L’IDEA DELLA LUCE
di
Domenico Bravo
Nell’oscurità echeggia il suono di bottiglie di plastica schiacciate e lanciate
lontano.
Un uomo rovista in un cassonetto dei rifiuti, ripetendo costantemente un’unica
frase.
UOMO Chistu fa ‘a gìenti: ìetta, ìetta e ‘un cùogghi nìenti1.
Viene fuori dal cassonetto e si fa strada tra le centinaia di bottiglie di
plastica sparse sul pavimento. Alcune sono ancora integre, anche se del tutto
vuote, altre sono state compresse e richiuse.
Il suo culo, che era la somma di tutti i culi nel raggio di un chilometro,
sbucava da un cassonetto per la raccolta dei rifiuti che sembrava la stesse
masticando a poco a poco, pigramente e inesorabilmente, poiché ad ogni
movimento di quell’immenso posteriore, il coperchio scorrevole del contenitore
scivolava su di lei e subito dopo si riapriva come una bocca spaventosa.
Raccoglie una bottiglia integra.
Camminavo lungo una strada piuttosto nota del quartiere in cui ho vissuto per
oltre quattordici anni, una via traversa del più conosciuto viale… insomma,
mentre camminavo, la vidi infilata lì dentro e non potei fare a meno di
fermarmi.
Toglie il tappo alla bottiglia.
Cercai di capire, senza però chiederle nulla, se avesse bisogno di una mano.
Sempre che io, un ragazzo di appena centosessantotto centimetri d’altezza e
cinquantacinque chili scarsi di peso, riuscissi a tirar fuori quella bufala
travestita da donna. Mi avvicinai a lei, goffo, sicuramente goffo
nell’incertezza e, lo ammetto, nel timore che quella uscisse di scatto e,
credendo che volessi prenderla da dietro, nella migliore tradizione dei
maniaci, lasciasse sulla mia guancia il tatuaggio delle sue cinque dita nodose
e callose -così le avevo immaginate.
Comprime la bottiglia tra le mani, svuotandola dell’aria, e la richiude.
E intanto continuavo a non comprendere se avesse bisogno di soccorso. Forse era
finita lì per sbaglio, mentre compiva la sua quotidiana azione da buona
cittadina; oppure aveva buttato per errore qualcosa di cui non poteva assolutamente
privarsi. Comunque mi avvicinai, alfiere dei pavidi, e mi fermai solo quando mi
accorsi che stava parlando da dentro il cassonetto, dentro il cassonetto, a se
stessa o ai rifiuti, impossibile stabilirlo, continuando a scuotere quel
deretano mastodontico. Era un mormorio ovattato e le parole erano quasi
impercettibili, ma in quella babele di suoni riuscii a cogliere qualcosa. E
dopo aver parlato, madre e matrona di tutte le sfingi, emerse dal fondo del
cassonetto. Io mi allontanai immediatamente e la osservai di straforo
attraverso il finestrino di una macchina. Mi ci vollero diversi secondi prima
di rendermi conto che quel che aveva sottratto al furore della pressa era un
posacenere.
Si gira verso il cassonetto.
Chistu fa ‘a gienti: ìetta, ìetta e ‘un cuògghi nienti.
Lancia la bottiglia.
Una sacrosanta verità.
Si fa strada nel mare multicolore delle bottiglie.
Tutti la conoscevano come Rosa La Pazza, e la sua fama valicava i confini del
rione spingendosi fino ai quartieri bene. Pochi erano a conoscenza del suo vero
nome, ma non lo resero mai di pubblico dominio, forse per rispetto o per una
qualche promessa, lasciando che quel segreto giungesse immacolato alla tomba,
come corpi incorrotti di bambini prematuramente scomparsi. I più sostenevano che
si chiamasse proprio così, e che Rosa fosse uno scandaloso affronto a Santa
Rosalia, patrona della città. Qualcun altro, invece, con la dolcezza degli
ingenui, diceva di averla vista un giorno mentre si passava sulle labbra un
rossetto, bottino di una passata razzia, così maldestramente da dipingere sulla
bocca un bocciolo di rosa. Idda si mittìeva ‘u russiettu accussì mali ca supra
‘a vucca parìa c’avissi un ciùri2. Così diceva qualcuno. Quanto all’aggettivo
pazza, esso aveva in sé risposte e menzogne.
Alza le spalle e annuisce.
Quel che provai, quel giorno, fu meraviglia, ovvero paura e stupore
dell’inatteso. Ebbi paura di quel donnone, soprattutto per l’imprevedibilità
delle sue azioni, e rimasi sorpreso da quelle parole, riferite poi a un posacenere.
