Le smanie per la villeggiatura

Stampa questo copione

LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA

LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti

(1761)


PERSONAGGI

Filippo, cittadino, vecchio, e gioviale

Giacinta,  figliuola di Filippo

Leonardo, amante di Giacinta

Vittoria, sorella di Leonardo

Ferdinando, scrocco

Guglielmo, amante di Giacinta

Fulgenzio, attempato amico di Filippo

Paolo, cameriere di Leonardo

Brigida, cameriera di Giacinta

Cecco, servitore di Leonardo

Berto, servitore di Leonardo

La scena si rappresenta a Livorno, parte in casa di Leonardo, e parte in quella di Filippo.


L'AUTORE A CHI LEGGE

L'innocente divertimento della campagna è divenuto a' dì nostri una passione, una manìa, un disordine. Virgilio, il Sannazzaro, e tanti altri panegiristi della vita campestre, hanno innamorato gli uomini dell'amena tranquillità del ritiro; ma l'ambizione ha penetrato nelle foreste: i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle Città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori, i quali dalla superbia de' loro padroni apprendono la loro miseria. Quest'argomento è sì fecondo di ridicolo e di stravaganze, che mi hanno fornito materia per comporre cinque Commedie, le quali sono tutte fondate sulla verità: eppure non si somigliano.

Dopo aver dato al pubblico i Malcontenti e la Villeggiatura, la prima nel Tomo terzo, la seconda nel Tomo quarto del mio Teatro Comico dell'edizion del Pitteri; ho trovato ancora di che soddisfarmi e di che fornire, non so s'io dica il mio capriccio o il mio zelo, contro un simile fanatismo. Ho concepita nel medesimo tempo l'idea di tre commedie consecutive. La prima intitolata: Le Smanie per la Villeggiatura; la seconda: Le Avventure della Villeggiatura; la terza; Il Ritorno dalla Villeggiatura. Nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono. I personaggi principali di queste tre rappresentazioni, che sono sempre gli stessi, sono di quell'ordinedi persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri. L'ambizione de' piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch'io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile.

Queste tre Commedie, fortunate egualmente pel loro incontro, e per l'universale aggradimento del pubblico, sono state separatamente rappresentate con una distanza di qualche tempo dall'una all'altra, essendo con tal arte composte, che ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre insieme si uniscono perfettamente. Poteva io dunque per la stessa ragione separarle ne' Tomi della mia novella edizione, contentandomi di dare una Commedia inedita per ciascheduno, a tenore della promessa. Ma ho esaminato il fondo che ho ancora delle cose inedite: veggo che posso abbondare senza timor che mi manchino, ed ho piacere di dar unito un quadro, che piacerà davantaggio.

Osserverà meglio così il Leggitore la continuazion de' caratteri sostenuti in tre differenti azioni; e se una delle difficoltà del Dramma consiste nel sostenere i caratteri in un'opera sola, piacerà ancor più vederli in tre sostenuti.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera in casa di Leonardo.

Paolo  che sta riponendo degli abiti e della biancheria in un baule, poi Leonardo.

LEONARDO:             Che fate qui in questa camera? Si han da far cento cose, e voi perdete il tempo, e non se ne eseguisce nessuna. (A Paolo.)

PAOLO:                      Perdoni, signore. Io credo che allestire il baule sia una delle cose necessarie da farsi.

LEONARDO:             Ho bisogno di voi per qualche cosa di più importante. Il baule fatelo riempir dalle donne.

PAOLO:                      Le donne stanno intorno della padrona; sono occupate per essa, e non vi è caso di poterle nemmen vedere.

LEONARDO:             Quest'è il diffetto di mia sorella. Non si contenta mai. Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei. Per andare in villeggiatura non le basta un mese per allestirsi. Due donne impiegate un mese per lei. È una cosa insoffribile.

PAOLO:                      Aggiunga, che non bastandole le due donne, ne ha chiamate due altre ancora in aiuto.

LEONARDO:             E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa qualche nuovo vestito?

PAOLO:                      Non, signore. Il vestito nuovo glielo fa il sarto. In casa da queste donne fa rinovare i vestiti usati. Si fa fare delle mantiglie, de' mantiglioni, delle cuffie da giorno, delle cuffie da notte, una quantità di forniture di pizzi, di nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per andare in campagna. In oggi la campagna è di maggior soggezione della città.

LEONARDO:             Sì, è pur troppo vero, chi vuol figurare nel mondo, convien che faccia quello che fanno gli altri. La nostra villeggiatura di Montenero è una delle più frequentate, e di maggior impegno dell'altre. La compagnia, con cui si ha da andare, è di soggezione. Sono io pure in necessità di far di più di quello che far vorrei. Però ho bisogno di voi. Le ore passano, si ha da partir da Livorno innanzi sera, e vo' che tutto sia lesto, e non voglio, che manchi niente.

PAOLO:                      Ella comandi, ed io farò tutto quello che potrò fare.

LEONARDO:             Prima di tutto, facciamo un poco di scandaglio di quel, che c'è, e di quello, che ci vorrebbe. Le posate ho timore che siano poche.

PAOLO:                      Due dozzine dovrebbero essere sufficienti.

LEONARDO:             Per l'ordinario lo credo anch'io. Ma chi mi assicura, che non vengano delle truppe d'amici? In campagna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati. Le posate si mutano frequentemente, e due coltelliere non bastano.

PAOLO:                      La prego perdonarmi, se parlo troppo liberamente. Vossignoria non è obbligata di fare tutto quello che fanno i marchesi fiorentini, che hanno feudi e tenute grandissime, e cariche, e dignità grandiose.

LEONARDO:             Io non ho bisogno che il mio cameriere mi venga a fare il pedante.

PAOLO:                      Perdoni; non parlo più.

LEONARDO:             Nel caso, in cui sono, ho da eccedere le bisogna. Il mio casino di campagna è contiguo a quello del signor Filippo. Egli è avvezzo a trattarsi bene; è uomo splendido, generoso; le sue villeggiature sono magnifiche, ed io non ho da farmi scorgere, non ho da scomparire in faccia di lui.

PAOLO:                      Faccia tutto quello che le detta la sua prudenza.

LEONARDO:             Andate da monsieur Gurland, e pregatelo per parte mia, che mi favorisca prestarmi due coltelliere, quattro sottocoppe, e sei candelieri d'argento.

PAOLO:                      Sarà servita.

LEONARDO:             Andate poscia dal mio droghiere, fatevi dare dieci libbre di caffè, cinquanta libbre di cioccolata, venti libbre di zucchero, e un sortimento di spezierie per cucina.

PAOLO:                      Si ha da pagare?

LEONARDO:             No, ditegli, che lo pagherò al mio ritorno.

PAOLO:                      Compatisca; mi disse l'altrieri, che sperava prima ch'ella andasse in campagna, che lo saldasse del conto vecchio.

LEONARDO:             Non serve. Ditegli, che lo pagherò al mio ritorno.

PAOLO:                      Benissimo.

LEONARDO:             Fate, che vi sia il bisogno di carte da giuoco con quel che può occorrere per sei, o sette tavolini, e soprattutto che non manchino candele di cera.

PAOLO:                      Anche la cereria di Pisa, prima di far conto nuovo, vorrebbe esser pagata del vecchio.

LEONARDO:             Comprate della cera di Venezia. Costa più, ma dura più, ed è più bella.

PAOLO:                      Ho da prenderla coi contanti?

LEONARDO:             Fatevi dare il bisogno; si pagherà al mio ritorno.

PAOLO:                      Signore, al suo ritorno ella avrà una folla di creditori, che l'inquieteranno.

LEONARDO:             Voi m'inquietate più di tutti. Sono dieci anni che siete meco, e ogni anno diventate più impertinente. Perderò la pazienza.

PAOLO:                      Ella è padrona di mandarmi via; ma io, se parlo, parlo per l'amore che le professo.

LEONARDO:             Impiegate il vostro amore a servirmi, e non a seccarmi. Fate quel che vi ho detto, e mandatemi Cecco.

PAOLO:                      Sarà obbedita. (Oh! vuol passar poco tempo, che le grandezze di villa lo vogliono ridurre miserabile nella città). (Parte.)

SCENA SECONDA

Leonardo, poi Cecco.

LEONARDO:             Lo veggo anch'io, che faccio più di quello che posso fare; ma lo fanno gli altri, e non voglio esser di meno. Quell'avaraccio di mio zio potrebbe aiutarmi, e non vuole. Ma se i conti non fallano, ha da crepare prima di me, e se non vuol fare un'ingiustizia al suo sangue, ho da esser io l'erede delle sue facoltà.

CECCO:                      Comandi.

LEONARDO:             Va' dal signor Filippo Ghiandinelli; se è in casa, fagli i miei complimenti, e digli che ho ordinato i cavalli di posta, e che verso le ventidue partiremo insieme. Passa poi all'appartamento della signora Giacinta di lui figliuola; dille, o falle dir dalla cameriera, che mando a riverirla, e ad intendere come ha riposato la scorsa notte, e che da qui a qualche ora sarò da lei. Osserva frattanto, se vi fosse per avventura il signor Guglielmo, e informati bene dalla gente di casa, se vi sia stato, se ha mandato, e se credono ch'ei possa andarvi. Fa bene tutto, e torna colla risposta.

CECCO:                      Sarà obbedita. (Parte.)

SCENA TERZA

Leonardo, poi Vittoria.

LEONARDO:             Non posso soffrire che la signora Giacinta tratti Guglielmo. Ella dice che dee tollerarlo per compiacere il padre; che è un amico di casa, che non ha veruna inclinazione per lui; ma io non sono in obbligo di creder tutto, e questa pratica non mi piace. Sarà bene che io medesimo solleciti di terminare il baule.

VITTORIA:                Signor fratello, è egli vero che avete ordinato i cavalli di posta, e che si ha da partir questa sera?

LEONARDO:             Sì certo. Non si stabilì così fin da ieri?

VITTORIA:                Ieri vi ho detto che sperava di poter essere all'ordine per partire; ma ora vi dico che non lo sono, e mandate a sospendere l'ordinazion dei cavalli, perché assolutamente per oggi non si può partire.

LEONARDO:             E perché per oggi non si può partire?

VITTORIA:                Perché il sarto non mi ha terminato il mio mariage.

LEONARDO:             Che diavolo è questo mariage?

VITTORIA:                È un vestito all'ultima moda.

LEONARDO:             Se non è finito, ve lo potrà mandare in campagna.

VITTORIA:                No, certo. Voglio che me lo provi, e lo voglio veder finito.

LEONARDO:             Ma la partenza non si può differire. Siamo in concerto d'andar insieme col signor Filippo, e colla signora Giacinta, e si ha detto di partir oggi.

VITTORIA:                Tanto peggio. So che la signora Giacinta è di buon gusto, e non voglio venire col pericolo di scomparire in faccia di lei.

LEONARDO:             Degli abiti ne avete in abbondanza; potete comparire al par di chi che sia.

VITTORIA:                Io non ho che delle anticaglie.

LEONARDO:             Non ve ne avete fatto uno nuovo anche l'anno passato?

VITTORIA:                Da un anno all'altro gli abiti non si possono più dire alla moda. È vero, che li ho fatti rifar quasi tutti; ma un vestito novo ci vuole, è necessario, e non si può far senza.

LEONARDO:             Quest'anno corre il mariagedunque.

VITTORIA:                Sì, certo. L'ha portato di Torino madama Granon. Finora in Livorno non credo che se ne siano veduti, e spero d'esser io delle prime.

LEONARDO:             Ma che abito è questo? Vi vuol tanto a farlo?

VITTORIA:                Vi vuol pochissimo. È un abito di seta di un color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori. Tutto consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uniscano bene, che risaltino, e non facciano confusione.

LEONARDO:             Orsù, non so che dire. Mi spiacerebbe di vedervi scontenta; ma in ogni modo s'ha da partire.

VITTORIA:                Io non vengo assolutamente.

LEONARDO:             Se non ci verrete voi, ci anderò io.

VITTORIA:                Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi in Livorno?

LEONARDO:             Verrò poi a pigliarvi.

VITTORIA:                No, non mi fido. Sa il Cielo, quando verrete, e se resto qui senza di voi, ho paura che quel tisico di nostro zio mi obblighi a restar in Livorno con lui; e se dovessi star qui, in tempo che l'altre vanno in villeggiatura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione.

LEONARDO:             Dunque risolvetevi di venire.

VITTORIA:                Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto, ed a terminare il mio mariage.

LEONARDO:             Io non ho tempo da perdere. Ho da far cento cose.

VITTORIA:                Maledetta la mia disgrazia!

LEONARDO:             Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema. (Ironico.)

VITTORIA:                Sì, signore, la mancanza di un abito alla moda può far perder il credito a chi ha fama di essere di buon gusto.

LEONARDO:             Finalmente siete ancora fanciulla, e le fanciulle non s'hanno a mettere colle maritate.

VITTORIA:                Anche la signora Giacinta è fanciulla, e va con tutte le mode, con tutte le gale delle maritate. E in oggi non si distinguono le fanciulle dalle maritate, e una fanciulla che non faccia quello che fanno l'altre, suol passare per zotica, per anticaglia; e mi maraviglio che voi abbiate di queste massime, e che mi vogliate avvilita e strapazzata a tal segno.

LEONARDO:             Tanto fracasso per un abito?

VITTORIA:                Piuttosto che restar qui, o venir fuori senza il mio abito, mi contenterei d'avere una malattia.

LEONARDO:             Il Cielo vi conceda la grazia.

VITTORIA:                Che mi venga una malattia? (Con isdegno.)

LEONARDO:             No, che abbiate l'abito, e che siate contenta.

SCENA QUARTA

Berto e detti.

BERTO:                      Signore, il signor Ferdinando desidera riverirla. (A Leonardo.)

LEONARDO:             Venga, venga, è padrone.

VITTORIA:                Sentimi. Va immediatamente dal sarto, da monsieur de la Réjouissance, e digli che finisca subito il mio vestito, che lo voglio prima ch'io parta per la campagna, altrimenti me ne renderà conto, e non farà più il sarto in Livorno.

BERTO:                      Sarà servita. (Parte.)

LEONARDO:             Via, acchetatevi, e non vi fate scorgere dal signor Ferdinando.

VITTORIA:                Che importa a me del signor Ferdinando? Io non mi prendo soggezione di lui. M'immagino che anche quest'anno verrà in campagna a piantare il bordone da noi.

LEONARDO:             Certo, mi ha dato speranza di venir con noi, e intende di farci una distinzione; ma siccome è uno di quelli che si cacciano da per tutto, e si fanno merito rapportando qua e là i fatti degli altri, convien guardarsene e non fargli sapere ogni cosa; perché se sapesse le vostre smanie per l'abito, sarebbe capace di porvi in ridicolo in tutte le compagnie, in tutte le conversazioni.

VITTORIA:                E perché dunque volete condur con noi questo canchero, se conoscete il di lui carattere?

LEONARDO:             Vedete bene: in campagna è necessario aver della compagnia. Tutti procurano d'aver più gente che possono; e poi si sente dire: il tale ha dieci persone, il tale ne ha sei, il tale otto, e chi ne ha più, è più stimato. Ferdinando poi è una persona che comoda infinitamente. Gioca a tutto, è sempre allegro, dice delle buffonerie, mangia bene, fa onore alla tavola, soffre la burla, e non se ne ha a male di niente.

VITTORIA:                Sì, sì, è vero; in campagna questi caratteri sono necessari. Ma che fa, che non viene?

LEONARDO:             Eccolo lì, ch'esce dalla cucina.

VITTORIA:                Che cosa sarà andato a fare in cucina?

LEONARDO:             Curiosità. Vuol saper tutto. Vuol saper quel che si fa, quel che si mangia, e poi lo dice per tutto.

VITTORIA:                Manco male, che di noi non potrà raccontare miserie.

SCENA QUINTA

Ferdinando e detti.

FERDINANDO:         Padroni miei riveriti. Il mio rispetto alla signora Vittoria.

VITTORIA:                Serva, signor Ferdinando.

LEONARDO:             Siete, amico, siete dei nostri?

FERDINANDO:         Sì, sarò con voi. Mi sono liberato da quel seccatore del conte Anselmo, che mi voleva seco per forza.

VITTORIA:                Il conte Anselmo non fa una buona villeggiatura?

FERDINANDO:         Sì, si tratta bene, fa una buona tavola; ma da lui si fa una vita troppo metodica. Si va a cena a quattr'ore, e si va a letto alle cinque.

VITTORIA:                Oh! io non farei questa vita per tutto l'oro del mondo. Se vado a letto prima dell'alba, non è possibile ch'io prenda sonno.

