Le ire di Giuliano

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Le ire di Giuliano

Le ire di Giuliano

Commedia in un atto

PERSONAGGI

GIOVANNA

suoi figliuoli: LUCIA

MATILDE

EMILIO

ROMOLO (dodicenne)

GIULIANO, marito di Lucia

FILIPPO

MARIA, serva di Giovanna

Stanza ammobiliata con semplicità. Una porta a destra, una al fondo.

Un tavolo in mezzo circondato da tre sedie.

SCENA PRIMA

LUCIA e MARIA

LUCIA           (preceduta da Maria). Mamma è ancora a letto?

MARIA.         Si sta vestendo! Sono appena le sette! E lei signora che raccontava sempre che prima delle dieci non si alzava?

LUCIA.          Non ero nemmeno a letto!

MARIA.         Ah! Hanno passato la notte fuori di casa?

LUCIA           (con impazienza). Sí! Sí! va a vedere se mamma è alzata.

SCENA SECONDA

GIOVANNA e DETTE

GIOVANNA.            Lucia a quest'ora?

LUCIA           (scoppiando in singhiozzi e gettandole le braccia al collo). Sí! mamma mia! a quest'ora.

GIOVANNA.            Che cosa ti è successo, mio Dio! Lui è ammalato?

LUCIA.          No, mamma!

GIOVANNA.            E allora?

LUCIA.          Maria, perdonami, ho da dire qualche cosa a mamma! Dopo lo saprai anche tu, lo sapranno tutti.

MARIA.         Vado, vado, signora! A me non ha mai interessato di sapere i fatti altrui. (Parte.)

GIOVANNA.            Ebbene? Dunque! parla!

LUCIA           (singhiozza appesa al suo collo).

GIOVANNA.            Lucia! Lucia! Ma dunque! Lucia! Mi fai morire dallo spavento!

LUCIA.          Da spaventarsi non c'è, ma da piangere! Oh! Mamma!

GIOVANNA.            Ma parla dunque!

LUCIA.          Ho fatto baruffa con Giuliano!

GIOVANNA.            E questo è tutto? Ma tu sei pazza di spaventarmi in tal modo! (Sedendosi.) Non ne posso proprio piú!

LUCIA.          Oh! mamma! Se sapessi quale notte io ho passato! Non mi gettai neppure sul letto! (Con amarezza.) Egli invece dormí come se nulla fosse accaduto!

GIOVANNA.            Dunque! racconta! Che cosa avete avuto fra di voi?

LUCIA.          Guarda, è una cosa che quasi non si può raccontare, tanto si capisce che sentendola deve apparire ridicola! Ma senti! Io non mi lagnai con te da molto tempo delle scenate di mio marito! Tu credevi di certo che non me ne facesse piú, mentre non ne sapevi perché io ne taceva temendo di affliggerti troppo. Poi sperava sempre che una buona volta egli si calmasse; quando ci si rappacificava egli prometteva sempre che sarebbe stata l'ultima volta! Invece una seguiva all'altra, senza interruzione, quasi come i minuti ai minuti!

GIOVANNA.            Oh! via!

LUCIA.          Te lo assicuro! mamma! Erano molto spesse! Nell'ultimo tempo specialmente. Io gridava, minacciava, con te sola tacevo! Con Matilde mi lagnai molte volte. Alla fine però doveva sempre fare la pace, concedere il perdono! Nell'ultimo tempo gli dissi che se ancora una volta mi lanciava insolenze, gridava o bestemmiava, io sarei sortita da quella casa, fuggita. Ebbene! oggi sono fuggita!

GIOVANNA.            Tu non parli seriamente!

LUCIA.          Tanto seriamente, tanto ponderatamente! Ci ho pensato tutta la notte! Ho vagliato una per una tutte le mie buone ragioni.

GIOVANNA.            Gli hai detto che non vuoi ritornare?

LUCIA.          No! ma gliel'ho scritto.

GIOVANNA (ridendo). Oh! la mia povera bambina! ma quanto bambina sei ancora! Non era proprio ancora tempo di sposarti! Per simili sciocchezze vuoi dividerti dal marito?

LUCIA           (a voce bassa). Mi ha bastonata!

GIOVANNA (mutando tono). Ti ha bastonata? Bastonata? Oh! Vergine santa! Bastonata? Ah! signor Giuliano villano! Oh! la mia povera figliuola!

LUCIA           (con voce molto commossa). Ieri a sera è venuto a casa già di malumore. Non so quale affare gli era andato male! Brontolò tutta la sera a cena! Gli portavano il cibo troppo lentamente, poi la carne era fredda, l'insalata condita male; poi sgridò - ma in qual modo - la serva perché ruppe un bicchiere. Io stetti zitta perché lo conosco, ma subito dopo cena mi misi a lavorare al telaio! Poco cortesemente egli m'invitò a sedere a tavola ed io non volli. Gli dissi a mo' di scusa che dovevo finire il lavoro quella sera e lui tacque per molto tempo. Covava l'ira. Tutto ad un tratto si alzò gettando a terra la sedia, mi corse addosso, prese il telaio, lo lanciò in aria; mi trascinò al tavolo e mi piegò a sedere; proprio mi sforzò, perché io, irrigidita, per spavento piú che per volere resistetti. Poi mi misi a piangere, ma non gli dissi neppur una brutta parola. A che serviva? Io voleva fare di piú: l'avevo deciso. E tutta la notte ci pensai; non chiusi occhio. Ho proprio compreso che sarei stata una sciocca a continuare a far quella vita. Perché? Per chi?