Una relazione che feci solo più tardi, con quello che siamo soliti definire
senno di poi, ovvero dopo aver costretto la mia gola ad allentare la stretta
sul cuore e a lasciarlo ricadere in basso. Non troppo in basso,
naturalmente.
Breve pausa.
Inizialmente pensai: è assurdo. Correre il rischio di essere ingoiati da quel
cassonetto per un posacenere di metallo, non poteva che essere assurdo.
Riflette un istante.
No, mi dissi. Farsi il bidet con l’acido, è assurdo; calzare scarpe di sabbia e
sperare che non si sgretolino, è assurdo. Ma inalare il fetore delle cose morte
degli altri è a dir poco terribile.
Ruota l’indice all’altezza del torace, un movimento veloce e continuo.
Passi un ventilatore che ha ancora qualche possibilità di far girare le proprie
pale; passi una coperta lercia e logora ma ancora in grado di scaldare. Ma
tutto quello sforzo di muscoli e polmoni per un misero posacenere era
inconcepibile.
Picchia sulla fronte col palmo della mano.
Ed ecco che la memoria recitò quelle parole, le uniche comprensibili fra grida
di bottiglie e mormorii di plastica. E allora, rallegrarsi per avere scovato un
posacenere di metallo nel fondo di un cassonetto, fra odori e orrori di natura
diversa, non mi parve più così assurdo. Né terribile o inconcepibile.
Ovviamente, giunsi a quella conclusione in più di trentadue parole e una
manciata di pensieri. Ci vollero all’incirca due ore per convincermi che non
c’era niente di assurdo nel sorriso di gioia, forse di vittoria, sicuramente di
soddisfazione, dell’ammiraglia dal fiore in bocca. Due ore, durante le quali mi
chiesi se io l’avrei mai fatto. Due ore, per giungere all’unica risposta
possibile, semplice e concisa: no.
Breve pausa.
Perché non ne avevo bisogno.
Raccoglie un’altra bottiglia.
Il giorno dopo feci la stessa strada, percorso obbligato per raggiungere la
fermata del bus. Ma Rosa La Pazza non c’era. Il cassonetto carnivoro era lì, ma
di lei nessuna traccia. Guardai l’orologio. Avevo ancora un’ora di tempo.
Svuota la bottiglia e la lascia cadere nel mucchio.
Decisi di aspettare, consapevole del fatto che se non avessi preso al volo quel
bus, avrei perso un’occasione di lavoro.
Alza le spalle.
Così, avvenne che mancai all’appuntamento. Poco male. Perso un lavoro se ne
trova un altro. Un po’ come i papi, no?
Si avvicina al cassonetto e tira giù il coperchio.
Mentre aspettavo, appoggiato alla portiera di una macchina, mi venne in mente
un racconto di mio padre, che aveva come protagonista mio padre stesso. Aveva
quattro, forse cinque anni, e lavorava in un panificio. Era in gamba, mio
padre. Pensate che a quattro, forse cinque anni, era già in grado di fare la
pasta per il pane.
Esibisce un sorriso pieno di fierezza.
Un fenomeno. Lui si svegliava sempre molto presto, perché il panificio apriva
alle cinque del mattino. Un giorno, mentre andava al lavoro, aveva visto un
topo gigante che sculettava sul bordo del marciapiede. Lui lo aveva seguito,
furtivo, silenzioso.
Si appoggia su una spalla al cassonetto.
Ma, come è facile intuire, il topo bastardo si era accorto subito della sua
presenza ed era fuggito.
Si stacca dal cassonetto e scatta prima da una parte poi dall’altra.
Mio padre non si era arreso e assicutò ‘u sùrci3, così mi raccontò, pestando
l’asfalto con le sue ciabatte infradito. E si era fermato solo quando il topo
era svanito dentro un buco nel marciapiede che conduceva alle fogne. “Curnutu
r’un surci4,” aveva esclamato. Ma non aveva deposto le armi.
Le sue labbra si torcono in una smorfia di disappunto.
Mio padre non si arrende mai, credetemi, lotta strenuamente, anche quando sa
che la battaglia è persa in partenza. Non ammetterebbe di essere stato
sconfitto nemmeno sotto tortura. È una cosa che mi manda in bestia. Comunque,
si era seduto sul bordo del marciapiede e aveva aspettato vicino alla tana del
topo, incurante del tempo che passava. “Hàvi a nìesciri prima o dùoppu5”. Era
rimasto seduto per ore, in attesa che quella bestia facesse capolino dal buco,
ma invano.
