... I sciorinn lu j a troeva anca al scur. Pesg che una vespa per l'uga dolza.

NARCISO: La de sta là al scur? Del resto ogni lasciato è perso...

MARIANNA: Fa no el moscardin con quella panscietta che par el baril della mostarda. Cred minga de ves un pollo dal belvedere.

NARCISO: Perché? che cosa mi manca Marianna?

MARIANNA: Te manca appena vent'ann a fann settanta...

NARCISO: Cosa sono cinquant'anni quando lo spirito è pronto?

MARIANNA: Va a ciappà dell'aria: lassem fa un visorin, una ragnera de sogn... Ne podi pù.

NARCISO: Ah sì, sta notte faremo una bella dormidona con tutt quel bianco e rosso che fa la gibigiana. Ma niente vagone, Narciso stasera viaggia in terrazzino. (sbirciando nella sala) La s'è tirada indree come una bissa, per paura che non la schiscias. La gh'aveva un certo profumin de sciora. Che vizi porch de tegnì i viaggiator al scur. Vuj, la Marianna la cocca... Ehi, sor cap, gh'ò temp de andà chi de feura un minut...

CAPO: Ch'el faccia domà in pressa...

NARCISO: In pressa, in pressa... (esce)

MARIANNA (sonnecchiando): Sì, pover miscin... doman te faroo un collarin ross, con taccaa on campanellin... che fa din... din... (dorme) No, no, zio, l'è trop... preferissi la mitria... l'è la mia passion... Che fa din din... Suona la campana Marianna non sente

NARCISO: Presto, Marianna, l'è chi, l'è chi el treno...

CAPO: Presto chi parte.

MARIANNA: esce dalla sala e dice passando: Quasi mi ero addormentata...

Nuovo suono di campana - parte il treno

LUIGI (entra coi sigari) Marianna, partenza, presto... fermo, fermo... (entra in sala): Marianna! Dove sei?

LA BALLANZINI: Son chì, son chì... Oh Signor che vision! Me pareva de vess in un lampedari... El me miscin?

LUIGI: Dove sei, Marianna?

LA BALLANZINI: Son chì, cara el me taliano.

IL CAPO: El treno el xè già partido.

LUIGI: Come è partito?

BALLANZINI: Come partido? Narcis, el me Narcis dove l'è? l'era andà de feura a ciappà la rosada...

LUIGI: Quella signora che era qui in sala, dov'è?

CAPO: Mi no so niente; se no se curen de eli i viaggiadori... cossa vole che fasso mi?

LUIGI: Non ha visto lei una signora giovine poco fa qui in sala?

LA BALLANZINI: Una sciora giovina, in sala d'aspetto? la gh'era difatti...

LUIGI: Portate un lume: par d'essere in Abissinia e non in paesi civili.

IL CAPO: La signora ch'era qui è partita col signore grasso...

BALLANZINI: Come col signore grasso?

IL CAPO: Col sior Ballanzini...

BALLANZINI: Ma lu chi l'è? chi l'è lu?

LUIGI: Son il marito di quella signora ch'era lì... E lei chi è?

BALLANZINI: Son la moglie de quel signore grasso.

LUIGI: Son partiti insieme.

LA BALLANZINI: Corremog adree... Ferma, ferma la carrozza...

LUIGI (allo sportello): C'è un'altra corsa? mia moglie non ha i biglietti.

CAPO: Ma come la xè stada?

LUIGI: Fermate, maledetti... (s'incontrano e si urtano)

LA BALLANZINI: Ma el sa che lu l'è Oh bel original? ch'el scusa se ghe parli senza conossel. El gh'à de lassà chi una miee giovina senza curalla?

LUIGI: Son stato a cercare dei sigari...

LA BALLANZINI: Un sigaro el sarà lu...! E adess cosa se fa? Sor cap, ch'el tacca sott on altra macchina.

CAPO: Qui no xè machine.

LA BALLANZINI: Se no la xè che la faga vegnì...

LUIGI: Si potrà trovare almeno una carrozza?

CAPO: A st'ora è difficile trovar carrozze.

LUIGI: Ma mia moglie non ha né denari né biglietti.

LA BALLANZINI: El me mari el gh'à invece i bigliett, i danee e sciorina in compagnia! Brutt moster! scommetti che l'à fa a posta, a lassam dormì per viaggià colla donna d'altri. Ma Narciso, Narciso, me la pagherai.

LUIGI: Forse io ho parlato troppo aspramente ed essa ha voluto darmi una lezione...

BALLANZINI: Ch'el disa, scior capp, gh'è minga el mezz de fermaj a mezza strada? de fai tornà indree per telegrafo?

CAPO: Ghe par? com'è possibile?

LUIGI: Dov'era diretto suo marito?

BALLANZINI: Alla Bullona. E la sua sciora?

LUIGI: A Milano, ma non ha le chiavi di casa. O povera Marianna.

BALLANZINI: Lei el sarà on grand omo de talento, ma in sta faccenda chi, ch'el scusa, è stato on grande salame in barca. Quando se gh'à la sposina giovine e magari bella la se lassa minga in ona sala scura inscito de per lei..., al buio, a rischio che qualcuno ci passi appresso a schigliargli i piedi. E così càpita quel che càpita...

LUIGI: Che cosa si fa? non si può dormire in stazione. Ci sarà un albergo in questo paese.

BALLANZINI: L'albergo all'insegna dei luganeghini... Pover el me miscin dormirem mi e ti sott on moron... (piangendo)

LUIGI: E per maggior dispetto comincia a piovere.

BALLANZINI: Benone... Quel baloss el mi ha portaa via anca l'ombrella.

CAPO: Signori, mi avvisano che sta per arrivare un telegramma da Cusano.

LUIGI: Un telegramma?

BALLANZINI: Hin lor che scriven?

CAPO: Si saran fermati forse a questa stazione.

BALLANZINI: Se pò sentì quel che disen?

CAPO: Ma che la staga indietro, el telegrafo el xè minga on bicocchin...

BALLANZINI: M'è fina scappà tutt el sogn che gh'avevi.

CAPO: Stia zitta, comincia ad arrivare il dispaccio:

BALLANZINI: Sentimm sto dispacc...

CAPO: Nato figlio maschio... mandate balia.

BALLANZINI: Cos'è? cosa el dis quel scior telegrafo?

CAPO: Non xè per loro, è per il prestinaio di Palazzolo.

BALLANZINI: Mancaria anche questa! non le pare signor... scusi... il suo riverito nome? possiamo presentarci adess che podem considerass quasi come parenti nella deslippa... Come si chiama la gentile sua signora?

LUIGI: Marianna Spazzoletti...

BALLANZINI: Anche mi me chiamo Marianna, Marianna Ballanzini, moglie a quel brutto mostro di Narciso Ballanzini che mi ha abbandonata sul lastrico. Se resti vedova on altra volta, prima de sposà on uomo ingrato, ti sposi ti el me pover gattin.

LUIGI: Non arriva qualche altro telegramma?

CAPO: Ne arriva uno dalla Bullona.

BALLANZINI: Citto, sta volta l'è propi lu...

CAPO: Ha capito de stare indietro, benedeta dona.

BALLANZINI: L'è el me marì che parla, donca gh'ò diritto.

cAPo: Lei mi guasterà la macchina e allora addio dispaccio.

LUIGI: Abbia pazienza, signora Ballanzini...

CAPO: "Avvertire signor Spazzoletti moglie fermarsi Bullona casa Ballanzini in attesa prima corsa di domani"

LUIGI: Meno male...

BALLANZINI: Come meno male?

LUIGI: A Milano mia moglie non conosce nessuno... e son contento che passi la notte in una casa ospitale.

BALLANZINI: Niente affatto: ghel manda subit indree: moglie Ballanzini niente voler in casa bella sciorina: venire con manico scopa.

LUIGI: Signora Ballanzini lei fa torto a me, a mia moglie, a suo marito e anche un poco a lei stessa. È meglio pigliar la cosa allegramente, cercar di passar la notte meno male in questo paese, e domani colla prima corsa andremo tutti quanti a far colazione in casa Ballanzini, se lei c'invita.

BALLANZINI: Poiché lei mi pare un uomo abbastanza sicuro del fatto suo, se el voeur accompagnare coll'ombrella el presentaroo in casa Riboldi dove la sora Paolina la podarà damm de dormì a tutti e due. L'è ona brava sciora e anche el sor Riboldi l'è on bon ometto. Ghe vendiamo le gallette tutti gli anni. Ghe rincress no a portaa el miscino? Paese che vai, dice el proverbio toscano, donna che trovi... Son minga giovina come la sua sposina, ma Narciso el dice che valgo ancora i miei cinque soldi, quand son on poco rangiata su.


ATTO SECONDO

In casa Ballanzini

Campanello interno, Servizio di caffè, pianoforte, musica, arcolaio, bottiglia, secchiello.

SCENA PRIMA

Gaetano quindi Menica

GAITAN: Vuj, Menica, senta ona parola.

MENICA: Cosa el voeur el me scior marì.

GAITAN: Voei contatten vuna; ma guarda a no parlà (eh... eh...) ride.

MENICA: Son minga una tapellona

GAITAN: Di volt vialter donn...