GIOVANNA (seria). È un passo grave, molto grave, quello che tu vuoi fare. Perché dovresti continuare la vita fatta finora? E non l'ami?

LUCIA.          Amarlo? Io, amarlo? Ma l'odio! (Piange. Poi singhiozzando.) Odiarlo! Neppure tanto! È uno sciocco, è un matto! Anche questa non ti ho raccontato! Egli è geloso, ossia dice d'esserlo! E sai di chi? Del cugino Filippo!

GIOVANNA (sorpresa). Del cugino Filippo?

LUCIA.          Sí, del cugino Filippo, di quello scimunito! Lo trovò due o tre volte in casa e non mi disse nulla allora; trattò con gentilezza anche quel povero disgraziato. Solo quando va riprendendo il suo stato normale, sortendo dalla collera, per ultima insolenza mi dice che io non creda che lo si possa ingannare; che lui vede, che lui ascolta e che prima o poi avrà prove piú materiali per accusarmi. Cosí senza a proposito come se vi avesse pensato sempre! Ma per chi mi tiene dunque? (Piange.)

GIOVANNA.            Bisognerà cercare di disingannarlo. Perché, chissà? Forse lui ci crede.

LUCIA.          Oh! ora a chi interessa? E poi, servirebbe? Anche prima d'aver fatto questa magnifica scoperta aveva simili assalti d'ira ed altrettanto frequenti!

GIOVANNA.            Ma è tanto tremendo?

LUCIA.          Oh! mamma mia! se tu lo vedessi! Non lo si conosce piú! Ha negli occhi un bagliore fosco; io non lo so, ma credo che cosí guardino gli assassini! Quando in quegl'istanti gli rispondevo facendo la coraggiosa, col pensiero pregavo per trovarmi preparata alla morte!

GIOVANNA.            Esageri!

LUCIA.          Oh! no mamma! È proprio cosí! (Piange.)

GIOVANNA.            E quando non è irritato come ti tratta?

LUCIA.          Conforme. Subito dopo l'ira, male. Per esempio se fossi rimasta in casa ancora per qualche giorno, mi avrebbe trattato ruvidamente, non mi avrebbe rivolto la parola. Egli dormí tutta la notte voltandomi la schiena con la testa sotto le coperte cosí che quando si alzò questa mattina aveva gli occhi rossi dal riscaldo. È uscito senza aprir bocca. Forse non andrà neppure a pranzo a casa e non s'accorgerà della mia assenza che questa sera. Sarebbe venuto a casa alla sera, calmo, ma con un aspetto indifferente, come di granito. Io solitamente non gli parlavo, ma se gli chiedevo perché non fosse venuto a pranzo mi diceva con dolcezza ma senza guardarmi: «Aveva molto da fare.» Se ne andava poi a letto senza dirigermi la parola a meno che non abbisognasse di qualche cosa e allora lo faceva dolcemente. Al mattino dopo io fingevo sempre di dormire e lui si muoveva a piano per non svegliarmi, ma prima di uscire si chinava su me, mi guardava e mi dava leggermente un bacio. Da vero ogni volta, regolarmente, faceva cosí. In principio io non sapeva continuare nella finzione e aprivo gli occhi, gli gettavo le braccia al collo e non se ne parlava piú. Ma dopo il molto esercizio che mi fece fare, appresi a fingere e continuavamo a tenerci il broncio per molti, molti giorni. Ossia il broncio? Io a lui sí, lui a me no, perché aveva un contegno spigliato, indifferente, come se il tutto non lo riguardasse. Mi parlava poco e con dolcezza, non mi si avvicinava piú di quanto assolutamente facesse bisogno. Un bel giorno ci trovavamo in pace senza saper come.

GIOVANNA.            E allora? Allora?

LUCIA           (triste). È vero, per giorni, per settimane allora mi trattava bene, amorevolmente, come nessun altro marito può trattare la moglie. Pareva impossibile che avesse ancora da dirigermi parole dure. Invece, senza ragione apparente, riacquistava un giorno il suo sguardo torvo, poi subito la parola da facchino, se non gli atti. (Piange.)

GIOVANNA.            Davvero che è incomprensibile! Bisognerebbe farlo esaminare da un medico perché assolutamente quell'uomo deve essere ammalato.

LUCIA.          È quello che dico anch'io, ma non tocca di certo a me guarirlo.

SCENA TERZA

EMILIO e DETTE

EMILIO.        Buon giorno, mamma, buon giorno Lucia. Già qui? Hai pianto?

LUCIA.          No!

EMILIO.        Hai gli occhi come se avessi pianto.

GIOVANNA.            Ed ha pianto di fatti.

EMILIO.        Perché? Sta forse poco bene il marito?

GIOVANNA.            Si direbbe. L'ha bastonata.

EMILIO.        Bastonata?

LUCIA.          No! bastonata, no! Mi ha preso un po' ruvidamente per le spalle e mi ha fatto sedere ove lui voleva.

EMILIO.        Meno male! Ma non ci dicevi due o tre giorni or sono che l'irritabilità di tuo marito s'era diminuita?

LUCIA.          Lo dicevo per fare un piacere a mamma ma non era vero.

EMILIO.        Eh! ma col tempo vedrai che ti riuscirà di migliorarlo. Ti vuole tanto bene.