LEONARDO:             Da noi sapete come si fa. Si gioca, si balla; non si va mai a cena prima delle otto; e poi col nostro carissimo faraoncino il più delle volte si vede il sole.

VITTORIA:                Questo si chiama vivere.

FERDINANDO:         E per questo ho preferito la vostra villeggiatura a quella del conte Anselmo. E poi quell'anticaglia di sua moglie è una cosa insoffribile.

VITTORIA:                Sì, sì, vuol fare ancora la giovinetta.

FERDINANDO:         L'anno passato, i primi giorni sono stato io il cavalier servente; poi è capitato un giovanetto di ventidue anni, e ha piantato me per attaccarsi a lui.

VITTORIA:                Oh! che ti venga il bene. Con un giovanetto di ventidue anni?

FERDINANDO:         Sì, e mi piace di dire la verità; era un biondino, ben cincinato, bianco e rosso come una rosa.

LEONARDO:             Mi maraviglio di lui, che avesse tal sofferenza.

FERDINANDO:         Sapete, com'è? È uno di quelli che non hanno il modo, che si appoggiano qua e là, dove possono; e si attaccano ad alcuna di queste signore antichette, le quali pagano loro le poste, e danno loro qualche zecchino ancor per giocare.

VITTORIA:                (È una buona lingua per altro).

FERDINANDO:         A che ora si parte?

VITTORIA:                Non si sa ancora. L'ora non è stabilita.

FERDINANDO:         M'immagino che anderete in una carrozza da quattro posti.

LEONARDO:             Io ho ordinato un calesso per mia sorella e per me, ed un cavallo per il mio cameriere.

FERDINANDO:         Ed io come vengo?

LEONARDO:             Come volete.

VITTORIA:                Via, via. Il signor Ferdinando verrà con me, voi anderete nello sterzo col signor Filippo e la signora Giacinta. (A Leonardo.) (Farò meglio figura a andar in calesso con lui, che con mio fratello).

LEONARDO:             Ma siete poi risolta di voler partire? (A Vittoria.)

FERDINANDO:         Che? Ci ha qualche difficoltà?

VITTORIA:                Vi potrebbe essere una picciola difficoltà.

FERDINANDO:         Se non siete sicuri di partire, ditemelo liberamente. Se non vado con voi, andrò con qualchedun altro. Tutti vanno in campagna, e non voglio che dicano, ch'io resto a far la guardia a Livorno.

VITTORIA:                (Sarebbe anche per me una grandissima mortificazione).

SCENA SESTA

Cecco e detti.

CECCO:                      Son qui, signore... (A Leonardo.)

LEONARDO:             Accostati. (A Cecco.) Con licenza. (A Ferdinando.)

CECCO:                      (Il signor Filippo la riverisce, e dice che circa ai cavalli da posta, riposa sopra di lei. La signora Giacinta sta bene; lo sta attendendo, e lo prega sollecitare, perché di notte non ha piacer di viaggiare).

LEONARDO:             (E di Guglielmo mi sai dir niente?).

CECCO:                      (Mi assicurano che questa mattina non si è veduto).

LEONARDO:             (Benissimo: son contento). Andrai ad avvisare il fattore della posta, che siano lesti i cavalli per ventun'ora.

VITTORIA:                Ma se quell'affare non fosse in ordine?...

LEONARDO:             Ci sia, o non ci sia. Venite, o non venite, io vo' partire alle ventun'ora...

FERDINANDO:         Ed io per le ventuna sarò qui preparato.

VITTORIA:                Vorrei vedere ancor questa...

LEONARDO:             Sono in impegno, e per una scioccheria voi non mi farete mancare. Se vi fossero delle buone ragioni, pazienza; ma per uno straccio d'abito non si ha da restare. (A Vittoria, e parte.)

SCENA SETTIMA

Vittoria, Ferdinando e Cecco.

VITTORIA:                (Povera me, in che condizione miserabile che mi trovo! Non son padrona di me; ho da dipendere dal fratello. Non veggo l'ora di maritarmi; niente per altro, che per poter fare a mio modo).

FERDINANDO:         Ditemi in confidenza, signora, se si può dire: che cosa vi mette in dubbio di partire o di non partire?

VITTORIA:                Cecco.

CECCO:                      Signora.

VITTORIA:                Sei tu stato dalla signora Giacinta?

CECCO:                      Sì, signora.

VITTORIA:                L'hai veduta?

CECCO:                      L'ho veduta.

VITTORIA:                E che cosa faceva?

CECCO:                      Si provava un abito.

VITTORIA:                Un abito nuovo?

CECCO:                      Novissimo.

VITTORIA:                (Oh maledizione! Se non ho il mio, non parto assolutamente).

FERDINANDO:         (E che sì, ch'ella pure vorrebbe un vestito nuovo, e non ha denari per farselo? Già tutti lo dicono: fratello e sorella sono due pazzi. Spendono più di quello che possono, e consumano in un mese a Montenero quello che basterebbe loro un anno in Livorno).

VITTORIA:                Cecco.

CECCO:                      Signora.

VITTORIA:                E com'è quest'abito della signora Giacinta?

CECCO:                      Per dir la verità, non ci ho molto badato, ma credo sia un vestito da sposa.

VITTORIA:                Da sposa? Hai tu sentito dire, che si faccia la sposa?

CECCO:                      Non l'ho sentito dire precisamente. Ma ho inteso una parola francese, che ha detto il sarto, che mi par di capirla.

VITTORIA:                Intendo anch'io il francese. Che cosa ha detto?

CECCO:                      Ha detto mariage.

VITTORIA:                (Ah! sì, ora ho capito; si fa ella pure il mariage: mi pareva impossibile che non lo facesse). Dov'è Berto? Guarda, se trovi Berto. Se non c'è, corri dal mio sartore, digli che assolutamente, in termine di tre ore, vo' che mi porti il mio mariage.

CECCO:                      Mariage non vuol dir matrimonio?

VITTORIA:                Il diavolo, che ti porti. Va subito, corri. Fa quel che ti dico, e non replicare.

CECCO:                      Sì, signora, subito corro. (Parte.)

SCENA OTTAVA

Vittoria e Ferdinando.

FERDINANDO:         Signora, dite la verità, sareste in dubbio di partire per la mancanza dell'abito?

VITTORIA:                E bene? Mi dareste il torto per questo?

FERDINANDO:         No, avete tutte le ragioni del mondo: è una cosa necessarissima. Lo fanno tutte, lo fanno quelle che non lo potrebbono fare. Conoscete la signora Aspasia?

VITTORIA:                La conosco.

FERDINANDO:         Se n'è fatto uno ella pure, e ha preso il drappo in credenza per pagarlo uno scudo al mese. E la signora Costanza? La signora Costanza, per farsi l'abito nuovo, ha venduto due paia di lenzuola ed una tovaglia di Fiandra e ventiquattro salviette.

VITTORIA:                E per qual impegno, per qual premura hanno fatto questo?

FERDINANDO:         Per andare in campagna.

VITTORIA:                Non so che dire, la campagna è una gran passione, le compatisco; se fossi nel caso loro, non so anch'io che cosa farei. In città non mi curo di far gran cose; ma in villa ho sempre paura di non comparire bastantemente... Fatemi un piacere, signor Ferdinando, venite con me.

FERDINANDO:         Dove abbiamo d'andare?

VITTORIA:                Dal sarto, a gridare, a strapazzarlo ben bene.

FERDINANDO:         No, volete ch'io v'insegni a farlo sollecitare?

VITTORIA:                E come direste voi che io facessi?

FERDINANDO:         Perdonate: lo pagate subito?

VITTORIA:                Lo pagherò al mio ritorno.

FERDINANDO:         Pagatelo presto, e sarete servita presto.

VITTORIA:                Lo pago quando voglio, e vo' che mi serva quando mi pare. (Parte.)

FERDINANDO:         Bravissima, bel costume! Far figura in campagna, e farsi maltrattare in città. (Parte.)

SCENA NONA

Camera in casa di Filippo.

Filippo e Guglielmo incontrandosi.

FILIPPO:                    Oh, signor Guglielmo, che grazie, che finezze son queste?

GUGLIELMO:           Il mio debito, signor Filippo; il mio debito, e niente più. So che oggi ella va in campagna, e sono venuto ad augurarle buon viaggio e buona villeggiatura.

FILIPPO:                    Caro amico, sono obbligato all'amor vostro, alla vostra attenzione; oggi finalmente si anderà in campagna. In quanto a me ci sarei che sarebbe un mese, e ai miei tempi, quando era giovane, si anticipavano le villeggiature, e si anticipava il ritorno. Fatto il vino, si ritornava in città; ma allora si andava per fare il vino, ora si va per divertimento, e si sta in campagna col freddo, e si vedono seccar le foglie sugli alberi.

GUGLIELMO:           Ma non siete voi il padrone? Perché non andate quando vi pare, e non tornate quando vi comoda?

FILIPPO:                    Sì, dite bene, lo potrei fare; ma sono stato sempre di buon umore; mi ha sempre piacciuto la compagnia, e nell'età in cui sono, mi piace vivere, mi piace ancora godere un poco di mondo. Se dico d'andar in villa il settembre, non c'è un can che mi seguiti, nessuno vuol venire con me a sagrificarsi. Anche mia figlia alza il grugno, e non ho altri al mondo che la mia Giacinta, e desidero soddisfarla. Si va, quando vanno gli altri, ed io mi lascio regolar dagli altri.

GUGLIELMO:           Veramente quello che si fa dalla maggior parte, si dee credere, che sia sempre il meglio.

FILIPPO:                    Non sempre, non sempre, ci sarebbe molto che dire. Voi dove fate quest'anno la vostra villeggiatura?

GUGLIELMO:           Non so; non ho ancora fissato. (Ah! se potessi andare con lui; se potessi villeggiare coll'amabile sua figliuola!)

FILIPPO:                    Vostro padre era solito villeggiare sulle colline di Pisa.

GUGLIELMO:           È verissimo. Colà sono situati i nostri poderi, e vi è un'abitazione passabile. Ma io son solo, e dirò, come dite voi: star solo in campagna è un morir di malinconia.

FILIPPO:                    Volete venir con noi?

GUGLIELMO:           Oh! signor Filippo, io non ho alcun merito, né oserei di dare a voi quest'incomodo.

FILIPPO:                    Io non son uomo di ceremonie. Posso adattarmi allo stile moderno in tutt'altro, fuor che nell'uso de' complimenti. Se volete venire, vi esibisco un buon letto, una mediocre tavola, ed un cuore sempre aperto agli amici, e sempre eguale con tutti.

GUGLIELMO:           Non so che dire. Siete così obbligante, ch'io non posso ricusare le grazie vostre.

FILIPPO:                    Così va fatto. Venite, e stateci fin che vi pare; non pregiudicate i vostri interessi, e stateci fin che vi pare.

GUGLIELMO:           A che ora destinate voi di partire?

FILIPPO:                    Non lo so; intendetevi col signor Leonardo.

GUGLIELMO:           Viene con voi il signor Leonardo?

FILIPPO:                    Sì, certo, abbiamo destinato d'andare insieme con lui e con sua sorella. Le nostre case di villa sono vicine, siamo amici, e anderemo insieme.

GUGLIELMO:           (Questa compagnia mi dispiace. Ma né anche per ciò voglio perdere l'occasione favorevole di essere in compagnia di Giacinta).

FILIPPO:                    Ci avete delle difficoltà?

GUGLIELMO:           Non, signore. Pensava ora, se dovea prendere un calesso, o, essendo solo, un cavallo da sella.

FILIPPO:                    Facciamo così. Noi siamo in tre, ed abbiamo un legno da quattro, venite dunque con noi.

GUGLIELMO:           Chi è il quarto, se è lecito?

FILIPPO:                    Una mia cognata vedova, che viene con noi per custodia di mia figliuola; non già ch'ella abbia bisogno di essere custodita, ché ha giudizio da sé, ma per il mondo, non avendo madre, è necessario che vi sia una donna attempata.

GUGLIELMO:           Va benissimo. (Procurerò ben io di cattivarmi l'animo della vecchia).

FILIPPO:                    E così? Vi comoda di venir con noi?

GUGLIELMO:           Anzi è la maggiore finezza che io possa ricevere.

FILIPPO:                    Andate dunque dal signor Leonardo, e ditegli che non s'impegni con altri per il posto, che è destinato per voi.

GUGLIELMO:           Non potreste farmi voi il piacere di mandar qualcheduno?

FILIPPO:                    I miei servitori sono tutti occupati. Scusatemi, non mi pare di darvi sì grande incomodo.

GUGLIELMO:           Non dico diversamente. Aveva un certo picciolo affare. Basta non occorr'altro. Anderò io ad avvisarlo. (Dica Leonardo quel che sa dire, prenda la cosa come gli pare, ci penso poco, e non ho soggezione di lui). Signor Filippo, a buon rivederci.

FILIPPO:                    Non vi fate aspettare.

GUGLIELMO:           Sarò sollecito. Ho degli stimoli, che mi faranno sollecitare. (Parte.)

SCENA DECIMA

Filippo, poi Giacinta e Brigida.

FILIPPO:                    Or, che ci penso. Non vorrei che mi criticassero, invitando un giovane a venir con noi, avendo una figliuola da maritare. Ma, diacine, è una cosa che in oggi si accostuma da tanti, perché hanno da criticare me solo? Potrebbono anche dire del signor Leonardo, che viene con noi, e di me, che vado con sua sorella, che sono vecchio, è vero, ma non sono poi sì vecchio, che non potessero sospettare. Eh! al giorno d'oggi non vi è malizia. Pare che l'innocenza della campagna si comunichi ai cittadini. Non si usa in villa quel rigore che si pratica nelle città; e poi in casa mia so quanto mi posso compromettere: mia figlia è savia, è bene educata. Eccola, che tu sia benedetta!

GIACINTA:                Signor padre, mi favorisca altri sei zecchini.

FILIPPO:                    E per che fare, figliuola mia?

GIACINTA:                Per pagare la sopravveste di seta da portar per viaggio per ripararsi dalla polvere.

FILIPPO:                    (Poh! non si finisce mai). Ed è necessario, che sia di seta?

GIACINTA:                Necessarissimo. Sarebbe una villania portare la polverinadi tela; vuol essere di seta, e col capuccietto.

FILIPPO:                    Ed a che fine il capuccietto?

GIACINTA:                Per la notte, per l'aria, per l'umido, per quando è freddo.

FILIPPO:                    Ma non si usano i cappellini? I cappellini non riparano meglio?

GIACINTA:                Oh, i cappellini!

BRIGIDA:                   Oh, oh, oh, i cappellini!

GIACINTA:                Che ne dici, eh, Brigida? I cappellini!

BRIGIDA:                   Fa morir di ridere il signor padrone. I cappellini!

FILIPPO:                    Che! ho detto qualche sproposito? Qualche bestialità? A che far tante maraviglie? Non si usavano forse i cappellini?

GIACINTA:                Goffaggini, goffaggini.

BRIGIDA:                   Anticaglie, anticaglie.

FILIPPO:                    Ma quanto sarà, che non si usano più i cappellini?

GIACINTA:                Oh! due anni almeno.

FILIPPO:                    E in due anni sono venuti anticaglie?

BRIGIDA:                   Ma non sapete, signore, che quello che si usa un anno, non si usa l'altro?

FILIPPO:                    Sì, è vero. Ho veduto in pochissimi anni cuffie, cuffiotti, cappellini, cappelloni; ora corrono i cappuccietti; m'aspetto, che l'anno venturo vi mettiate in testa una scarpa.

GIACINTA:                Ma voi che vi maravigliate tanto delle donne, ditemi un poco, gli uomini non fanno peggio di noi? Una volta, quando viaggiavano per la campagna, si mettevano il loro buon giubbone di panno, le gambiere di lana, le scarpe grosse: ora portano anch'eglino la polverina, gli scappinetti colle fibbie di brilli, e montano in calesso colle calzoline di seta.

BRIGIDA:                   E non usano più il bastone.

GIACINTA:                Ed usano il palossetto ritorto.

BRIGIDA:                   E portano l'ombrellino per ripararsi dal sole.

GIACINTA:                E poi dicono di noi.

BRIGIDA:                   Se fanno peggio di noi.

FILIPPO:                    Io non so niente di tutto questo. So che come s'andava cinquant'anni sono, vado ancora presentemente.

GIACINTA:                Questi sono discorsi inutili. Favoritemi sei zecchini.

FILIPPO:                    Sì, veniamo alla conclusione; lo spendere è sempre stato alla moda.

GIACINTA:                Mi pare di essere delle più discrete.

BRIGIDA:                   Oh! signore, non sapete niente. Date un'occhiata in villa a quel che fanno le altre, e me la saprete poi raccontare.

