L’impresario di Smirne

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Carlo Goldoni

L'IMPRESARIO DI SMIRNE

di Carlo Goldoni

La presente Commedia, di cinque Atti in prosa, fu per la prima volta rappresentata in Venezia nel Carnovale dell'Anno 1760.

L'AUTORE A CHI LEGGE

Io ho conosciuto in Italia molti e molti Impresari di Opera in musica; ho molto scritto per loro in serio ed in buffo, e posso parlarne con fondamento. Alcuni fanno gl'Impresari per una specie di necessità, e sono quelli che possedendo qualche Teatro, per profittare della rendita considerabile di un tal fondo, fanno andare l'impresa per loro conto, e sovente vi rimettono, oltre il profitto de' palchetti, qualch'altra parte del patrimonio. Altri lo fanno per un'inclinazion generosa di divertir se stessi ed il Pubblico, e questi ci rimettono più degli altri. Vi sono di quelli che si lasciano indurre a farlo dalle lusinghe di un'amabile Virtuosa, la quale, non trovando chi voglia darle il posto di prima Donna, induce l'Amico ed il Protettore a prendere sopra di sé l'impresa d'un'Opera, e lo sagrifica alla sua vanità ed al suo interesse. Molti lo fanno, sedotti dalla lusinga dell'utile, alla persuasione di quelli che fanno i sensali di tal genere di mercanzia, e danno loro ad intendere, che non vi è danaro meglio investito, in tempo che non vi è danaro più sicuramente perduto. Altri finalmente lo fanno per disperazione, non avendo niente da perdere, e colla speranza di guadagnare, e se le cose van male, s'impossessano della cassetta, piantano l'impresa, e lasciano i Musici nell'imbarazzo. Tutte queste differenti qualità d'Impresari convengono in una cosa sola: grandi e piccioli, ricchi e poveri, generosi o venali, tutti accordano, e provano, e si lamentano, che un'impresa d'Opera in musica è il più grande, il più fastidioso e il più pericoloso degl'imbarazzi. Da che procedono questi fastidi, queste noie, questi pericoli? Dal carattere degli Attori, dai loro puntigli, dalle loro pretensioni, dalla loro indiscretezza, quasi universale. Dico quasi, poiché fra il vasto numero de' Virtuosi e delle Virtuose di musica, vi sono delle oneste e discrete persone come in ogni altro corpo di Arte, di Mestiere o di Professione, con questa differenza, che nel ceto armonico i cattivi sono moltissimi, e volendo far Opera, non si può fare senza di loro. Le Compagnie sono composte di sei o sette, o al più di otto persone. È una fortuna se se ne trovano fra queste una o due che uniscano al merito del talento e della bravura quello della docilità e della discretezza, e per uno o due Soggetti lodevoli, ne avete cinque o sei che vi fanno girare il capo, e sono ordinariamente i meno abili e i men necessari. Nella presente Commedia ho dipinto questo genere di persone, tali e quali le ho conosciute, ed anche esperimentate. Non ch'io abbia voluto mai imbarazzarmi in alcuna impresa, ma coll'occasione di scrivere pel Teatro, ho provato quanto vagliano e quanto pesino i loro catarri e le loro maniere. Non credo che i Virtuosi e le Virtuose di merito si offenderanno di una critica che non li riguarda, né vorranno prender partito per una Truppa indegna della loro pregievole Società, ma eglino stessi mi faranno buon grado di avere un poco sforzato coloro che osano innalzarsi al loro grado, senza le qualità necessarie per arrivarvi; e quelli di qualunque rango si sieno, che fossero malcontenti de' miei ritratti, per essere forse un poco troppo fedeli, mi compatiranno più facilmente veggendo ch'io non l'ho perdonata né meno ai Poeti; osservino però i miei confratelli, che il mio Maccario è di quel genere di Poeti, che conviene ai Musici di cui parlo. Circa al sensale di Opera in musica, rappresentato da Nibio, non ho grandi scuse a fare sopra di ciò; quest'è un mestiere. Ciascuno cerca di mettere in credito la mercanzia che vuol far vendere e comperare, e quando non convengono colle parti per ingannare, non vi è niente che dire, e non possono offendersi di quel ch'io ne dico.