MENICA: Son minga una bagaja

GAITAN: El soo che te set vèggia

MENICA: Cossa l'è sta novitaa, el me car pivèll.

GAITAN: Ier sira ti set andada a dormì prest, e t'è minga vist...

MENICA: Cossa gh'era de vedè

GAITAN: El noster padron... (ride)

MENICA: Cosa el gh'aveva de noev...?

GAITAN: El gh'aveva de noev la miee...

MENICA: Te me paret un poo indorment, Gaitan.

GAITAN: Dormi no, dormi no... eh, eh! (ride) Te set che i noster padron eren andaa a disnà dal scior prevost... eh, eh... Te se recordet l'ann passaa?

MENICA: Quanti hin restaa tutta la nott indormentaa in del vagon?

GAITAN: Ben, quest'ann, l'è ancamò pussee bell... eh, eh...

MENICA: Te fariet morì un sass. Cunta su...

GAITAN: Ma fa citto ve'... se sa mai... Mi seri su a specciai quand senti batt la porta. Voo a dervì e vedi sott on' ombrella el padron con una bella sciorina... eh, eh... sott brasc...

MENICA: Cioè colla sora Marianna...

GAITAN: L'era no la sora Marianna

MENICA: Chi l'era?

GAITAN: Mi el so no, eh, eh...

MENICA: Dove l'è restada la sora Marianna?

GAITAN: Mi el so no, eh, eh...

MENICA: Cosa el t'ha ditt?

GAITAN: Gaitan, el m'ha ditt, prepara subet la stanza della sciora Carolina, te set quella bella stanza chi de sora. La signora resta a dormire...

MENICA: Te gh'è minga domandaa chi l'era?

GAITAN: Mi no ve'... se sa mai...

MENICA: Te gh'è minga domandaa cunt della sora Marianna?

GAITAN: Mi no ve'... Se sa mai...

MENICA: Che alla padrona gh'abbia faa mal el pollin? di volt l'è on poo golosa quella sciora.

GAITAN: Sta ben... Ma come te spieghet ti la bella sciorina?

MENICA: L'era giovina?

GAITAN: Ventidu, ventitrè ann...

MENICA: L'era bella?

GAITAN: Un sgarzorin minga mal eh, eh...

MENICA: Cosa el ghe diseva el scior?

GAITAN: El parlava taliano: - Che la resti servita nella mia casa, che la toega un caffietro, che la mangi un cicino di qualche cosa; che la si disperi minga che el so marito la perderà no... Metta che sia la sua casa, la sua stanza, el suo teccio...

MENICA: O povera padrona! E adess dove l'è sta sciorina?

GAITAN: L'è dessora che la dorma eh, eh

MENICA: Te set sicur de 'vè minga fa on sogn...?

GAITAN: Sogni no come l'è vera che ti set pussee veggia de mì...

MENICA: Veggia o giovina, el me car Gaitan, te m'è sposada e tegnem. I miee se cambien minga come un para de calzett...

GAITAN: Ma te vedet ch'el padron eh eh...

MENICA: La sarà stada una sua parente. Cossa la diseva sta sciora?

GAITAN: La parlava anca le un bell'accento tosquano: Che non si sconquassi, sor Balanzini, io dormiroglio lo stesso anca su una cadrega... (squillo di campanello)

MENICA: Citto, el campanell...

GAITAN: El ciama tì...

MENICA: El ciamarà tì...

GAITAN: Mi gh'ò su el latt sul fornell...

MENICA: Mi gh'ò un ascia de reff de fa giò.

NARCISO: (di dentro) Menica.

GAITAN: Te sentet? el ciama tì...

NARCISO (entra): Te set chì Menica? Brava, va de sora all'uss della sora Spazzoletti e domandegh pianin se la gh'à bisogn de quaicoss. Ma fa' pianin, de no dessedalla se la dorma, povera sposina. E ti Gaitan, sent...

MENICA: (Son curiosa de vedè sta novità che dorma)

NARCISO: Sent, Gaitan, sta attent ai ordin: cerca de vess minga balord come al solit.

GAITAN: El me dover, scior.

NARCISO: T'è vist quella sciora ch'è rivaa ier sira?

GAITAN: L'ho vista, eh... eh...

NARCISO: Cossa te gh'è de rid...

GAITAN: Eh, eh, eh...

NARCISO: Cosa te credet?

GAITAN: Mi no so cossa cred, scior...

NARCISO: Quella sciora lì l'è la sciora Marianna... Tel se no el miracol?

GAITAN: Mi el so no...

NARCISO: T'è mai sentì a parlà dell'acqua miracolosa della Rupe di Mosè?

GAITAN: Mi no come l'è vera che la mia Menica l'è pussee veggia de mi.

NARCISO: Te gh'è de savè che in Palestina gh'è ancamò quel sass da dove Mosè l'ha faa sbilzaa l'acqua colla verga. Ogni cent'ann precis sbilza foera ancamò da quel sass un pissiroeu d'acqua per un dì e per una nott, un'acqua miracolosa cha ha la virtù di ringiovanire chi se ne lava la faccia.

GAITAN: De bon...?

NARCISO: L'è on acqua che tutti poden minga ave perchè el gran Sultano la ten tutta per lu e per le sue odalische... Ma un pio missionario ne ha potuto ottenere una botticella e ne ha dato alcune bottiglie al noster zio prevost, el qual zio prevost ch'el ghe voeur ben alla mia Marianna l'ha lassaa che la se lavass la faccia pusseè d'on ora. Di qui il miracolo.

GAITAN: El dis de bon...? Dunque la sciora Che dorma l'è sciora Marianna...

NARCISO: Corretta e riveduta...

GAITAN: El par quasi nanca vera.

NARCISO: A proposito di bottiglie, tacca la carettella e fa una corsa a Affori dal Borella ch'el te consegnerà dodes botteli d'acqua minerale e torna subet perché spetto gent a colezion. Nella stessa strada fa la spesa come se fussem quatter a tavola... un pasto leggiero, però: ieri abbiamo prevaricato un pochetto...

GAITAN: Allora voo subet... (via)

NARCISO: E minga dimenticà i botteli dell'acqua... Un po' di Vichy aiuterà a sgombrare lo stomaco. E inscì, Menica?

MENICA: L'ha ditt che la desidera niente che adess la ven giò subet a dagh el bon giorno.

NARCISO: Ti prepara el caffè; e fa giò un po' de polver (Menica mette a posto le sedie ed esce) Narciso, siede nel mezzo.

A parte la Rupe di Mosè el casetto el podeva no vess pussee grazios e divertent. Ah Narciso... Narciso...! se te gh'aveset no cinquant'ann e quell'appendice di donna Marianna...! Come l'è stada, mi ho minga nancamò capì. Se ved ch'el cap el s'era indormentaa nel camerin: mi sera appena andà foeura, quand senti vosà: - Partenza, partenza! - Corri, torni indree in pressa in pressa, ciama: - Marianna Marianna -; senti una voss tra el ciar e scur che rispond: - Sont chi - Vedi un'ombra che me ten adree, vo su in vagon, el treno el se moev, cerchi la Marianna e invece della mia cara dolcezza me troevi in compagnia d'uno squisito bottoncino di rosa... che la dis: - Dov'è mio marito? il mio Luigi? Dove sei Luigi? ma non era qui Luigi? E la cerca, la sbaratta i oecc, la va al sportell, la vosa: - Ferma ferma... lalela... El vapor già in ritard el correva come el vent. S'erem sol in vagon mi e le; la se mett a piang, a disperass, a di che le la gh'à no de bigliett, che la gh'à noo danee, che la gh'à no i ciav de ca; e mi bel bello, visto che la donna era una forestera, col mio savoir faire ghe disi: - Ma che non la si disperi, cara signora. È stato un equinozio. Il suo Luigi sarà andato anche lui un po' lontano, non ha sentito il treno; anch'io ho fatto appena a tempo e ho perduta la consorte; ma non piango per questo. Ci penso io a pagare il biglietto: adesso adesso mandiamo un telegramma: la condurrò a casa mia fino a domattina se si fida d'un gentiluomo... Bisogna di che Narcis quand el parla moresin el sia on gran simpaticon perché in quel faccin bagnaa dai lagrim s'è subet vist risplend el sô: la me slonga el so bel sciampin inguantaa: - E poiché ho la fortuna d'incontrarmi in un uomo onesto e generoso, accetto l'invito... E la birbona per famm parì pussee dolz el regal la soggiunge: - Mi pare di vedere in lei il mi' babbo... Vegnem giò alla Bullona, mandem on telegramma alla Marianna e al so gattin, e pass pass sott l'istessa ombrella con una acquetta dolza e moresina anca lee vegnem in ca... Ombra di Marianna Ballanzini plàcati! Me pareva de vess tornaa ai temp del mi primm matrimoni colla povera Carolina, povera veggia... Te se ricordet, Narcis? e tutt nott el valtellina del zio prevost l'ha seguità a illuminare di ciaritt la fantasia... Adagio Narciso, nelle voltate! Son curios de vedella alla lus del sô questa rondinella pellegrina. Me par che la vegna... Un po' di toilette... un po' d'ordine nella stanza... e badiamo a non sfigurare nell'italiano.

