Le trachinie

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LE TRACHINIE

LE TRACHINIE

di Sòfocle

PERSONAGGI:

DEIANIRA

ANCELLA

ILLO

Un VECCHIO POPOLANO

LICA

NUTRICE

VECCHIO

ERCOLE

CORO di fanciulle trachinie

La scena si svolge a Trachíne, in Tessaglia, dinanzi al palazzo di Ceice,

dove abita Ercole.

DEIANIRA:

   V'è fra gli uomini un detto antico molto,

   che di nessuno tu potrai la vita

   conoscer mai, se fu felice o trista,

   prima che muoia. La mia vita, invece,

   pria di scendere all'Ade, io so quant'è

   misera e trista. Quando ancor vivevo

   presso mio padre in Plëuróne, acerba

   per me l'attesa delle nozze fu

   piú che per ogni Etola donna: un fiume

   mi voleva sua sposa, l'Achelòo,

   che tre forme assumea, quando a mio padre

   mi richiedeva: ora di tauro schietto,

   ora di drago flèssile guizzante,

   ora bove nel viso, uomo nel corpo,

   e dalla barba sua folta, ruscelli

   d'acqua sorgiva scaturiano: questo

   era lo sposo che attendevo, misera;

   e ognor la morte m'auguravo, prima

   d'accostarmi al suo letto. E giunse poi,

   e ben lieta ne fui, d'Alcmena e Giove

   il figliuolo famoso, e a lotta venne

   con quello, e me libera fece. E come

   la lotta andasse, io dir non vi potrei,

   ché non lo so; ma chi senza terrore

   assistere poté, vedere, quegli

   dir lo potrebbe. Io me ne stavo invece

   percossa dal terror che la bellezza

   mia, qualche cruccio infliggermi potesse.

   Giove custode degli agoni, a quello

   concesse fausto fin: se pure fausto:

   ché, poi che ascesi d'Ercole nel talamo

   invidïato, nel mio cuore nutro

   terrori, un dopo l'altro, e per lui trepido

   sempre; e una notte accoglie ed una scaccia,

   con alterna vicenda, il mio travaglio.

   E figli n'ebbi; ma li vide ei poco,

   quasi bifolco che un remoto campo

   abbia comprato, e solo quando semina

   lo vede e quando miete, e non mai piú.

   Ciò voleva il Destino: appena in casa,

   via fuor di casa m'adducea lo sposo,

   a servigio d'altrui. Da queste imprese

   uscito è adesso; ed è piú grande adesso

   il mio terrore. Che, da quando uccise

   Ifito forte, noi viviamo qui

   in Trachíne, fuggiaschi, ospiti in casa

   d'un amico; e nessuno ov'egli sia

   può dire. Io questo so, che amari crucci

   per la sua sorte in cuore mi gittò,

   e se n'andò. Ma quasi certa io sono

   che qualche male còlto l'ha: ché il tempo

   breve non è, ma dieci mesi e cinque

   da che messaggi non mandò: lo colse

   certo qualche malanno orrido: tale

   lo scritto fu che m'inviò lasciandomi.

   Deh, ricevuto per la mia sciagura

   non l'abbia! Ai Numi ognor prece ne volgo.

(Dalla casa esce un'ancella)

ANCELLA:

   Deianira, signora, io ben sovente

   pianger ti vidi tutte le tue lagrime,

   gemer, crucciarti, per l'assenza d'Ercole.

   Or, se concesso è d'ammonire i liberi

   coi consigli dei savî, io debbo dirti

   quello ch'io penso. Come? Hai tanti figli,

   e nessuno ne mandi alla ricerca

   del tuo consorte? Illo non mandi, a cui

   piú che ad ogni altro converrebbe al padre

   pensar, se mai prospero vive? Ed eccolo

   che, saldo in gamba, a questa casa corre.

   Sicché, se pensi ch'io parli a proposito,

   di lui servirti puoi, come io consiglio.

(Entra Illo)

DEIANIRA:

   O figlio, o mio fanciullo, anche dall'umili

   bocche, saggi discorsi uscire possono:

   schiava è costei, ma favellò da libera.

ILLO:

   E come? Se puoi dirlo, o madre, dimmelo.

DEIANIRA:

   Che tuo padre, da tanto in terra estranea

   viva, e il dove tu ignori, è gran vergogna.

ILLO:

   Lo so, se fede merita la fama.

DEIANIRA:

   Figlio, in qual terra che soggiorni udisti?

ILLO:

   L'anno scorso, patí, dicono, lungo

   tempo, servendo ad una donna tessala.

DEIANIRA:

   Tutto dobbiamo, se ciò fece, attenderci.

ILLO:

   Ma, dicon, dal servigio adesso è libero.

DEIANIRA:

   Dov'è, dicono, adesso, o vivo o morto?

ILLO:

   Confro la terra Eubèa, contro la rocca

   d'Èurito, a campo muove, o vi si accinge.

DEIANIRA:

   Figlio, sai dunque tu che un certo oracolo

   intorno a quella terra ei mi lasciò?

ILLO:

   Quale, o madre? Parlar mai non ne intesi.

DEIANIRA:

   Che la sua vita avrà qui fine; oppure,

   se questa impresa vincerà, felice

   trascorrerà della sua vita il resto.

   Ora, quand'egli è in tal cimento, o figlio,

   non corri al suo soccorso, allor che salvi

   siamo, s'ei vive, o insiem con lui perduti?

ILLO:

   Io vado, o madre: se di quest'oracolo

   già la sentenza conosciuta avessi,

   da gran tempo sarei mosso; ma il solito

   destin del padre mio, non consentiva

   né previggenza, né terror soverchio.

   Ma or che so, nulla tralascerò

   per iscoprir, quanto si possa, il vero.

DEIANIRA:

   Va' dunque, o figlio: le notizie fauste,

   anche a saperle tardi, utile arrecano.

(Illo parte)

CANTO D'INGRESSO DEL CORO

(Entra nell'orchestra il Coro, composto di quindici

giovinette di Trachine)

CORO:                                  Strofe prima

   Te, cui la notte genera

   varïopinta, allor che muore, e in talami

   corica poi di fuoco,

   te, Sol, te, Sole, invoco,

   ché tu m'annunzi dove,

   dove d'Alcmena il figlio

   si trovi, o Sol che avvampi - di scintillanti lampi:

   se nell'un continente,

   o nell'altro, o fra i valichi del mar dimmi s'ei muove.

   Pupilla onnipossente.

                                       Antistrofe prima

   Poiché nel desiderio,

   Deianira, l'assai contesa femmina,

   lo so, come usignuolo

   gemebondo pel duolo,

   mai non placa la brama

   negli occhi senza lagrime;

   ma ricordo ansïoso - dell'errabondo sposo

   nel cuor suo sempre è desto;

   e nel deserto talamo si strugge, e attende, grama,

   un destino funesto.

                                       Strofe seconda

   Perché, come molteplici

   di Noto, oppur di Bora, infaticabili

   flutti sul vasto pelago

   che giungon puoi veder, che s'accavallano:

   cosí, colma di pene

   la vita, ora travaglia

   il figliuolo di Giove, or lo sostiene,

   come il mare di Creta. E alcun dei Dèmoni

   lungi l'uomo su cui biasmo non cade

   tien dalle case d'Ade.

                                       Antistrofe seconda

   Perciò, dandoti biasimo,

   reverenti parole, eppur contrarie

   io parlerò. Distruggere

   la buona speme tu non devi: agli uomini

   vivere senza lutto,

   neppur consente il figlio

   di Saturno, che a fine adduce il tutto.

   E sugli uomini sempre s'avvicendano

   gioia e dolor, come in volubil corsa

   van le stelle dell'Orsa.

                                       Epodo

   Poiché, né la siderea

   notte perenne pei mortali dura,

   non dovizia o sciagura;

   anzi, ben presto mutano,

   e tocca all'uno il giubilo,

   l'altro ne resta privo.

   Nelle tue spemi, o mia Signora, serbane

   il ricordo ancor vivo.

   Improvvido il Croníde

   chi mai cosí verso i suoi figli vide?

DEIANIRA:

   A quanto sembra, non ignara giungi

   del mio travaglio; ma non sai qual cruccio -

   né mai la prova te ne renda esperta -

   strugga il mio cuore: ché si nutre in simili

   plaghe l'umore giovanile, e vampa

   di sol mai non lo scuote, o pioggia, o soffio

   di venti alcuno, e fra le gioie e senza

   travagli, esalta il suo fiore, sinché

   cambi il suo nome, da fanciulla in donna,

   e la sua parte di cordogli in una

   notte riceve, e a trepidare apprende

   e per lo sposo e per i figli. Allora,

   esaminando il proprio stato, ognuna

   potrebbe i mali ond'io son grave apprendere.

   Per molti mali io già pianger dovei,

   tranne per uno; ed or ve lo dirò.