Per rendere utile e piacevole questa Commedia, avrebbe bastato ch'io mi fossi servito d'un Impresario italiano; di uno di quelli che lo fanno, come dissi a principio, o per necessità, o per vanità, o per impegno, ma per renderla più giocosa, ho immaginato un Impresario turco, al quale arrivano affatto nuove tutte le circostanze che rendono l'impresa laboriosa e pericolosa. Il più difficile in questa Commedia era lo scioglimento. Spero d'averne trovato uno assai conveniente; ed il carattere del Conte Lasca mi pare non solo originale e giocoso, ma utile, instruttivo e degno di essere considerato e imitato.

Osserverà il Leggitor finalmente, che questa è una di quelle Commedie ch'io aveva scritte in versi, per secondare il fanatismo che allora correva in favore de' Martelliani. Ho promesso ridurre in prosa tutte quelle ch'io credo dover meglio riuscire nel famigliare discorso, e che non hanno bisogno dell'incantesimo del metro e della rima. Questa è una di quelle. Ho anche cambiato in buon italiano corrente i tre differenti linguaggi delle tre Cantatrici, per migliore intelligenza di quelli che non intendono il veneziano ed il bolognese, e non gustano i riboboli fiorentini.

Personaggi

ALÌ turco, ricco negoziante delle Smirne.

CARLUCCIO detto il Cruscarello, musico soprano.

LUCREZIA cantatrice fiorentina, detta l'Acquacedrataia.

TOGNINA cantatrice veneziana, detta la Zuecchina.

ANNINA cantatrice bolognese, detta la Mistocchina.

PASQUALINO tenore, amico di Tognina.

Il Conte LASCA amico di virtuosi e di virtuose.

MACCARIO cattivo e povero poeta drammatico.

NIBIO sensale di opere in musica.

FABRIZIO pittor di teatro.

BELTRAME locandiere.

SERVITORE di un'altra locanda.

Persone che non parlano

Una Vecchia, madre di Annina.

Un Giovane, fratello di Annina.

Un Servitore di Annina.

Un Servitore di Lucrezia..

Pittori; Lavoranti; Comparse; Portinari; Due paggi da teatro; Un suggeritore; Dispensatori de' biglietti; Spadaccini ed altre persone nominate nella scena XI dell'atto terzo.

La Scena si rappresenta in Venezia.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Sala comune nella locanda di Beltrame.

Beltrame aggiustando i mobili della sala, poi il Conte Lasca

LAS. Buon giorno, messer Beltrame.

BELTR. Servitor umilissimo del signor Conte. Che cosa ha da comandarmi?

LAS. Mi è stato detto, che al vostro albergo sono arrivati ieri de' virtuosi; è egli vero?

BELTR. Sì signore. Un soprano e una donna.

LAS. Il soprano chi è?

BELTR. Un certo Carluccio...

LAS. Detto Cruscarello?

BELTR. Credo di sì.

LAS. Lo conosco, è un giovane che ha qualche abilità, ma impertinente all'eccesso. Io lo proteggo, perché, se vuole, può divenir qualche cosa di buono. Ma per renderlo un po' ragionevole, non vi è altro rimedio che quello di trattarlo grossamente, e umiliarlo. L'ho mandato a Genova il carnovale passato, e credo che quegl'impresari, attese le sue impertinenze, abbiano avuto poco motivo di ringraziarmi. E la donna chi è?

BELTR. La donna è la signora Lucrezia Giuggioli fiorentina, detta l'Acquacedrataia.

LAS. Acquacedrataia? Che diavolo vuol dire acquacedrataia?

BELTR. Non sa ella che in Firenze i caffettieri si chiamano acquacedratai? Sarà probabilmente figlia di uno di tal professione.

LAS. Sarà così, è brava?

BELTR. Non lo so, signore. Non l'ho sentita.

LAS. È bella almeno?

BELTR. Non c'è male.

LAS. È stata più in Venezia?

BELTR. Credo di no.

LAS. Si potrebbe farle una visita?

BELTR. Ella sta lì in quella camera, ma è troppo di buon'ora.

LAS. Dorme ancora?

BELTR. Ho sentito che è desta, ma vi vorran due ore innanzi che sia in stato di ricever visite.