SCENA SECONDA

Marianna e Narciso

MARIANNA: Buon giorno, mio ospite gentile...

NARCISO: Buon giorno, mia bella pellegrina che ha voluto ricoverarsi al tetto del nido della mia umile sì ma povera casetta.

MARIANNA: Ha ben dormito il mi' babbo?

NARCISO: Il su' babbo ha dormito sognando i troni e le dominazioni. (Va là, Narcis, che te set on boja).

MARIANNA: Quando arriveranno le nostre rispettive metà?

NARCISO: Non posson tardar molto, ma noi abbiam tempo di prendere prima un cicino di caffè in compagnia, se lei permette. Si accomodi: forse avrà sentito qualche rumore in casa...

MARIANNA: Tutt'altro: lei ha in questa casa un piccolo paradiso.

NARCISO: Mentre parliamo, sì... Lei non è milanese.

MARIANNA: Nossignore, sono di Perugia.

NARCISO: Si capisce all'accento. Mia moglie invece è di Abbiategrasso. (Menica serve il caffè).

NARCISO: Lo piglia dolce?

MARIANNA: Così, basta.

NARCISO: Ci vuol mettere un biscottino?

MARIANNA: Volontieri.

NARCISO: Vorrei essere io... quel biscottino. Ed è un pezzo che ha sposato il signor Spazzoletti?

MARIANNA: Due anni...

NARCISO: Due anni appena? son due sposini novelli. E si voglion bene eh...

MARIANNA: Spazzoletti è tanto buono, tanto premuroso! sicuro, che per volersi bene bisogna qualche volta contraddirsi; non c'è estate senza temporale...

NARCISO: In quanto a temporale la mia Marianna l'è ona tronada sola; ma è una donna eccellente per far le uova strapazzate. Lei mi ricorda tutto il profilo della mia prima moglie.

MARIANNA: È vedovo il signor Ballanzini?

NARCISO: Ha visto quel ritratto a olio nella sua stanza? quella è la mia prima moglie.

MARIANNA: Un'espressione dolce, graziosa...

NARCISO: Povera Carolina: dopo un anno di matrimonio Dio l'ha voluta a sè.

MARIANNA: E il signor Ballanzini ha detto: - Chi muore giace, chi vive si dà pace...

NARCISO: Fragilità delle cose umane...

MARIANNA: La seconda signora Ballanzini deve aver avuta una grande attrattiva per vincere la memoria di una donna così bella e ideale...

NARCISO: Non mi faccia fare delle confessioni... Glissons... scarligon...

MARIANNA: Qui c'è della musica? Suona la signora Ballanzini?

NARCISO: Sarebbe una buona suonatrice di campane, ma il cembalo, dice lei, el ghe fa nass i sciattit in del venter...

MARIANNA: Questa è vecchia musica da canto...

NARCISO: La povera Carolina aveva una bella voce e qualche volta la sera d'inverno, quando el fioccava, la se metteva lì, povera veggia, e intanto che io dava un'occhiata alla gazzetta la si divertiva colla Sonnambula e col Trovatore... Anche lei sa la musica?

MARIANNA: È il mio maggior divertimento. Che cosa è questa: Serenata valacca?

NARCISO: L'era la sua romanza favorita...

MARIANNA (suona e canta)

NARCISO (siede e accompagna la musica con una controscena): La par la soa vôs che vegna dal ciel... T'è lì, t'è lì... che me ven squasi de piang...! O Narcis... cosa l'è che te parla in del coeur... Cosa l'è che vola per l'aria?

Finita la romanza Marianna si alza e si avvicina alla sedia dove sta seduto Narciso; questi le stende le mani, ma oppresso dall'emozione non sa parlare.

MARIANNA: Forse io ho sollevato dolorosi ricordi...

NARCISO (sforzandosi di sorridere): Dolci, cari...

MARIANNA: Ho forse evocata la voce d'una povera morta...

NARCISO: Ha fatto vivere a un morto un minuto di... di... di... Che ciallon, la dirà... Ma sont on omm insci... Me commoevi per pocch... Che la mi suoni qualche cosa d'allegro: una polketta, un galopp... (la conduce al piano).

MARIANNA: (canterà una romanza allegra)

NARCISO: (si muove per la stanza in preda a un dolce orgasmo)

Chissà come l'è fa sto coeur, Narcis... Te seret nassuu per fa el papà di trenta fioeu... Va là, che te set un fieu ancamò... (batte il tempo e si accompagna colla voce alle ultime note della romanza: non si accorge che dietro di lui è entrata la Ballanzini che dopo aver contemplato un istante la scena si fa a battere sulla schiena del marito)

LA BALLANZINI: Uno due e tre... galeotto infame!

NARCISO: Oh la mia Marianna! (l'abbraccia)

LA SPAZZOLETTI (Cessa di suonare e vede Luigi): Luigi, sei qui?

LUIGI: Oh la mia Marianna (si abbracciano) pausa

LUIGI: Oh la mia povera Marianna!

NARCISO (imitando con caricatura): Oh la mia povera Marianna!

LA SPAZZOLETTI: Oh il mio Luigi...!

LA BALLANZINI: Oh el me baloss!

NARCISO: Ma donde siete sbucati? la corsa non è ancora arrivata.

LUIGI: La signora Ballanzini era così impaziente che questa mattina ha voluto prendere una carrozza.

LA BALLANZINI: Per rivà a temp a batt la musica!

LA SPAZZOLETTI: Come avete potuto passare la notte?

LUIGI: La signora Ballanzini ha voluto presentarmi ad alcuni suoi amici che mi accolsero con molta cortesia.

LA SPAZZOLETTI: La quale non potrà mai essere superata dalla cortesia con cui mi ha ospitato in casa sua il signor Ballanzini.

LA BALLANZINI: Oh el sem che l'è bravo monsù de fa i compliment ai sciorinn...

NARCISO: Volevi, cara moglie, che lasciassi una povera creatura di Dio su una strada? La carità cristiana...

LA BALLANZINI: Fa minga la dottrina del diavolo... Se permetten parli mì. Il signor Spazzoletti el gh'à premura de vess a Milan per i so affari e sem vegnù apposta in carrozza perché sta bella sciora la pudess ciappà la prima corsa che va in giò...

NARCISO: Come? io speravo che restassero almeno a far colazione.

LA BALLANZINI: Mangiaran con pussee appetitt a Milan... Quindi disaria che gh'è minga temp de perd.

LUIGI: La signora Ballanzini ha ragione: avrei dovuto essere a Milano fin da ier sera. Io ringrazio il signor Ballanzini di tutte le premurose gentilezze che ha usate a mia moglie...

LA BALLANZINI: El s'è pagaa de mornee, ch'el vaga là.

LUIGI: E spero che quest'avventura sarà il principio della nostra amicizia.

LA SPAZZOLETTI (alla Ballanzini): Io chiedo perdono alla signora Ballanzini d'aver invasa la sua casa...

LA BALLANZINI: Che la se figura cara el me tesor...

LA SPAZZOLETTI: E spero che ella verrà qualche volta a Milano con suo marito...

LA BALLANZINI: Immaginas! Mènica portem el bicocchin...

NARCISO: Permettano almeno che li accompagni alla stazione... (Appena vidi il sol che ne fui privo) Avrei voluto offrire almeno un caffè e latte, una cioccolatta, ona barbajada...

LA BALLANZINI (mentre si spoglia): Un risott alla milanese, una frittada rognosa, una fritturina de pasta badese per i sorci... Menica, el me bicocchin...

MENICA (reca un arcolaio con su un'ascia ingarbugliata)

LA BALLANZINI: T'è minga nancamò finii de sgarbialla?

MENICA: Pussee se lavora pussee se la ingarbia. (siede a svolgere la matassa)

LA BALLANZINI: A che ora l'è vegnuda ier sira quella sciora lì?

MENICA: Coll'ultima...

LA BALLANZINI: Dove l'à dormì?

MENICA: Nella stanza della sora Carolina...

LA BALLANZINI: Anh... a che ora l'è levada su...?

MENICA: Poc fa...

LA BALLANZINI: Vo de là a mettere in sorieura. Finiss de sgarbialla.

MENICA: La gh'à un diavol gelos per cavel. Pover sor Narcis, l'è sta castigà un po' trop.

GAITAN: Vuj,Menica, ho capii dove el sta el miracol.

MENICA: Che miracol...

GAITAN: El miracol dell'acqua che fa diventà gioven i donn.

MENICA: Te set mat?

GAITAN: Sont andà a toella adess... l'acqua...

MENICA: Me par che te set andà a toe el vin...

GAITAN: I ho vist mi i botteli... hin chi...

MENICA: Bravo martor... bevi

GAITAN: Te credet no? te voeut la proeva?

MENICA: Dammela sta preuva...

GAITAN: Dil no al padron... Vuna pu vuna men l'è minga quella che fa... (esce)

MENICA: Gh'ò paura che g'abbien pagà el grappin per strada a quel pover martor. De che acqua el parla? de che miracol el discor?

LA BALLANZINI (esce in giubboncino leggiero un po' simile a quello che indossa Menica) Da chì, da chì, te set intrega come ona settimana. Va a mett in orden la stanza de quella sciora... Met feura tutt coss all'aria.