LUCIA.          Ci vorrebbe troppo tempo. Io l'ho provato, son due anni che sono sposata e che lo tento.

SCENA QUARTA

MATILDE e DETTI

MATILDE.    Eri già questa mattina da me?

LUCIA.          Sí, volevo parlarti prima di venire da mamma, ma fosti troppo lenta ad alzarti ed io non ebbi pazienza di attenderti.

MATILDE.    Ho compreso subito che venivi in seguito ad una delle solite dispute con tuo marito, che interrompono la vostra eterna luna di miele.

GIOVANNA.            A te raccontava sempre dei suoi dispiaceri con il marito?

MATILDE.    Sí, sono stata io a consigliarla di non parlarne ogni volta a te.

GIOVANNA.            Hai fatto male perché se io lo avessi saputo avrei forse potuto impedire che la cosa proceda tant'oltre.

MATILDE.    Non si tratta di cosa solita?

GIOVANNA.            Stimo io! si tratta di atti villani.

MATILDE     (sorpresa). Oh! la bestia! (Poi correggendosi, a Lucia.) Scusa!

LUCIA.          Di' pure, non ne potrai mai dire quanto io ne penso.

GIOVANNA (seria). Adesso è la volta di consigliare e consigliare bene Matilde. Dille che per tali cause non ci si divide dal marito.

MATILDE     (ridendo). Dividersi? Tu hai progettato tanto?

LUCIA.          Progettato? Eseguito. Sono qui e a casa mia non ci ritorno piú.

MATILDE     (spaventata). Ma tu impazzisci!

EMILIO.        Mi meraviglio che mamma dia importanza a queste tue parole che possono esserti state suggerite da un momento d'ira.

LUCIA.          Tu t'inganni, io non sono piú irritata. E di che? Del fatto di ieri sera? Non si perde la facoltà di pensare per un fatto che non è che la ripetizione di tanti altri identici; si riprova il medesimo disgusto, un poco aumentato, molto aumentato anzi. (Adirandosi.) Anche a ripensarci soltanto mi rivolta; quando mi accade non so se piangere o ridere al cospetto di tanta rozzezza.

EMILIO.        Sei ancora sempre adirata.

LUCIA.          È vero. (Calma) Vedi però che mi calmo presto. Adesso sono interamente calma perché ho preso la mia decisione; ho pensato a tutto, ho previsto tutto.

EMILIO.        Sentiamo come hai riflettuto. Che cosa farai tu per esempio?

LUCIA.          Quella è stata la prima cosa a cui pensai. So che tu, Emilio, giungi a pena a mantenere con decoro la mamma e te. Lavorerò anch'io e procurerò anche di riavere il mio posto di maestra comunale. (Allegramente.) Chissà? Forse riesco anche ad aiutare la famiglia. Sono pronta a lavorare giorno e notte pur di vivere a canto a mamma.

GIOVANNA.            Povera la mia bionda!

EMILIO.        È questo il tuo magnifico calcolo? Non sai che questo calcolo fatto a mente fredda rovina la tua famiglia? Non è il mantenerci che ci rovinerà ma l'odio di tuo marito, anche la sola sua indifferenza. Non sai che tutti noi dipendiamo da lui? Io ho il suo appoggio, sue raccomandazioni, il marito di Matilde altrettanto e forse altro ancora? C'è Momi ch'è impiegato da lui.

LUCIA.          Oh! per i grandi vantaggi che ha Momi dal suo impiego! Credo che a quelli la famiglia può rinunciare.

EMILIO.        Ma ti ripeto, non è quella la questione! Se io ho potuto finora mantenere la mamma, se posso anche adesso pensare a maritarmi, lo devo a tuo marito.

LUCIA           (freddamente). Insomma, caro Emilio, io non avevo il dovere di pensare a tutti, io pensai a me; trovai che quella vita non potevo continuare a farla, pensai che con le mie cognizioni avrei potuto vivere indipendentemente e mi risolsi. Scrissi già persino per riavere il mio posto.

EMILIO.        Se è cosí, se di me, di tua sorella, di tua madre non t'importa nulla, allora hai fatto bene, hai fatto benone.

GIOVANNA.            Insomma, Lucia farà quello che il suo cuore le detterà. Non sono questi gli argomenti che voglio veder adoperati per convincerla.

SCENA QUINTA

MARIA, poi GIULIANO e DETTI

MARIA.         C'è il signor Giuliano che domanda se può entrare! (S'indugia alquanto, poi parte.)

LUCIA.          Già qui! Io non assisterò a questa scena!

GIULIANO.  Anzi! anzi! la pregherò di rimanere qui! (Contenuto. Lucia si avvia verso la porta a destra; Giuliano le impedisce il passo; ella lo guarda un istante in volto, poi siede, affettando calma.) Signora Giovanna; lei sa il rispetto che porto, che ho sempre portato a lei; comprenderà che deve essere una cosa molto grave che mi trascina qui, a quest'ora, in tale modo. La prego di leggere questa lettera che la sua signora figlia mi ha indirizzato quest'oggi e dirmi il suo parere. (Fruga nelle tasche e non trova subito.) Maledizione! (Poi la trova e gliela porge.)

GIOVANNA (freddamente). Se volete sedere! (Emilio premuroso porta una sedia, Giuliano vi si appoggia.) «Signore! Lei comprenderà che dopo gli avvenimenti di iersera...»