LAS. Vorrà lisciarsi.

BELTR. Senza dubbio. Può essere, che s'ella la vedesse ora, da qui a due o tre ore non la riconoscerebbe più.

LAS. Bene. Verrò più al tardi. Fatele intanto l'imbasciata, ditele che un cavaliere desidera riverirla.

BELTR. Venga pure liberamente. Le dirò in confidenza: mi ha fatto l'onore di dirmi, ch'io procurassi di farle fare la conoscenza di qualche signore. Ella può venire ad offerirle la sua protezione.

LAS. Della protezione ne avrà da me quanta ne vuole. Ma se credesse di piluccarmi, s'inganna. Pratico le virtuose, le assisto, procuro i loro vantaggi, ma del mio non ne mangiano.

BELTR. Bravo. Fa benissimo a stare all'erta. Senta un caso che è arrivato in questa mia locanda tre giorni sono ad un signor bolognese, che aveva speso quanto poteva, e più che non poteva, per una giovane virtuosa. Essendo ella chiamata per una recita in un altro paese, giunse qui dal medesimo servita ed accompagnata. Desinarono insieme, e dopo aver desinato, la giovane domandò dell'acqua per lavarsi le mani. Si lava, si accosta alla finestra, getta l'acqua in canale e volgendosi all'amante afflitto, lo guarda, e ride, e gli fa questo bel complimento: Non sono più in Bologna, sono ora in Venezia, mi lavo le mani, e getto in canale la memoria di tutti i Bolognesi. Il povero galantuomo resta qualche tempo immobile senza parlare, poi: Ingrata, dice, merito peggio. Non mi vedrete mai più. Ciò detto, se ne va come un disperato, ed ella lo accompagna con una solenne risata.

LAS. Pover'uomo! il caso è doloroso, ma non è caso nuovo.

BELTR. Mi chiamano, con sua buona licenza. (parte)

SCENA SECONDA

Il Conte Lasca solo.

LAS. Io non condanno la donna per essersi disfatta del Bolognese, ma la maniera aspra con cui l'ha fatto. Per altro si sa che queste donne avvezze a cambiar paese, sono pronte a cambiare una passione alla settimana; e non è poca fortuna se uno può dire, la tale mi fu costante finché fu a me vicina.

SCENA TERZA

Carluccio ed il suddetto.

CARL. Servo del signor Conte.

LAS. Oh signor Carluccio vi riverisco. Ben tornato da Genova. Come è andata la vostra recita? Siete voi contento di quel paese?

CARL. Mai più a Genova, nemmeno se mi ci tirano colle catene.

LAS. Perché?

CARL. Quell'impresario ha trattato meco sì male, che se più ci torno, mi contento di essere bastonato. Io solo ho sostenuto l'impresa. Tutti erano incantati della mia voce, e l'impresario avaraccio ed ingrato volea obbligarmi a cantare tutte le sere. Io che era innamorato morto della prima donna, quand'era disgustato di lei non potea cantare, ed egli che lo sapeva, in luogo di compatirmi, mi volea per dispetto obbligar a sfiatarmi. Sentite che cosa ha fatto quel cane. Si è dichiarato, e mi ha imposto per legge, che ogni aria ch'io avessi lasciata, mi avrebbe levato due zecchini del mio onorario; onde per non ridurmi a recitare per nulla, sono stato sforzato a cantare continuamente.

LAS. Bravo impresario benedetto impresario. Se tutti voi altri musici foste così trattati dagl'impresari, oh quanto sareste meno svogliati, e meno raffreddati! Un galantuomo va a spendere il suo danaro, credendo di godere la bella voce del signor canarino, o del signor rosignuolo, ed ei, perché la bella non l'ha guardato, si sente male, non può cantare, corbella l'uditorio, l'udienza si scema, e l'impresario lo paga. Bella giustizia! benedetto sia un'altra volta l'impresario di Genova.

CARL. Questa ragion non serve con un virtuoso della mia sfera. I pari miei non si trattano in questa guisa. Canto quando ne ho voglia, e una volta ch'io canti, ha da valere per cento.

LAS. Se farete così, signor Carluccio amatissimo, credetemi, voi sarete poche volte impiegato.