Menica esce.

LA BALLANZINI: E adess el sor Ballanzini el giusterà i cunt con mì. Tutto deve confessare dall'a alla z: e imparerà on'altra volta a lassam dormì a posta per scappà via colla sciorina.

GAITAN (tra sè): Eccola chi la miracolosa botteglia... Adess ghe la foo alla Menica... Ghe ne voja in testa un sidellin...

LA BALLANZINI: E minga content de vess scappaa, el troevi chi a fa el gibigian e a batt el temp colla bocca averta come on merlo. Te vegneret a ca a scenna...

GAITAN: Acqua della Rupe di Mosè

Fa un miracolo per me... (versa l'acqua in testa alla padrona)

LA BALLANZINI (strilla): Ohi, ohi... cosa l'è... cosa l'è... moeri... nega... (si toglie il secchiello dal capo) ajut... pover mort...

GAITAN: O Signor, l'è diventata pussee veggia ancamò... (fugge).


I CONIUGI SPAZZOLETTI

I

Varese, Gallarate, Parabiago, Musocco, Milano partenza.

La macchina mugge come un mostro in collera: i guardiani sbattono, chiudono gli sportelli, il capotreno dà un fischio.

- Presto, signori, per di qua.

- Secondi posti, terzi posti.

- Qui, su, presto.

- Margherita!

- Eccomi.

- Dlen, dlen, dlen.

- Partenza.

- Fuf, fuf, fuf - il treno parte.

- Sempre così con te. Non la finisci mai di aggiustarti il cappellino, il cravattino, il ricciolino, il serpente che ti mangi e poi bisogna correre, strozzarsi, o perdere la corsa.

- Dici a me? sono io che mi son fermata a fare...

- A fare, a fare!... se ti movessi subito quando te lo dico, e non restassi a sfringuellare con tutti, ci, ci, ci.

- Io? sei bello come il sole.

- E tu come la luna.

Intanto il cavaliere Spazzoletti andava sbarazzandosi della valigia, dell'ombrello, della cappelliera e di quei tre o quattro involtini, che non mancano mai a chi ritorna dalla campagna. Sebbene fosse già la fine di settembre e vicino a sera, pure faceva ancora un bel caldo, che pareva al cavaliere Spazzoletti più soffocante per l'affanno della corsa e pel dispetto che provava.

- Non basta credere d'essere una donna di spirito, - seguitava il brontolone.

- Ora la puoi finire ch'è lo stesso - interruppe questa volta madama, facendosi rossa e alzando il ciuffo.

- Se parlo, è perché mi piace di parlare.

- Parlano anche i pappagalli.

Il cavaliere Spazzoletti aggrottò le sopracciglia, ma c'era dell'altra gente nel vagone e pensò che si è sempre a tempo a perdere la propria dignità.

Diè un'occhiata tagliente alla moglie, si asciugò il sudore delle guancie e della fronte e finalmente si rincantucciò nell'angolo presso lo sportello a trangugiare il suo pappagallo. Margherita sedette innanzi a lui colla faccia rivolta verso il crepuscolo che, sfolgorando con raggi d'oro, nella bassura, dietro un filare di pioppi, riverberava una luce rossiccia, quasi sanguigna sul suo volto. Negli occhi pareva quasi di vederci dentro delle scintille.

Il treno già in ritardo andava intanto colla velocità d'un vapore inglese.

I coniugi Spazzoletti erano marito e moglie da due o tre anni e si erano sposati d'amore. Ella, donnina di molto garbo, sui ventiquattro anni, aveva un aspetto delicato e signorile, con un nasino sottile, assai ben fatto, e due labbruzzi di corallo smorto, che scomparivano quasi del tutto nel momento di maggiore commozione. Vestiva con attillata eleganza, in modo che il corpo appariva in tutta la sua aristocratica magrezza, né le mancava nemmeno quel fare pretenziosetto di stare sulle sue che conviene sempre alla moglie di un cavaliere.

Se è vero poi che ognuno ha soltanto gli anni che dimostra, il cavaliere Spazzoletti non aveva ancora i suoi trentatré o trentaquattro anni.

Era anch'egli una bell'asta d'uomo, già vicino a quella rarità di capelli che piace tanto negli uomini d'ingegno. Sebbene non fosse che direttore d'una grande azienda per la fabbricazione dei concimi chimici, la figura era quella di un segretario d'ambasciata e i modi quelli di un ambasciatore. Ma per dirigere un'industria non basta, come basta per fare l'ambasciatore, essere un bell'uomo; e infatti al cavaliere Spazzoletti non mancava né lo studio né la pratica delle cose, né la fiducia de' suoi azionisti. In un giornale di agricoltura l'illustre Hermann (fa sempre piacere di conoscere come la pensa un tedesco) nomina spesso il cavaliere Spazzoletti come uno dei più arditi e intelligenti industriali nostri, e a questo muthig, praktisch, verständig Mann, come avete sentito, era toccato del pappagallo in faccia alla gente.

Già da qualche tempo i rapporti fra i coniugi Spazzoletti erano divenuti alquanto stridenti, sebbene, a voler cercare, non si sapesse dire né perché, né per colpa di chi. Sia che il mangiar sempre quella cosa finisca col venire a noia, sia che non sapessero condirla, o perché, com'è più probabile, non avendo ancora figliuoli, si facessero reciprocamente dei taciti rimproveri, o sia quel che volete (è sempre difficile veder chiaro in queste cose), sta il fatto che da qualche tempo il loro amore aveva preso la punta come il vin buono a un cambiamento di tempo. Non era aceto ancora, ma sentiva già di brusco.

Anche quella benedetta campagna di Varese non poteva andar peggio. Quindici giorni piovve e non ci fu caso di cacciar la testa dall'uscio; nei giorni belli, perché non conoscevano quasi nessuno, il gran divertimento fu di salire e discendere il Sacro Monte sugli asinelli. Quegli asini e quegli asinai, la più noiosa genia del mondo, avevano tanto perseguitato il cavaliere durante le sue passeggiate, che se li sentiva ancora addosso. E quanto avea dovuto pagarle quelle asinerie! e quanto liticare con quella marmaglia! e con che costrutto? Il costrutto era di vedere eternamente la faccia malcontenta di madama, che si annoiava orribilmente degli asini e dei monti. Notate che aveva scelto Varese essa stessa per aver occasione di fare non so quali devozioni al Santuario, e ch'egli l'aveva seguita volentieri, fingendo di credere all'efficacia di certi rimedi; ma finalmente era parso più allegro di tornare a Milano. Nel ritorno si sarebbero fermati quella notte e il giorno seguente a Parabiago in casa di un vecchio amico, compagno di scuola dello Spazzoletti, che non aveva ancora il piacere di conoscere la sora Margherita. Il Caldara aveva insistito con tanta gentilezza nelle sue lettere, che rifiutarne l'invito sarebbe parso una scortesia. Finalmente la sora Spazzoletti era un tal bottoncino di rosa, che il desiderio del Caldara non era minore della compiacenza che provava il marito a condurvela.

Margherita pensava invece alla delizia di dover passare l'ottobre a Milano, in una casa suburbana presso la fabbrica, fra gli orti, in mezzo a certi odori... e colla vista poco lontana del cimitero, mentre le sue amiche erano sul lago a divertirsi. Tutte queste cose stavano il più del tempo sottintese, come i carboni sotto la tenere; ma guai a rimestare la cenere! i puntigli pungevano da tutte le parti, i rigagnoli diventavano fiumi, le mosche buoi, e sempre più aspri si facevano i rapporti fra due persone che avevano troppe occasioni per trovarsi vicine.

Dall'altra parte del vagone, presso lo sportello di destra, sedevano l'una in faccia all'altro i coniugi Ballanzini, due buoni benestanti di Musocco, più in là che in qua della cinquantina, che durante il battibecco fra i nuovi venuti si erano scambiati qualche furtiva occhiata d'intelligenza. Vestivano alla carlona, con quell'abbondanza di taglio che non guarda alla roba purché sia buona. Il sor Claudio Ballanzini era di quell'antica opinione che due fiaschi di vino buono fanno più bene al corpo d'un fiasco solo di vino sciocco; opinione che la sua consorte esprimeva con più delicatezza, dicendo che chi più spende meno spende. L'abbondanza non faceva danno né all'uno né all'altro, anzi, sedendo ciascuno ai loro rispettivi posti, potevano consolarsi nell'idea che, a trasportarli, la ferrovia non ci guadagnava nulla.