   Quando l'ultima volta il Signor mio

   abbandonò la casa, una vetusta

   di segni impressa tavoletta a me

   lasciò, che prima, a tanti agoni uscendo,

   mai decifrata non m'avea: ché sempre

   movea come chi va certo al trionfo,

   e non verso la morte; e adesso, invece,

   come già morto fosse, a me la parte

   disse che come sposa aver dovrei,

   disse come tra i figli andar divisi

   dovean del padre i territorii; e il tempo

   specificò: quando tre mesi e un anno

   dalla partenza ei già remoto fosse.

   In questo lasso, spento egli sarebbe,

   o, di tal tempo valicato il termine,

   vissuto avrebbe di sua vita il resto

   senza piú doglie. A tal sorte, diceva,

   per divino volere, erano d'Ercole

   le fatiche soggette; e soggiungeva

   che dall'antico faggio udite un giorno

   l'ebbe in Dodona, e dalle due colombe.

   E l'esito fatale, in questi giorni

   appunto cade, ed or si deve compiere.

   Sicché, dal sonno esterrefatta io balzo

   sovente, amiche mie, ché del piú prode

   fra i mortali, restar non debba vedova.

CORIFEA:

   Fa' buoni augurî, adesso: un uomo giungere

   inghirlandato, a fauste nuove io scorgo.

(Entra un vecchio popolano)

IL VECCHIO:

   O Deianira, il primo araldo io sono

   che dai timor t'affranca. È vivo, sappilo,

   d'Alcmena il figlio, è vincitore, e reca

   le primizie di guerra ai patrii Numi.

DEIANIRA:

   Quali parole a me tu dici, o vecchio?

IL VECCHIO:

   Alla tua casa presto giungerà

   l'invidïato sposo, apparirà

   nel fulgor di vittoria.

DEIANIRA:

   E quale a te

   dei cittadini o dei foresti il disse?

IL VECCHIO:

   Nel prato estivo dei giovenchi, a molti

   Lica, l'araldo, lo racconta; ed io

   che l'udii, corsi qui per darti primo

   la nuova, e lucro e la tua grazia averne.

DEIANIRA:

   Fortune annunzia, e non e qui? Perché?

IL VECCHIO:

   Agio, o signore, egli non ha di muoversi:

   ché tutto il popol dei Malèi l'interroga,

   standogli presso, ed avanzar d'un passo

   non può. La curiosità! Ciascuno

   vuol saper tutto, e non lo lascia, prima

   d'averlo udito a suo piacer: cosí,

   presso chi lo gradisce, a mal suo grado

   s'indugia. Ma ben presto ei sarà qui.

DEIANIRA:

   O tu che il prato ove non passa falce

   reggi dell'Eta, o Giove, a noi, pur tardi,

   questa gioia concedi. O donne, quante

   in casa siete, e quante fuor nell'aula,

   le voci alzate, ch'io di questa nuova

   or colgo, contro ogni speranza, il raggio.

CANZONE A BALLO

CORO:

   Grida la casa levi di giubilo

   dal focolare,

   levi alalà,

   mentre essa attende lo sposo, unanime

   voli dei giovani

   la voce al Sire dell'arco Apòlline,

   Dio tutelare;

   ed il peana levate, o vergini,

   per sua sorella, l'Ortigia Artèmide,

   che i cervi caccia,

   che vibra in ogni mano una fiaccola,

   per le compagne sue, Ninfe. Rapida

   sobbalzo, e al flauto

   io non recalcitro, re del mio spirito.

   Vedi, m'esàgita,

   evoè, l'ellera, che repentina

   me nella bacchica danza trascina.

(Si avanza l'araldo Lica, seguito da uno stuolo di donne prigioniere.

Fra queste una, Iole, si distingue per la bellezza e la maestà dell'aspetto)

CORIFEA:

   Donna a me cara, vedi,

   vedi quale spettacolo

   alla tua vista appare.

DEIANIRA:

   Dilette amiche, al vigile mio sguardo

   questo corteo non è sfuggito: vedo;

   e: “Salve - dico - o messagger, che tardi

   giungi, se tu liete novelle rechi”.

LICA:

   Lieto l'arrivo, e liete le parole

   onde m'accogli, e quali ben convengono,

   donna, agli eventi: lucrar deve buone

   parole, un uomo a cui fortuna arrida.

DEIANIRA:

   Prima, o diletto, ciò che prima io bramo

   dimmi: se vivo accoglierò lo sposo.

LICA:

   Io vivo lo lasciai, pieno di forze,

   in gran rigoglio, e non da morbo oppresso.

DEIANIRA:

   Ed in che terra, di': barbara o patria?

LICA:

   V'è una spiaggia d'Eubèa, dov'ei campestri

   doni ed are al Cenèo Giove consacra.

DEIANIRA:

   Per un suo voto, o ligio a qualche oracolo?

LICA:

   Per un voto ch'ei fe' quando di queste

   donne che vedi, saccheggiò la terra.

DEIANIRA:

   Chi sono? E di chi figlie? - O miserevoli,

   se non m'illude la lor triste sorte!

LICA:

   A sé, quando Ercole Èurito espugnò

   l'ebbe, ed ai Numi aggiudicate in premio.

DEIANIRA:

   Presso questa città, dunque, sí lungo

   lasso restò di giorni, incalcolabile?

LICA:

   No, ma restò, com'ei dice, fra i Lidii

   il piú del tempo; e schiavo, e non già libero;

   né di tali parole, o donna, devi

   farne rancura: fu voler di Giove.

   Alla barbara Onfàle ei fu venduto,

   com'ei pur narra, e cosí stette un anno;

   e tanto quest'oltraggio il cuor gli morse,

   ch'egli a se stesso un giuro fe': che l'uomo

   che dell'affanno suo tu prima origine,

   schiavo farebbe con la sposa e i figli.

   Né la parola uscí vana; ma, come

   puro fu reso, una guerresca turba

   raccolse, e mosse contro la città

   d'Èurito: ché costui solo fra gli uomini

   era, diceva, del suo male origine.

   Poiché, quand'egli, antico ospite suo,

   alla sua casa, al focolare giunse,

   assai con le parole, assai con l'animo

   maligno l'investí, disse che frecce

   invitte possedea, ma nella prova

   dell'arco, indietro ai figli suoi restava:

   gridò che schiavo egli era, e un uomo libero

   lo malmenava, ed al banchetto, quando

   fu ebbro, lo scacciò via dalla casa.

   Perciò, salito in ira, allor che al clivo

   Tirinzio, Ifito giunse, alla ricerca

   dell'errabonde sue cavalle, mentre

   gli occhi e il pensiero avea rivolti altrove,

   giú lo scagliò dalla turrita spiaggia.

   Per tal misfatto irato, il Nume Olimpio

   Giove, padre di tutti, a lui perdono

   non concedette, e schiavo lo fe' vendere,

   ché primo questo fra i nemici ucciso

   avea di frode: se l'avesse ucciso

   a viso aperto, ben l'avrebbe assolto

   che la giustizia di sua man compiesse:

   ché tracotanza anche i Celesti aborrono.

   Quelli che vanto, con maligna lingua

   menavan, dunque, abitatori tutti

   sono or d'Averno, e schiava è la città;

   e queste donne che tu vedi, ch'erano

   felici un tempo, ed ora han vita misera,

   vengono a te: questo comando diede

   lo sposo tuo: fedele a lui, lo eseguo.

   Ed egli stesso, allor che pure vittime

   offerte avrà per la città conquisa

   a Giove patrio, sappilo, verrà.

   Di tante cose ch'ho pur dette, e belle,

   la piú dolce ad udire, è certo questa.

CORIFEA:

   Palese gioia a te, regina, giunse

   per quanto innanzi t'è, per quanto ascolti.

DEIANIRA:

   Come potrei non allegrarmi, e averne

   diritto, udendo la felice impresa

   del mio consorte? La vittoria sua,

   la gioia mia, forza è che insieme vadano.

   Pure, deve temer, chi ben consideri,

   per l'uom felice, ch'egli un dí non cada:

   ché profonda pietà m'invade, amiche,

   vedendo questa sventurata errare

   su stranïero suol, senza piú casa,

   senza piú padre; e un tempo eran di liberi

   figliuole, forse, e come schiave or vivono.

   Giove della vittoria, oh, non ti vegga

   su la mia stirpe mai cosí piombare;

   o, se far tu lo vuoi, non sin ch'io vivo:

   tanto, costor mirando, io sbigottisco.

   (Si volge a Iole)

   E tu, fra tante giovani, chi sei?

   Fanciulla, o sposa già? Di tutto ignara

   sembri, e di nobiltà grande, all'aspetto.

   (Si volge a Lica)

   Di chi questa fanciulla, o Lica, è figlia?

   A luce, dimmi, chi la die'? Qual padre

   la generò? Piú assai che l'altre tutte

   a pietà mi commuove essa, perché

   solo essa conscia di sua sorte sembra.

LICA:

   A me lo chiedi? Io che ne so? Di qualche

   stirpe di là, sarà, né pur dell'ultime.

DEIANIRA:

   Di re, fors'anche? Aveva Èurito figli?