CARL. Io non cerco nessuno. Sostengo il mio grado; e gl'impresari han più bisogno di me, ch'io di loro.

LAS. Per quel ch'io sento, voi siete carico di ricchezze. Avete fatto in poco tempo de' gran progressi.

CARL. Sono ancora nel fiore. Non ho ammassato gran cose; ma coll'andar del tempo ne ammasserò.

LAS. Ora, per esempio, come state a danari?

CARL. Ora... ora... ora non ho un quattrino, e ho lasciato il mio baule al corriere... Ma che serve? Non mi mancheranno fortune.

LAS. Bella davvero! Siete ancora spiantato, e cominciate di già a strapazzare l'imprese? Acquistatevi prima dei fondi e dei danari, e poi fate anche voi quel che fanno gli altri. Allora potrete dire, voglio mille zecchini, e vo' cantar quando voglio.

CARL. Favorisca, signor Conte, avrebbe ella l'occasione di procurarmi una recita?

LAS. Volete andare a Mantova?

CARL. A Mantova? perché no? Ma per primo soprano.

LAS. E per secondo?

CARL. Oh, questo poi no.

LAS. Il primo è già provveduto, e so che è uno di prima sfera.

CARL. Io non cedo a nessuno.

LAS. Mi fate ridere, e attesa la vostra albagia, dovrei lasciarvi lì, e non impacciarmi con voi; ma mi fate compassione, e voglio farvi del bene, benché non lo meritiate. Considerate che il tempo è avanzato, e che se non accettate questa recita, può essere che per quest'anno restiate senza.

CARL. Quanto danno d'onorario?

LAS. So che l'anno passato hanno dato al secondo soprano cento zecchini; ma quest'anno...

CARL. E bene, che me ne diano trecento, e accetterò la recita, e la prenderò per una villeggiatura.

LAS. Quest'anno, voleva dirvi, hanno delle spese moltissime, e non possono passare i cinquanta.

CARL. Che vadano per questo prezzo a contrattar de' somari. I pari miei non cantano per cinquanta zecchini.

LAS. Bravissimo. E se restate senza far niente?

CARL. Mi spiacerebbe per cagione dell'esercizio.

LAS. Li volete i cinquanta?

CARL. Tutto quello che posso fare, è contentarmi di duecento.

LAS. Non vi è rimedio, l'assegnamento è fissato.

CARL. Orsù, per questa volta voglio cantar per niente: che me ne diano cento.

LAS. È inutile il parlarne.

CARL. Ma! che me ne diano ottanta.

LAS. Volete che ve la dica? Mi avete un poco seccato.

CARL. Signor Conte, le preme veramente quest'impresario?

LAS. Sì, è mio amico, vorrei servirlo, ma lo faccio più per voi...

CARL. Non occorr'altro. Quando si tratta di far piacere al signor Conte, accetterò i cinquanta zecchini, ma voglio per onore una scrittura simulata di cinquecento, e la mallevadoria di un banchiere.

LAS. Bene, la scrittura, per contentare la vostra albagia, si farà come volete; e per la paga rispondo io.

CARL. Non si potrebbe avere qualche danaro a conto?

LAS. Scriverò all'impresario.

CARL. Non potrebbe ella favorirmi?...

LAS. Non son io quel che paga.

CARL. Mi presti almeno sei zecchini...

LAS. Deggio andar in un luogo... ne parleremo.

CARL. Se mi fa questa grazia...

LAS. Sì, sì, ci rivedremo. (parte)

SCENA QUARTA

Carluccio solo.

CARL. Che caro signor Conte! Ricusa di darmi sei zecchini in prestito? Teme ch'io non glieli renda, come se sei zecchini fossero una gran somma. Quando io ne ho, li spendo in una merenda. È vero che ho de' debiti, ma li pagherò, o non li pagherò; anch'io, come dice il proverbio, col tempo e colla paglia maturerò. Se vado in Portogallo, se vado in Russia, porterò via de' tesori, e tornerò ricchissimo, e farò fabbricar de' palazzi, e non saranno castelli in aria, ma palazzi in terra, grandi e magnifici, con possessioni stupende, qualche contea, qualche marchesato, ricchezze immense, e che venga allora il signor conte Lasca a offerirmi una recita di cinquanta zecchini.