La signora però, sapendo di non essere più giovane, s'ingegnava di farsi bella con qualche nastro un po' vivace, con qualche papavero nel cappello e con tutto il giallo del suo oro che metteva dappertutto come fosse carota. Cercava invece di conservare al suo uomo un'aria di buon ambrosiano quanto era possibile, insaccandolo in certi pastrani da Carlambrogio e smorzandone la baldanza sotto certi cappellacci, color pelle d'asino, che lo facevano somigliare a un fungo. Eppure si sarebbe detto che la gioventù, la gioventù assassina facesse la corte e gli rinfrescasse le guancie tutte le mattine al birbone! Bello, morbido come un pane di burro, con due occhietti grigi, mariuoli, aguzzi come lesine, egli era il tormento diurno della sora Ballanzini, non già ch'egli osasse ribellarsi o corresse dietro alle gallinette del vicinato, guai! ma perché la diffidenza è figlia della gelosia, e la gelosia è un male senza rimedio. Per buona sorte l'indole dell'uomo era dolce e mansueta. Di pochi desideri, di poca fantasia, di poca volontà, il sor Claudio riconosceva in sua moglie una donna superiore. Se non l'avesse saputo, glielo ripeteva sempre ella stessa, dicendo che la terra e la casa di Musocco l'aveva portata lei, colla sua dote, e che se ella non lo avesse raccolto di strada come una scarpa vecchia, il sor Ballanzini era nato e sarebbe morto cuoco di casa Rusca.

Questo concetto lo esprimeva anche col dire ch'egli era nato e sarebbe morto in una cazzeruola.

L'occhiata che all'entrare degli Spazzoletti ella lanciò a suo marito voleva dire: «Vedi che cosa significa una moglie senza giudizio?». Quando poi al cavaliere Spazzoletti toccò del pappagallo, il sor Claudio deve aver esclamato in cuor suo: «Pazienza! ce n'è degli altri».

I coniugi Ballanzini erano andati a passare una giornata in casa del fratello di lei, curato di un paesello presso Varese. Era una gita solita di tutti gli anni, coronata da un famoso pranzo, in cui il curato metteva i suoi cinque sentimenti, sapendo che non si scherza cogli uomini intelligenti. C'era quasi sempre la sua brava lepre e il suo bravo zampone di Modena. C'era il pasticcio di riso, il gelato, i datteri, i fichi, la panna; dopo il caffè, il cognac: dopo il cognac un buon sigaro, e finalmente un bicchierino di maraschino, dolce come le lagrime degli angeli. I coniugi Ballanzini partivano da quella casa del Signore più larghi che lunghi, imbottiti per una settimana; alla povera grigia del curato che doveva poi trascinarli fino alla stazione diventava il collo lungo come una giraffa.

Una volta sprofondati sui cuscini del vagone, pacem habete! si addormentavano di solito come due bambini nel presepio... A questo proposito non è inutile raccontare ciò che era accaduto loro un anno prima nella medesima circostanza. Chiusi gli occhi al primo movimento del treno, dormirono tanto beatamente che passarono oltre la stazione di Musocco senza avvedersene, giunsero a Milano senza udire né il fischio della macchina, né il grido dei conduttori. Chiusi dentro nel loro bel vagone di seconda classe, sia che non li avessero avvertiti o che vi fosse gente disposta a divertirsi alle loro spalle, i guardiani spinsero il carrozzone in un prato e li abbandonarono ai dolci sonni. Fu solamente verso le undici di sera che a un terribile fischio d'una macchina che zufolò passando via, essi balzarono su di botto. Si stirarono, si cercarono, si trovarono, guardarono fuori. Tutto è buio, il luogo deserto, il vagone fermo. Che cos'è? dove siamo? Gesummaria! che ora è? La sora Ballanzini getta un grido e sviene. Accorre della gente, portano dei lampioni, è avvisato il capostazione, corre la questura.

Figuratevi le risa, il chiasso, il movimento. La sora Ballanzini fu portata da quattro uomini nella sala del buffet. Si dovette aprirle un poco il vestito, spruzzarle il viso d'aceto, e quando il sor Claudio volle ricompensare quella buona gente della loro carità, il portafogli... itibus... era scomparso.

Questo, ripeto, era accaduto l'anno prima; ma dovessero campare cento e un anno, essi se ne ricorderanno sempre. Soltanto a parlarne, la povera signora prova una specie di vertigine, che le par di morire, e un giorno o l'altro vuol pregare qualche poeta di farne un bel sonetto.

Immaginatevi ora, se al sedersi di nuovo su quei cuscini e nella medesima circostanza, dovevano ricordarsi dell'avventura. Il topo non casca due volte nella medesima trappola; ma pretendere che il sor Claudio non avesse a dormire, era come un volere che volasse, perciò la sora Ballanzini si assunse tutta la responsabilità di svegliarlo a tempo. In quanto a lei, se il diavolo non aveva proprio giurato di tradirla, non c'era pericolo che velasse un occhio.

Infatti dopo un quarto d'ora il marito era già scomparso sotto le grandi ali del suo cappello e sognava già di pigiare dell'uva in fondo a una tinozza.

Intanto s'era fatto buio. Un lumicino scarso e fumoso, chiuso dentro una scatola di vetro torbido, spandeva dall'alto quel tanto di luce che basta per vederci a dormire. Il rumore monotono delle ruote, l'abballottolìo, la ninna nanna delle carrozze, ma più di tutto i fumi ed i calori della vernaccia e del rosolio bevuto, tentavano bene di tanto in tanto di accalappiare anche la sora Ballanzini in una rete invisibile e tenuissima di sonno; ma la paura di lasciarsi cogliere all'agguato vegliava in lei come un cane di guardia. Fra il sonno e la paura avveniva spesso a intervalli una specie di baruffa, come fanno i cani e i gatti in un buio sottoscala: e la zuffa serviva a dare alla donna quella scossa che bastasse a svegliarla del tutto. Affacciava il viso alla finestruola, si scuoteva di dosso la pigrizia, finché il sonno più forte di lei non ritornava ad avvilupparla nella sua rete di ragno.

Chi certamente non dormiva era il cavaliere Leopoldo Spazzoletti in causa di quel pappagallo che sapete, e che sentiva starnazzare nello stomaco come un pappagallo vivo. Avete mai provato il tormento d'essere strapazzato da una donna che credevate obbediente e docile a tutti i vostri sguardi? Ognuno ha il suo amor proprio e vi affila i coltelli de' suoi mali. Nessuno in trentatré o trentaquattro anni aveva osato buttare sul viso del cavaliere Spazzoletti una parola meno che gentile; anzi egli aveva veduto impallidire e tremare innanzi a sé, e vedeva tuttavia, dei pezzi d'uomini alti come giganti, dei facchini di magazzino forti come tori, che sollevavano mezzo quintale sulle braccia come io e voi il cuscino della poltrona.

Tutti dicevano che il cavaliere Spazzoletti era un uomo di grande energia, giusto, insofferente di ogni soperchieria, capace di affrontare da solo uno sciopero di operai e di macchinisti ubbriachi, come si piglia un branco di ragazzacci insolenti. E ora quest'uomo doveva trangugiare i frizzi e i sarcasmi di una pettegola? Capite che se egli sentivasi del tossico in bocca, il torto non era tutto dalla sua parte. Perché avrebbe sopportato da sua moglie ciò che un gentiluomo non perdona al più vecchio de' suoi amici? perché non avrebbe dovuto dominare un caratterino di porcellana?

Dopo questi pensieri giurò in cuor suo di non aprire più bocca, finché Margherita non fosse venuta da sé a implorare un perdono, che non si ottiene se non a patto di meritarselo: e una volta fatto questo giuramento, fu come se gli avessero cucita la bocca col fil di ferro.

Margherita dal canto suo fingeva di dormire, colla testa appoggiata allo schienale e colle braccia sul petto in un atteggiamento di capitano vincitore che detta i patti della resa. Non minori né meno forti erano le ragioni ch'ella andava ripetendo a sé stessa, come se studiasse una parte da recitare fra poco a voce alta. Leopoldo, pensava, non era sempre stato quel brontolone e quel grande intollerante che da qualche tempo si vantava di essere: ma quante carezze, quante paroline sussurrate nei mesi prima di sposarla! e anche dopo quante promesse poetiche di casette, di nido, di paradiso! Era bello allora, pieno di delicatezze e di cortesia, tenero come una fanciulla, affezionato come un cagnolino. A credergli, egli avrebbe voluto passar la giornata a' suoi piedi, tutto rapito a guardarla in fondo agli occhi, in cui diceva di vedere il cielo, il mare e l'oltremare. A credergli, nessuna aveva occhi più belli, chiome più morbide, mani più alabastrine delle sue, e avrebbe voluto collocare i piedini di sua moglie sotto una campana di vetro per guardarli dalla polvere. Andate a credere a questi canzonatori! Quando vi hanno fra le mani - seguitava sempre la testa di Margherita, che pareva un molino - quando vi hanno fra le mani, fanno anch'essi, i signori uomini, come i ragazzi, che vogliono vedere com'è la bambola di dentro. Allora vi dicono che anche voi siete bambole di stracci e di cartapesta come tutte le altre. Cominciano allora ad annoiarsi del giuoco; non ve lo dicono, ma sbadigliano. Si sdraiano sulla vostra poltrona, una gamba sull'altra, in pantofole, col sigaro in bocca o anche colla pipa, e annerire una pipa diventa per essi un'occupazione più divertente che far carezze a una bambola.