FILIPPO:                    Sicché dunque devo ringraziare la mia figliuola, che mi fa la finezza di farmi risparmiare moltissimo.

BRIGIDA:                   Vi assicuro che una fanciulla più economa non si dà.

GIACINTA:                Mi contento del puro puro bisognevole, e niente più.

FILIPPO:                    Figliuola mia, sia bisognevole, o non sia bisognevole, sapete ch'io desidero soddisfarvi, e i sei zecchini venite a prenderli nella mia camera, che ci saranno. Ma circa all'economia, studiatela un poco più, perché, se vi maritate, sarà difficile che troviate un marito del carattere di vostro padre.

GIACINTA:                A che ora si parte?

FILIPPO:                    (A proposito). Io penso verso le ventidue.

GIACINTA:                Oh! credo che si partirà prima. E chi viene in carrozza con noi?

FILIPPO:                    Ci verrò io, ci verrà vostra zia, e per quarto un galantuomo, un mio amico che conoscete anche voi.

GIACINTA:                Qualche vecchio forse?

FILIPPO:                    Vi dispiacerebbe che fosse un vecchio?

GIACINTA:                Oh! non, signore. Non ci penso, basta che non sia una marmotta. Se è anche vecchio, quando sia di buon umore, son contentissima.

FILIPPO:                    È un giovane.

BRIGIDA:                   Tanto meglio.

FILIPPO:                    Perché tanto meglio?

BRIGIDA:                   Perché la gioventù naturalmente è più vivace, è più spiritosa. Starete allegri; non dormirete per viaggio.

GIACINTA:                E chi è questo signore?

FILIPPO:                    È il signor Guglielmo.

GIACINTA:                Sì, sì, è un giovane di talento.

FILIPPO:                    Il signor Leonardo, mi figuro, andrà in calesso con sua sorella.

GIACINTA:                Probabilmente.

BRIGIDA:                   Ed io, signore, con chi anderò?

FILIPPO:                    Tu andrai, come sei solita andare; per mare, in una feluca, colla mia gente e con quella del signor Leonardo.

BRIGIDA:                   Ma, signore, il mare mi fa sempre male, e l'anno passato ho corso pericolo d'annegarmi, e quest'anno non ci vorrei andare.

FILIPPO:                    Vuoi, ch'io ti prenda un calesso apposta?

BRIGIDA:                   Compatitemi, con chi va il cameriere del signor Leonardo?

GIACINTA:                Appunto: il suo cameriere lo suol condurre per terra. Povera Brigida, lasciate che ella vada con esso lui.

FILIPPO:                    Col cameriere?

GIACINTA:                Sì, cosa avete paura? Ci siamo noi; e poi sapete che Brigida è una buona fanciulla.

BRIGIDA:                   In quanto a me, vi protesto, monto in sedia, mi metto a dormire, e non lo guardo in faccia nemmeno

GIACINTA:                È giusto ch'io abbia meco la mia cameriera.

BRIGIDA:                   Tutte le signore la conducono presso di loro.

GIACINTA:                Per viaggio mi possono abbisognar cento cose.

BRIGIDA:                   Almeno son lì pronta per assistere, per servir la padrona.

GIACINTA:                Caro signor padre.

BRIGIDA:                   Caro signor padrone.

FILIPPO:                    Non so che dire; non so dir di no, non son capace di dir di no, e non dirò mai di no. (Parte.)

SCENA UNDICESIMA

Giacinta e Brigida.

GIACINTA:                Sei contenta?

BRIGIDA:                   Brava la mia padrona.

GIACINTA:                Oh! io poi ho questo di buono; faccio far alla gente tutto quello che io voglio.

BRIGIDA:                   Ma, come andrà la faccenda col signor Leonardo?

GIACINTA:                Su che proposito?

BRIGIDA:                   Sul proposito del signor Guglielmo; sapete quanto è geloso; e se lo vede in carrozza con voi...

GIACINTA:                Converrà che lo soffra.

BRIGIDA:                   Io ho paura che si disgusterà.

GIACINTA:                Con chi?

BRIGIDA:                   Con voi.

GIACINTA:                Eh! per appunto. Gliene ho fatte soffrir di peggio.

BRIGIDA:                   Compatitemi, signora padrona, il poverino vi vuol troppo bene.

GIACINTA:                Ed io non gli voglio male.

BRIGIDA:                   Ei si lusinga, che siate un giorno la di lui sposa.

GIACINTA:                E può anche essere che ciò succeda.

BRIGIDA:                   Ma se avesse questa buona intenzione, procurate un poco più di renderlo soddisfatto.

GIACINTA:                Anzi per lo contrario, prevedendo ch'ei possa un giorno essere mio marito, vo' avvezzarlo per tempo a non esser geloso, a non esser sofistico, a non privarmi dell'onesta mia libertà. Se principia ora a pretendere, a comandare, se gli riesce ora d'avvilirmi, di mettermi in soggezione, è finita: sarò schiava perpetuamente. O mi vuol bene, o non mi vuol bene. Se mi vuol bene, s'ha da fidare, se non mi vuol bene, che se ne vada.

BRIGIDA:                   Dice per altro il proverbio: chi ama, teme; e se dubita, dubiterà per amore.

GIACINTA:                Questo è un amore che non mi comoda.

BRIGIDA:                   Diciamola fra di noi; voi l'amate pochissimo il signor Leonardo.

GIACINTA:                Io non so quanto l'ami; ma so che l'amo più di quello ch'io abbia amato nessuno; e non avrei difficoltà a sposarlo, ma non a costo di essere tormentata.

BRIGIDA:                   Compatitemi, questo non è vero amore.

GIACINTA:                Non so che fare. Io non ne conosco di meglio.

BRIGIDA:                   Mi pare di sentir gente.

GIACINTA:                Va a vedere chi è.

BRIGIDA:                   Oh! appunto è il signor Leonardo.

GIACINTA:                Che vuol dir che non viene innanzi?

BRIGIDA:                   E che sì, che ha saputo del signor Guglielmo?

GIACINTA:                O prima, o dopo, l'ha da sapere.

BRIGIDA:                   Non viene. C'è del male. Volete, che io vada a vedere?

GIACINTA:                Sì, va a vedere, fallo venire innanzi.

BRIGIDA:                   (Capperi, non mi preme per lui, mi preme per il cameriere). (Parte.)

SCENA DODICESIMA

Giacinta e Leonardo.

GIACINTA:                Sì, lo amo, lo stimo, lo desidero, ma non posso soffrire la gelosia.

LEONARDO:             Servitor suo, signora Giacinta. (Sostenuto.)

GIACINTA:                Padrone, signor Leonardo. (Sostenuta.)

LEONARDO:             Scusi se son venuto ad incomodarla.

GIACINTA:                Fa grazia, signor ceremoniere, fa grazia. (Con ironia.)

LEONARDO:             Sono venuto ad augurarle buon viaggio.

GIACINTA:                Per dove?

LEONARDO:             Per la campagna.

GIACINTA:                E ella non favorisce?

LEONARDO:             Non signora.

GIACINTA:                Perché, se è lecito?

LEONARDO:             Perché non le vorrei essere di disturbo.

GIACINTA:                Ella non incomoda mai; favorisce sempre. È così grazioso, che favorisce sempre. (Con ironia.)

LEONARDO:             Non sono io il grazioso. Il grazioso lo averà seco lei nella sua carrozza.

GIACINTA:                Io non dispongo, signore. Mio padre è il padrone, ed è padrone di far venire chi vuole.

LEONARDO:             Ma la figliuola si accomoda volentieri.

GIACINTA:                Se volentieri, o malvolentieri, voi non avete da far l'astrologo.

LEONARDO:             Alle corte, signora Giacinta. Quella compagnia non mi piace.

GIACINTA:                È inutile che a me lo diciate.

LEONARDO:             E a chi lo devo dire?

GIACINTA:                A mio padre.

LEONARDO:             Con lui non ho libertà di spiegarmi.

GIACINTA:                Né io ho l'autorità di farlo fare a mio modo.

LEONARDO:             Ma se vi premesse la mia amicizia, trovereste la via di non disgustarmi.

GIACINTA:                Come? Suggeritemi voi la maniera.

LEONARDO:             Oh! non mancano pretesti, quando si vuole.

GIACINTA:                Per esempio?

LEONARDO:             Per esempio si fa nascere una novità, che differisca l'andata, e si acquista tempo; e quando preme, si tralascia d'andare, piuttosto che disgustare una persona per cui si ha qualche stima.

GIACINTA:                Sì, per farsi ridicoli, questa è la vera strada.

LEONARDO:             Eh! dite che non vi curate di me.

GIACINTA:                Ho della stima, ho dell'amore per voi; ma non voglio per causa vostra fare una trista figura in faccia del mondo.

LEONARDO:             Sarebbe un gran male, che non andaste un anno in villeggiatura?

GIACINTA:                Un anno senza andare in villeggiatura! Che direbbero di me a Montenero? Che direbbero di me a Livorno? Non avrei più ardire di mirar in faccia nessuno.

LEONARDO:             Quand'è così, non occorr'altro. Vada, si diverta, e buon pro le faccia.

GIACINTA:                Ma ci verrete anche voi.

LEONARDO:             Non signora, non ci verrò.

GIACINTA:                Eh! sì, che verrete. (Amorosamente.)

LEONARDO:             Con colui non ci voglio andare.

GIACINTA:                E che cosa vi ha fatto colui?

LEONARDO:             Non lo posso vedere.

GIACINTA:                Dunque l'odio, che avete per lui, è più grande dell'amore che avete per me.

LEONARDO:             Io l'odio appunto per causa vostra.

GIACINTA:                Ma per qual motivo?

LEONARDO:             Perché, perché*... non mi fate parlare.

GIACINTA:                Perché ne siete geloso?

LEONARDO:             Sì, perché ne sono geloso.

GIACINTA:                Qui vi voleva. La gelosia che avete di lui, è un'offesa, che fate a me, e non potete essere di lui geloso, senza credere me una frasca, una civetta, una banderuola. Chi ha della stima per una persona, non può nutrire tai sentimenti, e dove non vi è stima, non vi può essere amore; e se non mi amate, lasciatemi, e se non sapete amare, imparate. Io vi amo, e son fedele, e son sincera, e so il mio dovere, e non vo' gelosie, e non voglio dispetti, e non voglio farmi ridicola per nessuno, e in villa ci ho d'andare, ci devo andare, e ci voglio andare. (Parte.)

LEONARDO:             Va, che il diavolo ti strascini. Ma no; può essere che tu non ci vada. Farò tanto forse, che non ci anderai. Maladetto sia il villeggiare. In villa ha fatto quest'amicizia. In villa ha conosciuto costui. Si sagrifichi tutto: dica il mondo quel che sa dire; dica mia sorella quel che vuol dire. Non si villeggia più, non si va più in campagna. (Parte.)


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di Leonardo.

Vittoria e Paolo.

VITTORIA:                Via, via, non istate più a taroccare. Lasciate, che le donne finiscano di fare quel che hanno da fare, e piuttosto v'aiuterò a terminare il baule per mio fratello.

PAOLO:                      Non so, che dire. Siamo tanti in casa, e pare ch'io solo abbia da fare ogni cosa.

VITTORIA:                Presto, presto. Facciamo, che quando torna il signor Leonardo, trovi tutte le cose fatte. Ora son contentissima, a mezzogiorno avrò in casa il mio abito nuovo.

PAOLO:                      Gliel'ha poi finito il sarto?

VITTORIA:                Sì, l'ha finito; ma da colui non mi servo più.

PAOLO:                      E perché, signora? Lo ha fatto male?

VITTORIA:                No, per dir la verità, è riuscito bellissimo. Mi sta bene, è un abito di buon gusto, che forse forse farà la prima figura, e farà crepar qualcheduno d'invidia.

PAOLO:                      E perché dunque è sdegnata col sarto?

VITTORIA:                Perché mi ha fatto un'impertinenza. Ha voluto i danari subito per la stoffa e per la fattura.

PAOLO:                      Perdoni, non mi par che abbia gran torto. Mi ha detto più volte che ha un conto lungo, e che voleva esser saldato.

VITTORIA:                E bene, doveva aggiungere alla lunga polizza anche questo conto, e sarebbe stato pagato di tutto.

PAOLO:                      E quando sarebbe stato pagato?

VITTORIA:                Al ritorno della villeggiatura.

PAOLO:                      Crede ella di ritornar di campagna con dei quattrini?

VITTORIA:                È facilissimo. In campagna si gioca. Io sono piuttosto fortunata nel gioco, e probabilmente l'avrei pagato senza sagrificare quel poco che mio fratello mi passa per il mio vestito.

PAOLO:                      A buon conto quest'abito è pagato, e non ci ha più da pensare.

VITTORIA:                Sì, ma sono restata senza quattrini.

PAOLO:                      Che importa? Ella non ne ha per ora da spendere.

VITTORIA:                E come ho da far a giocare?

PAOLO:                      Ai giochetti si può perder poco.

VITTORIA:                Oh! io non gioco a giochetti. Non ci ho piacere, non vo applicare. In città gioco qualche volta per compiacenza; ma in campagna il mio divertimento, la mia passione, è il faraone.

PAOLO:                      Per quest'anno le converrà aver pazienza.

VITTORIA:                Oh, questo poi, no. Vo' giocare, perché mi piace giocare. Vo' giocare, perché ho bisogno di vincere, ed è necessario che io giochi, per non far dire di me la conversazione. In ogni caso io mi fido, io mi comprometto di voi.

PAOLO:                      Di me?

VITTORIA:                Sì, di voi. Sarebbe gran cosa, che mi anticipaste qualche danaro, a conto del mio vestiario dell'anno venturo?

PAOLO:                      Perdoni. Mi pare che ella lo abbia intaccato della metà almeno.

VITTORIA:                Che importa? Quando l'ho avuto, l'ho avuto. Io non credo, che vi farete pregare per questo.

PAOLO:                      Per me la servirei volentieri, ma non ne ho. È vero che quantunque io non abbia che il titolo, ed il salario di cameriere, ho l'onor di servire il padrone da fattore e da mastro di casa. Ma la cassa ch'io tengo è così ristretta, che non arrivo mai a poter pagare quello che alla giornata si spende; e per dirle la verità, sono indietro anch'io di sei mesi del mio onorario.

VITTORIA:                Lo dirò a mio fratello, e mi darà egli il bisogno.

PAOLO:                      Signora, si accerti che ora è più che mai in ristrettezze grandissime, e non si lusinghi, perché non le può dar niente.

VITTORIA:                Ci sarà del grano in campagna.

PAOLO:                      Non ci sarà nemmeno il bisogno per fare il pane che occorre.

VITTORIA:                L'uva non sarà venduta.

PAOLO:                      È venduta anche l'uva.

VITTORIA:                Anche l'uva?

PAOLO:                      E se andiamo di questo passo, signora...

VITTORIA:                Non sarà così di mio zio.

PAOLO:                      Oh! quello ha il grano, il vino e i danari.

VITTORIA:                E non possiamo noi prevalerci di qualche cosa?

PAOLO:                      Non signora. Hanno fatto le divisioni. Ciascheduno conosce il suo. Sono separate le fattorie. Non vi è niente da sperare da quella parte.

VITTORIA:                Mio fratello dunque va in precipizio.

PAOLO:                      Se non ci rimedia.

VITTORIA:                E come avrebbe da rimediarci?

PAOLO:                      Regolar le spese. Cambiar sistema di vivere. Abbandonar soprattutto la villeggiatura.

VITTORIA:                Abbandonar la villeggiatura? Si vede bene che siete un uomo da niente. Ristringa le spese in casa. Scemi la tavola in città, minori la servitù; le dia meno salario. Si vesta con meno sfarzo, risparmi quel che getta in Livorno. Ma la villeggiatura si deve fare, e ha da essere da par nostro, grandiosa secondo il solito, e colla solita proprietà.

PAOLO:                      Crede ella, che possa durar lungo tempo?

VITTORIA:                Che duri fin che io ci sono. La mia dote è in deposito, e spero che non tarderò a maritarmi.

PAOLO:                      E intanto?...

VITTORIA:                E intanto terminiamo il baule.

PAOLO:                      Ecco il padrone.

VITTORIA:                Non gli diciamo niente per ora. Non lo mettiamo in melanconia. Ho piacere che sia di buon animo, che si parta con allegria. Terminiamo di empir il baule. (Si affrettano tutti e due a riporre il baule.)

SCENA SECONDA

Leonardo e detti.

LEONARDO:             (Ah! vorrei nascondere la mia passione, ma non so se sarà possibile. Sono troppo fuor di me stesso).

VITTORIA:                Eccoci qui, signor fratello, eccoci qui a lavorare per voi.