SCENA QUINTA

Beltrame e detto.

BELTR. (Non so se la signora Lucrezia sia ancora in istato...)

CARL. Oh signor oste...

BELTR. Locandiere, per servirla.

CARL. Mandate alla posta di Bologna a prendere il mio baule.

BELTR. Sarà servita; ma lo daranno liberamente?

CARL. Lo daranno. Fate dare al cocchiere due zecchini, ch'io gli devo per il viaggio.

BELTR. Ella favorisca...

CARL. E fate dare otto lire di mancia agli uomini della barca corriera.

BELTR. Favorisca, diceva...

CARL. Fate presto, signor oste.

BELTR. Locandiere, per servirla. Diceva, che mi favorisca il danaro.

CARL. Fate voi. Vi pagherò tutto insieme,

BELTR. Ma io, mi perdoni...

CARL. Mi conoscete voi, signor oste?

BELTR. Non sono oste, ma locandiere, e non ho l'onor di conoscerla. (Lo conosco pur troppo).

CARL. Oste, o locandiere che siate, voi siete uno sciocco, se non conoscete gli uomini della mia sfera.

BELTR. Credo benissimo, ch'ella sia un virtuoso di merito, di stima, e ricchissimo, ma io non ho danari da prestare a nessuno.

CARL. Sciocco! io non vi domando danari in prestito.

BELTR. Mi dia dunque le cinquantasei lire...

CARL. Non mi seccate. Mandate a prendere il mio baule.

BELTR. Non manderò a prender niente.

CARL. Meritereste, ch'io andassi via dalla vostra osteria.

BELTR. La mia locanda non ha bisogno di nessuno.

CARL. Corpo di bacco! mandate a prendere il mio baule.

BELTR. Mi maraviglio di lei...

CARL. Mi maraviglio di te.

BELTR. Cosa è questo te...

CARL. Te e tu, ti tratto come tu meriti.

BELTR. Parli bene.

SCENA SESTA

Lucrezia e detti.

LUCR. Che cosa è questo strepito? Che cosa avete, signor Carluccio?

CARL. Oh, la mia cara Lucrezia! la mia dea, la mia regina, come state? Come avete riposato la notte?

LUCR. Poco bene. La mia camera è sopra il canale, e l'odor di canale mi offende.

CARL. Signor oste, bisogna cambiar la camera a madama Lucrezia.

BELTR. Io non ho altre camere a darle, e chi non è contento, è padrone d'andarsene; ed ella specialmente, signore, che prende la mia locanda per un'osteria...

CARL. Via, via, siate buono. Mi preme che questa virtuosa sia contenta. Se vuole le cederò la mia camera, ed io passerò nella sua. Vedrete, signora, che sarete contenta. Fate subito trasportar le robe. Animo, signor oste... ah no, signor locandiere. Chiamate gente, fate portar le robe della signora nella mia camera, e le mie... mandate a prendere il mio baule.

BELTR. Io le dico liberamente...

CARL. Mia bella, se vi contentate, faremo ordinario insieme.

LUCR. Sono contentissima. Star sola non mi piace, e la vostra compagnia mi diverte.

CARL. Amico, trattateci bene. Buon pranzo, buona cena: del buono e del meglio che dà il paese, sopra tutto buon vino e buoni liquori. Noi siamo avvezzi a vivere con magnificenza. Trattateci, e non temete niente. (Pagherò io). (piano a Beltrame)

BELTR. Ma io, signore...

CARL. Voglio che stiamo allegri quel poco tempo che restiamo qui, aspettando l'occasione di una buona recita. (a Lucrezia)

LUCR. Ma io, per dirvi la verità, non sono ora in caso di far grandi spese.

CARL. Non ci pensate. Lasciate fare a me. Voi siete la mia principessa. Amico, mi avete capito. (a Beltrame)

BELTR. Parliamo chiaro, signore...

CARL. Fatevi onore. Fate onore alla vostra locanda. Locanda celebre, famosa, rinomata. Voi siete il primo locandiere d'Europa, e noi siamo due virtuosi, che vi possono far del bene.

BELTR. Tutto questo, mi scusi, non mi fa niente. Io sono un galantuomo, che faccio col mio, e non voglio...