GIULIANO.  Dopo le dirò quali sieno stati questi terribili avvenimenti!

GIOVANNA.            Li conosco. «... dopo gli avvenimenti di iersera è impossibile ch'io rimanga ancora in casa sua. Mi rifugio...»

GIULIANO.  Precisamente «rifugio». Le venne già raccontato tutto? Tanto meglio!

GIOVANNA.            «Mi rifugio presso mia madre. Suppongo che Lei troverà giustificatissimo il mio procedere. Le comunico contemporaneamente che scrissi già al signor Chelmi per riavere il posto ch'ebbi il torto d'abbandonare. Lucia.»

GIULIANO.  Ebbene? Che gliene sembra?

GIOVANNA.            È forte! Ma ritorniamo agli avvenimenti, come li chiamate, di iersera. Per trascinare un uomo come voi ad atti da persona poco pulita...

GIULIANO   (con esaltazione). Ma signora! Se lei crede a tutto quello che sua figlia le racconta, darà naturalmente torto a me. Le ha raccontato ch'io l'ho bastonata?

GIOVANNA.            No! Lucia fu esatta! Lei la prese per le spalle e la costrinse a sedere.

GIULIANO.  Costrinse! costrinse! La feci sedere! La presi per le spalle? Le appoggiai le mani sulle spalle! Per farla sedere era necessario cosí.

GIOVANNA.            Ma perché? perché...?

GIULIANO   (un breve istante imbarazzato, poi scaldandosi). Perché? Ecco! Quando un uomo viene a casa... viene a casa... dopo ore, ore, ore di un lavoro uggioso... ecco! egli non ha voglia di parlare. Che cosa avrebbe da dire? Uggiarla e uggiarsi ancora parlando dei suoi lavori? E poi si ha un gruppo qui (indicandosi la gola) un gruppo formato dalla fatica, dalla noia, dall'ira. (Riposandosi.) Si viene dunque a casa. Il desiderio, naturalmente, sarebbe di sedersi là e rimanere quieto, senza pensieri, senza movimento. Si vorrebbe poi vedere attorno a sé tutt'altra cosa di quella che si vide durante la giornata. Dunque, non musoni. Si vorrebbe non sentirsi rimproverato il proprio malumore, la taciturnità, tutto ciò ch'è tanto naturale in certi uomini. Si vorrebbe...

LUCIA.          Aveva detto io qualche cosa?

GIULIANO   (senza abbadarle, rivolto a Giovanna). Occorre parlare per offendere? Vi sono silenzi che offendono piú che una parola od un atto offensivo. La signora..., vedendomi di malumore, per punirmi...

LUCIA.          Per punirvi? (Sorpresa.)

GIULIANO.  Sí! Io le dissi: Rimani qui. Ma no, ella volle allontanarsi!

LUCIA.          Chi poteva pensare che la mia presenza vi premesse tanto? Mi diceste con tanta indifferenza: Rimani qui. Io aveva da fare e mi sedetti al telaio.

GIULIANO   (sempre parlando a Giovanna). Le assicuro, signora, ch'io la osservai attentamente. Al telaio ella non aveva nulla da fare, o almeno non fece nulla.

LUCIA.          Osservaste male.

GIULIANO.  Tutto questo mi sembra adesso, del resto, molto secondario in confronto a quella lettera.

GIOVANNA.            Vi scusate tanto bene voi che potrete anche trovare delle ragioni per iscusare mia figlia, che, lo confesso, fece un atto poco pensato.

LUCIA.          Io non ho bisogno di venir scusata; io potrei forse scusare.

EMILIO.        Ma Lucia, vedi pure che lui è pronto a far pace?

GIULIANO.  Far pace? Io? Con mia moglie? Io sono venuto qui per tutt'altra cosa. Io venni per domandare semplicemente a mia moglie: (si rivolge a Lucia e gridando) Vuoi ritornare in casa mia senz'altre moine, senz'altre discussioni?

LUCIA           (fredda). No!

GIULIANO.  No? No? Veramente, no? Allora non c'è piú nulla da aggiungere. Io posso andarmene. (Si volge verso la porta, poi ritorna.) Rammentati però di aver pronunciato questo no e come lo hai pronunciato; rammentatelo acciocché non ti desti meraviglia tutto quello che ne seguirà.

GIOVANNA.            Ve ne prego, Giuliano, calmatevi. Si trattava realmente di far la pace, dopo una disputa provocata per torti d'ambidue. D'ambidue, lo ammetto, e non era quello il modo di proporla questa pace.

GIULIANO.  Eh! via! finiamola con questa pace che mi rammenta la prima fanciullezza. Non siamo ragazzi qui. Qui vi sono delle persone che hanno diritti e persone che hanno doveri. Ognuno rimanga dalla sua parte. Chi ha diritti, li esiga, chi ha doveri li compia. Ma il mio diritto io non l'intendo come voi forse ritenete. Io non moverò un capello per costringere la signora a ritornare in casa sua. Giacché vuole rimanere, rimanga, giacché volete trattenerla e abbiatela dunque, godetevela; di lei io ne ho fin qua (indica la gola).

LUCIA           (con le lagrime agli occhi). Potevate dirmelo prima. Adesso capisco perché mi maltrattavate.

GIULIANO.  Ho piacere che lo sappiate. Buon giorno. (Via, Matilde lo segue.)

EMILIO.        Ora siamo conciati per le feste.

GIOVANNA.            È orribile! Io non lo vidi mai in tale stato.