LEONARDO:             Non vi affrettate. Può essere che la partenza si differisca.

VITTORIA:                No, no, sollecitatela pure. Io sono in ordine, il mio mariageè finito. Son contentissima, non vedo l'ora d'andarmene.

LEONARDO:             Ed io, sul supposto di far a voi un piacere, ho cambiato disposizione, e per oggi non si partirà.

VITTORIA:                E ci vuol tanto a rimettere le cose in ordine per partire?

LEONARDO:             Per oggi, vi dico, non è possibile.

VITTORIA:                Via, per oggi pazienza. Si partirà domattina pel fresco; non è così?

LEONARDO:             Non lo so. Non ne son sicuro.

VITTORIA:                Ma voi mi volete far dare alla disperazione.

LEONARDO:             Disperatevi quanto volete, non so che farvi.

VITTORIA:                Bisogna dire che vi siano de' gran motivi.

LEONARDO:             Qualche cosa di più della mancanza d'un abito.

VITTORIA:                E la signora Giacinta va questa sera?

LEONARDO:             Può essere ch'ella pure non vada.

VITTORIA:                Ecco la gran ragione. Eccolo il gran motivo. Perché non parte la bella, non vorrà partire l'amante. Io non ho che fare con lei, e si può partire senza di lei.

LEONARDO:             Partirete, quando a me parerà di partire.

VITTORIA:                Questo è un torto, questa è un'ingiustizia, che voi mi fate. Io non ho da restar in Livorno, quando tutti vanno in campagna, e la signora Giacinta mi sentirà se resterò a Livorno per lei.

LEONARDO:             Questo non è ragionare da fanciulla propria, e civile, come voi siete. E voi che fate colà ritto, ritto, come una statua? (A Paolo.)

PAOLO:                      Aspetto gli ordini. Sto a veder, sto a sentire. Non so, s'io abbia a seguitar a fare, o a principiar a disfare.

VITTORIA:                Seguitate a fare.

LEONARDO:             Principiate a disfare.

PAOLO:                      Fare e disfare è tutto lavorare. (Levando dal baule.)

VITTORIA:                Io butterei volentieri ogni cosa dalla finestra.

LEONARDO:             Principiate a buttarvi il vostro mariage.

VITTORIA:                Sì, se non vado in campagna, lo straccio in centomila pezzi.

LEONARDO:             Che cosa c'è in questa cassa? (A Paolo.)

PAOLO:                      Il caffè, la cioccolata, lo zucchero, la cera e le spezierie.

LEONARDO:             M'immagino che niente di ciò sarà stato pagato.

PAOLO:                      Con che vuol ella ch'io abbia pagato? So bene che per aver questa roba a credito, ho dovuto sudare; e i bottegai mi hanno maltrattato, come se io l'avessi rubata.

LEONARDO:             Riportate ogni cosa a chi ve l'ha data, e fate che depennino la partita.

PAOLO:                      Sì, signore. Ehi! chi è di là? Aiutatemi. (Vien servito.)

VITTORIA:                (Oh, povera me! La villeggiatura è finita).

PAOLO:                      Bravo, signor padrone: così va bene. Far manco debiti che si può.

LEONARDO:             Il malan che vi colga. Non mi fate il dottore, che perderò la pazienza.

PAOLO:                      (Andiamo, andiamo, prima che si penta. Si vede, che non lo fa per economia, lo fa per qualche altro diavolo che ha per il capo). (Porta via la cassetta, e parte.)

SCENA TERZA

Vittoria e Leonardo.

VITTORIA:                Ma si può sapere il motivo di questa vostra disperazione?

LEONARDO:             Non lo so nemmen io.

VITTORIA:                Avete gridato colla signora Giacinta?

LEONARDO:             Giacinta è indegna dell'amor mio, è indegna dell'amicizia della mia casa, e ve lo dico, e ve lo comando, non vo' che la pratichiate.

VITTORIA:                Eh! già, quando penso una cosa, non fallo mai. L'ho detto, e così è. Non si va più in campagna per ragione di quella sguaiata, ed ella ci anderà, ed io non ci potrò andare. E si burleranno di me.

LEONARDO:             Eh! corpo del diavolo, non ci anderà nemmen ella. Farò tanto che non ci anderà.

VITTORIA:                Se non ci andasse Giacinta, mi pare che mi spiacerebbe meno di non andar io. Ma ella sì, ed io no? Ella a far la graziosa in villa, ed io restar in città? Sarebbe una cosa, sarebbe una cosa da dar la testa nelle muraglie.

LEONARDO:             Vedrete, che ella non anderà. Per conto mio, ho levato l'ordine de' cavalli.

VITTORIA:                Oh sì, peneranno assai a mandar eglino alla posta!

LEONARDO:             Eh! ho fatto qualche cosa di più. Ho fatto dir delle cose al signor Filippo, che se non è stolido, se non è un uomo di stucco, non condurrà per ora la sua figliuola in campagna.

VITTORIA:                Ci ho gusto. Anch'ella sfoggierà il suo grand'abito in Livorno. La vedrò a passeggiar sulle mura. Se l'incontro, le vo' dar la baia a dovere.

LEONARDO:             Io non voglio che le parliate.

VITTORIA:                Non le parlerò, non le parlerò. So corbellare senza parlare.

SCENA QUARTA

Ferdinando, da viaggio, e detti.

FERDINANDO:         Eccomi qui, eccomi lesto, eccomi preparato pel viaggio.

VITTORIA:                Oh! sì, avete fatto bene ad anticipare.

LEONARDO:             Caro amico, mi dispiace infinitamente, ma sappiate che per un mio premuroso affare, per oggi non parto più.

FERDINANDO:         Oh, cospetto di bacco! Quando partirete? Domani?

LEONARDO:             Non so, può essere che differisca, per qualche giorno, e può anche essere, che per quest'anno i miei interessi m'impediscano di villeggiare.

FERDINANDO:         (Povero diavolo! Sarà per mancanza di calor naturale).

VITTORIA:                (Quando ci penso, per altro, mi vengono i sudori freddi).

LEONARDO:             Voi potrete andare col conte Anselmo.

FERDINANDO:         Eh! a me non mancano villeggiature. Il conte Anselmo l'ho licenziato; fo il mio conto, che andrò col signor Filippo, e colla signora Giacinta.

VITTORIA:                Oh! la signora Giacinta per quest'anno potrebbe anch'ella morir colla voglia in corpo.

FERDINANDO:         Io vengo di là in questo punto, e ho veduto che sono in ordine per partire, ed ho sentito che hanno mandato a ordinare i cavalli per ventun'ora.

VITTORIA:                Sente, signor Leonardo?

LEONARDO:             (Il signor Fulgenzio non avrà ancora parlato al signor Filippo).

FERDINANDO:         Eh, in quella casa non tremano. Il signor Filippo si tratta da gran signore, e non ha impicci in Livorno, che gl'impediscano la sua magnifica villeggiatura.

VITTORIA:                Sente, signor Leonardo?

LEONARDO:             Sento, sento, ed ho sentito, ed ho sofferto abbastanza. Mi è noto il vostro stile satirico. In casa mia, in città e fuori, siete stato più volte, e non siete morto di fame; e se non vado in villa, ho i miei motivi per non andarvi, e non ho da render conto di me a nessuno. Andate da chi vi pare, e non vi prendete più l'incomodo di venir da me. (Scrocchi insolenti, mormoratori indiscreti!). (Parte.)

SCENA QUINTA

Vittoria e Ferdinando.

FERDINANDO:         È impazzito vostro fatello? Che cosa ha egli con me? Di che può lamentarsi dei fatti miei?

VITTORIA:                Veramente pare dal vostro modo di dire, che noi non possiamo andare in campagna per mancanza del bisognevole.

FERDINANDO:         Io? Mi maraviglio. Per gli amici mi farei ammazzare: difenderei la vostra riputazione colla spada alla mano. Se ha degli affari in Livorno, chi l'obbliga a andar in villa? Se ho detto che il signor Filippo non ha interessi, che lo trattengano, m'intesi dire, perché il signor Filippo è un vecchio pazzo, che trascura gli affari suoi per tripudiare, per scialacquare; e la sua figliuola ha meno giudizio di lui, che gli fa spendere l'osso del collo in centomila corbellerie. Io stimo la prudenza del signor Leonardo, e stimo la prudenza vostra, che sa addattarsi alle congiunture; e si fa quello che si può, e che si rovinino quelli che si vogliono rovinare.

VITTORIA:                Ma siete curioso per altro. Mio fratello non resta in Livorno per il bisogno.

FERDINANDO:         Lo so; ci resta per la necessità.

VITTORIA:                Necessità di che?

FERDINANDO:         Di accudire agli affari suoi.

VITTORIA:                E la signora Giacinta credete voi che ci vada in campagna?

FERDINANDO:         Senz'altro.

VITTORIA:                Sicuro?

FERDINANDO:         Infallibilmente.

VITTORIA:                (Io ho paura che mio fratello me la voglia dare ad intendere. Che dica di non andare, e poi mi pianti, e se ne vada da sé).

FERDINANDO:         Ho veduto l'abito della signora Giacinta.

VITTORIA:                È bello?

FERDINANDO:         Bellissimo.

VITTORIA:                Più del mio?

FERDINANDO:         Più del vostro non dico; ma è bello assai; e in campagna ha da fare una figura strepitosissima.

VITTORIA:                (Ed io ho da restare col mio bell'abito a spazzar le strade in Livorno?).

FERDINANDO:         Quest'anno io credo che si farà a Montenero una bellissima villeggiatura.

VITTORIA:                Per qual ragione?

FERDINANDO:         Vi hanno da essere delle signore di più, delle spose novelle, tutte magnifiche, tutte in gala, e le donne traggono seco gli uomini, e dove vi è della gioventù, tutti corrono. Vi sarà gran gioco, gran feste di ballo. Ci divertiremo infinitamente.

VITTORIA:                (Ed io ho da stare in Livorno?).

FERDINANDO:         (Si rode, si macera. Ci ho un gusto pazzo).

VITTORIA:                (No, non ci voglio stare; Se credessi cacciarmi per forza con qualche amica).

FERDINANDO:         Signora Vittoria, a buon riverirla.

VITTORIA:                La riverisco.

FERDINANDO:         A Montenero comanda niente?

VITTORIA:                Eh! può essere che ci vediamo.

FERDINANDO:         Se verrà, ci vedremo. Se non verrà, le faremo un brindisi.

VITTORIA:                Non vi è bisogno ch'ella s'incomodi.

FERDINANDO:         Viva il bel tempo! Viva l'allegria, viva la villeggiatura! Servitore umilissimo.

VITTORIA:                La riverisco divotamente.

FERDINANDO:         (Se non va in campagna, ella crepa prima che termini questo mese). (Parte.)

SCENA SESTA

VITTORIA (sola):      Ma! La cosa è così pur troppo. Quando si è sul candeliere, quando si è sul piede di seguitare il gran mondo, una volta che non si possa, si attirano gli scherni, e le derisioni. Bisognerebbe non aver principiato. Oh! costa molto il dover discendere. Io non ho tanta virtù, che basti. Sono in un'afflizione grandissima, e il mio maggior tormento è l'invidia. Se le altre non andassero in villa, non ci sarebbe pericolo, ch'io mi rammaricassi per non andarvi. Ma chi sa mai, se Giacinta ci vada o non ci vada? Ella mi sta sul cuore più delle altre. Vo' assicurarmene, lo vo' sapere di certo. Vo' andar io medesima a ritrovarla. Dica mio fratello quel che sa dire. Questa curiosità vo' cavarmela. Nasca quel che sa nascere, vo' soddisfarmi. Son donna, son giovane. Mi hanno sempre lasciato fare a mio modo, ed è difficile tutt'ad un tratto farmi cambiar costume, farmi cambiare temperamento. (Parte.)

SCENA SETTIMA

Camera in casa di Filippo.

Filippo e Brigida.

BRIGIDA:                   Sicché dunque il signor Leonardo ha mandato a dire che non può partire per ora?

FILIPPO:                    Sì certo, l'ha mandato a dire. Ma ciò non sarebbe niente. Può essergli sopraggiunto qualche affare d'impegno. Non stimo niente. Mi fa specie che ha mandato alla posta a levar l'ordine dei cavalli per lui e dei cavalli per me, come s'egli avesse paura ch'io non pagassi, e che dovesse toccar a lui a pagare.

BRIGIDA:                   (L'ho detto io, l'ho detto. La padrona vuol far di sua testa, che il cielo la benedica).

FILIPPO:                    Io non mi aspettava da lui questo sgarbo.

BRIGIDA:                   E così, signor padrone, come avete pensato di fare?

FILIPPO:                    Ho pensato che posso andar in campagna senza di lui, che posso avere i cavalli senza di lui, e li ho mandati a ordinare per oggi.

BRIGIDA:                   Se è lecito, quanti cavalli avete ordinato?

FILIPPO:                    Quattro, secondo il solito, per il mio carrozzino.

BRIGIDA:                   E per me, poverina?

FILIPPO:                    Bisognerà che tu ti accomodi a andar per mare.

BRIGIDA:                   Oh! per mare non ci vado assolutamente.

FILIPPO:                    E come vorresti tu ch'io facessi? Ch'io levassi per te una sedia? Fino che ci fosse stato il cameriere del signor Leonardo, per una metà avrei supplito alla spesa, ma per l'intiero sarebbe troppo, e mi maraviglio che tu abbia tanta indiscretezza per domandarlo.

BRIGIDA:                   Io non lo domando, io mi accomodo a tutto. Ma fatemi grazia: il signor Ferdinando non viene anch'egli con voi?

FILIPPO:                    Sì, è vero: doveva andar col signor Leonardo, ed è venuto poco fa a dirmi che verrà con me.

BRIGIDA:                   Bisognerà che pensiate voi a condurlo.

FILIPPO:                    E perché ci ho da pensar io?

BRIGIDA:                   Perché egli intende di venire per farvi grazia. Perché egli è solito andar in campagna, non per divertimento, ma per mestiere. Se conduceste con voi l'architetto, il pittore, l'agrimensore, per impiegarli in servizio vostro, non dovreste loro pagare il viaggio? Lo stesso dovete fare col signor Ferdinando che vien con voi per fare onore alla vostra tavola, e per divertire la compagnia. E se conducete lui, non sarebbe gran cosa che conduceste anche me; e se non vado in calesso col cameriere del signor Leonardo, posso andare in calesso col signor cavaliere del dente.

FILIPPO:                    Brava, io non ti credeva sì spiritosa. Hai fatto un bel panegirico al signor Ferdinando. Basta, se sarò costretto a pagar il viaggio al signor cavaliere del dente, sarà servita la signora contessa della buona lingua.

BRIGIDA:                   Sarà per sua grazia, non per mio merito.

FILIPPO:                    Chi c'è in sala?

BRIGIDA:                   C'è gente.

FILIPPO:                    Guarda un poco.

BRIGIDA:                   È il signor Fulgenzio. (Dopo averlo osservato.)

FILIPPO:                    Domanda di me forse?

BRIGIDA:                   Probabilmente.

FILIPPO:                    Va a veder cosa vuole.

BRIGIDA:                   Subito. Chi sa che non sia un altro ospite rispettoso, che venga ad esibirvi la sua umile servitù in campagna?

FILIPPO:                    Padrone. Mi farebbe piacere. Con lui ho delle obbligazioni non poche, e poi in campagna io non ricuso nessuno.

BRIGIDA:                   Non ci dubitate, signore, non vi mancherà compagnia. Dove c'è miglio, gli uccelli volano, e dove c'è buona tavola, gli scrocchi fioccano. (Parte.)

SCENA OTTAVA

Filippo, poi Giacinta.

GIACINTA:                A quest'ora, signore, vi potrebbero risparmiare le seccature. Vien tardi, a ventun'ora si ha da partire. Mi ho da vestir da viaggio da capo a piedi, e abbiamo ancora da desinare.

FILIPPO:                    Ma io ho da sentire che cosa vuole il signor Fulgenzio.

GIACINTA:                Fategli dire che avete che fare, che avete premura, che non potete...

FILIPPO:                    Voi non sapete quello che vi diciate, ho con lui delle obbligazioni, non lo deggio trattare villanamente.

GIACINTA:                Spicciatevi presto dunque.

FILIPPO:                    Più presto che si potrà.

GIACINTA:                È un seccatore, non finirà sì presto.

FILIPPO:                    Eccolo che viene.

GIACINTA:                Vado, vado. (Non lo posso soffrire. Ogni volta che viene qui, ha sempre qualche cosa da dire sul vivere, sull'economia, sul costume. Vo' un po' star a sentire, se dice qualche cosa di me). (Parte.)