Mostra gli incisivi, in una grottesca imitazione di un topo che sorride.
Si era presentato al lavoro alle sette e venti del mattino. Il principale aveva
esordito: “Chi succìessi?6” “Assicutài un surci,7” era stata la risposta calma
e sincera di mio padre. La brevità dei saggi? Mah! Fatto sta, che il
proprietario del panificio non lo aveva cacciato via. Gli aveva detto: “Va
nìesci dda ‘nfurnàta prima ca s’abbrùcia8”. Il proprietario non lo cacciò mai
via. Gli piaceva, mio padre, perché era furbo, esperto, simpatico e, cosa assai
rara, sincero. Sia chiaro: la vita d mio padre non è tutta rose e fiori. Come
qualsiasi figlio, a volte lo odio. Come qualsiasi padre, di quando in quando
lui mi detesta. È nell’ordine delle cose. Una specie di regola familiare.
Dopo una breve pausa.
Così aspettai qualcosa come due ore e venti. Persi tempo e lavoro, ma non mi
disperai. Dopotutto, non avevo rinunciato a qualcosa di importante. Il terzo
giorno fu un altro fiasco. Prima di svoltare l’angolo, ero assolutamente certo
che avrei sorpreso Rosa La Pazza china sul cassonetto, intenta a rovistare fra
le immondizie, con quel suo culo che ciondolava al ritmo di un grottesco mambo
in slow motion. E invece, lei non c’era. Ricordo di aver pensato qualcosa di
poco carino nei suoi confronti, bisbigliato persino delle imprecazione, come
qualcuno che inveisce contro chi non ha rispettato un appuntamento. Mi sentivo
un idiota: il giorno prima, avevo annullato, senza preavviso, un incontro di
lavoro, e inventato scuse -vado a teatro, devo vedere un amico, ho le mie cose-
perché i miei non mi affidassero commissioni. Tutto per niente. Silenzio e
assenza erano ciò che avevo ricevuto in cambio. Per due giorni, capite? Due. La
delusione cresceva come un incendio in una prateria. Sapevo che se fossi andato
via, la delusione si sarebbe mutata in rabbia, e così aspettai. Sapete, non il
lavoro, ma l’attesa nobilita l’uomo. Il lavoro cambia l’uomo, perlopiù in
peggio. Un buon lavoro presuppone costanza, perfidia, una ricerca continua del
potere. Un pessimo lavoro, per di più mal pagato, impone costanza, rinunce,
resistenza all’ ossessivo senso di inutilità. Certo, dipende dall’uomo e dal
lavoro, ma quando c’è di mezzo il denaro, ogni opinione svanisce e resta una
sola realtà: il denaro, appunto. Trenta minuti. L’attesa, invece, divide gli uomini
in due categorie: quelli impazienti e facili all’ira in caso di ritardo -il
ritardo degli altri, ovviamente- e gli uomini assolutamente tranquilli, votati
all’atarassia, la cui pazienza è imperturbabile, forte persino ai ritardi più
scandalosi, uomini capaci addirittura di angustiarsi e temere il peggio, di
sentirsi finanche in colpa per la scelta del luogo e dell’ora
dell’appuntamento. Cinquanta minuti. Allora, capii di appartenere alla prima
categoria. Il quarto giorno diedi un’occhiata furtiva alle dieci del mattino,
alle due del pomeriggio, alle tre e quaranta, alle sei, alle sette e venti e
alle otto di sera. E di lei ancora nessuna traccia. Andai a letto, e guardai il
soffitto per quasi un’ora, prima di spegnere la luce e continuare a fissarlo per
altri venti minuti. Mi addormentai. Il quinto giorno, intensificai il numero
delle apparizioni. Inutilmente. Andai a letto, furente. Io avrei voluto
smettere con tutti quei sopralluoghi, davvero, ma le ben note, e uniche, parole
di Rosa La Pazza echeggiavano nella mia testa come passi in una camera vuota.
Chistu fa ‘a gìenti: ìetta, ìetta e’un cùogghi nìente, era diventato una specie
di richiamo ipnotico, la fiamma per la falena, il fumo per il tabagista, la
gola per l’assassino, il peccato per la chiesa… insomma, avete capito. Mi era
decisamente impossibile sottrarmi a quel canto di sirena o, se preferite,
sproloquio di balena. Il giorno successivo -erano trascorsi sei giorni e non
avevo fatto progressi, mentre qualcuno, prima di me, in sei giorni aveva creato
un mondo- mi recai sul luogo degli appuntamenti mancati, sapendo, con la stessa
consapevolezza di chi paga le tasse e sa di commettere un errore, che non
l’avrei sorpresa ad amoreggiare con l’adorato cassonetto.