LUCIA.          E adesso, dovessi morire, in quella casa non rimetto piú piede.

GIULIANO   (rientra con Matilde che gli parla sottovoce, in atto supplichevole). Ah! Ah! Ah! Questa è buona! Ma io non posso, cara signora! proprio non posso. Dica al suo signor marito che paghi oggi. Del resto ha tempo fino a dopopranzo alle quattro! Io non posso che dargli buoni consigli! Anche per la cambialetta che scade dopodomani, provveda! Io non posso conceder dilazioni. Volentieri, ma non posso, cara signora! Ah! Ah! Ah! (Via, dopo aver dato un'occhiata a Lucia.)

MATILDE     (piange). Vedi, Lucia, siam gente rovinata.

LUCIA           (piangendo ella pure). Darei la vita per salvarvi. Ma hai pur veduto tu stessa! È un uomo col quale si possa vivere?

GIOVANNA.            Che cosa gli hai chiesto?

MATILDE.    Arturo sarà dispiacente che l'abbiate appreso. È stato Giuliano che è rientrato per raccontarvi tutto. Arturo gli deve del denaro. Oggi scade una sua cambiale di trecento fiorini e mi pregò di chiedere a Giuliano una dilazione, perché credo che non li abbia.

EMILIO.        Io lo sapevo già.

MATILDE     (mesta). Adesso ricomincia per me la bella esistenza! Mio marito riavrà le angosce di una volta nel dover far nuovi debiti per pagare i vecchi, nel dover pregare e scongiurare a destra e a sinistra. Addio buon umore in famiglia!

GIOVANNA.            Per questi trecento fiorini?

MATILDE.    Non sono soltanto questi. Questo mese scadono ancor due altre cambiali simili.

GIOVANNA (pensierosa). Questo è male, è molto male!

EMILIO.        E voi, finora, non vedete che una piccola parte dei mali che ci toccheranno dall'ira di Giuliano. Non sapete tutto il male che ci può fare.

LUCIA           (appassionatamente). Oh! vorrei che tutto questo male avesse da toccare a me; non cederei, come del resto non cederò, in nessun caso. È dunque inutile che mi piangiate d'attorno.

MATILDE     (con disprezzo). Adesso sarebbe inutile tornare indietro. Giuliano non è un ragazzo che lasci giuocare con sé. Adesso il male è fatto. (S'avvia.)

SCENA SESTA

MARIA e DETTI

MARIA.         Hanno portato una lettera per la signora Lucia.

MATILDE     (fermandosi). Forse di tuo marito. Oh! che fosse di lui.

LUCIA.          Ah! non può essere! (L'apre.) È del signor direttore Chelmi! (Legge.) «Pregiatissima signora ed amica! Debbo comunicarle con la presente che appena ebbi ricevuto questa mane la sua lettera con la quale chiedeva d'essere riammessa al posto da lei volontariamente abbandonato due anni or sono, mi fu annunciata la visita del suo signor marito. Il signor Giuliano mi sembrò molto agitato. Mi chiese se avessi ricevuto la sunnominata sua lettera e parve ne conoscesse esattamente il contenuto. Io, naturalmente, non credetti di celargli alcuna cosa, o meglio negargliene. Allora lui mi fece capire, con segni e parole di non dubbio senso, ch'egli non desiderava che lei signora riavesse il posto già occupato. Fu solo per mia prudenza che il nostro colloquio non degenerò in iscandalo, perché, lo ripeto, il signor Giuliano mi sembrò molto agitato. Ora, pregiatissima signora e cara amica, debbo confessarle ch'io non capisco molto chiaramente come stanno le cose, ma nel tempo stesso debbo dirle che è poco probabile che il consiglio scolastico rifletta sulla sua offerta perché sarò obbligato di comunicare al suddetto onorevole consiglio che il signor Giuliano suo marito non soltanto non appoggia la domanda, ma vi si oppone formalmente. Le consiglio perciò, per evitare una discussione pubblica ed un risultato come sopra descritto, di ritirare lei stessa la sua domanda. Io non parlerei in allora, né in consiglio, né altrove di essa, e neppure della visita fattami dal suo signor marito. Mi segno con perfetta stima, pregiatissima signora e cara amica - Anselmo Dr. Chelmi.» (Avvilita.) Oh! il villano.

MATILDE.    Cosí adesso tocca piangere a te!

EMILIO         (ridendo ironicamente). A questo insomma ti hanno condotto le tue profonde riflessioni durate una notte intera!

LUCIA.          Non m'importa, e sta certo, Emilio, che non dovrò ricorrere a te per vivere. (Dapprima calma, poi agitata.) Ho ancora qualche piccolo risparmio. È mio, proprio mio! non l'ho fatto in casa di Giuliano. Ho anche qualche gioiello. Oh! piccola cosa! ma intanto servirà per i primi tempi. Ad ogni modo morrò piuttosto di fame, ma non ritornerò in casa sua, mai piú!

MATILDE.    La fermezza è pure la gran bella cosa! Ne riparleremo di qui a qualche giorno. Vedrai quanto sia divenuta difficile la vita! Addio, mamma! (Via.)

GIOVANNA.            Sai, Lucia; le parole dette testé da Emilio non vanno prese mica troppo sul serio. Egli parlò cosí per indurti a fare una cosa ch'egli riteneva dovresti fare per il tuo meglio.