SCENA NONA

Filippo, poi Fulgenzio.

FILIPPO:                    Gran cosa di queste ragazze! Quel giorno che hanno d'andar in campagna, non sanno quel che si facciano, non sanno quel che si dicano, sono fuori di lor medesime.

FULGENZIO:            Buon giorno, signor Filippo.

FILIPPO:                    Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che buon vento vi conduce da queste parti?

FULGENZIO:            La buona amicizia, il desiderio di rivedervi prima che andiate in villa, e di potervi dare il buon viaggio.

FILIPPO:                    Son obbligato al vostro amore, alla vostra cordialità, e mi fareste una gran finezza, se vi compiaceste di venir con me.

FULGENZIO:            No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina, sono tornato per le biade minute, e ci anderò per il vino. Ma son solito di andar solo, e di starvi quanto esigono i miei interessi, e non più.

FILIPPO:                    Circa agl'interessi della campagna, poco più, poco meno, ci abbado anch'io, ma solo non ci posso stare. Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di agire, e di divertirmi.

FULGENZIO:            Benissimo, ottimamente. Dee ciascuno operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la compagnia sia buona, sia conveniente, e non dia occasione al mondo di mormorare.

FILIPPO:                    Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio, che pare abbiate intenzione di dare a me delle staffilate.

FULGENZIO:            Caro amico, noi siamo amici da tanti anni. Sapete se vi ho sempre amato, se nelle occasioni vi ho dati dei segni di cordialità.

FILIPPO:                    Sì, me ne ricordo, e ve ne sarò grato fino ch'io viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete sempre somministrato senz'alcuna difficoltà. Ve li ho per altro restituiti, e i mille scudi che l'altro giorno mi avete prestati, li avrete, come mi sono impegnato, da qui a tre mesi.

FULGENZIO:            Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. Ma permettetemi che io vi dica un'osservazione che ho fatta. Io veggo che voi venite a domandarmi denaro in prestito quasi ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Segno evidente che la villeggiatura v'incomoda; ed è un peccato che un galantuomo, un benestante come voi siete, che ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s'incomodi e domandi denari in prestito per ispenderli malamente. Sì, signore, per ispenderli malamente, perché le persone medesime che vengono a mangiare il vostro, sono le prime a dir male di voi, e fra quelli che voi trattate amorosamente, vi è qualcheduno che pregiudica al vostro decoro ed alla vostra riputazione.

FILIPPO:                    Cospetto! voi mi mettete in un'agitazione grandissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e farmi mangiare il mio malamente, ve l'accordo, è vero, ma sono avvezzato così, e finalmente non ho che una sola figlia. Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene fino ch'io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come potete dirlo, signor Fulgenzio?

FULGENZIO:            Lo dico con fondamento, e lo dico appunto, riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so che vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di domandarvela, perché voi la lasciate troppo addomesticar colla gioventù, e non avete riguardo di ammettere zerbinotti in casa, e fino di accompagnarli in viaggio con essolei.

FILIPPO:                    Volete voi dire del signor Guglielmo?

FULGENZIO:            Io dico di tutti e non voglio dir di nessuno.

FILIPPO:                    Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo.

FULGENZIO:            Ella è giovane.

FILIPPO:                    E mia figlia è una fanciulla prudente.

FULGENZIO:            Ella è donna.

FILIPPO:                    E vi è mia sorella, donna attempata...

FULGENZIO:            E vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani.

FILIPPO:                    Era venuto anche a me qualche dubbio su tal proposito, ma ho pensato poi, che tanti altri si conducono nella stessa maniera...

FULGENZIO:            Caro amico, de' casi ne avete mai veduti a succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si sono poi trovati della loro condotta contenti?

FILIPPO:                    Per dire la verità, chi sì e chi no.

FULGENZIO:            E voi siete sicuro del sì? Non potete dubitare del no?

FILIPPO:                    Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo l'ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli che dite voi, che la vorrebbe in consorte?

FULGENZIO:            Per ora non posso dirvelo.

FILIPPO:                    Ma perché?

FULGENZIO:            Perché per ora non vuol essere nominato. Regolatevi diversamente, e si spiegherà.

FILIPPO:                    E che cosa dovrei fare? Tralasciar d'andare in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo.

FULGENZIO:            Che bisogno c'è, che vi conduciate la figlia?

FILIPPO:                    Cospetto di bacco! se non la conducessi, ci sarebbe il diavolo in casa.

FULGENZIO:            Vostra figlia dunque può dire anch'ella la sua ragione.

FILIPPO:                    L'ha sempre detta.

FULGENZIO:            E di chi è la colpa?

FILIPPO:                    È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di buon cuore.

FULGENZIO:            Il troppo buon cuore del padre fa essere di cattivo cuore le figlie.

FILIPPO:                    E che vi ho da fare presentemente?

FULGENZIO:            Un poco di buona regola. Se non in tutto, in parte. Staccatele dal fianco la gioventù.

FILIPPO:                    Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Guglielmo!

FULGENZIO:            Alle corte: questo signor Guglielmo vuol essere il suo malanno. Per causa sua il galantuomo che la vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete che se ne parli, e che si tratti, fate a buon conto che non si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da comandar più del padre.

FILIPPO:                    Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono stato io che l'ha invitato a venire.

FULGENZIO:            Tanto meglio. Licenziatelo.

FILIPPO:                    Tanto peggio; non so come licenziarlo.

FULGENZIO:            Siete uomo, o che cosa siete?

FILIPPO:                    Quando si tratta di far malegrazie, io non so come fare.

FULGENZIO:            Badate che non facciano a voi delle malegrazie che puzzino.

FILIPPO:                    Orsù, bisognerà, ch'io lo faccia.

FULGENZIO:            Fatelo, che ve ne chiamerete contento.

FILIPPO:                    Potreste ben farmi la confidenza di dirmi chi sia l'amico che aspira alla mia figliuola.

FULGENZIO:            Per ora non posso, compatitemi. Deggio andare per un affare di premura.

FILIPPO:                    Accomodatevi, come vi pare.

FULGENZIO:            Scusatemi della libertà, che mi ho preso.

FILIPPO:                    Anzi vi ho tutta l'obbligazione.

FULGENZIO:            A buon rivederci.

FILIPPO:                    Mi raccomando alla grazia vostra.

FULGENZIO:            (Credo di aver ben servito il signor Leonardo. Ma ho inteso di servire alla verità, alla ragione, all'interesse e al decoro dell'amico Filippo). (Parte.)

SCENA DECIMA

Filippo, poi Giacinta.

FILIPPO:                    Fulgenzio mi ha dette delle verità irrefragabili, e non sono sì sciocco ch'io non le conosca, e non le abbia conosciute anche prima d'ora. Ma non so che dire, il mondo ha un certo incantesimo, che fa fare di quelle cose che non si vorrebbono fare. Dove però si tratta di dar nell'occhio, bisogna usare maggior prudenza. Orsù, in ogni modo mi convien licenziare il signor Guglielmo, a costo di non andare in campagna.

GIACINTA:                Mi consolo, signore, che la seccatura è finita.

FILIPPO:                    Chiamatemi un servitore.

GIACINTA:                Se volete che diano in tavola, glielo posso dire io medesima.

FILIPPO:                    Chiamatemi un servitore. L'ho da mandare in un loco.

GIACINTA:                Dove lo volete mandare?

FILIPPO:                    Siete troppo curiosa. Lo vo' mandare dove mi pare.

GIACINTA:                Per qualche interesse che vi ha suggerito il signor Fulgenzio?

FILIPPO:                    Voi vi prendete con vostro padre più libertà di quello che vi conviene.

GIACINTA:                Chi ve l'ha detto, signore? Il signor Fulgenzio?

FILIPPO:                    Finitela, e andate via, vi dico.

GIACINTA:                Alla vostra figliuola? Alla vostra cara Giacinta?

FILIPPO:                    (Non sono avvezzo a far da cattivo, e non lo so fare).

GIACINTA:                (Ci scommetterei la testa, che Leonardo si è servito del signor Fulgenzio per ispuntarla. Ma non ci riuscirà).

FILIPPO:                    C'è nessuno di là? C'è nessun servitore?

GIACINTA:                Ora, ora, acchetatevi un poco. Anderò io a chiamar qualcheduno.

FILIPPO:                    Fate presto.

GIACINTA:                Ma non si può sapere, che cosa vogliate fare del servitore?

FILIPPO:                    Che maledetta curiosità! Lo voglio mandare dal signor Guglielmo.

GIACINTA:                Avete paura che egli non venga? Verrà pur troppo. Così non venisse.

FILIPPO:                    Così non venisse?

GIACINTA:                Sì, signore, così non venisse. Godremmo più libertà, e potrebbe venire con noi quella povera Brigida, che si raccomanda.

FILIPPO:                    E non avreste piacere d'aver in viaggio una compagnia da discorrere, da divertirvi?

GIACINTA:                Io non ci penso, e non v'ho mai pensato. Non siete stato voi che l'ha invitato? Ho detto niente io, perché lo facciate venire?

FILIPPO:                    (Mia figliuola ha più giudizio di me). Ehi, chi è di là? Un servitore.

GIACINTA:                Subito lo vado io a chiamare. E che volete far dire al signor Guglielmo?

FILIPPO:                    Che non s'incomodi, e che non lo possiamo servire.

GIACINTA:                Oh bella scena! bella, bella, bellissima scena. (Con ironia.)

FILIPPO:                    Glielo dirò con maniera.

GIACINTA:                Che buona ragione gli saprete voi dire?

FILIPPO:                    Che so io?... Per esempio... che nella carrozza ha da venire la cameriera, e che non c'è loco per lui.

GIACINTA:                Meglio, meglio, e sempre meglio. (Come sopra.)

FILIPPO:                    Vi burlate di me, signorina?

GIACINTA:                Io mi maraviglio certo di voi, che siate capace di una simile debolezza. Che cosa volete ch'ei dica? Che cosa volete che dica il mondo? Volete essere trattato da uomo incivile, da malcreato?

FILIPPO:                    Vi pare cosa ben fatta, che un giovane venga in sterzo con voi?

GIACINTA:                Sì, è malissimo fatto, e non si può far peggio; ma bisognava pensarvi prima. Se l'avessi invitato io, potreste dir non lo voglio; ma l'avete invitato voi.

FILIPPO:                    E bene, io ho fatto il male, ed io ci rimedierò.

GIACINTA:                Basta che il rimedio non sia peggiore del male. Finalmente, s'ei viene con me, c'è la zia, ci siete voi: è male; ma non è gran male. Ma se dite ora di non volerlo, se gli fate la mal'azione di licenziarlo, non arriva domani, che voi ed io per Livorno e per Montenero siamo in bocca di tutti: si alzano sopra di noi delle macchine, si fanno degli almanacchi. Chi dirà: erano innamorati, e si son disgustati. Chi dirà: il padre si è accorto di qualche cosa. Chi sparlerà di voi, chi sparlerà di me; e per non fare una cosa innocente, ne patirà la nostra riputazione.

FILIPPO:                    (Quanto pagherei che ci fusse Fulgenzio che la sentisse!) Non sarebbe meglio che lasciassimo stare d'andar in campagna?

GIACINTA:                Sarebbe meglio per una parte; ma per l'altra poi si farebbe peggio. Figurarsi! quelle buone lingue di Montenero che cosa direbbono de' fatti nostri! Il signor Filippo non villeggia più, ha finito, non ha più il modo. La sua figliuola, poveraccia! ha terminato presto di figurare. La dote è fritta; chi l'ha da prendere? chi l'ha da volere? Dovevano mangiar meno, dovevano trattar meno. Quello che si vedeva, era fumo, non era arrosto. Mi par di sentirle; mi vengono i sudori freddi.

FILIPPO:                    Che cosa dunque abbiamo da fare?

GIACINTA:                Tutto quel che volete.

FILIPPO:                    S'io fuggo dalla padella, ho paura di cader nelle bragie.

GIACINTA:                E le bragie scottano, e convien salvar la riputazione.

FILIPPO:                    Vi parrebbe dunque meglio fatto, che il signor Guglielmo venisse con noi?

GIACINTA:                Per questa volta, giacché è fatta. Ma mai più, vedete, mai più. Vi serva di regola, e non lo fate mai più.

FILIPPO:                    (È una figliuola di gran talento).

GIACINTA:                E così? Volete che chiami il servitore, o che non lo chiami?

FILIPPO:                    Lasciamo stare, giacché è fatta.

GIACINTA:                Sarà meglio, che andiamo a pranzo.

FILIPPO:                    E in villa abbiamo da tenerlo in casa con noi?

GIACINTA:                Che impegni avete presi con lui?

FILIPPO:                    Io l'ho invitato, per dirla.

GIACINTA:                E come volete fare a mandarlo via?

FILIPPO:                    Ci dovrà stare dunque.

GIACINTA:                Ma mai più, vedete, mai più.

FILIPPO:                    Mai più, figliuola, che tu sia benedetta, mai più! (Parte.)

SCENA UNDICESIMA

Giacinta, poi Brigida.

GIACINTA:                Nulla mi preme del signor Guglielmo. Ma non voglio che Leonardo si possa vantare d'averla vinta. Già son sicura che gli passerà, son sicura che tornerà, che conoscerà non essere questa una cosa da prendere con tanto caldo. E se mi vuol bene davvero, com'egli dice, imparerà a regolarsi per l'avvenire con più discrezione, ché non sono nata una schiava, e non voglio essere schiava.

BRIGIDA:                   Signora, una visita.

GIACINTA:                E chi è a quest'ora?

BRIGIDA:                   La signora Vittoria.

GIACINTA:                Le hai detto che ci sono?

BRIGIDA:                   Come voleva, ch'io dicessi, che non ci è?

GIACINTA:                Ora mi viene in tasca davvero: e dov'è?

BRIGIDA:                   Ha mandato il servitore innanzi. È per la strada che viene.

GIACINTA:                Valle incontro. Converrà ch'io la soffra. Ho anche curiosità di sapere se viene o se non viene in campagna; se vi è novità veruna. Venendo ella a quest'ora, qualche cosa ci avrebbe a essere.

BRIGIDA:                   Ho saputo una cosa.

GIACINTA:                E che cosa?

BRIGIDA:                   Ch'ella pure si è fatto un vestito nuovo, e non lo poteva avere dal sarto, perché credo che il sarto volesse esser pagato; e c'è stato molto che dire, e se non aveva il vestito, non voleva andare in campagna. Cose, cose veramente da mettere nelle gazzette. (Parte.)

SCENA DODICESIMA

Giacinta, poi Vittoria.

GIACINTA:                È ambiziosissima. Se vede qualche cosa di nuovo ad una persona, subito le vien la voglia d'averla. Avrà saputo, ch'io mi ho fatto il vestito nuovo, e l'ha voluto ella pure. Ma non avrà penetrato del mariage. Non l'ho detto a nessuno; non avrà avuto tempo a saperlo.

VITTORIA:                Giacintina, amica mia carissima.

GIACINTA:                Buon dì, la mia cara gioia. (Si baciano.)

VITTORIA:                Che dite eh? È una bell'ora questa da incomodarvi?

GIACINTA:                Oh! incomodarmi? Quando vi ho sentita venire, mi si è allargato il core d'allegrezza.

VITTORIA:                Come state? State bene?

GIACINTA:                Benissimo. E voi? Ma è superfluo il domandarvi: siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che consolate.

VITTORIA:                Voi, voi avete una ciera che innamora.

GIACINTA:                Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mattina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi duole il capo, figurarsi che buona ciera ch'io posso avere.

VITTORIA:                Ed io non so cosa m'abbia, sono tanti giorni che non mangio niente; niente, niente, si può dir quasi niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco.

GIACINTA:                Sì, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non sono stecchi.

VITTORIA:                Eh! a voi non vi si contano l'ossa.

GIACINTA:                No, poi. Per grazia del cielo, ho il mio bisognetto.

VITTORIA:                Oh cara la mia Giacinta!

GIACINTA:                Oh benedetta la mia Vittorina! (Si baciano.) Sedete, gioia; via sedete.

VITTORIA:                Aveva tanta voglia di vedervi. Ma voi non vi degnate mai di venir da me. (Siedono.)

GIACINTA:                Oh! caro il mio bene, non vado in nessun loco. Sto sempre in casa.

VITTORIA:                E io? Esco un pochino la festa, e poi sempre in casa.

GIACINTA:                Io non so come facciano quelle che vanno tutto il giorno a girone per la città.

VITTORIA:                (Vorrei pur sapere se va o se non va a Montenero, ma non so come fare).

GIACINTA:                (Mi fa specie, che non mi parla niente della campagna).

VITTORIA:                È molto che non vedete mio fratello?