Lancia un’occhiata al cassonetto.
Che invece se ne stava piantato sulle sue quattro ruote, con il coperchio
serrato. Mi guardò, ed io gli restituii lo sguardo con la stessa indifferenza
degli idioti. E fu allora che una paura esplose nella mia testa in tutto il suo
furore, tanto più plausibile quanto più assurda.
Si avvicina al cassonetto, lentamente, con circospezione. Si ferma davanti ad
esso.
L’aveva divorata. Niente esitazioni o ripensamenti. L’indolenza manifestata il
giorno in cui era cominciato tutto, quel suo procedere lento e serafico mentre
masticava la parte superiore di Rosa La Pazza, era solo un avvertimento.
Sbircia il vuoto al di là del cassonetto.
Tutto era chiaro, adesso. Capivo finalmente perché in quei giorni avevo trovato
la sua bocca enorme e sdentata perennemente chiusa. Ora, mentre guardavo il
cassonetto, ero in attesa di un’ultima prova, dell’estremo atto rivelatore: il
rutto. Che, a dispetto della mia disarmante stupidità, non arrivò.
Riflette un istante.
Probabilmente l’aveva già digerita.
Breve pausa.
C’era solo un modo per scoprirlo.
Allarga le gambe e allontana i gomiti dalla vita, in un grottesco atteggiamento
da cow boy.
Mi avvicinai con cautela, senza mai distogliere lo sguardo dal contenitore, e
quando fummo l’uno di fronte all’altro, l’uomo guardò la bestia negli occhi
rotondi, due catarifrangenti ai lati del robusto manico di metallo -e che cosa
ci facevano due catarifrangenti ai lati del manico? Era un segno ulteriore
della sua mostruosità- due catarifrangenti che aspettavano il momento opportuno
per fare emergere dal loro fondo arancione due grosse pupille di morte.
Porta l’indice tra gli occhi, alla base del naso, come per tirar su degli
occhiali.
L’uomo si aggiustò gli occhiali sul naso, una banalissima montatura EMPORIO
ARMANI da 150, 00 euro -che imbecille, si disse, mentre compiva quel gesto,
potevi risparmiare la metà scegliendone un’altra e in più non avresti
contribuito a gonfiare le tasche di uno che fabbrica pantaloni con altre tasche
solo perché in quelle delle sue braghe non c’entra più un soldo- e si preparò
alla verità. Con uno scatto fulmineo, da vero idiota, tirò su il coperchio e… e
per poco non fui ucciso dal fetore che il cassonetto esalava dal suo
interno.
Si copre naso e bocca con entrambe le mani.
C’era di tutto, in quel puzzo: arance, fiori morti, pomodori, melanzane, suole
interne di scarpe, formaggi, pesci. Materia in decomposizione. Ma di lei,
nessuna traccia, né alla vista né all’olfatto. L’unico segno di umanità, oltre
al fatto che quegli elementi derivavano dall’uso e l’usura degli uomini, era
un’evidente chiazza marrone che traspariva da un pannolino in cima a un sacco
nero.
Abbassai il coperchio e mi affrettai a respirare l’aria salubre della città
pregna di gas di scarico. Che gioia, per i polmoni. “Ora basta,” mi
dissi.
Si allontana dal cassonetto.
“Ho toccato il fondo e posso anche andare”.
Si ferma, improvvisamente.
E fu allora che una voce tuonò alle mie spalle.
“Arrùobbi nna casa ru latru?9”
Era lei.
Un sorriso raggiante.
Mi girai senza aspettare, la vidi, grassa in modo malsano, e ne fui felice. Ed
ebbe inizio il dialogo, il primo di una serie troppo breve.
“Chi bbùoi? Chi vàj circannu?10”
“Buongiorno.”
“Stu càntaru, buongiorno! 11”
“Sa, credevo… ho sentito un rumore venire dal cassonetto, e ho pensato che un
gatto fosse rimasto chiuso.”
“’Un cinni sù, atti, dà rintra. 12”
“Mi scusi, ma devo andare.”
“E ajeri? 13”
“Scusi?”
“Chi cci vinisti a fari cà ajeri? 14”
“Oh, io… niente… niente, davvero.”
“E avantjeri? 15”
“Niente, signora. Niente.”