EMILIO.        Sí, sí, insomma, non sarò io che la caccerò di qui. Vi rimanga! Ma, acciocché siamo perfettamente in chiaro, vi ripeto ancora una volta ch'io non sono affatto d'accordo su tutta questa storia.

SCENA SETTIMA

FILIPPO e DETTI

FILIPPO        (è vestito pretenziosamente, calzoni larghissimi, giubba piccola, al collo una grande cravatta rossa; ha guanti, ed in testa un cilindro alto). Oh! buono che vi trovo qui! (Balbetta leggermente.) Lucia! ti avviso che farò andare tuo marito in prigione!

EMILIO.        Perché?

FILIPPO.       Mi ha dato uno schiaffo, mi ha dato! (Rimasto da principio serio, scoppia da ultimo in pianto.)

EMILIO.        Perché?

FILIPPO        (tenta a piú riprese di parlare, ma non gli riesce, poi). Gli ho detto che è un imbecille, gli ho detto che è un asino!

GIOVANNA.            In allora ha avuto ragione lui!

FILIPPO        (sempre piangendo). Ma lui mi ha dato prima lo schiaffo!

EMILIO.        Allora prima e dopo?

FILIPPO.       Sí. (Piange sempre.)

LUCIA.          Aspetta! (Gli versa un bicchiere d'acqua, poi) Adesso racconta!

FILIPPO.       Non è con Lei che io parlo, anzi non voglio parlare piú affatto con Lei. (Le volta le spalle piangendo.) Darmi uno schiaffo!

EMILIO.        Cioè due schiaffi!

LUCIA.          Ma non sono stata mica io a darteli!

FILIPPO.       Ma li ho ricevuti causa tua!

LUCIA.          Causa mia?

FILIPPO.       Sí, sí! proprio causa tua. Sei stata tu che hai raccontato tutto a tuo marito!

LUCIA.          Via, spieghiamoci! Che cosa tutto?

FILIPPO        (piangendo, a Giovanna). Sí, zia! Io portava molte volte dei fiori a Lucia; io le dicevo ch'era bella! Occorreva dirlo a suo marito? Giuro che del resto siamo innocenti!

LUCIA.          Grazie tante!

FILIPPO.       Non è vero forse? Bugiarda!

LUCIA           (ridendo). Ma io non ho mai detto il contrario!

FILIPPO.       Sí che lo hai detto! Lo hai detto a tuo marito!

LUCIA.          Chi ti dice questo?

FILIPPO.       Giuliano. Egli mi gridò: Lucia ha confessato tutto! Io risposi subito: Lucia è una bugiarda, perché non è vero niente. Lui allora mi ha dato uno schiaffo!... (Piange.)

LUCIA.          Vedi, mamma! In una sola giornata hai cosí imparato a conoscere tutte le virtú di Giuliano.

FILIPPO.       In istrada uno schiaffo! Passava in quel punto il padrone di casa. Non so se abbia visto perché io lo salutai sorridendo, come se mi avessero dato un bacio, acciocché lui non s'accorgesse. Ma a Giuliano non bastava questo: gridava per istrada, cosí che tutti si voltavano! Ih! Ih! Ih! è un maleducato!

EMILIO.        Povero diavolo!

FILIPPO.       Povero diavolo, io? Povero diavolo lui! Io non vorrei essere nei suoi panni! Ih! Ih! Ih! Lo farò mettere in prigione!

LUCIA.          Cosa gridava in istrada?

FILIPPO.       Io non ho capito tutto. Ho inteso soltanto una parte. Diceva che io vado per le case a portare il disonore. «All'altra ci penserò» disse poi. (Come ricordandosi a poco a poco.) Ed anche: «In una bella famigliaccia sono entrato!»

GIOVANNA.            Ha detto anche questo? Oh! l'infame!

FILIPPO.       Ve lo giuro, zia!

SCENA OTTAVA

ROMOLO e DETTI

GIOVANNA.            A quest'ora Momi a casa?

ROMOLO.     Mamma, voglio andare a letto.

GIOVANNA.            Sei ammalato?

ROMOLO      (Esitante, molto commosso). Sí, sto male.

GIOVANNA.            Su, di', che cos'hai? (Romolo non risponde.) Male di gola? Ma parla! (Romolo si mette a piangere.)

LUCIA.          Ho capito! Anche lui!

GIOVANNA.            Giuliano ti ha fatto del male?

ROMOLO.     Come lo sapete?

GIOVANNA.            Dunque ti ha fatto del male?

ROMOLO.     Male, male proprio no, ma voleva farmene. Io sono scappato.

GIOVANNA.            Oh! adesso poi ne ho abbastanza! Vedremo se bastonerà anche me! Maria! Maria!

LUCIA.          Vuoi andare da lui? No, mamma, che non offenda anche te!

GIOVANNA.            Questa la vedremo! Maria!

MARIA.         Comandi!

GIOVANNA.            Dammi lo scialle ed il cappello. (Maria eseguisce.)

LUCIA.          Non adesso, mamma. Non è meglio attendere qualche giorno? Dopo potrai dirgli quello che vuoi, lui a te non perde il rispetto. Adesso potresti davvero udire delle brutte cose.

GIOVANNA.            Intanto lui ne udrà delle belle da me. (A Romolo.) E adesso, tu spicciati; raccontami ma con esattezza quello che a te fece.

ROMOLO.     Mi prese per un'orecchia, me la tirò un poco, ma poco, mi portò fuori della porta e mi disse: Tu non rimetter mai piú piede qui.