GIACINTA:                L'ho veduto questa mattina.

VITTORIA:                Non so cos'abbia. È inquieto, è fastidioso.

GIACINTA:                Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre ore buone e le nostre ore cattive.

VITTORIA:                Credeva quasi che avesse gridato con voi.

GIACINTA:                Con me? Perché ha da gridare con me? Lo stimo e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter gridare con me. (Ci gioco io, che l'ha mandata qui suo fratello).

VITTORIA:                (È superba quanto un demonio).

GIACINTA:                Vittorina, volete restar a pranzo con noi?

VITTORIA:                Oh! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi aspetta.

GIACINTA:                Glielo manderemo a dire.

VITTORIA:                No, no assolutamente non posso.

GIACINTA:                Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in tavola.

VITTORIA:                (Ho capito. Mi vuol mandar via). Così presto andate a desinare?

GIACINTA:                Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto, bisogna sollecitare.

VITTORIA:                (Ah! maledetta la mia disgrazia).

GIACINTA:                M'ho da cambiar di tutto, m'ho da vestire da viaggio.

VITTORIA:                Sì, sì, è vero; ci sarà della polvere. Non torna il conto rovinare un abito buono. (Mortificata.)

GIACINTA:                Oh! in quanto a questo poi, me ne metterò uno meglio di questo. Della polvere non ho paura. Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo capuccietto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio.

VITTORIA:                (Anche la sopravveste col capuccietto! La voglio anch'io, se dovessi vendere de' miei vestiti).

GIACINTA:                Voi non l'avete la sopravveste col capuccietto?

VITTORIA:                Sì, sì, ce l'ho ancor io; me l'ho fatta fin dall'anno passato.

GIACINTA:                Non ve l'ho veduta l'anno passato.

VITTORIA:                Non l'ho portata, perché, se vi ricordate, non c'era polvere.

GIACINTA:                Sì, sì, non c'era polvere. (È propriamente ridicola).

VITTORIA:                Quest'anno mi ho fatto un abito.

GIACINTA:                Oh! io me ne ho fatto un bello.

VITTORIA:                Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.

GIACINTA:                In materia di questo, vedrete qualche cosa di particolare.

VITTORIA:                Nel mio non vi è né oro, né argento, ma per dir la verità, è stupendo.

GIACINTA:                Oh! moda, moda. Vuol esser moda.

VITTORIA:                Oh! circa la moda, il mio non si può dir che non sia alla moda.

GIACINTA:                Sì, sì, sarà alla moda. (Sogghignando.)

VITTORIA:                Non lo credete?

GIACINTA:                Sì, lo credo. (Vuol restare quando vede il mio mariage).

VITTORIA:                In materia di mode poi, credo di essere stata sempre io delle prime.

GIACINTA:                E che cos'è il vostro abito?

VITTORIA:                È un mariage.

GIACINTA:                Mariage! (Maravigliandosi.)

VITTORIA:                Sì, certo. Vi par che non sia alla moda?

GIACINTA:                Come avete voi saputo, che sia venuta di Francia la moda del mariage?

VITTORIA:                Probabilmente, come l'avrete saputo anche voi.

GIACINTA:                Chi ve l'ha fatto?

VITTORIA:                Il sarto francese monsieur de la Réjouissance.

GIACINTA:                Ora ho capito. Briccone! Me la pagherà. Io l'ho mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del mariage. Io che aveva in casa l'abito di madama Granon.

VITTORIA:                Oh! madama Granon è stata da me a farmi visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.

GIACINTA:                Sì, sì, scusatelo. Me l'ha da pagare senza altro.

VITTORIA:                Vi spiace, ch'io abbia il mariage?

GIACINTA:                Oibò, ci ho gusto.

VITTORIA:                Volevate averlo voi sola?

GIACINTA:                Perché? Credete voi, ch'io sia una fanciulla invidiosa? Credo che lo sappiate, che io non invidio nessuno. Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perché pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare più d'una volta.

VITTORIA:                Io credo che tutte paghino.

GIACINTA:                No, tutte non pagano. Tutte non hanno il modo, o la delicatezza che abbiamo noi. Vi sono di quelle che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche premura, il sarto s'impunta. Vuole i danari sul fatto, e nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappiatemi dir se è alla moda).

VITTORIA:                (Non crederei, che parlasse di me. Se potessi credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar, come merita).

GIACINTA:                E quando ve lo metterete questo bell'abito?

VITTORIA:                Non so, può essere, che non me lo metta nemeno. Io son così; mi basta d'aver la roba, ma non mi curo poi di sfoggiarla.

GIACINTA:                Se andate in campagna, sarebbe quella l'occasione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in quest'anno!

VITTORIA:                Chi v'ha detto che io non ci vada?

GIACINTA:                Non so: il signor Leonardo ha mandato a licenziar i cavalli.

VITTORIA:                E per questo? Non si può risolvere da un momento all'altro? E lo credete che non possa andare senza di lui? Credete ch'io non abbia delle amiche, delle parenti da poter andare?

GIACINTA:                Volete venire con me?

VITTORIA:                No, no, vi ringrazio.

GIACINTA:                Davvero, vi vedrei tanto volentieri.

VITTORIA:                Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo.

GIACINTA:                Oh! che l'avrei tanto a caro.

VITTORIA:                A che ora partite?

GIACINTA:                A ventun'ora.

VITTORIA:                Oh! dunque c'è tempo. Posso trattenermi qui ancora un poco. (Vorrei vedere questo abito, se potessi).

GIACINTA:                Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco. (Verso la scena.)

VITTORIA:                Se avete qualche cosa da fare, servitevi.

GIACINTA:                Eh! niente. M'hanno detto che il pranzo è all'ordine, e che mio padre vuol desinare.

VITTORIA:                Partirò dunque.

GIACINTA:                No, no, se volete restare, restate.

VITTORIA:                Non vorrei che il vostro signor padre si avesse a inquietare.

GIACINTA:                Per verità, è fastidioso un poco.

VITTORIA:                Vi leverò l'incomodo. (S'alza.)

GIACINTA:                Se volete restar con noi, mi farete piacere. (S'alza.)

VITTORIA:                (Quasi, quasi, ci resterei, per la curiosità di quest'abito).

GIACINTA:                Ho inteso; non vedete? Abbiate creanza. (Verso la scena.)

VITTORIA:                Con chi parlate?

GIACINTA:                Col servitore che mi sollecita. Non hanno niente di civiltà costoro.

VITTORIA:                Io non ho veduto nessuno.

GIACINTA:                Eh, l'ho ben veduto io.

VITTORIA:                (Ho capito). Signora Giacinta, a buon rivederci.

GIACINTA:                Addio, cara. Vogliatemi bene, ch'io vi assicuro che ve ne voglio.

VITTORIA:                Siate certa, che siete corrisposta di cuore.

GIACINTA:                Un bacio almeno.

VITTORIA:                Sì, vita mia.

GIACINTA:                Cara la mia gioia. (Si baciano.)

VITTORIA:                Addio.

GIACINTA:                Addio.

VITTORIA:                (Faccio de' sforzi a fingere, che mi sento crepare). (Parte.)

GIACINTA:                Le donne invidiose io non le posso soffrire. (Parte.)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera di Leonardo.

Leonardo e Fulgenzio.

LEONARDO:             Voi mi date una nuova, signor Fulgenzio, che mi consola infinitamente. Ha dunque dato parola il signor Filippo di liberarsi dall'impegno che aveva col signor Guglielmo?

FULGENZIO:            Sì, certo, mi ha promesso di farlo.

LEONARDO:             E siete poi sicuro che non vi manchi?

FULGENZIO:            Son sicurissimo. Passano delle cose fra lui e me, che mi rendono certo della sua parola; e poi l'ho trovato assai pontuale in affari di rimarco. Non dubito di ritrovarlo tale anche in questo.

LEONARDO:             Dunque Guglielmo non andrà in campagna colla signora Giacinta.

FULGENZIO:            Questo è certissimo.

LEONARDO:             Son contentissimo. Ora ci andrò io volentieri.

FULGENZIO:            Ho detto tanto, ho fatto tanto, che quel buon uomo si è illuminato. Egli ha un ottimo cuore. Non crediate ch'ei manchi per malizia; manca qualche volta per troppa bontà.

LEONARDO:             E credo che la sua figliuola lo faccia fare a suo modo.

FULGENZIO:            No, non è cattiva fanciulla. Mi ha confessato il signor Filippo, ch'ella non avea parte alcuna nell'invito del signor Guglielmo; e ch'egli l'avea anzi pregato d'andar con loro, per quella passione ch'egli ha d'aver compagnia, e di farsi mangiare il suo.

LEONARDO:             Ho piacere che la signora Giacinta non ne abbia parte. Mi pareva quasi impossibile, sapendo quel che è passato fra lei e me.

FULGENZIO:            E che cosa è passato fra lei e voi?

LEONARDO:             Delle parole che l'assicurano ch'io l'amo, e che mi fanno sperare ch'ella mi ami.

FULGENZIO:            E il padre suo non sa niente?

LEONARDO:             Per parte mia non lo sa.

FULGENZIO:            E convien credere ch'ei non lo sappia, perché dicendogli che vi sarebbe un partito per sua figliuola, non gli è caduto in mente di domandarmi di voi.

LEONARDO:             Non lo saprà certamente.

FULGENZIO:            Ma è necessario ch'egli lo sappia.

LEONARDO:             Un giorno glielo faremo sapere.

FULGENZIO:            E perché non adesso?

LEONARDO:             Adesso si sta per andare in campagna.

FULGENZIO:            Amico, parliamo chiaro. Io vi ho servito assai volentieri presso il signor Filippo, per far ch'ei staccasse da sua figliuola una compagnia un poco pericolosa, perché mi parve che l'onestà l'esigesse, e perché mi avete assicurato di aver buona intenzione sopra di lei, e che ottenuta questa soddisfazione, l'avreste chiesta in isposa. Ora non vorrei che seguitasse la tresca senza conclusione veruna, ed essere stato io cagione di un mal peggiore. Finalmente col signor Guglielmo potea essere che non ci fosse malizia, ma di voi non si può dire così. Siete avviticchiati, per quel ch'io sento, e poiché mi avete fatto entrare in cotesta danza, non ne voglio uscire con disonore. Una delle due dunque, o dichiaratevi col signor Filippo, o gli farò, riguardo a voi, quella lezione medesima che gli ho fatto rispetto al signor Guglielmo.

LEONARDO:             E che cosa mi consigliate di fare?

FULGENZIO:            O chiederla a drittura, o ritirarvi dalla sua conversazione.

LEONARDO:             E come ho da fare a chiederla in questi brevi momenti?

FULGENZIO:            Questa è una cosa che si fa presto. Mi esibisco io di servirvi.

LEONARDO:             Non si potrebbe aspettare al ritorno dalla campagna?

FULGENZIO:            Eh! in una villeggiatura non si sa quel che possa accadere. Sono stato giovane anch'io; per grazia del cielo, pazzo non sono stato, ma ho veduto delle pazzie. L'obbligo mio vuol ch'io parli chiaro all'amico, o per domandargli la figlia, o per avvertirlo che si guardi da voi.

LEONARDO:             Quand'è così, domandiamola dunque.

FULGENZIO:            Con che condizione volete voi ch'io gliela domandi?

LEONARDO:             Circa alla dote, si sa che le ha destinato otto mila scudi e il corredo.

FULGENZIO:            Siete contento?

LEONARDO:             Contentissimo.

FULGENZIO:            Quanto tempo volete prendere per isposarla?

LEONARDO:             Quattro, sei, otto mesi, come vuole il signor Filippo.

FULGENZIO:            Benissimo. Gli parlerò.

LEONARDO:             Ma avvertite che oggi si dee partire per Montenero.

FULGENZIO:            Non si potrebbe differir qualche giorno?

LEONARDO:             Non c'è caso, non si può differire.

FULGENZIO:            Ma, l'affare di cui si tratta, merita che si sagrifichi qualche cosa.

LEONARDO:             Se si trattiene il signor Filippo, mi tratterrò ancor io, ma vedrete che sarà impossibile.

FULGENZIO:            E perché impossibile?

LEONARDO:             Perché tutti vanno, e il signor Filippo vorrà andare, e la signora Giacinta infallibilmente oggi vorrà partire, e mia sorella mi tormenta all'estremo per l'impazienza d'andare, e per cento ragioni io non mi potrò trattenere.

FULGENZIO:            Poh! fin dove è arrivata la passione del villeggiare! Un giorno pare un secolo. Tutti gli affari cedono; via, anderò subito; vi servirò, vi soddisfarò. Ma, caro amico, soffrite dalla mia sincerità due parole ancora. Maritatevi per far giudizio, e non per essere piucché mai rovinato. So che le cose vostre non vanno molto felicemente. Otto mila scudi di dote vi possono rimediare; ma non gli spendete intorno di vostra moglie, non li sagrificate in villeggiatura; prudenza, economia, giudizio. Val più il dormir quieto, senza affanni di cuore, di tutti i divertimenti del mondo. Fin che ce n'è, tutti godono. Quando non ce n'è più, motteggi, derisioni, fischiate, scusatemi. Vado a servirvi immediatamente. (Parte.)

SCENA SECONDA

Leonardo, poi Cecco.

LEONARDO:             Eh! dice bene; mi saprò regolare; metterò la testa a partito. Ehi, chi è di là?

CECCO:                      Signore.

LEONARDO:             Va subito dal signor Filippo, e dalla signora Giacinta. Di loro che mi sono liberato da' miei affari, e che oggi mi darò l'onore di essere della loro partita per Montenero. Soggiungi che avrei una compagnia da dare a mia sorella in calesso, e che, se me lo permettono, andrò io nella carrozza con loro. Fa presto, e portami la risposta.

CECCO:                      Sarà obbedita.

LEONARDO:             Di' al cameriere che venga qui, e che venga subito.

CECCO:                      Sì, signore. (Oh quante mutazioni in un giorno!) (Parte.)

SCENA TERZA

Leonardo, poi Paolo.

LEONARDO:             Ora che nella carrozza loro non va Guglielmo, non ricuseranno la mia compagnia; sarebbe un torto manifesto che mi farebbono. E poi, se il signor Fulgenzio gli parla, se il signor Filippo è contento di dare a me sua figliuola, come non dubito, la cosa va in forma; nella carrozza ci ho d'andar io. Con mia sorella vedrò che ci vada il signor Ferdinando. Già so com'egli è fatto, non si ricorderà più quello che gli ho detto.

PAOLO:                      Eccomi a' suoi comandi.

LEONARDO:             Presto, mettete all'ordine quel che occorre, e fate ordinare i cavalli, che a ventun'ora s'ha da partire.

PAOLO:                      Oh! bella!

LEONARDO:             E spicciatevi.

PAOLO:                      E il desinare?

LEONARDO:             A me non importa il desinare. Mi preme che siamo lesti per la partenza.

PAOLO:                      Ma io ho disfatto tutto quello che aveva fatto.

LEONARDO:             Tornate a fare.

PAOLO:                      È impossibile.

LEONARDO:             Ha da esser possibile, e ha da esser fatto.

PAOLO:                      (Maledetto sia il servire in questa maniera).

LEONARDO:             E voglio il caffè, la cera, lo zucchero, la cioccolata.

PAOLO:                      Io ho reso tutto ai mercanti.

LEONARDO:             Tornate a ripigliare ogni cosa.

PAOLO:                      Non mi vorranno dar niente.

LEONARDO:             Non mi fate andar in collera.

PAOLO:                      Ma, signore...

LEONARDO:             Non c'è altro da dire. Spicciatevi.

PAOLO:                      Vuole che gliela dica? Si faccia servire da chi vuole, ch'io non ho abilità per servirla.

LEONARDO:             No, Paolino mio, non mi abbandonate. Dopo tanti anni di servitù, non mi abbandonate. Si tratta di tutto. Vi farò una confidenza non da padrone, ma da amico. Si tratta, che il signor Filippo mi dia per moglie la sua figliuola, con dodicimila scudi di dote. Volete ora ch'io perda il credito? Mi volete vedere precipitato? Credete ch'io sia in necessità di fare gli ultimi sforzi per comparire? Avrete core ora di dirmi che non si può, che è impossibile, che non mi potete servire?

PAOLO:                      Caro signor padrone, la ringrazio della confidenza che si è degnato di farmi: farò il possibile; sarà servita. Se credessi di far col mio, la non dubiti, sarà servita. (Parte.)

SCENA QUARTA

Leonardo, poi Vittoria.

LEONARDO:             È un buon uomo, amoroso, fedele; dice che farà, se credesse di far col suo. Ma m'immagino già che quel che ora è suo, una volta sarà stato mio. Frattanto vo' rimettere in ordine il mio baule.