LICA:

   Non so: ch'io là non feci lunghe indagini.

DEIANIRA:

   Né da compagna alcuna il nome udisti?

LICA:

   Punto: in silenzio l'opra mia compiei.

DEIANIRA (A Iole):

   Dillo tu stessa, almen, misera; è proprio

   una gran pena, non saper chi sei.

LICA:

   Se motto esprimerà, cosa ben nuova

   farà: ché non parlò finora mai,

   molto né poco, ma gravata sempre

   dal peso della sua sventura, lagrime

   versa, da quando, misera, la patria

   ventosa abbandonò. Certo, la sorte

   fu crudele con lei. Tu compatiscila.

DEIANIRA:

   In pace dunque sia lasciata; e in casa,

   come le piace meglio, entri, e non abbia

   da me tormento, oltre alle sue sciagure:

   basta già quella che l'opprime. A casa

   tutte torniamo, sí che tu t'affretti

   dove brami, ed a tutto io lí provveda.

(Le prigioniere entrano, accompagnate da Lica.

Deianira fa per seguirle, ma è trattenuta dal vecchio)

IL VECCHIO:

   Rimani ancora un po', sí che da sola

   sappia che genti entro la casa adduci,

   e di ciò che non sai, conosca quanto

   devi saper: ché tutto a pieno io so.

DEIANIRA:

   Che avviene? Il passo mio perché trattieni?

IL VECCHIO:

   Férmati, e ascolta: che m'udissi, vano

   non fu prima, né vano ora sarà.

DEIANIRA:

   Vuoi che ancor qui le chiami? O a me soltanto

   e a queste amiche favellar tu vuoi?

IL VECCHIO:

   A queste e a te son pronto; e gli altri, lasciali.

DEIANIRA:

   Son lungi: chiaro il tuo discorso or suoni.

IL VECCHIO:

   Nulla costui di quanto or ora disse,

   lo disse a norma di giustizia: o adesso

   mente, o fu prima menzognero araldo.

DEIANIRA:

   Che dici? Chiaro il tuo pensiero esprimi:

   ché quanto ora m'hai detto, io non l'intendo.

IL VECCHIO:

   Quell'uomo ho udito, che diceva, innanzi

   a testimoni assai, che per amore

   di questa giovinetta, Ercole prese

   la turrita Ecalía, sconfisse il re.

   Amore il Nume fu che a questa impresa

   l'allettò solo, e non la faticosa

   servitú presso i Lidii e presso Onfàle,

   né l'aver nell'abisso Ifito spinto;

   e quei tace d'amore, e d'altro parla.

   E poi che il padre ei non poté convincere

   a lasciargli la figlia, ond'ei ne avesse

   l'amor furtivo, un piccolo pretesto

   colse, e contro la patria di costei

   mosse, dove il suo trono Èurito, come

   disse l'araldo, possedeva; e al padre

   di lei die' morte, ed espugnò la rocca.

   Ed ora giunge alla sua casa, e manda

   la fanciulla, non già senza disegno,

   né come schiava: a questo, oh!, non attenderti:

   verisimil non è, quando egli caldo

   tanto è d'amore. Ed a me parve bene

   quanto io so da costui, tutto, Signora,

   svelarti. E molti dei Trachinii udirono

   in piazza, al par di me: sicché, negarlo

   ei non potrà. Ciò ch'io dico, piacevole

   non è, né me ne allegro: eppure è il vero.

DEIANIRA:

   Oh me tapina, in qual cimento io sono!

   Qual furtivo cordoglio in casa accolsi!

   Oh me misera! Oscura quella femmina

   era, come giurò chi qui l'addusse?

IL VECCHIO:

   Fin troppo illustre, e di nome, e di stirpe.

   Era d'Èurito figlia, almeno un tempo;

   e Iole il nome suo. Ma quei la nascita

   mai non ne disse, e mai non fece indagini.

CORIFEA:

   Alla malora i tristi! Oh, non già tutti,

   ma chi furtivo e impronto il male esercita.

DEIANIRA:

   Che debbo fare, amiche? Esterrefatta

   per le parole or ora udite io sono.

CORIFEA:

   Corri, e chiedi a quell'uom: presto, se a forza

   le sue risposte esigi, ei parlerà.

DEIANIRA:

   Stolte non son le tue parole: andrò.

CORIFEA:

   E noi restiamo? O che piú ci conviene?

DEIANIRA:

   Resta: da sé, non già da messi miei

   chiamato, esce quell'uomo, e qui s'avanza.

(Dalla reggia esce Lica)

LICA:

   Donna, che debbo dir, giungendo ad Ercole?

   Dillo, ché tu pronto a partir mi vedi.

DEIANIRA:

   Con quanta fretta, e dopo quanto indugio,

   pria di rinnovellare alcun discorso!

LICA:

   Vuoi qualche cosa chiedermi? Son qui.

DEIANIRA:

   Fede darai che ciò che dici è il vero?

LICA:

   Certo, di quanto io so: Giove ne attesto.

DEIANIRA:

   Che donna è quella che adducesti qui?

LICA:

   Una d'Eubèa; ma la sua stirpe ignoro.

IL VECCHIO:

   Guardami in viso: a chi credi parlare?

LICA:

   E tu, perché mi fai tale domanda?

IL VECCHIO:

   Fa' cuor, se intendi, e la risposta dammi.

LICA:

   Alla regina Deianira, figlia

   d'Enèo, d'Ercole sposa, ove pur gli occhi

   non mi facciano inganno, e mia Signora.

IL VECCHIO:

   Questo da te, questo io saper volevo:

   costei, tu dici, è tua signora?

LICA:

   Certo.

IL VECCHIO:

   E di qual pena tu degno ti reputi,

   se verso lei tu sei scoperto infido?

LICA:

   Infido? Come? Che discorsi annaspi?

IL VECCHIO:

   Io no: sei tu, che vai cercando ambagi.

LICA:

   Parto; e fui pazzo che finor t'udii.

IL VECCHIO:

   No, se pria non dichiari un piccol punto.

LICA:

   Di' pur che vuoi: la lingua non mi manca.

VECCHIO:

   La prigioniera che adducesti in casa...

   Intendi quale?

LICA:

   Sí: perché dimandi?

IL VECCHIO:

   Quella che come ignaro or or guardavi,

   Iole dunque non è, la figlia d'Èurito,

   a te commessa, come pur dicevi?

LICA:

   A chi? Chi mai sopravverrà, per farsi

   mallevadore che da me l'udí?

IL VECCHIO:

   A molti cittadini, e in mezzo all'àgora

   dei Trachinii, l'udí tutta una folla.

LICA:

   D'averlo udito, dissi; e riferire

   e affermare, non son tutta una cosa.

IL VECCHIO:

   Che riferire? Non giuravi forse

   che l'adducevi come sposa d'Ercole?

LICA:

   Sposa? Io lo dissi? - Per i Numi, di'

   Signora mia, chi è questo foresto?

IL VECCHIO:

   Uno ch'era presente, e udí che presa

   per brama di costei fu la città,

   fu saccheggiata; e non la Lidia femmina,

   ma il nuovo amore per costei la strusse.

LICA:

   Allontanare fa' costui, Signora:

   non è da savio, parlar con un pazzo.

DEIANIRA:

   No, per l'Iddio che dai selvosi picchi

   signoreggia dell'Eta, il vero a me

   tu non celare. Ad una trista femmina

   non parli già, che non conosca gli uomini,

   e come spesso i loro gusti mutino.

   Chi contro Amore insorge, al par d'un pugile,

   per lottare con lui, folle è: perfino

   sui Numi, Amore a suo piacere dòmina,

   e su me, certo; e sovra un'altra, a me

   simile, non dovrebbe? Oh, troppo folle

   sarei, se contro il mio sposo, colpito

   da tale malattia lanciassi il biasimo,

   contro costei, d'una colpa partecipe

   che scorno o male non arreca a me.

   Ciò non sarà; ma tu, se la menzogna

   apprendesti da lui, non puoi vantarti

   di tale scuola: se tu stesso a te

   fosti maestro, per parere un buono,

   un tristo sembrerai. Su, dimmi il vero:

   che taccia grande è per un uomo libero

   esser detto bugiardo; e invano infingerti

   tu tenteresti: sono troppi quelli

   a cui parlasti, e tutto a me direbbero.

   Se poi paventi, il tuo timore è vano:

   ché solo il non saper potrebbe affliggermi.

   Il sapere ti par cosa terribile?

   Altre donne non fece Ercole già

   sue spose, quante verun uomo? E niuna

   di quelle, contumelia udí da me,

   né malvagia parola; e neppur questa,

   per quanto egli d'amor per lei si strugga;

   ché io la miro, e gran pietà mi vince,

   poiché la sua beltà trasse a rovina

   lei, la sua patria, misera, perdé,

   senza volere, e a servitú costrinse.

   Ma dove spira di fortuna il vento

   corran gli eventi: io dico a te che ad altri

   tu mentisca, ed il vero a me confidi.