“Nienti, signora, nienti. Sienti cà, bbìeddu. Tuttu chiddu ca c’è ddùocu, è
miu. Fattìllu tràsiri ‘nto chicchirìddu. 16”
“Lo ricorderò.”
Fa per andare.
“Ùnni vai? Aspietta. Tu mi pari un bravu picciùottu. ‘Un si cùomu all’àvutri. E
ti vùogghiu fari abbìriri ‘na cùosa. 17” Infilò una mano dentro la maglia, fra
quei seni gonfi come bisacce stracolme, e tirò fuori un pacco di sigarette
sporco e schiacciato. “Fumi? Te’, rìntra ccinn’è una. 18”
“Grazie, non fumo.”
Non so se si accorse che stavo mentendo, fatto sta che nascose il pacco tra le
mammelle, gioia e delirio degli utenti dei telefoni erotici.
“Tuttu chiddu ca c’è ddùocu, è miu. Tuttu mi sìerbi e tuttu iu mi
pigghiu.19”
Fruga in una tasca e tira fuori una forchetta priva di un dente.
“’A viri chista? 20”
Annuisce.
“U sai nzocch’è? 21”
Annuisce di nuovo.
“E ‘u sai ‘nzocchè pa gìenti? Munnìzza. I gìenti su llùocchi. Tuttu chistu iddi
a chiamanu munnìzza, iu a chiamu minìtta. Ma pi mmìa è tuttu ri guaragnatu. Pi
mmìa chista è e arriesta ‘na furchìetta. Iu cci mancia. ‘Na bìedda pulizziàta e
c’azzìccu chiddu ca trùovu ‘i manciari. Picchì pi mmìa nìenti c’è ri ittàri.
Nìenti. ‘A gìenti ìetta e ‘un cùogghi. Diu nni scànsa sa gìenti ‘un ghìetta
cchiù nienti. Idda vìri munnìzza, e iu cci campu. Chiddu ca pa gìenti è scuru,
pi mmia è lustru. Uora vattinni, ch’è travagghiari. 22”
Ricaccia dentro la forchetta.
Fantastico. Dal nulla, la rivelazione. Dall’oscurità, la luce.
Breve pausa.
Nei giorni successivi, lei continuò a parlarmi della sua opera di riciclaggio…
no, non era semplice raccolta, era recupero. Quando andavo di fretta, ci
scambiavamo da lontano un cenno e lei, ogni volta, mi mostrava l’ultima
conquista, accompagnandola con un sonoro minitta e lustru.
Alza un braccio, pieno di entusiasmo e con un ampio sorriso sulle labbra.
Io rispondevo alzando un braccio in segno di vittoria.
Raccoglie tre bottiglie schiacciate ed esegue un numero di giocoleria,
intonando un canto.
I morti li riàli m’hannu misu;
n’atru pisu
nnu livàmu, rìcinu mè pa’ e mè ma’.
O’ campusantu am’ a ghiri a pria’.
‘Ntra mìennuli e ossa ri mortu
un bìeddu pupu
duci e mutu,
‘a pupaccèna tuttu l’annu havi a dura’.
O’ campusantu am’a ghiri a pria’.
Si pìensu ca ‘sta fiesta sta murìennu!
Curpa ri l’unfiernu
c’allouìn nni sta purtannu cà.
Tutti i paisi e re città
ra nuostra terra hannu a lutta’.
Pierdiri ‘u du’ ri nuviemri è ‘na minìtta.
O’ campusantu jàmu a pria’.
Circamu ri tinìlla bìedda stritta;
tutti aggrìtta!
‘A nuostra fiesta nuddu nni l’havi a tucca’.
‘O campusantu am’a ghiri a pria’23.
Lancia le bottiglie e avanza di qualche passo, così da far terminare
quell’ultimo giro sul tappeto di plastica.
Urla, come i venditori ambulanti che gridano la propria mercanzia.
Vucciddàtu, pèri ‘i ficu, giggiulèna, mìennuli ghiacciati, marturàna, ossa ri
mortu, uva appinnùta, e ‘nto mìenzu un bìeddu pup’ i zùccaru24.
Parla con entusiasmo, al confine con la gioia, alla mercé della
nostalgia.