VITTORIA:                Orsù, signor fratello, vengo a dirvi liberamente che da questa stagione in Livorno non ci sono mai stata, e non ci voglio stare, e voglio andare in campagna. Ci va la signora Giacinta, ci vanno tutti, e ci voglio andar ancor io. (Con caldo.)

LEONARDO:             E che bisogno c'è che mi venite ora a parlare con questo caldo?

VITTORIA:                Mi scaldo, perché ho ragione di riscaldarmi, e andrò in campagna con mia cugina Lugrezia e con suo marito.

LEONARDO:             E perché non volete venire con me?

VITTORIA:                Quando?

LEONARDO:             Oggi.

VITTORIA:                Dove?

LEONARDO:             A Montenero.

VITTORIA:                Voi?

LEONARDO:             Io.

VITTORIA:                Oh!

LEONARDO:             Sì, da galantuomo.

VITTORIA:                Mi burlate?

LEONARDO:             Dico davvero.

VITTORIA:                Davvero, davvero?

LEONARDO:             Non vedete ch'io fo il baule?

VITTORIA:                Oh! fratello mio, come è stata?

LEONARDO:             Vi dirò: sappiate che il signor Fulgenzio...

VITTORIA:                Sì, sì, mi racconterete poi. Presto, donne, dove siete? Donne, le scatole, la biancheria, le scuffie, gli abiti, il mio mariage. (Parte.)

SCENA QUINTA

Leonardo, poi Cecco.

LEONARDO:             È fuor di sé dalla consolazione. Certo, che se restava in Livorno, non le si poteva dare una mortificazione maggiore. E io? Sarei stato per impazzire. Ma! il puntiglio fa fare delle gran cose. L'amore fa fare degli spropositi. Per un puntiglio, per una semplice gelosia, sono stato in procinto di abbandonare la villeggiatura.

CECCO:                      Eccomi di ritorno.

LEONARDO:             E così, che hanno detto?

CECCO:                      Li ho trovati padre e figlia, tutti e due insieme. M'hanno detto di riverirla; che avranno piacere della di lei compagnia per viaggio, ma che circa il posto nella carrozza, abbia la bontà di compatire, che non la possono servire, perché sono impegnati a darlo al signor Guglielmo.

LEONARDO:             Al signor Guglielmo?

CECCO:                      Così m'hanno detto.

LEONARDO:             Hai tu capito bene? Al signor Guglielmo?

CECCO:                      Al signor Guglielmo.

LEONARDO:             No, non può essere. Sei uno stolido, sei un balordo.

CECCO:                      Io le dico, che ho capito benissimo, e in segno della mia verità, quando io scendeva le scale, saliva il signor Guglielmo col suo servitore col valigino.

LEONARDO:             Povero me! non so dove mi sia. Mi ha tradito Fulgenzio, mi scherniscono tutti, son fuor di me. Sono disperato. (Siede.)

CECCO:                      Signore.

LEONARDO:             Portami dell'acqua.

CECCO:                      Da lavar le mani?

LEONARDO:             Un bicchier d'acqua, che tu sia maladetto. (S'alza.)

CECCO:                      Subito. (Non si va più in campagna). (Parte.)

LEONARDO:             Ma come mai quel vecchio, quel maladetto vecchio, ha potuto ingannarmi? L'averanno ingannato. Ma se mi ha detto che Filippo ha con esso lui degli affari, in virtù dei quali non lo poteva ingannare; dunque il male viene da lui; ma non può venire da lui. Verrà da lei, da lei; ma non può venire nemmeno da lei. Sarà stato il padre; ma se il padre ha promesso. Sarà stata la figlia; ma se la figlia dipende. Sarà dunque stato Fulgenzio; ma per qual ragione mi ha da tradire Fulgenzio? Non so niente, son io la bestia, il pazzo, l'ignorante...

CECCO (viene coll'acqua).

LEONARDO:             Sì, pazzo, bestia. (Da sé, non vedendo Cecco.)

CECCO:                      Ma! perché bestia?

LEONARDO:             Sì, bestia, bestia. (Prendendo l'acqua.)

CECCO:                      Signore, io non sono una bestia.

LEONARDO:             Io, io sono una bestia, io. (Beve l'acqua.)

CECCO:                      (Infatti le bestie bevono l'acqua, ed io bevo il vino).

LEONARDO:             Va subito dal signor Fulgenzio. Guarda s'è in casa. Digli che favorisca venir da me, o che io andrò da lui.

CECCO:                      Dal signor Fulgenzio, qui dirimpetto?

LEONARDO:             Sì, asino, da chi dunque?

CECCO:                      Ha detto a me?

LEONARDO:             A te.

CECCO:                      (Asino, bestia, mi pare che sia tutt'uno). (Parte.)

SCENA SESTA

Leonardo, poi Paolo.

LEONARDO:             Non porterò rispetto alla sua vecchiaia, non porterò rispetto a nessuno.

PAOLO:                      Animo, animo, signore, stia allegro, che tutto sarà preparato.

LEONARDO:             Lasciatemi stare.

PAOLO:                      Perdoni, io ho fatto il debito mio, e più del debito mio.

LEONARDO:             Lasciatemi stare, vi dico.

PAOLO:                      Vi è qualche novità?

LEONARDO:             Sì, pur troppo.

PAOLO:                      I cavalli sono ordinati.

LEONARDO:             Levate l'ordine.

PAOLO:                      Un'altra volta?

LEONARDO:             Oh! maledetta la mia disgrazia!

PAOLO:                      Ma che cosa gli è accaduto mai?

LEONARDO:             Per carità, lasciatemi stare.

PAOLO:                      (Oh! povero me! andiamo sempre di male in peggio).

SCENA SETTIMA

Vittoria con un vestito piegato, e detti.

VITTORIA:                Fratello, volete vedere il mio mariage?

LEONARDO:             Andate via.

VITTORIA:                Che maniera è questa?

PAOLO:                      (Lo lasci stare). (Piano a Vittoria.)

VITTORIA:                Che diavolo avete?

LEONARDO:             Sì, ho il diavolo; andate via.

VITTORIA:                E con questa bella allegria si ha da andare in campagna?

LEONARDO:             Non vi è più campagna; non vi è più villeggiatura, non vi è più niente.

VITTORIA:                Non volete andare in campagna?

LEONARDO:             No, non ci vado io, e non ci anderete nemmeno voi.

VITTORIA:                Siete diventato pazzo?

PAOLO:                      (Non lo inquieti di più, per amor del Cielo). (A Vittoria.)

VITTORIA:                Eh! non mi seccate anche voi. (A Paolo.)

SCENA OTTAVA

Cecco e detti.

CECCO:                      Il signor Fulgenzio non c'è. (A Leonardo.)

LEONARDO:             Dove il diavolo se l'ha portato?

CECCO:                      Mi hanno detto, che è andato dal signor Filippo.

LEONARDO:             Il cappello e la spada. (A Paolo.)

PAOLO:                      Signore...

LEONARDO:             Il cappello e la spada. (A Paolo, più forte.)

PAOLO:                      Subito. (Va a prendere il cappello e la spada.)

VITTORIA:                Ma si può sapere? (A Leonardo.)

LEONARDO:             Il cappello e la spada.

PAOLO:                      Eccola servita. (Gli dà il cappello e la spada.)

VITTORIA:                Si può sapere, che cosa avete? (A Leonardo.)

LEONARDO:             Lo saprete poi. (Parte.)

VITTORIA:                Ma che cosa ha? (A Paolo.)

PAOLO:                      Non so niente. Gli vo' andar dietro alla lontana. (Parte.)

VITTORIA:                Sai tu, che cos'abbia? (A Cecco.)

CECCO:                      Io so che m'ha detto asino; non so altro. (Parte.)

SCENA NONA

Vittoria, poi Ferdinando.

VITTORIA:                Io resto di sasso, non so in che mondo mi sia. Vengo a casa, lo trovo allegro, mi dice: Andiamo in campagna. Vo di là, non passano tre minuti. Sbuffa, smania. Non si va più in campagna. Io dubito che abbia data la volta al cervello. Ecco qui, ora sono più disperata che mai. Se questa di mio fratello è una malattia, addio campagna, addio Montenero. Va là tu pure, maledetto abito. Poco ci mancherebbe che non lo tagliassi in minuzzoli. (Getta il vestito sulla sedia.)

FERDINANDO:         Eccomi qui a consolarmi colla signora Vittoria.

VITTORIA:                Venite anche voi a rompermi il capo?

FERDINANDO:         Come, signora? Io vengo qui per un atto di urbanità, e voi mi trattate male?

VITTORIA:                Che cosa siete venuto a fare?

FERDINANDO:         A consolarmi che anche voi anderete in campagna.

VITTORIA:                Oh! se non fosse perché, perché... mi sfogherei con voi di tutte le consolazioni che ho interne.

FERDINANDO:         Signora, io sono compiacentissimo. Quando si tratta di sollevar l'animo di una persona, si sfoghi con me, che le do licenza.

VITTORIA:                Povero voi, se vi facessi provar la bile che mi tormenta.

FERDINANDO:         Ma cosa c'è? Cosa avete? Cosa v'inquieta? Confidatevi meco. Con me potete parlare con libertà. Siete sicura ch'io non lo dico a nessuno.

VITTORIA:                Sì, certo, confidatevi alla tromba della comunità.

FERDINANDO:         Voi mi avete in mal credito, e non mi pare di meritarlo.

VITTORIA:                Io dico quello che sento dire da tutti.

FERDINANDO:         Come possono dire ch'io dica i falli degli altri? Ho mai detto niente a voi di nessuno?

VITTORIA:                Oh! mille volte; e della signora Aspasia, e della signora Flamminia, e della signora Francesca.

FERDINANDO:         Ho detto io?

VITTORIA:                Sicuro.

FERDINANDO:         Può essere che l'abbia fatto senza avvedermene.

VITTORIA:                Eh! già, quel che si fa per abito, non si ritiene.

FERDINANDO:         In somma, dunque siete arrabbiata, e non mi volete dire il perché?

VITTORIA:                No, non vi voglio dir niente.

FERDINANDO:         Sentite. O sono un galantuomo, o sono una mala lingua. Se sono un galantuomo, confidatevi, e non abbiate paura. Se fossi una mala lingua, sarebbe in arbitrio mio interpretare le vostre smanie, e trarne quel ridicolo che più mi paresse.

VITTORIA:                Volete ch'io ve la dica? Davvero, davvero, siete un giovane spiritoso. (Ironica.)

FERDINANDO:         Son galantuomo, signora. E quando si può parlare, parlo, e quando s'ha da tacere, taccio.

VITTORIA:                Orsù, perché non crediate quel che non è; e non pensiate quel che vi pare, vi dirò che per me medesima non ho niente, ma mio fratello è inquietissimo, è fuor di sé, è delirante, e per cagione sua divento peggio di lui.

FERDINANDO:         Sì, sarà delirante per la signora Giacinta. È una frasca, è una civetta, dà retta a tutti, si discredita, si fa ridicola dappertutto.

VITTORIA:                Per altro voi non dite mal di nessuno.

FERDINANDO:         Dov'è il signor Leonardo?

VITTORIA:                Io credo che sia andato da lei.

FERDINANDO:         Con licenza.

VITTORIA:                Dove, dove?

FERDINANDO:         A ritrovare l'amico, a soccorrerlo, a consigliarlo. (A raccogliere qualche cosa per la conversazione di Montenero). (Parte.)

VITTORIA:                Ed io, che cosa ho da fare? Ho da aspettar mio fratello, o ho da andare da mia cugina? Bisognerà che io l'aspetti, bisognerà, ch'io osservi dove va a finire questa faccenda. Ma no, sono impaziente, vo' saper subito qualche cosa. Vo' tornar dal signor Filippo, vo' tornar da Giacinta. Chi sa, ch'ella non faccia apposta perch'io non vada in campagna? Ma nasca quel che sa nascere, ci voglio andare, e ci anderò a suo dispetto. (Parte.)

SCENA DECIMA

Camera in casa del signor Filippo.

Filippo e Fulgenzio.

FILIPPO:                    Per me, vi dico, son contentissimo. Il signor Leonardo è un giovane proprio, civile, di buona nascita, ed ha qualche cosa del suo. È vero che gli piace a spendere, e specialmente in campagna, ma si regolerà.

FULGENZIO:            Eh! per questa parte, non avete occasion di rimproverarlo.

FILIPPO:                    Volete dire, perché faccio lo stesso anch'io? Ma vi è qualche differenza da lui a me.

FULGENZIO:            Basta, non so che dire. Voi lo conoscete. Voi sapete il suo stato; dategliela, se vi pare; se non vi pare, lasciate.

FILIPPO:                    Io gliela do volentieri. Basta ch'ella ne sia contenta.

FULGENZIO:            Eh! mi persuado che non dirà di no.

FILIPPO:                    Sapete voi qualche cosa?

FULGENZIO:            Sì, so più di voi, e so quello che dovreste saper meglio voi. Un padre dee tener gli occhi aperti sulla sua famiglia, e voi che avete una figliuola sola, potreste farlo meglio di tanti altri. Non si lasciano praticar le figlie. Capite? Non si lasciano praticare. Non ve lo diceva io? È donna. Oh, oh! mi dicevate: è prudente. Ed io vi diceva: è donna. Con tutta la sua saviezza, con tutta la sua prudenza, sono passati degli amoretti fra lei e il signor Leonardo.

FILIPPO:                    Oh! sono passati degli amoretti?

FULGENZIO:            Sì, e ringraziate il cielo che avete a fare con un galantuomo; e dategliela, che farete bene.

FILIPPO:                    Sicuramente. Gliela darò, ed ei l'ha da prendere, ed ella l'ha da volere. Fraschetta! Amoretti, eh!

FULGENZIO:            Cosa credete? Che le ragazze siano di stucco? Quando si lasciano praticare...

FILIPPO:                    Ha detto di venir qui il signor Leonardo?

FULGENZIO:            No, anderò io da lui; e lo condurrò da voi, e che concludiamo.

FILIPPO:                    Sempre più mi confesso obbligato al vostro amore, alla vostra amicizia.

FULGENZIO:            Vedete se ho fatto bene io a persuadervi a staccare dal fianco di vostra figlia il signor Guglielmo?

FILIPPO:                    (Oh diavolo! E l'amico è in casa).

FULGENZIO:            Leonardo non l'intendeva, ed aveva ragione, e se il signor Guglielmo andava in campagna con voi, non la prendeva più certamente.

FILIPPO:                    (Povero me! Sono più che mai imbarazzato).

FULGENZIO:            E badate bene, che il signor Guglielmo non si trovi più in compagnia di vostra figliuola.

FILIPPO:                    (Se Giacinta non trova ella qualche ragione, io non la trovo sicuro).

FULGENZIO:            Parlate con vostra figlia, ch'io intanto andrò a ritrovare il signor Leonardo.

FILIPPO:                    Benissimo... Bisognerà vedere...

FULGENZIO:            Vi è qualche difficoltà?

FILIPPO:                    Niente, niente.

FULGENZIO:            A buon rivederci, dunque. Or ora sono da voi. (In atto di partire.)

SCENA UNDICESIMA

Guglielmo e detti.

GUGLIELMO:           Signore, le vent'una sono poco lontane. Se comandate, anderò io a sollecitare i cavalli.

FULGENZIO:            Cosa vedo? Guglielmo?

FILIPPO:                    (Che tu sia maladetto!). No, no, non importa; non si partirà più così presto. Ho qualche cosa da fare... (Non so nemmeno quel, che mi dica).

FULGENZIO:            Si va in campagna, signor Guglielmo?

GUGLIELMO:           Per obbedirla.

FILIPPO:                    (Io non ho coraggio di dirgli niente).

FULGENZIO:            E con chi va in campagna, se è lecito?

GUGLIELMO:           Col signor Filippo.

FULGENZIO:            In carrozza con lui?

GUGLIELMO:           Per l'appunto.

FULGENZIO:            E colla signora Giacinta?

GUGLIELMO:           Sì, signore.

FULGENZIO:            (Buono!).

FILIPPO:                    O via, andate a sollecitare i cavalli. (A Guglielmo.)

GUGLIELMO:           Ma se dite che vi è tempo.

FILIPPO:                    No, no, andate, andate.

GUGLIELMO:           Io non vi capisco.

FILIPPO:                    Fate che diano loro la biada, e fatemi il piacere di star lì presente, perché la mangino, e che gli stallieri non gliela levino.

GUGLIELMO:           La pagate voi la biada?

FILIPPO:                    La pago io. Andate.

GUGLIELMO:           Non occorr'altro. Sarete servito. (Parte.)

SCENA DODICESIMA

Fulgenzio e Filippo.