CORO:

   Bene ha parlato: ascoltala: di lei

   dovrai lodarti; e anch'io ti sarò grata.

LICA:

   Poiché, Signora mia diletta, vedo

   che tu, mortale, hai sentimenti umani,

   scevri d'insoffermza, io, senza nulla

   celare, a te dirò la verità.

   È tutto come costui disse: brama

   di costei, furïosa, Ercole invase:

   per sua cagione, presa fu, distrutta

   la sua patria Ecalèa; né m'ordinò

   - giacché devo di lui dire anche il bene -

   ch'io lo tacessi, e mai non lo negò.

   Io stesso, per timor che i miei discorsi

   il cuore tuo, regina, non crucciassero,

   errai, se questo tu lo chiami errore.

   Ora, però, che tutto il vero sai,

   per il vantaggio suo, pel tuo del pari,

   quella donna sopporta; e le parole

   ch'hai testé dette, dette sian per sempre:

   ché quei che con la forza ognora vinse,

   dall'amor di costei fu debellato.

DEIANIRA:

   Ho tanto senno che a ciò far m'induca,

   né da me voglio procacciarmi un male,

   in lotta infesta contro i Numi. Or via,

   entriamo in casa, ché i discorsi miei

   recar tu possa al mio signore, e i doni

   onde i suoi doni ricambiar conviene.

   Tu che giunto qui sei con tal corteggio,

   giusto non è che torni a mani vuote.

(Entrano nella reggia)

PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARA

CORO:                                  Strofe

   È grande la forza di Cípride,

   e sempre consegue vittoria.

   Tralascio gli eventi dei Superi:

   non racconto com'essa, fra illècebre

   stringeva il Saturnio,

   o Ade, Signor della tènebra,

   o il Dèmone ch'agita

   la terra. Ma quali, pel talamo

   di Deianira, terribili

   rivali a cimento non scesero

   fra i colpi e la polvere?

                                       Antistrofe

   L'un d'essi era, un fiume fortissimo:

   movea su quattr'orme, ed immagine

   aveva di toro cornígero:

   Achelòo, che giungeva d'Eníade.

   Da Tebe la bacchica,

   scotendo la clava e due cúspidi

   e l'arco flessibile,

   giunse Ercole; e in mezzo proruppero,

   cupidi entrambi del talamo.

   E sola fra loro, a giudizio

   sedea l'alma Cípride.

                                       Epodo

   E surse di mani alto strepito,

   di frecce, di corna di tauro,

   insieme confuse;

   e furono avvinghi reciproci,

   e cozzi di fronti funerei,

   fra duplici gemiti.

   E intanto, la morbida vergine,

   lo sposo attendeva, d'un poggio

   sul vertice aereo.

   Io parlo sí come io medesima

   veduta l'avessi: la misera

   fanciulla, che fu del conflitto

   la causa, attendeva; e poi, súbito

   lontan da sua madre movea, come tenera

   giovenca, a solingo tragitto.

DEIANIRA (Esce dalla reggia, seguita da una schiava che reca

un cofanetto chiuso. Si volge al Coro):

   Finché lo stranïero, amiche, in casa

   con le fanciulle prigioniere parla,

   e s'appresta a partire, io qui di furto

   venni, per dirvi ciò ch'io feci, e insieme

   perché voi foste al dolor mio partecipi.

   Ch'io la vergine accolsi, or non piú vergine,

   a ciò che appare a me, come un nocchiere

   su la sua nave un carico. Ed è merce

   che distrugge il mio cuore; e adesso in due,

   sotto la stessa coltre un solo amplesso

   stiamo attendendo: tal compenso a me

   della custodia lunga alla sua casa

   Ercole il buono, Ercole il fido invia.

   Con lui che da tal morbo è tanto afflitto,

   io crucciarmi non so. Ma qual mai donna

   viver potrebbe con costei, partecipe

   d'un letto solo? Io qui veggo una nuova

   giovinezza fiorire, una distruggersi;

   e l'occhio brama il fior di quella cogliere,

   respinge l'altra il piè. Temo per questo

   che mio sposo di nome Ercole sia,

   ed a fatti di lei, della piú giovine.

   Ma non giova, lo dissi, andare in collera,

   per una donna ch'abbia senno; ed io

   vi voglio, amiche, dir come disciogliermi

   da questa doglia intendo. Un vecchio dono

   serbavo ascoso d'un antico mostro

   entro un vaso di bronzo. Ancor fanciulla,

   dalle ferite del villoso petto

   del moribondo Nesso io lo raccolsi,

   che, per mercede, sui profondi vortici

   del fiume Evèno, trasportava a braccia

   i viatori, e non usava remi

   per quel tragitto, e non vele di nave.

   Ed anche me, quando io mossi col seguito

   del padre mio, novella sposa d'Ercole,

   portò sopra le spalle; e quando a mezzo

   era già del tragitto, mi toccò

   con temerarie mani; ond'io gridai.

   Ed il figlio di Giove, si voltò

   súbito, e un dardo alato gli lanciò,

   che, sibilando, gli trafisse il petto

   sino al polmone. E, già presso a morire,

   disse cosí la fiera: “O del vegliardo

   Enèo figliuola, tal vantaggio avrai

   dal mio tragitto, poi che tu sei l'ultima

   ch'io traghettai. Se tu con le tue mani

   raccoglierai delle mie piagbe il sangue,

   che sul dardo s'aggruma, ove lo tinse

   piú dell'Idra di Lerna il negro tossico,

   un filtro avrai che a te l'amore d'Ercole

   stringerà, sí che amar non possa femmina

   ch'ei vegga, piú di te”. Rammemorando

   queste parole, poi che in casa il filtro,

   quand'ei fu morto, custodii ben chiuso,

   questa tunica or tinsi, e compiei quanto

   vivo ancora mi disse: è cosa fatta.

   Non vo' saper di tristi audacie, apprenderle

   non voglio: aborro le sfrontate femmine;

   ma superar con filtri e con incanti

   questa fanciulla nell'amore d'Ercole,

   questo l'ho fatto - ove non sembri a voi

   stolida impresa: allor, desisterò.

CORO:

   Se nutri in ciò che fai fiducia alcuna,

   non ti consigli, sembra a me, da stolta.

DEIANIRA:

   La mia fiaucia è tal, ch'io la presumo

   fondata; ma la prova io non attinsi.

CORO:

   Ma per sapere, oprar devi: certezza,

   pur se credi, non hai, sinché non provi.

DEIANIRA:

   Súbito lo sapremo: è già costui

   su l'uscio, e presto partirà; ma voi

   serbate il mio segreto: anche se un'opera

   turpe tu compierai, sinché nel buio

   resta, non mai cadrai nella vergogna.

(Dalla reggia esce Lica)

LICA:

   Che debbo fare? D'Enèo figlia, dimmelo,

   ché troppo a lungo già durò l'indugio.

DEIANIRA:

   Cura di ciò mi davo appunto, o Lica,

   mentre alla stranïera in casa tu

   stavi parlando, perché tu recassi

   questo peplo sottil, delle mie mani

   dono, al mio sposo. A lui porgilo, e digli

   che nessun dei mortali alle sue membra

   deve prima di lui cingerlo, o raggio

   di sol vederlo, o santuario, o vampa

   di focolare, innanzi ch'ei, nel dí

   che s'immolano i tori, innanzi a tutti

   surga, e lo spieghi dei Celesti agli occhi.

   Ché un voto io feci: che, se un giorno a casa

   lo vedessi tornar salvo, o notizia

   pure ne avessi, di novella tunica

   degna lo coprirei, sí ch'egli, nuovo

   al sacrifizio, vesti nuove avesse.

   E un segno ne addurrai tu, che di questo

   sigillo impresso nella cerchia, a lui

   parlerà chiaro. Or vanne; e pria la legge

   osserva; e poi che messaggero sei,

   non andare cercando oltre; e la grazia

   sua, poscia fa' che con la mia concorra,

   e semplice non sia piú, bensí duplice.

LICA:

   Se ben questa d'Ermète arte io conosco,

   io non ti mancherò, sí ch'io non rechi

   questo cofano intatto, e le parole

   fedelmente che tu dici, v'aggiunga.

DEIANIRA:

   Dunque, partire omai potresti: tutto

   ciò che si volge in casa ora tu sai.

LICA:

   Lo so: dirò che tutto è sano e salvo.

DEIANIRA:

   Ed anche sai, l'hai ben veduto, come

   la stranïera amicamente accolsi.

LICA:

   Vidi, e piacer me ne commosse il cuore.

DEIANIRA:

   Altro dir che potrai? La brama ch'io

   nutro di lui, troppo presto sarebbe

   detta, pria di saper se anch'ei mi brama.

SECONDO CANTO INTORNO ALL'ARA

CORO:                                  Strofe prima

   O voi che abitate vicini

   ai porti ed ai caldi lavacri

   rocciosi ed ai monti dell'Eta,

   o a mezza la Delia palude,

   o sovressa la spiaggia alla vergine

   dall'auree frecce diletta,

   là dove hanno sede, a Termòpile,

   le sacre assemblee per gli Ellèni,

                                       Antistrofe prima

   l'armonica voce del flauto

   ben presto fra voi sarà giunta,

   facendo echeggiar, non ostile

   clangore, ma sònito ch'emuli

   della Musa divina la lira.