CARL. Animo, animo; meno ciarle, e più rispetto. Mia cara Lucrezia, volete che andiamo a divertirci?

LUCR. Come vi piace.

CARL. Volete gondola? Presto, mandate a prendere una gondola a due remi. (a Beltrame)

BELTR. Mandi ella, signore.

CARL. Che impertinenza è questa? Voglio esser servito. Pago, e pago bene, e voglio essere servito.

BELTR. Se paga... (oh, ecco il Conte). (osservando fra le scene)

CARL. E non mi fate andar in collera, perché quando mi monta...

BELTR. Signora, un cavaliere desidera riverirla.

LUCR. E chi è quel cavaliere?

BELTR. Il conte Lasca, amico e gran protettore de' virtuosi.

CARL. (Il conte Lasca!) Madama, all'onore di riverirvi. (parte)

SCENA SETTIMA

Lucrezia e Beltrame

LUCR. Addio, signor Carluccio. Com'è partito tutto in un tratto. (a Beltrame)

BELTR. (So io perché è partito. Il Conte, a quel che mi ha detto, gli fa paura). Lo vuol ricevere il signor Conte?

LUCR. Mi farà grazia.

BELTR. Vuol passare nella sua camera?

LUCR. Il letto non è rifatto. Lo riceverò qui.

BELTR. Come comanda. La sala è propria. Vado a dirgli che entri.

LUCR. Eh, dite. È ricco?

BELTR. È persona comoda.

LUCR. È generoso?

BELTR. In questo poi non so che dirle. Lascio a lei la cura di sperimentarlo. (parte)

SCENA OTTAVA

Lucrezia, poi il Conte Lasca

LUCR. In un paese nuovo avrei bisogno di poter far capitale di qualcheduno. Per conto di Carluccio, so chi è, vi è poco da sperare. Molto fumo, e pochissimo arrosto.

LAS. Servitor umilissimo della signora.

LUCR. Serva sua riverente.

LAS. Scusi se mi ho preso l'ardire...

LUCR. Anzi mi ha fatto grazia il signor cavaliere... si accomodi. (siedono)

LAS. Ella è fiorentina, a quel che mi dicono.

LUCR. Per servirla!

LAS. E il suo nome è Lucrezia.

LUCR. Sì, signore, Crezzina per obbedirla.

LAS. È molto tempo ch'ella fa questa professione?

LUCR. Scusi, non può essere molto tempo. A poco presso, ella può vedere dalla mia età... Non ho cantato che a Pisa. Volevano subito fermarmi per Livorno, ma io ho voluto escire dal mio paese, e desidero di farmi sentire in Venezia.

LAS. Se volete una buona recita, spero non mi tarderà l'occasione di potervela procurare o in Venezia, o in Lombardia, o in qualch'altra parte, dove possiate farvi onore. Conosco tutti gl'impresari più rinomati d'Italia, tutti questi mezzani di virtuosi e di virtuose; e mi adopro con tutto lo spirito per favorire chi merita.

LUCR. Spero ch'ella non sarà malcontenta della mia abilità, e che gli amici suoi forse forse la ringrazieranno.

LAS. Ne son sicurissimo. Siete voi soprana, o contr'alta?

LUCR. Oh, signore, che cosa dice? Mi vergognerei di cantare il contr'alto. Sono soprana, sopranissima, e delle mie voci se ne trovan poche.

LAS. Me ne consolo infinitamente. A Pisa avete recitato da prima, o da seconda donna?

LUCR. Le dirò. Era la prima volta ch'io escia dalla buccia, e quel babbeo d'impresario mi diede una picciola parte; ma quando mi sentirono, m'ebbero in tanta e tale stima, ch'io cacciai la prima sotto le tavole. Quando gli altri cantavano, si sentiva un baccano, ma quando cantava io, tutti faceano silenzio, e poi battean le mani da disperati. Se la ricordano ancora quell'aria maravigliosa:

Spiegando i suoi lamenti

Sen va la tortorella.

LAS. Vorrebbe ella aver la bontà di farmi sentir questa bell'arietta?

LUCR. La servirei volentieri; ma il cembalo che ha fatto portare il locandiere nella mia camera, è scordatissimo.

LAS. Che cosa importa? La sentirò senza il cembalo.