FILIPPO:                    (Finalmente se n'è andato).

FULGENZIO:            Bravo, signor Filippo.

FILIPPO:                    Bravo, bravo... quando si dà una parola...

FULGENZIO:            Sì, mi avete dato parola, e me l'avete ben mantenuta.

FILIPPO:                    E non aveva io data prima la parola a lui?

FULGENZIO:            E se non volevate mancar a lui, perché promettere a me?

FILIPPO:                    Perché aveva intenzione di fare quello che mi avete detto di fare.

FULGENZIO:            E perché non l'avete fatto?

FILIPPO:                    Perché... d'un male minore si poteva fare un male peggiore; perché avrebbero detto... perché avrebbero giudicato... oh cospetto di bacco! Se aveste sentito le ragioni che ha detto mia figlia, vi sareste ancora voi persuaso.

FULGENZIO:            Ho capito. Non si tratta così coi galantuomini pari miei. Non sono un burattino da farmi far di queste figure. Mi giustificherò col signor Leonardo. Mi pento d'esserci entrato. Me ne lavo le mani, e non c'entrerò più. (In atto di partire.)

FILIPPO:                    No, sentite.

FULGENZIO:            Non vo' sentir altro.

FILIPPO:                    Sentite una parola.

FULGENZIO:            E che cosa mi potete voi dire?

FILIPPO:                    Caro amico, sono così confuso, che non so in che mondo mi sia.

FULGENZIO:            Mala condotta, scusatemi, mala condotta.

FILIPPO:                    Rimediamoci, per carità.

FULGENZIO:            E come ci volete voi rimediare?

FILIPPO:                    Non siamo in tempo ancora di licenziare il signor Guglielmo?

FULGENZIO:            Non l'avete mandato a sollecitare i cavalli?

FILIPPO:                    Per levarmelo d'attorno, che miglior pretesto potea trovare?

FULGENZIO:            E quando tornerà coi cavalli?

FILIPPO:                    Sono in un mare di confusioni.

FULGENZIO:            Fate così, piuttosto tralasciate d'andare in campagna.

FILIPPO:                    E come ho da fare?

FULGENZIO:            Fatevi venir male.

FILIPPO:                    E che male m'ho da far venire?

FULGENZIO:            Il cancaro che vi mangi. (Sdegnato.)

FILIPPO:                    Non andate in collera.

SCENA TREDICESIMA

Leonardo e detti.

LEONARDO:             Ho piacere di ritrovarvi qui tutti e due. Chi è di voi che si prende spasso di me? Chi è che si burla de' fatti miei? Chi mi ha fatto l'insulto?

FULGENZIO:            Rispondetegli voi. (A Filippo.)

FILIPPO:                    Caro amico, rispondetegli voi. (A Fulgenzio.)

LEONARDO:             Così si tratta coi galantuomini? Così si tratta coi pari miei? Che modo è questo? Che maniera impropria, incivile?

FULGENZIO:            Ma rispondetegli. (A Filippo.)

FILIPPO:                    Ma se non so cosa dire! (A Fulgenzio.)

SCENA QUATTORDICESIMA

Giacinta e detti.

GIACINTA:                Che strepito è questo? Che piazzate son queste?

LEONARDO:             Signora, le piazzate non le fo io. Le fanno quelli che si burlano dei galantuomini, che mancano di parola, che tradiscono sulla fede.

GIACINTA:                Chi è il reo? Chi è il mancatore? (Con caricatura.)

FULGENZIO:            Parlate voi. (A Filippo.)

FILIPPO:                    Favoritemi di principiar voi. (A Fulgenzio.)

FULGENZIO:            Orsù, ci va del mio in quest'affare. Poiché il diavolo mi ci ha fatto entrare, a tacere ci va del mio, e se non sa parlare il signor Filippo, parlerò io. Sì, signora. Ha ragione il signor Leonardo di lamentarsi. Dopo avergli dato parola che il signor Guglielmo non sarebbe venuto con voi, mancargli, farlo venire, condurlo in villa, è un'azion poco buona, è un trattamento incivile.

GIACINTA:                Che dite voi, signor padre?

FILIPPO:                    Ha parlato con voi. Rispondete voi.

GIACINTA:                Favorisca in grazia, signor Fulgenzio, con qual autorità pretende il signor Leonardo di comandare in casa degli altri?

LEONARDO:             Con quell'autorità che un amante...

GIACINTA:                Perdoni, ora non parlo con lei. (A Leonardo.) Mi risponda il signor Fulgenzio. Come ardisce il signor Leonardo pretendere da mio padre e da me, che non si tratti chi pare a noi, e non si conduca in campagna chi a lui non piace?

LEONARDO:             Voi sapete benissimo...

GIACINTA:                Non dico a lei; mi risponda il signor Fulgenzio.

FILIPPO:                    (Oh! non sarà vero degli amoretti, non parlerebbe così).

FULGENZIO:            Poiché volete che dica io, dirò io. Il signor Leonardo non direbbe niente, non pretenderebbe niente se non avesse intenzione di pigliarvi per moglie.

GIACINTA:                Come! Il signor Leonardo ha intenzione di volermi in isposa? (A Fulgenzio.)

LEONARDO:             Possibile che vi giunga nuovo?

GIACINTA:                Perdoni. Mi lasci parlar col signor Fulgenzio. (A Leonardo.) Dite, signore, con quale fondamento potete voi asserirlo? (A Fulgenzio.)

FULGENZIO:            Col fondamento che io medesimo, per commissione del signor Leonardo, ne ho avanzata testé a vostro padre la proposizione.

LEONARDO:             Ma veggendomi ora sì maltrattato...

GIACINTA:                Di grazia, s'accheti. Ora non tocca a lei; parlerà, quando toccherà a lei. (A Leonardo.) Che dice su di ciò il signor padre?

FILIPPO:                    E che cosa direste voi?

GIACINTA:                No, dite prima quel che pensate voi. Dirò poi quello che penso io.

FILIPPO:                    Io dico che, in quanto a me, non ci avrei difficoltà.

LEONARDO:             Ma io dico presentemente...

GIACINTA:                Ma se ancora non tocca a lei! Ora tocca parlare a me. Abbia la bontà d'ascoltarmi, e poi, se vuole, risponda. Dopo che ho l'onor di conoscere il signor Leonardo, non può egli negare ch'io non abbia avuto per lui della stima; e so e conosco ch'ei ne ha sempre avuta per me. La stima a poco a poco diventa amore, e voglio credere che egli mi ami, siccome, confesso il vero, non sono io per lui indifferente. Per altro, perché un uomo acquisti dell'autorità sopra una giovane, non basta un equivoco affetto, ma è necessaria un'aperta dichiarazione. Fatta questa, non l'ha da saper la fanciulla solo, l'ha da saper chi le comanda, ha da esser nota al mondo, s'ha da stabilire, da concertare colle debite formalità. Allora tutte le finezze, tutte le attenzioni hanno da essere per lo sposo, ed egli acquista qualche ragione, se non di pretendere e di comandare, almeno di spiegarsi con libertà, e di ottenere per convenienza. In altra guisa può una figlia onesta trattar con indifferenza, e trattar tutti, e conversare con tutti, ed esser egual con tutti; ma non può, e non deve usar distinzioni, e dar nell'occhio, e discreditarsi. Con quella onestà con cui ho trattato sempre con voi, ho trattato col signor Guglielmo e con altri. Mio padre lo ha invitato con noi, ed io ne sono stata contenta, come lo sarei stata d'ogni altro; e vi lagnate a torto, se di lui, se di me vi dolete. Ora poi che dichiarato vi siete, ora che rendete pubblico l'amor vostro, che mi fate l'onore di domandarmi in isposa, e che mio padre lo sa, e vi acconsente, vi dico, che io ne sono contenta, che mi compiaccio dell'amor vostro, e vi ringrazio della vostra bontà. Per l'avvenire tutte le distinzioni saranno vostre, vi si convengono, le potrete pretendere e le otterrete. Una cosa sola vi chiedo in grazia, e da questa grazia può forse dipendere il buon concetto ch'io deggio formar di voi, e la consolazione d'avervi. Vogliatemi amante, ma non mi vogliate villana. Non fate che i primi segni del vostro amore siano sospetti vili, difidenze ingiuriose, azioni basse, e plebee. Siam sul momento di dover partire. Volete voi che si scacci villanamente, che si rendano altrui palesi i vostri sospetti, e che ci rendiamo ridicoli in faccia al mondo? Lasciate correre per questa volta. Credetemi, e non mi offendete. Conoscerò da ciò, se mi amate. Se vi preme il cuore, o la mano. La mano è pronta, se la volete. Ma il cuore meritatelo, se desiderate di conseguirlo.

FILIPPO:                    Ah! che dite? (A Fulgenzio.)

FULGENZIO:            (Io non la prenderei, se avesse cento mila scudi di dote). (Piano a Filippo.)

FILIPPO:                    (Sciocco!). (Da sé.)

LEONARDO:             Non so che dire, vi amo, desidero sopra tutto il cuor vostro. Mi avete dette delle ragioni che mi convincono. Non voglio esservi ingrato. Servitevi, come vi pare, ed abbiate pietà di me.

FULGENZIO:            (Uh il baccellone!).

GIACINTA:                (Niente m'importa che venga meco Guglielmo. Basta che non mi contraddica Leonardo). (Da sé.)

SCENA QUINDICESIMA

Brigida e detti.

BRIGIDA:                   Signore, è qui la sua signora sorella col di lei cameriere.

LEONARDO:             Con permissione, che passino.

BRIGIDA:                   (Si va, o non si va?). (Piano a Giacinta.)

GIACINTA:                (Si va, si va). (Piano a Brigida.)

BRIGIDA:                   (Aveva una paura terribile che non si andasse). (Parte.)

SCENA SEDICESIMA

Vittoria, Paolo, Brigida e detti.

VITTORIA:                È permesso? (Melanconica.)

GIACINTA:                Sì, vita mia, venite.

VITTORIA:                (Eh vita mia, vita mia!). Come vi sentite, signor Leonardo? (Come sopra.)

LEONARDO:             Benissimo, grazie al cielo. Paolino, presto, fate che tutto sia lesto e pronto. Il baule, i cavalli, tutto quel che bisogna. Noi partirem fra poco.

VITTORIA:                Si parte? (Allegra.)

GIACINTA:                Sì, vita mia, si parte. Siete contenta?

VITTORIA:                Sì, gioia mia, sono contentissima.

FILIPPO:                    Ho piacere che fra cognate si amino. (Piano a Fulgenzio.)

FULGENZIO:            Io credo che si amino come il lupo e la pecora. (A Filippo.)

FILIPPO:                    (Che uomo fantastico!).

PAOLO:                      Sia ringraziato il cielo, che lo vedo rasserenato. (Parte.)

VITTORIA:                Via, fratello, andiamo anche noi.

LEONARDO:             Siete molto impaziente.

GIACINTA:                Poverina! è smaniosa per andare in campagna.

VITTORIA:                Sì, poco più, poco meno, come voi all'incirca.

FULGENZIO:            E volete andare in campagna senza concludere, senza stabilire il contratto?

VITTORIA:                Che contratto?

FILIPPO:                    Prima di partire si potrebbe fare la scritta.

VITTORIA:                Che scritta?

LEONARDO:             Io son prontissimo a farla.

VITTORIA:                E che cosa avete da fare?

GIACINTA:                Si chiamano due testimoni.

VITTORIA:                Che cosa far di due testimoni?

BRIGIDA:                   Non lo sa? (A Vittoria.)

VITTORIA:                Non so niente.

BRIGIDA:                   Se non lo sa, lo saprà.

VITTORIA:                Signor fratello.

LEONARDO:             Comandi.

VITTORIA:                Si fa lo sposo?

LEONARDO:             Per obbedirla.

VITTORIA:                E a me non si dice niente?

LEONARDO:             Se mi darete tempo, ve lo dirò.

VITTORIA:                È questa la vostra sposa?

GIACINTA:                Sì, cara, sono io che ha questa fortuna. Mi vorrete voi bene?

VITTORIA:                Oh quanto piacere! Quanta consolazione ne sento! Cara la mia cognata. (Si baciano.) (Non ci mancava altro che venisse in casa costei!).

GIACINTA:                (Prego il cielo che vada presto fuori di casa!).

BRIGIDA:                   (Quei baci credo che non arrivino al core).

FILIPPO:                    (Vedete se si vogliono bene!) (A Fulgenzio.)

FULGENZIO:            (Sì, lo vedo. Voi non conoscete le donne). (A Filippo.)

FILIPPO:                    (Mi fa rabbia).

GIACINTA:                Eccoli, eccoli; ecco due testimoni.

LEONARDO:             (Ah! ecco Guglielmo, egli è la mia disperazione; non lo posso vedere). (Da sé, osservando fra le scene.)

VITTORIA:                (Che caro signor fratello! Prender moglie prima di dare marito a me! Sentirà, sentirà, se gli saprò dire l'animo mio...).

SCENA DICIASSETTESIMA

Guglielmo, Ferdinando e detti

GUGLIELMO:           I cavalli son lesti.

FERDINANDO:         Animo, animo, che fa tardi. Come sta l'amico Leonardo? Vi è passata la melanconia?

LEONARDO:             Che cosa sapete voi di melanconia?

FERDINANDO:         Oh! ha detto un non so che la signora Vittoria.

VITTORIA:                Non è vero niente, non v'ho detto niente.

FERDINANDO:         Eh! una mentita da una donna si può soffrire.

FILIPPO:                    Signori, prima di partire si ha da fare una cosa. Il signor Leonardo ha avuto la bontà di domandarmi la mia figliuola, ed io gliel'ho promessa. Si faranno le nozze... Quando vorreste voi si facessero? (A Leonardo.)

LEONARDO:             Io direi dopo la villeggiatura.

FILIPPO:                    Benissimo, si faranno dopo la villeggiatura, e intanto si ha da fare la scritta. Onde siete pregati ad esser voi testimoni.

GUGLIELMO:           (Questa è una novità ch'io non m'aspettava).

FERDINANDO:         Son qui; molto volentieri. Facciamo presto quello che si ha da fare, e partiamo per la campagna. Ma a proposito, signori miei, a me qual luogo vien destinato?

FILIPPO:                    Non saprei... Che dite voi, Giacinta?

GIACINTA:                Tocca a voi a disporre.

FILIPPO:                    E il signor Guglielmo? Mi dispiace... Come si farà?

VITTORIA:                Permettetemi che io dica una cosa. (A Filippo.)

FERDINANDO:         Trovate voi l'espediente, signora.

VITTORIA:                Io dico che se mio fratello è promesso colla signora Giacinta, tocca a lui a andare in carrozza colla sua sposa.

FULGENZIO:            Così vorrebbe la convenienza, signor Filippo.

FILIPPO:                    Che cosa dice Giacinta?

GIACINTA:                Io non invito nessuno e non ricuso nessuno.

LEONARDO:             Cosa dice il signor Guglielmo?

GUGLIELMO:           Io dico che se sono d'incomodo, tralascierò di venire.

VITTORIA:                No, no, verrete in calesso con me.

GUGLIELMO:           (La convenienza vuole ch'io non insista). Se il signor Leonardo me lo permette, accetterò le grazie della signora Vittoria.

LEONARDO:             Sì, caro amico, ed io della vostra compiacenza vi sarò eternamente obbligato.

GIACINTA:                (Quando ha ceduto da sé, non m'importa. Io ho sostenuto il mio punto). (Da sé.)

FILIPPO:                    (Ah! che dite? Va bene ora?). (A Fulgenzio.)

FULGENZIO:            (Non va troppo bene per la signora Vittoria). (A Filippo.)

FILIPPO:                    (Eh! freddure). (A Fulgenzio.)

FERDINANDO:         Ed io con chi devo andare?

GIACINTA:                Signore, se vi degnaste di andar colla mia cameriera?

FERDINANDO:         In calesso?

GIACINTA:                In calesso.

FERDINANDO:         Sì, gioia bella, avrò il piacere di godere la vostra amabile compagnia. (A Brigida.)

BRIGIDA:                   Oh! sarà una gloria per me strabocchevole. (Sarei andata più volentieri col cameriere). (Da sé.)

FULGENZIO:            Bravi, bene, tutti d'accordo.

VITTORIA:                Oh via! finiamola una volta. Andiamo a questa benedetta campagna.

GIACINTA:                Sì, facciamo la scritta, e subitamente partiamo. Finalmente siamo giunti al momento tanto desiderato d'andare in villa. Grandi smanie abbiamo sofferte per paura di non andarvi! Smanie solite della corrente stagione. Buon viaggio dunque a chi parte, e buona permanenza a chi resta.

Fine della Commedia.