   Ché il figlio d'Alcmena e di Giove

   s'affretta alla casa recando

   trofei di perfetto valore.

                                       Strofe seconda

   Ei che in tutto perduto alla patria

   credevamo, errabondo sul mare,

   da dodici mesi

   ignaro di tutto; e la misera

   consorte, nel gramo suo cuore,

   sciogliendosi in lagrime,

   ognor si struggeva.

   Invece, da un estro di furia

   guerresca ora punto, distrutti

   ha Marte i suoi giorni d'angoscia.

                                       Antistrofe seconda

   Deh giungesse, giungesse! Il battello

   che fra noi lo conduce, i molteplici

   suoi remi non freni,

   sin ch'egli, lasciato l'altare

   dell'isola, ove ora sacrifica,

   a quello che narrano, torni

   a questa città.

   Di lí giunga folle d'amore,

   da Suada perfuso, domato,

   com'ebbe predetto il Centauro.

(Dalla reggia esce, tutta sconvolta, Deianira)

DEIANIRA:

   Deh, come temo, amiche mie, che troppo

   in tutto ciò che feci, io sia trascorsa!

CORIFEA:

   Deianira, d'Enèo figlia, che c'è?

DEIANIRA:

   Non so: temo che presto appaia un male

   grande, ch'io feci, a bella speme illusa.

CORIFEA:

   Forse pei doni che inviasti ad Ercole?

DEIANIRA:

   Certo; e ardir non avrei piú, ch'esortare

   potessi alcuno ad opera men chiara.

CORIFEA:

   Dicci, se dir lo puoi, di che paventi.

DEIANIRA:

   Tal fatto avvenne, che, se a voi lo narro,

   udrete, amiche, meraviglia nova.

   Quel bianco fiocco di lanosa pecora

   onde il bel peplo adesso adesso aspersi,

   ecco, è sparito; e niuno dei domestici

   lo distrusse: da sé si divorò,

   del pavimento su la pietra, in polvere

   si sbriciolò. Ma perché sappia il tutto

   come seguí, parlar debbo piú a lungo.

   Delle norme che a me diede il Centauro,

   quando patía, dalla saetta amara

   trafitto il fianco, non una io scordai,

   anzi le rammentai, come su tavola

   di bronzo incisa scritta incancellabile.

   Questo a me fu prescritto, e questo io feci.

   Lungi dal fuoco, in adito riposto,

   questo filtro io serbar dovea, dai raggi

   lungi del sol, sin ch'io non lo adottassi

   a novella unzïone; e cosí feci.

   E quando giunse il tempo, a una domestica

   pecora svelsi un bioccolo, in un angolo

   della casa segreto, unsi la tunica,

   la ripiegai, la chiusi entro in un cofano,

   al riparo del sol, come vedeste.

   Ma, rientrando in casa, uno spettacolo

   indicibile vidi, inesplicabile

   a mente umana: il bioccolo di lana

   onde unsi il peplo, a caso, ove batteva

   del sole un raggio, alla sua vampa ardente

   gittato avevo; e, come si scaldava,

   ecco, sparia, senza vederne causa,

   sul pavimento si sfaceva in polvere,

   tale a veder, quale del legno, quando

   la sega il fende, le minuzie appaiono.

   Cosí giace, ove cadde; e dalla terra

   ove giacea, schiume di grumi bollono,

   come allorché si versa dalla bacchica

   vite, il pingue color dei glauchi grappoli.

   Ond'io non so, me sciagurata, in quali

   pensïeri cader debba: un orribile

   atto compiei, lo credo. E perché mai

   la moribonda fiera, per qual causa,

   benevola con me fu, che l'origine

   fui di sua morte? Oh, non è già possibile!

   Chi colpito l'avea, volle distruggere,

   e nell'inganno m'irretí: lo vedo

   or troppo tardi, quando piú non c'è

   riparo: io stessa, ov'io mal non m'apponga,

   sterminato l'avrò: poiché lo strale

   che colpí Nesso, io ben lo so, die' cruccio

   anche a Chirone, ed era un Nume; e ovunque

   giunga a ferire, ogni animante strugge.

   E se sgorgò dalle sue piaghe questo

   tossico d'atro sangue, or come ad Ercole

   potrà morte non dare? Oh, ne son certa!

   E se quegli morrà, ben fermo è ch'io

   con lui muoia ad un passo: intollerabile

   cosa, per chi non esser tristo pregia

   sopra ogni bene, in trista fama vivere.

CORIFEA:

   Nei tristi eventi, è da temer; ma biasimo

   a Speranza non dar, prima dell'esito.

DEIANIRA:

   Ma nei consigli sciagurati, attesa

   non v'è che possa dar coraggio alcuno.

CORIFEA:

   Ma contro chi senza voler peccò,

   mite è lo sdegno; e tu cosí peccasti.

DEIANIRA:

   Questo può dire chi non è partecipe

   del male, e in casa sua cruccio non ha.

CORIFEA:

   Parlare oltre non devi, ove non voglia

   al figlio tuo parlar: ché adesso è qui

   quei che a cercare il padre suo già mosse.

(Giunge correndo Illo)

ILLO:

   Oh madre, o come di tre cose l'una

   io bramerei, che tu non fossi piú

   viva, o, pur viva, detta fossi madre

   d'un altro, oppure sentimenti in cambio

   di quelli ch'ài, molto migliori avessi!

DEIANIRA:

   Figlio, qual cosa in me l'odio tuo suscita?

ILLO:

   Il tuo consorte, il padre mio, ti dico,

   sappi che in questo giorno ucciso hai tu.

DEIANIRA:

   Quale discorso, o figlio, a me rivolgi?

ILLO:

   Tal che non può non esser vero. E chi

   far potrà che non sia ciò che pur vide?

DEIANIRA:

   Figlio, che dici? Che udisti, e da chi,

   per accusarmi di sí grande infamia?

ILLO:

   Io, con questi occhi, la sciagura ho vista

   del padre, non udii d'altri il racconto.

DEIANIRA:

   Dove incontrasti e avvicinasti il padre?

ILLO:

   Tutto, se vuoi saper, d'uopo è ch'io dica.

   Poi ch'ebbe la città distrutta d'Èurito,

   egli partiva, coi trofei recando

   della vittoria le primizie. Sorge

   un promontorio nell'Eubèa, battuto

   dai due lati dall'onde, e detto e Cèneo.

   Altari quivi al padre Giove alzò,

   e un frondoso recinto; e prima io qui

   lo vidi, e sazia la mia brama feci.

   E mentre egli a sgozzar le molte vittime

   s'apparecchiava, sopraggiunse Lica,

   l'araldo suo, dai suoi palagi, e il dono

   tuo gli recò, la tunica di morte.

   Ei, come tu bramavi, l'indossò,

   e dodici immolò tauri perfetti,

   del bottino primizie; indi, confusi,

   cento capi di gregge insieme spinse.

   E con ilare cuore prima, o misero,

   degli ornamenti lieto e della veste,

   le preci incominciò. Ma, quando viva

   brillò la fiamma dei solenni riti

   dal sangue effuso e dalla quercia pingue,

   sgorgò sudore dalle membra, e, stretta,

   quasi scolpita, ai fianchi suoi la tunica,

   giuntura per giuntura, s'appigliò,

   l'ossa gli corse, a roderle, uno spasimo,

   un tòsco, quasi di sanguigna infesta

   vipera lo corrose. E chiamò Lica

   con un grande urlo allor, che del suo strazio

   nessuna colpa avea, per quale trama,

   gli chiese, a lui portata avea la tunica.

   Ed ei, che nulla pur sapeva, o misero,

   disse che sol da te veniva il dono,

   ed era tal quale egli l'ebbe. Ed Ercole,

   come l'udí, poi che l'orrendo spasimo

   gli squarciava i polmoni, l'afferrò

   d'un piede al sommo, dove la giuntura

   si flette, e l'avventò contro uno scoglio

   flagellato dal mare; e il cranio a mezzo

   si fende, e sangue fuor ne sprizza, e candido

   cervello, misto con le chiome. E il popolo

   tutto, alto un grido di dolore alzò,

   per l'uno che soffria, per l'altro spento.

   E niuno ardia farsi vicino ad Ercole,

   ch'or si torceva a terra, ora sorgeva,

   ululando, gridando; e rimbombavano

   le rocce intorno, e i picchi della Lòcride,

   e i promontori degli Eubèi. Poiché

   stanco del tanto voltolarsi a terra,

   del tanto urlare fu - ché il letto infausto

   che divise con te, malediceva,

   il parentaggio con Enèo, lo scempio,

   ch'egli accettò, della sua vita - alfine

   l'occhio stravolto sollevò dal fumo

   che l'avvolgea, me fra la turba vide,

   che in pianto mi struggevo, e mi guardò,

   e mi chiamò: “Vien qui, figlio, e la mia

   sciagura non fuggire, anche dovessi

   morir con me che muoio. Di qui toglimi,

   dove nessun mi veda piú, conducimi.