GIOVANNA (avviandosi). Ah! la vedremo.

LUCIA.          Ma perché?

GIOVANNA (fermandosi). Perché? Mi pare che lo sappiamo meglio noi che lui.

LUCIA.          Non ti disse nulla prima di farti quest'affronto?

ROMOLO.     Prima di tirarmi l'orecchio? Mi sgridò perché avevo fatto un grosso errore in un conteggio.

GIOVANNA.            Molto grosso?

ROMOLO.     Quali ne feci ogni giorno, e non so perché oggi si sia adirato piú del consueto.

GIOVANNA.            Lo so ben io. Me ne posso dunque andare. Non c'è altra ragione? Ricordati che se ce n'è un'altra io vo' a fare una pessima figura.

ROMOLO.     No, mamma! proprio non c'è altro.

GIOVANNA.            Proprio?

ROMOLO.     Ti do la mia parola d'onore, mamma!

GIOVANNA.            Allora a noi due! (Via.)

FILIPPO.       Ah! ora capisco! L'ha dunque con voi tutti, non con me solo! Dunque è cosa che non mi riguarda! È affare interno della vostra famiglia!

LUCIA.          Fatemi il piacere, Filippo, andatevene!

FILIPPO.       Perché? Che cosa vi feci?

LUCIA.          Nulla! Vi avverto soltanto che potreste compromettervi!

FILIPPO.       Eh, via! Un uomo!

LUCIA.          Ma sapete molto bene cosa succede quando vi compromettete. (Fa segno di ricever legnate.)

FILIPPO        (mostrando dubbio e allegramente). Chi sa che cosa aveva quest'oggi Giuliano per il capo! Si sfogava con me, ecco tutto! Voi dovete avergliene fatte di belle per averlo ridotto in quello stato.

SCENA NONA

GIULIANO e DETTI

GIULIANO   (si presenta improvvisamente alla porta di fondo e vi rimane; Filippo e Romolo danno un grido di spavento). Ebbene! (È serio, compassato, si capisce però che si frena a stento.) Romolo! tu ritornerai al mio scrittoio. Sono venuto qui per te! A te io non voleva fare del male. Te ne ho fatto forse?

ROMOLO.     No! no! un poco soltanto all'orecchio.

GIULIANO   (con pena). Ebbene! scusami!

ROMOLO.     Oh! te ne prego! Scusarti io, ma anzi!

GIULIANO   (va a lui e gli dà un bacio). A te ho sempre voluto bene. Ci voleva molto sangue alla testa per portarmi a farti del male.

FILIPPO.       Ebbene! cugino! Siamo rinsaviti? Neppure a me avete fatto molto male. Un'altra volta però non fatelo in istrada!

GIULIANO.  Badate, scimunito, di non venirmi piú tra' piedi! Potrei accogliervi a calci!

FILIPPO        (stupefatto un istante, poi). Ah! la è cosí! Io veniva tutto buono a fare la pace e voi m'accogliete in tal modo? Aspettate! Ve la farò vedere io... (Uno sguardo di Giuliano lo fa restar perplesso, poi) Sentirete a parlare di me! (Via.)

GIULIANO.  Vieni, Romolo!

ROMOLO.     Vorrei attendere prima la mamma. Anzi forse la troviamo da te. Andiamo.

GIULIANO.  È venuta da me? A che farci?

ROMOLO      (sorridendo). Credo che voleva sgridarti per quella tirata d'orecchi che mi hai dato.

GIULIANO.  Allora lascia che vada solo. (p.p.)

LUCIA.          Giuliano!

GIULIANO.  Che vuole?

LUCIA.          Se mamma voleva farvi dei rimproveri ella ne aveva il diritto. Non era ben fatto di sfogarsi con un povero ragazzo che non vi aveva fatto nulla!

GIULIANO.  Oh! fatto nulla! Gli aveva dato da fare un conteggio e me lo diede pieno zeppo di errori.

LUCIA.          Ve ne prego, dunque, Giuliano, non fateci piú del male. Lasciate questo ragazzo qui, non occorre lo tratteniate piú, ma non cercate di trovare mamma per dirle insolenze, non perseguitate il cognato che vi deve denari; egli non ha nulla di comune con me. Non colpite me facendo del male a lui.

GIULIANO.  Ma foste voi che mi pregaste di favorirlo; ora non ci siete piú voi ed io non intendo di gettar piú il mio danaro a persone le quali per nessun titolo vi hanno diritto.

LUCIA.          Voi siete un uomo pessimo ed io non saprò mai pentirmi abbastanza di avervi amato.

GIULIANO   (frenandosi). Ditelo pure, io non m'adiro piú. L'ho deciso, proprio deciso. Ma vorrei sapere quali persone voi diciate essere cattive e quali buone. Se la bontà equivale per voi ad imbecillità, allora io non sono buono. (Interrompendosi.) E poi sentite! Se voi credete che esser buoni significhi saper tollerare, perdonare, allora non siete buona neppur voi. Ogni altra donna mi avrebbe perdonato, mi avrebbe sopportato, perché io era un buon marito nel resto. Lasciai che vi mancasse mai nulla? Non feci il possibile per sollevare dalla miseria, dalla miseria - credetemelo -, anche i vostri parenti? E dopo tanti benefici da me avuti credete di aver il diritto di adontarvi per una parola mal detta, per un atto un po' brusco? (Fuori di sé.) Non lo avevate questo diritto! ve lo dico io! Il vostro dovere sarebbe stato di baciare la polvere mossa dai miei piedi.