Al mattino, noi bambini ci alzavamo dal letto e chiamavamo i nostri genitori
perché facessero da testimoni all’evento miracoloso del mattino del due
novembre, ovvero il giorno della festa dei morti. Durante la notte, a qualcuno
di noi capitava di svegliarsi e sentire dei rumori in soggiorno, ma ci
guardavamo bene dall’alzarci e dare un’occhiata, perché mamma e papà erano
stati chiari: se i morti vi sanno svegli al loro arrivo, vi grattano i piedi
con la grattugia senza lasciar nulla. Macabro, vero? Ma efficace. Che gioia
svegliarsi e trovare supra a tàvula cunzàta25 i misteriosi segni del passaggio
dei morti: i doni, signori, i regali che avevamo sempre desiderato. E poi i
cùosi ruci26, ceste piene di caramelle, confetti, cioccolatini, barrette di
torrone e chi più ne ha più ne metta. Questa, per noi bambini, era la festa dei
morti, ovvero il giorno della celebrazione dei defunti.
Breve pausa.
Ricordo con precisione l’ultima volta in cui accettai, o finsi di accettare la
verità narrata anni or sono dai miei genitori; ricordo di avere urlato per la
felicità nel vedere la pistola a tamburo con tanto di fodero e l’arco con le
frecce, che avevano una ventosa che non si attaccava mai se non si inumidiva
con una liccata27 della lingua; e la splendida edizione del libro Cuore, con la
copertina rigida, di colore verde, su cui erano incise a caratteri cubitali le
lettere del titolo, rosse e dorate; e la maglia per l’inverno alle porte; e poi
tutti quei balocchi che occhieggiavano dall’interno della cesta, per non
parlare ra pupaccèna28, un cavaliere di zucchero alto almeno venti centimetri,
dall’armatura grigia e argentata, le guance rosse e gli occhi leggermente
strabici. “Chi ti lassàru i morti? 29” si chiedeva un tempo. E alla domanda si
rispondeva come una filastrocca: “Un pupu cu l’anchi torti30.”
Si abbandona alla breve pantomima di un pupo, con gesti rigidi e
scattanti.
Quell’ultima volta, avevo dodici anni. Oggi, ne ho il doppio più la metà. Vi
starete chiedendo perché questo bizzarro, e spero piacevole per voi quanto per
me, volo pindarico. Perché il due novembre, che in casa nostra ha ancora la sua
ragion d’essere come festa rivolta ai bambini per la presenza di mia sorella
che ha solo cinque anni, il due novembre di sette anni fa misi in un
contenitore di plastica un po’ di biscotti e di dolci e li portati a Rosa La
Pazza. Chissà da quanto tempo lei non celebrava più i morti.
Silenzio.
Quando svoltai l’angolo, trovai ad aspettarmi solo il cassonetto, unico
testimone dei miei incontri con Rosa La Pazza. Pensai che fosse ancora presto,
e così aspettai, come avevo fatto nei giorni precedenti alla nostra prima
chiacchierata, quando la mia imbecillità mi aveva spinto a credere che fosse
stata ingoiata dal cassonetto. Aspettai a lungo, e allora capii che quel giorno
non sarebbe arrivata. E pensai che forse mi ero sbagliato, che lei non aveva
mai smesso di festeggiare il giorno dei morti. Sorrisi, una smorfia a metà tra
passione e compassione per una creatura dimenticata che però non smetteva di
rammentare a se stessa la straordinarietà della vita, e tornai a casa.
Posiziona una bottiglia come un calciatore sistema la palla sul disco di
rigore. Indietreggia di pochi passi.
Fissa la bottiglia, saltella sul posto, stringe le mani a pugno. Respira
profondamente, prima di scattare in avanti e scalciare la bottiglia.
Segue con gli occhi la traiettoria, ed esplode in una muta esultanza quando
sente il tonfo della bottiglia che ha raggiunto la meta.
I giorni successivi furono pieni di novità. Mio fratello era riuscito a trovare
lavoro presso un negozio di articoli sportivi, mia sorella -non la bambina, ma
quella di sedici anni- aveva incastrato un ragazzo disposto a sopportare a
tempo indeterminato le sue continue isterie ed io avevo superato con successo
l’audizione al Teatro Stabile. Mi aspettavano due anni di dizione, tecniche
fonatorie, acrobatica, danza, improvvisazione e, naturalmente, recitazione. Mio
padre accolse la notizia con un certo disappunto, ma senza obiezioni. Lui
avrebbe voluto vedermi al di qua di una cattedra o con degli attrezzi da
chirurgo in mano. Chi può biasimare un genitore che auspica per la propria
progenie rosei futuri di sicurezza e sedentarietà? I figli, ovviamente.
Sorride.
Ma lasciate che vi racconti brevemente come avvenne che calcai la scena. Sì,
perché non sostenni l’audizione al Teatro Stabile così, su due piedi, in modo
del tutto casuale e avventato.