   E se il cuor non ti basta, almeno recami

   lungi, prima che puoi, da questa terra,

   ch'io qui non muoia”. E, come ebbe ciò detto,

   noi lo recammo in una nave, mentre

   ei muggía fra gli spasimi. E qui vivo

   lo vedrete ben presto, o appena estinto.

   Ecco l'infamia, onde tu, madre, sei

   contro il padre convinta; e l'hai tramata

   e compiuta; e la pena a te Giustizia

   vendicatrice, a te darà l'Erinni.

   E, se lecito m'è, che avvenga io m'auguro.

   E lecito è; diritto a me ne desti

   quando il miglior fra quanti uomini vivono,

   né l'ugual piú vedrai, ponesti a morte.

(Senza pronunciare una sola parola, Deianira si precipita

entro la reggia)

CORIFEA:

   Fuggi e non parli? Perché mai? Tacendo,

   con chi t'accusa, tu te stessa accusi.

ILLO:

   Lasciatela che vada; un vento prospero

   la incalzi, mentre essa lontano va

   dagli occhi miei. La dignità del nome

   di madre, a che serbar, se in nulla adopera

   come una madre? Vada ove le piace:

   la gioia abbia che al padre essa largí.

TERZO CANTO INTORNO ALL'ARA

CORO:                                  Strofe prima

   Deh, come fanciulle, d'un súbito

   fra noi la parola fatidica

   giungea dell'antico presagio,

   che allorquando volgendo le semine,

   compiuti saran dodici anni,

   riposo il figliuolo di Giove

   avrebbe trovato agli affanni!

   Un vento gagliardo, al suo termine

   diritto or sospinge l'oracolo.

   E infatti, chi già chiuse il ciglio,

   temerà, se disceso è fra gl'Inferi,

   di patir, di servire periglio?

                                       Antistrofe prima

   Ché, s'or del Centauro l'insidia

   fatale al suo fianco s'agglútina,

   con nube di sangue, ed il tossico

   lo premèa che da morte ebbe origine,

   che fu tra la fulgida spira

   del Drago nutrito, in che guisa

   potrebbe, oltre a quello ch'or mira,

   vedere altro sole? Lo stermina,

   lo incenera l'Idra terribile.

   Del mostro dal livido crine

   le saette infiammate ingannevoli

   lo torturano a misero fine.

                                       Strofe seconda

   Pertanto, la misera improvvida,

   vedendo improvvisa la grave rovina

   su la casa piombar, per l'irrompere

   di nozze novelle, o tapina,

   comprender non seppe; e per l'esito

   d'estraneo consiglio

   funesto, ora bagna di lagrime

   cocenti fittissime il ciglio.

   E il Fato che avanza, ferale

   destino palesa, di frode, di male.

                                       Antistrofe seconda

   Un fonte or proruppe di lagrime.

   Ahimè, di che morbo l'opprime lo schianto!

   Oh, non mai dai nemici sopra Ercole

   un male provenne di pianto

   sí degno. O dell'asta belligera

   sanguinëa punta,

   con te, prigioniera, la vergine

   dall'alta Ecalía quivi è giunta.

   È chiaro che Cípride sola

   gli eventi condusse; né disse parola.

SEMICORO A:

   Vaneggio io forse, oppure d'un lamento

   surto or or nella casa il suono ascolto?

   Che devo dire?

SEMICORO B:

   Un grido suona, e ben distinto: un misero

   ululo: eventi nuovi in casa volgono.

SEMICORO A:

   Or vedi, questa vecchia,

   a noi con gli occhi, contro il suo costume

   esterrefatti, a dar notizie giunge.

(Giunge la nutrice)

NUTRICE:

   Come per noi, fanciulle, il dono ad Ercole

   spedito, fu d'orrendi mali origine!

CORIFEA:

   Che nuovo evento, o vecchia, annunzi a noi?

NUTRICE:

   Ha Deianira superata l'ultima

   strada che mai si batta; e pie' non mosse.

CORIFEA:

   È forse morta?

NUTRICE:

   Nulla ho da soggiungere.

CORO:

   Tapina, è morta?

NUTRICE:

   Debbo anche ripeterlo?

CORO:

   Misera, trista! E della morte il modo?

NUTRICE:

   Quanto esser può piú misero.

CORO:

   In che fato,

   o donna, s'imbatté?

NUTRICE:

   Da sé s'uccise.

CORO:

   Che furore, che morbi,

   di qual maligno dardo con la cuspide

   lei trafissero? Come

   soletta essa alla morte

   osò la morte aggiungere?

NUTRICE:

   Col taglio

   di doloroso ferro.

CORO:

   E tale oltraggio tu vedesti, o misera?

NUTRICE:

   Come chi presso a lei fosse, lo vidi.

CORO:

   Qual fu? Come fu? Dimmelo.

NUTRICE:

   Tal governo di sé da sé compieva.

CORO:

   Come favelli?

NUTRICE:

   Chiaro.

CORO:

   Ahi, che fatale Erinni

   a luce die' per questa

   casa la nuova sposa!

NUTRICE:

   Purtroppo; e piú, s'ivi presente, avessi

   visto quanto ella fe', pietà ne avresti.

CORO:

   Tanto compiere osò femminea mano?

NUTRICE:

   In modo orrendo: lo dirai con me,

   quando abbia udito. Poi che sola entrata

   fu nella casa, e per le stanze il figlio

   vide, che un cavo letto apparecchiava,

   per tornar sui suoi passi incontro al padre,

   si ascose lungi da ogni sguardo, e all'are

   si prosternò, gemendo alto, che fossero

   omai deserte; e quest'oggetto e quello

   che un tempo usava, iva toccando, e in lagrime,

   si scioglieva, tapina. E s'aggirava

   qua e là per la casa; e ovunque il viso

   d'un dei famigli suoi vedesse, o misera,

   rompeva in pianto, ed imprecava al dèmone

   proprio, e alla casa, omai di figli vuota.

   Finito il pianto, d'improvviso, al talamo

   d'Ercole vedo che s'avventa; ed io,

   celato il mio furtivo occhio nell'ombra,

   la vigilavo. E sopra il letto d'Ercole,

   le coltri vidi che stendea. Compiuta

   l'opera, sopra vi balzò, salí

   nel mezzo del giaciglio; e, prorompendo

   in calde fonti di lagrime, disse:

   “O letto, o stanza nuzïale, addio

   per sempre, omai: ché piu non dormirò

   fra queste coltri”. Cosí detto, sciolse

   con man convulsa il peplo ove una fibula

   d'oro sporgea sui seni, e nudo parve

   il fianco tutto e l'omero sinistro.

   Correndo quanto io piú potevo, mossi,

   ed al figlio narrai quanto la madre

   stava facendo. E in quanto io mossi, e quivi

   tornammo, lei di doppio colpo al fianco

   vediam trafitta, sotto il cuore e il fegato.

   Il figlio vide, e un grido alto levò:

   ch'egli, col suo furore, a quello scempio

   spinta l'aveva: tardi or lo conobbe:

   ché tardi apprese dai famigli, come

   senza volere della madre l'opera

   fu, pei consigli della fiera. E il misero

   figlio, ululando su la madre, lagrima

   non fu che allora non versasse, bacio

   che su le labbra a lei non imprimesse:

   giacendo abbandonato a fianco a fianco,

   molto gemea che con maligna accusa

   stoltamente la madre avea colpita,

   piangea perché d'entrambi orfana a un tratto

   la vita avea, del padre e della madre.

   Questo in casa è seguíto. E se alcun v'è

   che sopra un giorno, su piú giorni speri,

   quegli è ben folle: ché non v'ha dimani,

   se prima l'oggi non trascorre fausto.

QUARTO CANTO INTORNO ALL'ARA

CORO:                                  Strofe prima

   Quale sciagura prima

   pianger dovrò? Quale è piú grave? Misera

   me, non so farne stima.

                                       Antistrofe prima

   Vedere in casa un male

   si può, l'altro s'attende; ed è l'attendere

   al patir cosa uguale.

                                       Strofe seconda

   Deh, sorga una procella

   dal focolare impetuosa, e rapida

   lungi da questi luoghi or mi divella,

   sí che di Giove il valoroso figlio

   solo vedendo, io non dovessi a súbita

   morte serrare il ciglio.

   Giunge alla casa, dicono, soffrendo

   spasimi quali mai non avran termine:

   deh, spettacolo orrendo!

                                       Antistrofe seconda

   Qual garrulo usignolo,

   gemei chi non lontano era, ma prossimo.

   Di stranïeri a noi muove uno stuolo.

   Dove lo recan mai? Qual chi paventi,

   per un diletto amico, innanzi muovono

   a passi lievi e lenti.

   Ahi, ché mentre lo recano, ei pur tace!

   Ch'egli morto sia già dovremo credere?