Gli affari d'Europa continuava quel molino - diventano a un tratto intricatissimi: il paese è in pericolo; il commercio in cattive acqua; Bismarck e la Russia si guardano in cagnesco. Quindi viene per loro la necessità di leggere due o tre giornali, grandi come lenzuoli, di correre alla Borsa, a un'assemblea di azionisti alla Camera di Commercio. E la moglie? Giungono telegrammi a mezzo il pranzo, sul punto di andare a teatro o d'abbigliarsi per una festa da ballo. Da tutte queste faccende affaccendato il pover'uomo torna a casa stracco, svogliato, pieno di sonno. E la moglie? Egli ha pranzato all'osteria e c'era dell'aglio nello stufato. L'aglio gli fa male, lasciamolo stare, gli passerà. Non c'era più tempo di scambiare due parole insieme, né di prendere un sorbetto a un tavolino dei giardini pubblici, né d'ascoltare cinque minuti di messa in Duomo, l'una accanto all'altro, come si ha il diritto e il dovere di fare.

La politica, la Borsa, gli affari - seguitava sempre quel molino a vento - i concimi, il mal di denti, l'egoismo... eccola la gran parola! e tutto ciò sapete perché? le più maligne vi dicono: cherchez la femme: no, no, mie care, questa è la catastrofe. Prima è la bambola che bisogna cercare. E le bambole sono le donne che non sanno cambiarsi gli occhi e i capelli tutti i giorni, ma preferiscono essere come la natura le ha fatte...

A questi pensieri se ne mescolano altri. Essa non era nata né per far la serva né per far la monaca. Sua madre aveva nelle vene sangue di dogi, e suo padre era stato consigliere di governo! Il sangue ha i suoi diritti! Non bisogna mai che un marito sia peggiore d'ogni altro uomo, se non vuole soffrire le conseguenze dei confronti. Quando una donna è sulla via dei confronti, è come se avesse sotto le suole il burro, che fa sdrucciolare di più i più arditi e i più forti. C'è sempre a questo mondo un uomo a cui piacerete più che a vostro marito, e allora, o bisogna essere nate di marmo, o bisogna...

A questo punto, mentre cioè la sora Margherita Spazzoletti andava annaspando al buio queste riflessioni, il sor Claudio si sentì toccare sul braccio. Siccome dormiva con qualche sospensione, si scosse, aprì gli occhi e senti il suo vicino di sinistra (quel del pappagallo) che lo pregava di lasciarlo sedere presso lo sportello di destra, dovendo discendere alla vicina stazione di Parabiago con una moltitudine di cose da portar giù.

- Si figuri! - disse il signor Claudio, alzandosi e cedendogli il posto. Il lumicino era agli estremi e guizzava or sì or no come se gli rincrescesse di morire. Inoltre il cambiamento di posto fu fatto con tanta naturalezza che la sora Ballanzini, la quale forse in quel momento pisolava sulla propria preoccupazione, non se ne accorse. Molto meno se ne accorse la sora Spazzoletti, che ad occhi chiusi, nel suo cantuccio, sdegnata, pensava che o bisogna essere di marmo o bisogna diventarlo. Se si può pretendere sempre che una donna sia virtuosa, non egualmente si può pretendere ch'ella faccia di continuo l'elogio della sua virtù. Vi sono verità che non bisogna mai assumere di dimostrare, se si vogliono credere, e guai alla donna che voi, mariti, obbligate a diventare più onesta di quello che è...

Sarebbe lungo ripetere tutto ciò che passò in testa a Margherita, mentre il treno si avviava verso la stazione di Parabiago. Ella non si curava del viaggio, ma più dei patti chiari, che una volta tornati a Milano, intendeva mettere innanzi a suo marito. O così, o così... e se non era così...

- Margherita!

Le parve ad un tratto di sentirsi chiamata. Si scosse, aprì gli occhi, e prima che avesse il tempo di racapezzarsi, vide la sua vicina dei papaveri balzare come una trappola che si smonta correre allo sportello, precipitarsi giù dicendo:

- Aspettami, Claudio...

Il signore che poco prima sedeva in faccia presso lo sportello di destra era già disceso. Fu un lampo. I conduttori, cacciati dall'orario, richiusero in fretta gli sportelli, il vapore fischiò, partì come il vento.

Margherita lanciò anche una rapida occhiata a suo marito che, immerso nelle tenebre, dormiva o fingeva di dormire. Peggio per lui se pativa di questi mali! ella non lo avrebbe pregato per tutto l'oro del mondo a parlare. Chi tace non perde il fiato e campa un pezzone.


II

La luna quasi nel suo pieno versava sulle campagne un bagliore latteo tremolante, che svelando qua e là delle stese e dei dossi di campagna, rendeva più misteriosi i luoghi occulti. Nello spazio chiaro del cielo erravano alcune nuvolette traendosi come di rimorchio sotto l'impulso del vento. Poco brillavano le stelle presso la luna. Era insomma una notte che non si finirebbe mai di descrivere! L'anima di Margherita si tuffava in quella infinità di luce molle e voluttuosa, provando quasi quel sapore che dà alle membra gentili d'una giovinetta un bagno tiepido di latte: Oh! anch'essa aveva sognato il giardino della sua vita illuminato da un continuo raggio di luna, e se si addentrava in ciò che oggi si potrebbe dire il fogliame de' suoi segreti desideri, udiva uscirne delle voci piene di tenerezze miste al fruscìo di molte foglie secche cadute anzi tempo.

Essa non era nata per consumarsi giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto nel congegno d'una vita uniforme come le ruote di un orologio: voleva essere molto amata, molto carezzata, molto adulata. Lo meritava.

Gli occhi fissi nella luna a poco a poco si riempivano di lagrime. Poiché erano rimasti soli nel vagone che cosa vietava che si facesse un po' di pace? Gli uomini sono spesse volte dei macigni grossi e massicci che a saperli spingere nel loro verso si muovono con un dito. Il peggior modo è di cozzarci dentro col capo.

Tratta a poco a poco a sentimenti più dolci e più umani, Margherita vinse l'ultima ostinazione dell'amor proprio, rimosse l'ultima pagliuzza, si alzò, andò a sedere sull'altro sedile, stese la mano verso quell'uomo che fingeva di dormire colla bocca cucita dal fil di ferro, gli prese la mano... Misericordia!

Margherita gettò un grido e saltò in piedi.

- Che cos'è accaduto?

- Leopoldo! - chiamò essa lanciandosi verso la finestra.

Il signor Claudio (l'uomo che dormiva) si scuote, salta in piedi anche lui, non trova più sua moglie, ma un'altra donna che piange e si strappa i capelli. Il treno intanto va con la velocità del vento.

Per intendere meglio che diavoleria era accaduta, bisogna tornare indietro fino a Parabiago, dove la sora Ballanzini giace svenuta sul divano del capostazione. Accanto le sta il cavaliere Spazzoletti, cogli occhi fuori del capo, pallido di commozione, che non sa in che mondo si trovi.

Le cose erano andate precisamente così. Dopo aver cambiato di posto col suo vicino, senz'avvertirne la moglie in causa del pappagallo, alla stazione di Parabiago lo Spazzoletti era disceso, chiamando in un modo duro e sgarbato: Margherita! Ma anche la sora Ballanzini si chiamava Margherita (se non l'ho detto lo dico adesso). Sentendo il suo nome, ella si scosse da un sonnellino traditore che stava ghermendola per il naso, e non vedendo più l'uomo davanti a sé, tutta spaventata per ciò che era accaduto l'altra volta, senza riflettere, si lasciò cadere sopra di lui. Il topo non cade due volte nella medesima trappola. La sora Spazzoletti vide che i suoi vicini se ne andavano e tornò a fantasticare colla luna.

Si può immaginare ma non descrivere la scena che successe poi sotto il lampione della stazione di Parabiago. Col sangue sottosopra la sora Ballanzini corse dietro per un pezzo a colui che ella credeva suo marito e che si avviava nell'ombra verso il cancello; ma quando gli fu presso e che non riconobbe il suo Claudio, si voltò a cercarlo. Nessun altro era disceso.

- Ferma! ferma! - si mise a gridare al treno che già si sprofondava nella notte.

- Ferma! ferma! - gridò anche il cavalier Spazzoletti, agitando l'ombrello.

Ma chi ferma il vapore?

I due malcapitati si guardarono in viso un istante istupiditi. Ella cominciò a strillare come un aquilotto, egli a bestemmiare. Si domandò se c'erano altre corse per Milano, non c'erano corse fino alle sette del mattino.

- Maledizione! - esclamò fuori di sé il cavaliere Spazzoletti, correndo su e giù colla cappelliera in mano e coll'ombrello sotto il braccio. Margherita non aveva con sé né i biglietti dei posti, né le chiavi della casa, né i denari. Ad ognuno di questi pensieri il cavaliere Spazzoletti sentiva stendersi un nero velo sugli occhi. Tornò in cerca della vecchia signora, che la sorte gli aveva dato in cambio, e trovò che non parlava più, ma lunga distesa sul divano, non mandava che dei gemiti e dei sospiri.