Breve pausa.
Al terzo liceo, il mio insegnante di greco, che curava un allestimento delle
Baccanti per conto della scuola, un giorno mi chiese se fossi disposto a
sostituire un compagno per il ruolo di Penteo.
Silenzio.
Penteo, capite? Il figlio di Echione ed Agave, il nipote di Cadmo, il sovrano
di… ma sono certo che conoscete la storia meglio di me Il mio attuale
entusiasmo è legittimo, forse addirittura necessario, ma allora mi limitai ad
alzare le spalle in un gesto che avrebbe allarmato persino un bradipo
agonizzante e ad accennare un sì piuttosto indolente.
Breve pausa.
Accettai perché amavo la letteratura greca, il mito greco, la lingua greca.
Be’, ovviamente amavo anche le Baccanti. Accettai, con impeto vergognosamente
scarso. Accettai, e in quella meravigliosa stanza barocca della sede della
Provincia, dove rappresentammo alcuni frammenti delle Baccanti, ebbe inizio il
mio viaggio divertente e faticoso, seguito da altre traversate di dubbio gusto,
fino al momento in cui scrivo di quel che è stato. Oggi, questo viaggio è
sempre più faticoso e meno divertente. Ma questa è un’altra storia, e prima o
poi qualcuno la racconterà.
Pausa.
Due settimane dopo la festa dei morti, decisi di tornare a far visita a Rosa La
Pazza. Ed esattamente come il due novembre, lei non c’era. Mi avvicinai al
cassonetto, lo aprii e ci guardai dentro, non per assicurarmi che la donna non
giacesse all’interno, ma per stabilire se quel giorno fosse già passata a
rastrellare il fondo del contenitore. Dentro c’era quel che lei avrebbe
definito ‘a ràzia ri Diu31, segno del suo mancato passaggio. Pensai di
raccogliere qualcuno di quegli oggetti per sottrarli all’oscurità e all’oblio e
consegnarli personalmente a chi avrebbe restituito loro efficacia e lustro.
Così, presi una brocca senza manico, una spazzola, una sciarpa del tutto
integra -la gente è davvero strana- un libro di matematica -dare i numeri, di
tanto in tanto, può essere utile- un groviglio di stringhe, una cintura e un
piatto di metallo. Raccolsi tutto tra le braccia e mi avviai verso casa. Una
volta in camera mia, deposi il tutto in una scatola e con un pennarello scrissi
su una parete di cartone Per Rosa.
Sorride.
Mi stupii, uno stupore dolce e piacevole, nel constatare che il suo nome non
era stato seguito dall’attributo che si portava dietro da anni, come un
ingombrante strascico, e che fino ad allora io stesso le avevo regolarmente
assegnato. Lei era Rosa, solo e semplicemente Rosa.
Passeggia nervosamente.
Il giorno successivo, e quello dopo ancora, lei seguitò ad assentarsi. Il
cassonetto trascorreva in solitudine la sua muta e solitaria esistenza,
traboccante di rifiuti che avevano cominciato a circondarlo come fiere attorno
alla preda. Sacchi pieni come vesciche pronte a cedere a un’esplosione
nauseabonda.
Si ferma.
Il quarto giorno, fu il peggiore di tutta la mia vita. Anche il cassonetto era
scomparso. O meglio, si era trasformato in una massa grigia e informe che
poggiava su quattro ruote di metallo. I suoi occhi si erano liquefatti, il
coperchio era ridotto a una palla di plastica fusa, ancora tenacemente
attaccata al binario che un tempo era stato anche una mascella. Il fuoco aveva
divorato tutto. Rimasi immobile al mio posto, a una ventina di metri da quel
che restava del cassonetto, considerando la possibilità che Rosa potesse essere
china su di esso al momento dell’incendio. Vidi lingue di fuoco lambire il
grasso sulle braccia, la pelle ruvida delle guance, arrampicarsi sui suoi
vestiti e rosicchiarne il tessuto come fameliche creature infernali. E al
termine di quella visione devastante, una parola si stagliò sulle pareti della
mia testa: scimunitu. Sì, pensai siciliano. Non ero altro che uno scimunito.
Fui molto buono con me stesso. Col tempo, questa generosità si è mutata in
stima, e oggi mi definisco solo ingenuo. Il fatto è che nel corso degli anni ho
maturato un sano ottimismo nei confronti degli uomini, e dato che anch’io,
volente o nolente, appartengo al genere umano, ritengo di migliorare con gli
anni, come il vino.