   Oppur nel sonno giace?

(Entrano Illo, un vecchio, e servi che portano su una barella

Ercole privo di sensi)

ILLO:

   Ahimè, padre! Ahi me misero

   per la tua sorte! Che deciderò?

   Che debbo fare? Ahimè!

UN VECCHIO:

   Taci, o figlio, ché tu di tuo padre

   furibondo, il selvaggio dolore

   non ridèsti: ch'ei, pure cosí

   prostrato, ancor vive. Le labbra

   su, morditi, frénati.

ILLO:

   O vecchio,

   è vivo? Che dici?

VECCHIO:

   Che tu

   lo lasci tranquillo, sinché

   immerso è nel sonno, e non ecciti

   l'orribile morbo

   che tutto l'invade.

ILLO:

   O me misero,

   un peso infinito s'aggrava

   su me, la mia mente delira.

(Ercole si scuote)

ERCOLE:

   Oh Giove!

   In che terra son giunto? Trafitto

   da dolori implacabili, presso

   quali genti io mi giaccio? Oh me misero!

   Maledetto! Anche a rodermi torna!

   Ahimè!

VECCHIO:

   Ben sapevo quanto era pel meglio

   soffocar la sua doglia, ed il sonno

   dal suo capo, dal ciglio non sperdere.

ILLO:

   Possibil non è, tale strazio

   ch'io veda e mi freni.

ERCOLE:

   Oh scogliera di Cènëo, plinto

   degli altari, di che sacrifici

   che mercè mi rendesti! Deh, quale,

   quale obbrobrio versasti su me!

   Deh, veduta pur mai non t'avessero

   queste luci, né mai tal fiorire

   di follia contemplassi! Deh, Giove,

   quale mago cantor, d'erbe mediche

   qual maestro, potria tal flagello

   con incanti placar, tranne Giove?

   Deh, spuntar tal prodigio vedessi!

                                       Strofe prima

   Ahimè!

   Lasciatemi, lasciate che giaccia questo misero,

   lasciate che per l'ultima volta m'adagi. Ahimè!

                                       Strofe seconda

   Che mi reclini? Il mio corpo chi mai sostiene?

   Tu m'uccidi, m'uccidi: le pene

   sopite hai tu rideste.

   Ecco, di nuovo a me s'appiglia il tormento, e m'investe.

   Dove ora siete, o fra quanti son gli Elleni, empissimi? In mare

   io mille e mille volte patii, nelle vostre foreste,

   per liberarvi dai mostri. E adesso che il morbo mi stermina,

   nessuno o ferro o fuoco recherà, che mi sia salutare?

                                       Antistrofe prima

   Ahimè!

   Dunque, nessuno vuole, nessun s'appressa, che

   dell'odïosa vita mi strappi il capo? Ahimè!

VECCHIO:

   Figlio di quest'eroe, quest'opera forze richiede

   piú che le mie non sono. Tu reggilo: forse la vista

   tua, piú che l'opera mia giovargli potrà.

ILLO:

   Sí, lo assisto:

   ma piú non sarà mai che in patria né fuor della patria

   provi la vita mia tanto strazio. Oh volere di Giove!

ERCOLE:                                Strofe terza

   Dove, dove mai, figlio,

   sei tu? Di qui, su questo fianco levami,

   alleggerisci la mia pena. Ahi, Dèmone!

                                       Antistrofe seconda

   Di nuovo, ecco, m'assale, maledetto, m'assale

   il selvaggio, l'indomito male

   che mi sterminerà.

   Pàllade, Pàllade, ancora mi lacera il morbo! - Pietà

   abbi di chi la vita, figliuolo, ti diede! La spada

   sotto la gola a me vibra. Il colpo innocente sarà

   farmaco al male onde l'empia tua madre m'ha stretto al martirio

   folle. Cosí, cosí, come pur m'ha distrutto, ella cada.

                                       Antistrofe terza

   O dolce consanguineo

   di Giove, Ade, fa' ch'io soccomba. Un rapido

   fato fa' tu che strugga questo misero.

CORO:

   Abbrividii, queste sciagure udendo

   del signor mio: quale ei, quali sono esse!

ERCOLE:

   Quanti strazi, e cocenti, ognor soffersero

   queste mie braccia, questi omeri, né

   solo a parole; ma non mai di Giove

   la consorte, non mai l'abominato

   Euristèo me ne inflisse uno siffatto,

   come or d'Enèo la frodolenta figlia

   alle mie spalle questa rete strinse

   dall'Erinni intessuta, ond'io mi struggo,

   che, agglutinata al fianco mio, mi rode

   le carni insino all'osso, e col polmone

   si confonde, e le vie tutte ne assorbe,

   e tutto il vivo sangue mio bevuto

   ha già: distrutto è tutto quanto il corpo,

   in questi avvolto vincoli ineffabili.

   E non oste schierata, e non terrigeno

   stuol di giganti o gagliardia di fiera,

   non terra ellèna, non paese barbaro,

   non terra alcuna di quante io ne corsi,

   dai mostri ne affrancai, tanto mai fece;

   ma mia moglie, una donna, e non già d'animo

   viril, m'uccise; e senza spada; e sola.

   O figlio, e tu mio vero figlio or sii,

   né reverenza piú t'incuta il nome

   di madre. Quella che ti partorí,

   con le tue mani dalla casa strappala,

   e dàlla in mano a me, ché chiaro io veda

   se pel mio strazio piu t'affliggi, o quando

   la maledetta effigie sua sconciata

   vedrai, com'è giustizia. O figlio, su,

   fa' cuore, abbi pietà di me, da tanti

   mali oppresso, che piango e mi lamento

   a guisa di fanciulla. E niuno dire

   potrà che mai piangere vide, prima

   d'ora, quest'uomo: i mali miei pativo

   senza gemito, sempre. Adesso, in femmina

   da quello ch'ero, son converso, o misero!

   Apprèssati ora, accanto al padre sta,

   vedi per che sciagura a ciò son giunto.

   Libero dalle vesti il corpo mio

   ti mostrerò. Vedi, vedete tutti

   queste misere membra, in quanto strazio

   questo infelice ora si trova. Ahimè!

   Misero me!

   Mi brucia ancora il maledetto spasimo,

   mi dilacera i fianchi il morbo orribile,

   lasciare non mi vuol senza travaglio.

   Ade, Signore, accoglimi!

   Raggio di Giove, bruciami!

   Scuoti, o Signore, il dardo della folgore

   avventa, o padre mio: ché ancor mi rode,

   prende rigoglio, su me piomba. O mani,

   o mani, o dorso, o petto, o braccia mie,

   quelle ancor siete che il leone orrendo

   che il covo ebbe in Nemèa, mostro implacabile,

   dei bifolchi flagello, a viva forza

   abbattere valeste, e l'Idra in Lerna,

   e dei Centauri la biforme razza,

   di sterminata forza, e senza legge,

   senza consorzi, e vaga sol d'oltraggi,

   e d'Erimànto l'apro, e il sotterraneo

   cane d'Ade tricípite, e dell'orrida

   Echidna il figlio, insuperabil mostro,

   e, ai limiti del mondo ultimi, il drago

   che gli aurei pomi custodiva. E mille

   e mille imprese altre affrontai; né alcuno

   dalle mie braccia riportò vittoria.

   E piú non posso or muovermi, ridotto

   sono un vil cencio, debellato, o misero,

   dalla cieca sciagura, io che da nobile

   madre m'ebbi pur nome, e figlio detto

   sono di Giove che fra gli astri impera.

   Ma questo ben sappiate: che, sebbene

   nulla io sia piú, né pur muovermi io possa,

   anche cosí, punir saprò la donna

   che m'ha ridotto a tanto. Oh, ch'ella appressi,

   e apprendere potrà, ridirlo a tutti,

   che, vivo e morto, io punir seppi i tristi.

CORO:

   Ellade tutta, o quanto lutto, o quanto

   credo che avrai, se questo eroe morrà!

ILLO:

   Poi che di replicarti occasïone,

   padre, mi dài, sebbene soffri, ascoltami.

   Nulla ti chiederò che non sia giusto;

   ma non con tanta furïa, qual è

   quella ch'ora ti morde, orecchio prestami;

   o saper non potrai donde allegrezza

   tu brami, e in che, senza ragion ti crucci.

ERCOLE:

   Di' quel che brami, e poi taci: ch'io soffro,

   né le sottili tue parole intendo.

ILLO:

   Son qui per dirti di mia madre, a che

   sia giunta, e come a mal suo grado errò.

ERCOLE:

   Mentovare tua madre osi, o tristissimo,

   di tuo padre assassina, e sí ch'io t'oda?

ILLO:

   A un punto ella è che non si può tacerne.

ERCOLE:

   Gli antichi errori suoi tacere? Oh, no!

ILLO:

   Né quelli d'oggi: lo dovrai pur dire.

ERCOLE:

   Parla; ma fa' che tu non sembri un tristo.

ILLO:

   Morta è, trafitta di colpi recenti.