LUCIA           (molto commossa). Naturalmente che con queste vostre idee sui miei doveri coniugali non poteva risultare dalla nostra unione una certa felicità.

GIULIANO   (sempre piú adirato). Erano le mie, le mie idee che impedivano la felicità della nostra unione? O quando si manifestavano queste mie idee? Quando vi rimproverai i miei benefici?

LUCIA.          In questo stesso istante.

GIULIANO.  Perché li vedeva negati, ma prima, quando ve li rammentai? Ve ne parlai tanto poco che non li conoscevate tutti perché voi non sapevate che io dava dei danari a vostro cognato e per i vostri begli occhi. Non parlatemi per qualche istante, Lucia; mi era proposto di rimaner calmo e non mi riesce... del tutto. (Siede al tavolo e stringe sussultando la testa fra le mani.)

LUCIA.          Non so vedervi in questo stato.

GIULIANO   (serio, non calmo). Lo so; vi faccio spavento. Eppure io non feci mai molto male a nessuno. Ho avuto torto di sposarvi. C'era mia madre che aveva il medesimo mio carattere; perciò quando si disputava, l'ira tra noi durava delle settimane. Pensai vedendovi cosí bionda, coi vostri miti occhi azzurri che con voi un malumore non potrebbe durare piú di un giorno. Dopo le settimane d'ira con mia madre, ci si gettava fra le braccia piangendo, chiedendoci vicendevolmente scusa. Con voi l'ira dura meno; ma non si è mai interamente rappatumati; voi non sapete perdonare. (Ironico.) Anche voi avete avuto torto di sposare un macellaio, quantunque avesse dei danari.

LUCIA.          Giuliano!

GIULIANO.  Non voleva mica dirvi che mi avete sposato per i miei danari; voleva constatare un vostro torto e provarvi una volta di piú che ne avete.

LUCIA           (agitata). Abbiamo dunque avuto torto di sposarci ambedue; l'avete detto voi stesso. Dividiamoci dunque; ripariamo almeno in parte al mal fatto.

GIULIANO   (sospettoso e ironico). Nel contratto di nozze vi ho assicurato una contraddote, se non m'inganno.

LUCIA           (con forza). Ed io vi rinuncio!

GIULIANO   (passeggia agitato). Pensate dunque seriamente a questa divisione?

LUCIA.          Lo vedete pure che bisogna!

GIULIANO   (abbracciandola appassionatamente). Non bisogna, non bisogna, Lucia! Senti Lucia! Guardami in volto. Non vedi che ho ancor sempre qui e qui (toccandosi la fronte ed il cuore) un turbine e che pure riesco a padroneggiarmi? Non sono calmo? Ti tengo fra le braccia e piú che di baciarti proverei il desiderio di strozzarti e non lo faccio. (La bacia.) Perché vuoi fuggirmi quando per te sono tutt'altro che pericoloso, quando tutti i tuoi interessi e quelli della tua famiglia ti comandano di amarmi?

LUCIA           (cercando di svincolarsi). Oh! Giuliano!

GIULIANO.  Ma non parlo d'interessi, parlo di amore. Non m'ami dunque affatto, che mi abbandoni quando maggiormente avrei bisogno di te? In quella orribile macelleria mi lasci solo a migliorarmi il carattere? Eppure se c'era qualcheduno che poteva migliorarmelo, guarirmi, eri tu. Non vedi che oggi, nella mia ira ancora, ti prego, ti scongiuro di rimanere con me?

LUCIA.          Sí, ma...

GIULIANO.  Non ma, non dire alcun ma, perché io corro il rischio di perdere nuovamente la testa. No, vieni subito.(La trascina verso la porta.)

LUCIA           (ridendo). Ma...

GIULIANO   (irritatissimo). Ancora ma?

LUCIA           (c.s.) Cosí? Senza cappello?

GIULIANO   (saltandole al collo). Oh! grazie! grazie!

LUCIA           (pregando). Ma sii buono!

GIULIANO.  Non te lo promisi?

LUCIA.          E non attenderemo mamma?

GIULIANO   (offuscandosi). No, no, andiamocene, ché non mi tocchi udire altri rimproveri. (Dopo un istante di riflessione.) Faremo cosí. (Chiama.) Maria!

MARIA.         Comandi?

GIULIANO.  Dia il cappello a Lucia e dica alla signora Giovanna... (esitando un istante) le dica che sono venuto a prender mia moglie... e il mio impiegato (Verso Romolo.)

MARIA          (allegramente). Va bene! So che darò una buona notizia alla signora! (Dà il cappello a Lucia che se lo mette.)

GIULIANO   (fosco). Anche la serva ne sapeva?

LUCIA.          Che te ne importa?

GIULIANO   (si passa una mano sulla fronte, poi sorridente e calmo offre il braccio a Lucia). E andiamocene! (Via con Lucia.)

ROMOLO      (si è messo il cappello, a Maria). Dica a mamma che non occorre fare altri rimproveri a Giuliano. Mi ha chiesto scusa e io gli ho perdonato. È dunque affare finito.

GIULIANO   (rientra e con voce irritatissima). Vuoi dunque venire, imbecille, che ti attendiamo da mezz'ora?

ROMOLO.     Vengo! vengo! (Corre)