Quando finalmente, dopo un gran consumo di aceto dei sette ladri, la sora Ballanzini riprese i sentimenti, il cavaliere Spazzoletti cominciò a interrogarla e a sgridarla in mal modo, a rovesciarle insomma sul capo tutto l'ampollino del suo fiele e del suo dispetto. Sebbene fosse già un'ora di sera, molta gente alla prima notizia dell'avventura, uscendo dalle osterie, era venuta alla stazione per godere lo spettacolo: fra gli altri il Caldara aveva pronta sulla via la carrozza che doveva condurre gli sposi alla sua casa in cima al paese. Ma il cavaliere Spazzoletti non vedeva niente, non conosceva più nessuno. Egli pensava a sua moglie in balia di un altro uomo. Povera Margherita! il pensiero dello spavento che essa avrebbe provato, vedendosi a un tratto abbandonata, l'interpretazione che un tale abbandono poteva ricevere dopo le aspre parole barattate in vagone, tutto ciò, misto a un inconsulto sentimento di rabbia, di gelosia, di compassione, lo cacciarono a corsa per un cinquanta passi sulla via ferrata, al chiaro di luna; ma la ragione gli dimostrò subito come fosse sciocco quel correre alla ventura e ritornò in stazione, che, quella notte, rappresentava un punto importante nella geografia della sua vita. Fra gli altri pensieri il più pungente era che Margherita avesse fatto apposta per dargli una lezione.

Ma se per lo Spazzoletti era un'agonia, per la sora Ballanzini, quando rinvenne, l'idea che il suo Claudio viaggiava solo solo con quella bella signora, che sarebbe giunto con lei a Musocco, che l'avrebbe per necessità, per pietà, per cortesia, ricevuta in casa a passare la notte, che... che... quest'idea era la morte addirittura. Ricuperate le gambe, voleva ad ogni costo che le si procurasse una carrozza; ma nessuno si mosse, e le fu dimostrato che nessuno avrebbe voluto scomodarsi in quell'ora, che le strade erano cattive, piene di pericoli: che non valeva il conto per poche ore di differenza d'intraprendere un disastroso viaggio nel pieno della notte, mentre all'alba sarebbe passato il treno di Arona. Volere o no, dovette rassegnarsi anch'essa. Tornarono a guardarsi in viso. La luna nella sua stupida placidezza pareva che ridesse sgangherando la bocca. La strada ferrata si prolungava deserta e luccicante a destra e a sinistro in una lontananza piena di ombra e di misteri. Per tutto era un gran silenzio e una grande solitudine. Entrambi sentirono riempirsi gli occhi di lagrime e una cosa alla gola che minacciava di strozzarli.

Il Caldara, che, non vedendoli uscire, era venuto a cercarli, dopo aver riso dell'avventura, invitò gentilmente anche la signora in casa sua, molto più che i Ballanzini di Musocco non erano persone sconosciute a Parabiago, anzi...

Stavano quasi per avviarsi verso la carrozza, quando il capostazione gridò:

- Signori, è annunciato un telegramma da Musocco.

Fu come se sparasse una fucilata. Il cavaliere Spazzoletti e la sora Ballanzini accorsero con tanta trepidazione, con tanta indiscrezione, che a stento il capostazione poté persuaderli a non toccare la macchinetta, e a sedersi, e a star zitti e quieti.

- Il telegrafo non è una campana - brontolò quel buon uomo del Capo.

Si rassegnarono ad aspettare con pazienza. La punta dell'ago cominciò a picchettare la striscetta mobile di carta con un movimento nervoso e balzano, come il polso dei nostri due disgraziati. La stanza era illuminata da una lucerna posta sulla tavola telegrafica, coperta da un paralume che lasciava nell'ombra il soffitto e le pareti. Il tic-tac della macchinetta non era accompagnato che da un grave e lento toc-toc d'un grande orologio a muro rincantucciato dietro uno scaffale.

Quando la punta dell'ago cessò di scrivere, il Capo trasse dall'astuccio gli occhiali, li inforcò sulla punta d'un naso che pareva l'insegna del vin buono, e aggrottando due folti sopraccigli bianchi e due baffi irti come due fascetti di fieno, si accostò alla lucerna. I nostri viaggiatori naturalmente gli si misero alle costole.

- Ma che stagano al loro posto, benedetta pazienza! - esclamò il pover'uomo fuori di sé. - Già loro non ghe capiscono un'acca allo stesso. Dunque el dice: «Musocco, ecc. Strada libera, spedite vino...»

Io credo che i due vedovi sarebbero rimasti stupefatti cent'anni a guardarsi in faccia, se il Capo non soggiungeva:

- Ho capito. Questo viene a noi, e riguarda un carico di vino che abbiamo in magazzino; ma che sentano...

Infatti il campanello annunciava che un altro telegramma urgente era in viaggio da Musocco. Questa volta diceva: «Cambiata moglie, dormiremo a Musocco, venite prima corsa».

Lungo sarebbe descrivere tutti i vari sentimenti che queste parole destarono nel cuore del cavaliere Spazzoletti e della sua dolce compagna: più a lungo ancora il descrivere l'accoglienza che le sorelle e la moglie del Caldara fecero alla sora Ballanzini e a' suoi papaveri. Dirò solo che l'amico per festeggiare gli sposi aveva fatto preparare il the, dolci e vin bianco, e una stanza imbiancata apposta con un letto di piume d'oca. Ma nessuno poté chiudere occhio per tutta la notte. Chi pianse, chi rise e chi pianse per troppo ridere. Spazzoletti si sdraiò vestito sopra un canapè e divorò un mezzo cuscino per la rabbia. Il cuscino gli fe' passare il pappagallo.


III

Intanto sulla strada, che dalla stazione va alle case di Musocco, il sor Claudio Ballanzini conduceva la bella Margherita Spazzoletti, dandole il braccio. Quando al grido spaventato di Margherita egli si svegliò e non trovò più la sua legittima consorte, ma capì dalle parole eccitate e confuse della sua vicina ciò che era accaduto, non trovò che il caso fosse poi tanto da disperarsi e da piangerci su. Anzi gli parve un'avventura graziosa, come gliene capitavano sempre tutte le volte ch'egli si metteva in viaggio. Questa però era degna d'essere dipinta in un quadretto.

- Non la si disperi, cara signora, - cominciò a dire ridendo - non la si disperi che il perdere un marito non è più facile che il trovarlo. C'è mia moglie che non si perde di certo e che ne seguirà a punta di naso. Si calmi, stia di buon animo, poverina. Metta di aver trovato il suo papà. È una cosa più da ridere che da piangere. Ora ci fermiamo a Musocco, in casa mia e un nido ci sarà per una smarrita rondinella. Quando penso che anche la sora Ballanzini è una smarrita rondinella, mi vengono i lacrimoni...

E il buon vivacchione rideva, ma cogli occhi veramente pieni di lacrime. Da vent'anni non si era mai sentito tanto contento.

Margherita da donnina di spirito capì che c'era tutto a fidarsi di questo buon galantuomo, che aveva proprio tutta l'aria di un buon papà, e accolse la sua protezione, asciugandosi gli occhi e stendendogli una mano in segno di fiducia. Discesero a Musocco, mandarono il telegramma che s'è visto e si avviarono a braccetto bel bello come due sposini. La casa della sora Ballanzini era la prima entrando in paese, con un giardinetto davanti circondato da una cancellata. La notte era come fu descritta di sopra. Poche ne aveva vedute di più belle in quarant'anni il sor Claudio, il quale sorreggendo col suo il braccio leggiero della bella signora che il cielo gli aveva messo al fianco, come Tobia condotto dall'angelo, camminava per la strada bianca rischiarata dalla luna. Egli si sentiva diventato come una navicella vagante in un mare azzurro, e se non fosse stato che la lingua trovava una specie d'intoppo o che le cose nel salir su dal cuore gli si squagliavano in bocca come lo zucchero, se non fosse stata la sorpresa, la novità, la soggezione, il sentimento del suo dovere, della sua responsabilità, del rispetto insomma che si deve a una signora, egli le avrebbe declamata una poesia.

Vedendola assorta nei suoi pensieri, per distrarla le dimandò:

- Madama, le piace la luna?

Margherita rispose con un risolino, che parevano perle che si sfilano in una tazza d'argento.

- Brava, bene, mi piace vederla ridere. Allegri per questi cent'anni e fin che si può! non pensi a suo marito, che è ben raccomandato. Mia moglie è una donna di buona compagnia, che racconta volentieri la storia di tutti i suoi mali. Guardi, guardi che stelle, che luna e che firmamento abbiamo noi a Musocco! eppure tutte le stelle insieme non fanno, non fanno... mi permette un complimento?

- Al papà si può permetterlo.

- Non fanno i suoi due occhietti, non fanno.

- Un papà non le dice certe cose.

- Papà, papà... oh sì, lo fui anch'io una volta. Ora non lo sono più.

- È diventato nonno?

- Birba, birba... la mi guizza fuori di mano come un'anguilla. Mi piacciono le donne di spirito, mi fanno ringiovanire. Niente di peggio per me del sussiego, del muso lungo, e degli eterni malcontenti. Che cosa siamo venuti a fare a questo mondo? che cosa dice il Manzoni?... Non vi accorgete, o balordi, che noi siam vermi nati a pigliar farfalle? La mia farfalletta dalle ali d'oro io l'ho pigliata stasera, io povero vermiciattolo di Musocco...

Per fortuna giunsero davanti al cancello della casa. Paoüno, il fattore, che riconobbe da lontano la voce del padrone, venne ad aprire, ma era tanto pieno di sonno, che non pose attenzione alla padrona.