ERCOLE:

   Chi colpía? D'un prodigio è il tristo annunzio.

ILLO:

   Da sé fu spenta, e non per mano altrui.

ERCOLE:

   Ahimè, non di mia man, com'era giusto!

ILLO:

   Pietà, se tu sapessi, anche tu avresti.

ERCOLE:

   Turpe è il principio; ma di' pur che pensi.

ILLO:

   In tutto errò; ma pur, cercava il bene.

ERCOLE:

   Fu bene, o tristo, uccidere tuo padre?

ILLO:

   La nuova sposa in casa vide; e un filtro

   d'amor volendo propinarti, errò.

ERCOLE:

   Qual dei Trachinî oprò tale malía?

ILLO:

   Nesso Centauro la convinse un giorno

   che in te quel filtro avrebbe accesa brama.

ERCOLE:

   Ahimè, misero me, perduto io sono!

   Morto, infelice, morto io son: la luce

   piú non brilla per me. Comprendo, ahimè,

   in che sciagura son piombato. Va',

   figlio, ché padre piú non hai. La stirpe

   dei tuoi fratelli chiama tutta: Alcmena

   la sventurata, invan sposa di Giove

   chiama: udite da me, l'ultima volta,

   quale io la so, la voce degli oracoli.

ILLO:

   Tua madre non è qui: vive in Tirinto,

   vicino al mar, come la sorte volle.

   E dei tuoi figli, ne raccolse alcuni

   e li nutrisce, ed altri, ne la rocca

   vivon di Tebe, lo saprai. Ma quanti

   siam qui, se, padre, opera c'è che compiere

   vaglia, a udirti, a servirti, ecco, siam qui.

ERCOLE:

   L'opera è tale: ascolta: ivi sei giunto

   ove parrà qual uomo sei: se degno

   d'esser chiamato figlio mio. Predetto

   da lungo tempo a me fu da mio padre

   ch'io morir non potrei per man d'alcuno

   che respirasse, ma da chi nell'Ade

   morto abitasse. E questi era il Centauro,

   che, spento già, come dicea l'oracolo,

   me vivo uccise. Ed altri vaticinii

   novelli io svelerò, che insiem si compiono

   con questi, e con gli antichi ben s'accordano.

   Quando io nel bosco entrai dei Selli alpestri,

   che giaciglio hanno il suol, da la paterna

   quercia io li scrissi dalle molte lingue.

   Questa mi disse che nel tempo adesso

   presente e vivo, degli affanni miei

   si sarebbe per me compiuto il termine.

   Ond'io credea che predicesse prospera

   sorte; e null'altro predicea che morte:

   ché vanno immuni da travagli i morti.

   Ed or che chiaro quel responso compiesi,

   figlio, soccorso al padre arreca, il labbro

   mio non lasciar che s'inasprisca, cedi,

   l'opera mia seconda, e legge reputa

   su ogni altra bella al padre essere docile.

ILLO:

   Poi che il discorso a questo giunse, io trepido,

   padre; ma in ciò che vuoi t'obbedirò.

ERCOLE:

   Nella mia destra pria la destra poni.

ILLO:

   Questo segno di fede a che m'ingiungi?

ERCOLE:

   Ubbidir non mi vuoi, súbito porgerla?

ILLO:

   Nulla contro io ti dico: ecco, la porgo.

ERCOLE:

   Giura or pel capo di mio padre Giove.

ILLO:

   Di far che cosa? Il tuo discorso compi.

ERCOLE:

   Di compier tutto ciò, ch'io ti dirò.

ILLO:

   E dunque, giuro; e mi sia teste Giove.

ERCOLE:

   Su te, se mancherai, sciagure impreca.

ILLO:

   Non ne avrò, manterrò; ma pure, impreco.

ERCOLE:

   Sai tu dell'Eta il picco, a Giove sacro?

ILLO:

   Certo: ivi spesso io sacrificio offersi.

ERCOLE:

   Il corpo mio, con le tue mani stesse

   sollevar devi; e quanti amici occorrano

   presi con te, colà recami. E molta

   legna di querce dalle salde radiche

   recidi, e molta di selvaggio ulivo

   stroncane, e il corpo mio gittavi sopra.

   Impugna poi la vampa d'una fiaccola

   resinosa, e me brucia. E pianto esprimere

   né gemito non devi; ma senza ululi,

   senza lagrime, sia l'opera tua,

   se figlio pur sei di quest'uomo. E se

   tu non farai cosí, fin di sotterra

   m'avrai nemico, e ti maledirò.

ILLO:

   Ahimè, padre, che dici? A che m'astringi?

ERCOLE:

   A ciò che far si deve; e se no, figlio

   mio non sii detto, e un altro padre cercati.

ILLO:

   Anche una volta, ahimè! Che mi comandi!

   Ch'io l'assassino tuo sia, che t'uccida!

ERCOLE:

   Non l'assassino! Il sanator dei mali

   ond'io son torturato, e il solo medico.

ILLO:

   Come? Guarire il corpo tuo bruciandolo?

ERCOLE:

   Fa', se ciò ti sgomenta, almeno il resto.

ILLO:

   Di là recarti, oh, non farò diniego.

ERCOLE:

   Né di comporre, come ho detto, il rogo?

ILLO:

   Tranne che di mia man toccarlo: appormi

   pel resto non potrai; tutto farò.

ERCOLE:

   Anche ciò basterà; ma devi aggiungere

   una piccola grazia all'altre grandi.

ILLO:

   Anche se grande assai, sarà compiuta.

ERCOLE:

   Sai la fanciulla, la figliuola d'Èurito?

ILLO:

   Iole, se posso argomentar, tu dici.

ERCOLE:

   L'hai detto. Ora io, figlio, ti prego. Quando

   morto sarò, se pur brami esser pio,

   e i giuri fatti a me serbare, sposala,

   obbedïenza non negarmi. Niuno,

   all'infuori di te, s'abbia la donna

   che giacque al fianco mio. Tu stesso, o figlio,

   sali il suo letto. Ché se, poi, tu docile

   sei nelle grazie grandi, e nelle piccole

   relutti, il prisco merito distruggi.

ILLO (fra sé):

   Turpe adirarsi con chi soffre; eppure,

   come frenarsi, udendo i suoi disegni?

ERCOLE:

   Come se tu voglia negarti mormori.

ILLO:

   Quella che sola causa della morte

   fu di mia madre, e del martirio in cui,

   padre, tu giaci, quella donna, chi,

   se posseduto da malvagi Dèmoni

   non fosse, far potrebbe sua? Morire,

   meglio per me, padre, sarebbe, che

   vivere coi miei piú fieri nemici.

ERCOLE:

   Io muoio, ed una grazia a me tu neghi.

   Ma se relutti, sopra te del Nume

   la maledizïone piomberà.

ILLO:

   Ora del tuo malor segno darai.

ERCOLE:

   Sopito era il malor: tu lo ridesti.

ILLO:

   Fra quanti dubbii, me misero, m'agito!

ERCOLE:

   Perché dar ti rifiuti al padre ascolto?

ILLO:

   Apprender devo il sacrilegio, o padre?

ERCOLE:

   Sacrilegio non è, se tu m'appaghi.

ILLO:

   Pura giustizia e ciò che tu m'imponi?

ERCOLE:

   Certo: ne invoco testimoni i Súperi.

ILLO:

   E dunque, sia: non opporrò rifiuto.

   L'opera i Numi veggano: ché tristo

   mai non parrò, perché t'obbedii, padre.

ERCOLE:

   Bene, figlio, concludi. E una sollecita

   grazia ora aggiungi: su la pira ponimi,

   prima che un nuovo accesso, un nuovo spasimo

   piombi su me. Via, dunque, sollevatemi,

   affrettatevi. Il termine dei mali

   era tal per quest'uomo: il giorno estremo.

ILLO:

   Quando costringi, quando ordini, padre,

   nulla vieta compir ciò che tu brami.

(Sulla soglia della reggia appare Iole)

ERCOLE:

   Ora, su, pria che il morbo di nuovo

   si ridesti, o mio spirito duro,

   dammi un morso d'acciaio, di pietra,

   ch'io lo stringa alla fauce, ch'io soffochi

   ogni grido, sicché questa impresa

   non cercata, si compia in letizia.

ILLO:

   Sollevatelo, amici, ed abbiate

   tolleranza dell'opera mia.

   E vedete dei Numi la somma

   sconoscenza da ciò che qui segue.

   Ché dànno alla luce figliuoli,

   che padri son detti,

   e permetton che soffrano tanto.

   Il futuro, nessuno lo scorge;

   ma il presente è per noi doloroso,

   vergognoso per essi, e terribile

   per quegli che soffre

   quanto mai nessun uomo sofferse.

(Illo si allontana coi servi che portano Ercole)

CORO (A Iole):

   O fanciulla, e tu pure, lontana

   non restar dalla casa, ché visto

   hai tu pur questa morte recente,

   e le nuove e le orrende sventure.

   Ed a Giove di ciò nulla sfugge.

(Si allontanano tutti)