Scocca un’occhiata al cassonetto.
Spinge alcune bottiglie con un piede, raccogliendole in un mucchio isolato dal
resto.
Dopo quel giorno, la gente dimenticò il cassonetto. Anche la plastica
liquefatta venne raschiata via dall’asfalto, ma io sapevo osa c’era lì prima
della campana per la raccolta di vetro e lattine. Ormai non vedevo Rosa da più
di un mese.
Silenzio.
In cuor mio sapevo che non l’avrei più rivista, ma ancora oggi non smetto mai
di sperare che un giorno ci incontreremo di nuovo. Del resto, chiusa in una
scatola di cartone, io ho della roba che le appartiene di diritto. E poi, non
ha ancora finito di parlarmi del lustro e delle sue infinite possibilità.
Silenzio.
Non è morta, di questo sono certo. Non nel senso comune.
Silenzio.
Chistu fa ‘a gìenti: ìetta, ìetta e ‘un cùogghi nìenti.
Silenzio.
Sicuramente era diventata parte di quella luce che un girono, forse, ognuno di
noi riuscirà ad afferrare.
La penombra incede.
L’uomo si avvicina al cassonetto e ne fa scorrere il coperchio sul
binario.
Un bagliore accecante trabocca come acqua dai bordi del cassonetto, inondando
lo spazio di una luce che ricaccia la tenebra nelle sue profondità.
Note
1. “Questo, fa la gente: butta, butta e non raccoglie niente.”
2. “Lei si passava il rossetto così male, che sulle labbra pareva avesse un
fiore.”
3. “Inseguì il topo.”
4. “Cornuto d’un topo!”
5. “Dovrà uscire, prima o poi.”
6. “Cos’è successo?”
7. “Ho inseguito un topo.”
8. “Tira fuori quell’infornata, prima che bruci.”
9. “Rubi in casa del ladro?”
10. “Che vuoi? Che cerchi?”
11. “’Sto cazzo, buongiorno!.”
12. “Non ci sono gatti, lì dentro.”
13. “E ieri?”
14. “Che sei venuto a fare, qui, ieri?”
15. “E avantieri”
16. “Niente, signora, niente. Senti, bello. Tutto quello che c’è qui,
è mio. Ficcatelo in testa.”
17. “Dove vai? Aspetta. Mi sembri un bravo ragazzo. Tu non sei come gli altri.
E perciò voglio farti vedere una cosa.”
18. “Fumi? Tieni, dentro ce n’è una.”
19. “Tutto quello che c’è qui, è mio. Tutto mi serve, e tutto mi prendo.”
20. “Vedi questa?”
21. “Sai cos’è?”
22. “E sai cos’è per la gente? Immondizia. La gente è stupida. Chiama tutto
questo immondizia, io lo chiamo spreco. Ma per me è tutto di guadagnato. Per
me, questa è e resta una forchetta. Una bella pulita e infilzo tutto quel che
trovo da mangiare. Perché per me, niente è da buttare. Niente. La gente butta e
non raccoglie. Dio ce ne guardi, se la gente non butta più nulla. Essa vede
immondizia, e di questa io vivo. Ciò che per la gente è buio, per me è luce.
Ora vattene, perché ho da lavorare.”
23. “I morti mi hanno lasciato i regali/ un peso in meno/ dicono mamma e papà/
Al cimitero dobbiamo pregare/ Tra mandorle e ossa di morto/ un bel pupo/ dolce
e silenzioso/ il pupo di zucchero deve restare intatto per un anno intero/ Al
cimitero dobbiamo pregare/ Se penso che questa festa sta scomparendo/ Tutta
colpa dell’inferno/ che la festa di Halloween porta tra noi/ Tutti i paesi e le
città/ della nostra terra dovranno lottare/ Perdere il due di novembre è un
vero peccato/ Al cimitero andiamo a pregare/ Cerchiamo di tenercela ben
stretta/ tutti in piedi/ Nessuno dovrà toccare la nostra festa/ Al cimitero
dobbiamo pregare/”
24. “Buccellati, piedi di fico (fichidindia), mandorle tostate, frutta
martorana, ossa di morto, uva secca, e in mezzo un bel pupo di zucchero.”
25. “Sulla tavola imbandita.”
26. “Le cose dolci.”
27. “Leccata.”
28. “Il pupo di zucchero (detto anche pupo a cena).”
29. “Che ti hanno portato i morti?”
30. “Un pupo con i fianchi storti.”
31. “La grazia di Dio.”