- Paolino, Teresa, Patacca, presto, dei lumi in sala.

A sentire la voce del padrone, che osava dare degli ordini in casa sua, il fattore e la gente di servizio si accorsero che qualche cosa di grande e di straordinario doveva essere accaduto; per lo meno la lepre del curato faceva peso alla sora Margherita.

Si può immaginare la loro meraviglia quando, portando i lumi, riconobbero nella signora una donnina giovane, bella come una madonnina, un visetto insomma da far ballare da sé le scarpe del Patacca piene di chiodi. Il sor Claudio strizzò l'occhio e fingendo un'aria semplice, disse loro:

- A Varese abbiamo incontrato un famoso ciarlatano, che vendeva un'acqua di giovinezza. Mia moglie n'ha bevuto un secchio e ora la vedete, non par più quella di prima.

Vedendo però lo stupore impastato sul muso di quei buoni villici, cominciò a ridere con la bocca, col ventre e colle gambe. Poi voltatosi alla sora Spazzoletti, le disse con la maggior pulizia che poté:

- Lei si accomodi e comandi come in casa sua. Qui ci sono dei libri, dei giornali, il pianoforte; intanto io vado a dare gli ordini perché sia preparato un nido degno della rondinella. Abbiamo una stanzetta al secondo piano, detta la stanza di Cecilia, che si era destinata a una nostra figliuola che ci morì di dodici anni, e non ci mettiamo a dormire che le persone più care. Dunque faccia, disponga, comandi, come se fosse veramente nella casa del papà.

Margherita strinse ancora la mano al suo ospite gentile, non senza una piccola commozione, e quando egli fu uscito, cominciò a guardarsi intorno e a pensare la stravaganza di trovarsi in quel luogo, in quell'ora, sola, fra gente sconosciuta; perduta per la via come una trovatella. Il pensiero di Poldo però stava in cima a tutti gli altri. Che cosa avrà pensato di lei? che cosa doveva ella credere di lui? Era stato un caso o un'insidia, o un castigo, o un abbandono? Ella l'aveva crudelmente offeso in faccia alla gente, ma anche lui però, anche lui l'aveva trattata di chiacchierona, di pettegola, di fringuello... che vale un pappagallo.

La sala, in cui ella si trovava, era addobbata con un gusto molto provinciale, ma con molta ricchezza di roba. Dal balconcino aperto si usciva nel giardinetto, coltivato a molti cespugli di rose, che impallidivano sotto il raggio smorto della luna. Poiché la sera era mite e chiara, Margherita uscì e si lasciò condurre da un vialetto bruno, che luccicava alla luna, fino ad una fontanella zampillante da una grotta di tufo, da dove si poteva vedere tutta la facciata della casa imbiancata e abbellita da tutti gl'incanti, che le ombre portate dalle gronde e quelle tremolanti delle piante fanno sopra gli edifici e sulle anime poetiche. Nell'angolo più remoto del giardino nereggiava un boschetto di alte conifere, pieno di segreti e di malinconie. Che volete? a Margherita balenò in cuore la immagine chiara di quella casetta, di quel paradiso tante volte sognato a braccio di Leopoldo. Addentrarsi alcun poco sotto gli alberi alla ventura di quel sentieruzzo di ghiaia, che saliva una montagnola, le parve di sentire intorno a sé quel fremito di soavissime passioni, che egli le aveva tante volte promesse. Quanto sarebbe stato bello di tornare a passeggiare, come una volta, sotto quel tempio di sempreverdi lumeggiati qua e là dal raggio piovente della luna vagolante, tutta appoggiata al braccio dell'uomo che ci ama! Perché Poldo non l'amava più? perché non era più per lui la sua Margherita? Se egli fosse uscito di dietro a quel tronco, oh! come l'avrebbe abbracciato stretto per non perderlo più! gli occhi le si riempivano di pianto e il cuore di amarezza. Quando rientrò in casa trovò il suo gentilissimo ospite, che dopo aver cambiato gli abiti, l'aspettava presso una tavola piena di biccchierini, di tondi, di biscotti, di fiori e d'altre galanterie.

- Intanto che ci scaldano un caffè, o un brodo, possiamo sedere a far quattro chiacchiere in compagnia. Tanto, è troppo presto di andare a dormire e quattro chiacchiere preparano il sonno. Se pur io potrò dormire, senza la mia dolce metà.

Margherita, dopo essersi levati il cappello e il dolman, andò a sedere in una poltroncina che il sor Claudio accostò alla tavola. Nell'avvicinarsele si trovò in piedi dietro di lei seduta e poté contemplare la ricchezza de' suoi capelli color del miele di Bormio, intrecciati con una semplicità di cui la sora Ballanzini non aveva idea. Parimenti ebbe occasione di osservare la malizia delle milanesi di indossare certi vestiti che stringono, con risparmio di stoffa e con vantaggio di chi li porta. Qui è il caso di dire che chi meno spende guadagna di più.

A Margherita toccò d'obbedire e d'accettare ciò che l'ospite le offriva con tanta cortesia. Già si erano detti scambievolmente i loro nomi e cognomi: il cavaliere Spazzoletti non era ignoto a Musocco. Quasi quasi si trovavano parenti. Anch'essa si chiamava Margherita? Che combinazioni si dànno, e che differenze! Al sor Claudio piaceva e lo spirito e i modi distinti, e la flessuosità aristocratica della signora e più di tutto quell'aguzzare delle labbra, sorseggiando il caffè, e quell'incurvare del mignolo in un certo archetto nel tener la chicchera, che a non baciarlo quel mignolo ci voleva tutta la soggezione che imponevano quegli occhi. Di discorso in discorso si tornò a parlare della povera Cecilia, morta già da dieci anni. Se ci fosse stata poteva avere giusta l'età di Margherita. Sia che quella festa di eleganza, e quella giovinezza sorridente lo ammaliassero, sia che il pensiero e l'immagine di Cecilia si confondessero in quella personcina graziosa che gli stava davanti, a poco a poco il sor Claudio divenne malinconico.

- Chi suona il piano? - domandò la signora.

- L'avevamo comperato per Cecilia, che già sapeva suonarci su qualche cosa. Lo conserviamo per memoria.

- Qui c'è della musica.

- Erano cosette che la bambina stava studiando quando morì.

- Permette che dia loro una scorsa?

- Anzi, mi farà piacere.

Margherita si mise al piano, aprì la musica e cominciò a suonare le «Violette», una mazurca semplice e graziosa. Al risentire quelle note che da forse dieci anni (cioè dal giorno che Cecilia s'era sentita male su quello sgabello) parevano morte con lei, al risentirle evocate dolcemente nel gran silenzio della notte, mentre dal giardino entrava il profumo dei fiori, il sor Claudio, sprofondato in una poltrona, chiuse gli occhi e giunse le mani in atto di preghiera. Così a occhi chiusi rievocava l'immagine di Cecilia, la ingrandiva, e aprendo gli occhi si compiaceva di vederla seduta davanti.

- Ancora - disse quando ella ebbe finito.

Quella musica che aleggiava sopra le aiuole del giardino e per gli atrii della casa non parlava solamente della povera Cecilia, ma di tutto un mondo invisibile di cose belle e gentili, che egli non aveva conosciute, ma delle quali gli pareva di avere i germi nel cuore.

- Mi pare, - disse aprendo le mani- mi pare di sentire a volar gli angeli sopra il tetto.

Poi volle che suonasse dell'altra musica, e che gustasse un altro bicchieruccio di Cipro... Finché scoccarono, fra ciarle e complimenti, le undici al campanile di Musocco.

Poiché parve l'ora di ritirarsi, il sor Claudio offrì di nuovo il suo braccio e preceduto dalla Savina, che portava i lumi, accompagnò il suo «angiolino» fin sulla soglia della cameretta destinata, messa in bianco come la stanza d'una fanciulla. Quivi, volendo lasciarla con qualche barzelletta allegra, pentito di averle parlato di morti e di malinconie, s'inchinò, tenendosi una manina di lei nelle sue, vi posò rispettosamente le labbra e con una voce, in cui si sentiva una profonda commozione, soggiunse:

- Badi a non cadere, perché io dormo di sotto.

E ridendo e piangendo, il sor Claudio un quarto d'ora dopo soffiava il lume. Se quella notte chiuse gli occhi fu per vedere una farfalla bianca che passava e ripassava svolazzando intorno al letto.


IV

La mattina seguente col treno di Arona arrivarono a Musocco il cavalier Spazzoletti e la sora Ballanzini. Quello cadde nelle braccia di Margherita esclamando: «Poverina, poverina...». Questa, dopo che il marito l'ebbe aiutata a uscire e a discendere dal vagone, lo prese per un orecchio e gli disse: «Mi dirai tutto, mostro».

Era naturale che fra gli Spazzoletti e i Ballanzini nascesse una certa amicizia. Quel giorno pranzarono insieme a Musocco. Dissipati poi tutti i dubbi della sora Ballanzini, l'amicizia continuò anche in seguito. Nove mesi dopo, i Ballanzini ricevevano dal cavaliere Spazzoletti un telegramma con queste parole: «Maschio, mandare balia».