LUCR. Scusi, signore: io non canto senza instrumento. Non credo ch'ella mi prenda per una cantarina da dozzina.

LAS. Scusatemi, non andate in collera. Cantate, o non cantate, son vostro buon servitore; ma deggio dirvi, per vostra regola, ch'io fo stima delle virtuose che sono compiacenti, e che non si fanno pregare.

LUCR. Oh, io non sono di quelle. Anzi mi picco di essere compiacentissima.

LAS. Via dunque, se così è, fatemi il piacer di cantar qualche cosarella, niente per altro che per sentir la vostra voce.

LUCR. Scusi, non posso, sono fresca dal viaggio, e son moltissimo raffreddata.

LAS. Bravissima. Anche questa me l'aspettava. Il raffreddore è la solita scusa.

LUCR. No, davvero. S'ella mi farà l'onore di venire da me, vedrà ch'io sono sincera e compiacente, e il mio debole è qualche volta di esserlo anche troppo: quando una persona ha della bontà per me, mi creda, signore, so essere riconoscente. (con qualche affettazione di tenerezza)

LAS. (Ho capito. È giovane, ma sa il mestiere). Ed io vi assicuro, signora, che di me potrete fare tutto quel che vorrete. Son buon amico, e quando m'impegno, non manco.

LUCR. Favorisca. Avrebbe ella per le mani un buon parrucchiere per assettarmi il capo?

LAS. Oh, di questi non ne conosco nessuno. Io mi faccio assettar dal mio cameriere.

LUCR. E non mi potrebbe favorir del suo cameriere?

LAS. Non è buono per assettare le donne.

LUCR. Signore, e un calzolaio...

LAS. Oh per il calzolaio potrete dirlo al locandiere che so che ne ha uno, che serve la sua locanda, ed è buonissimo, ma non so dove stia, né come si chiami.

LUCR. (A quel che vedo, ci ho dato dentro).

LAS. (Con me non c'è niente da fare).

SCENA NONA

Nibio e detti.

NIB. Riverente m'inchino alla signora Lucrezia. Servo del signor Conte.

LUCR. Quest'uomo chi è? Come mi conosce? (al Conte)

LAS. Questo è il signor Nibio, galantuomo provato e sperimentato, gran conoscitor di teatri, sensale famoso di virtuosi e di virtuose.

NIB. Tutta bontà del signor Conte.

LAS. Amico, se voi avete qualche occasione d'impiegare una virtuosa, vi assicuro che questa signora ha un merito infinito. Ha una voce portentosa, chiara e netta come un campanello d'argento. Sa la musica perfettamente; e quello ch'è più da stimarsi, non è mai raffreddata.

NIB. Questo è un buon capitale.

LUCR. (Il signor Conte, a quel ch'io vedo, mi corbella un poco).

NIB. Se il signor Conte l'ha sentita, io son sicuro della sua abilità, e non cerco altro.

LAS. È un portento, ve l'assicuro. E un'altra qualità ammirabile: non è di quelle che cerchino a incomodar gli amici. Le ho offerto il parrucchiere ed il calzolaio, ed ella per delicatezza li ha ricusati.

LUCR. (Ti venga la rovella, è un chiacchierone di primo rango).

LAS. Che sì, che il signor Nibio, sapendo ch'io ho della stima per questa virtuosa, è venuto ad offrirle qualche buona occasione?

NIB. Potrebbe anche darsi.

LUCR. Signore, badate a me, che sono una che, quando parlo, parlo di cuore; se farete qualche cosa per me, non sarò sconoscente. (a Nibio)

LAS. Oh sì, vi assicuro, è generosa qualche volta, a quel che ella dice, anche troppo.

LUCR. Ma non con tutti, signore, non con tutti. (al Conte)

LAS. Ho capito; ed io son lo stesso con tutte. Su via, signor Nibio, diteci quel che avete da dirci.

NIB. Per verità, ieri mi è capitato un incontro estraordinario, stupendo, e che può dirsi una vera fortuna. Ma non voglio che nessuno lo penetri. Lo confiderò solamente a lei, ed a questa signora. Ma silenzio, per amor del cielo, silenzio.

LAS. Oh, io non parlo.

LUCR. Son donna, son giovane, ma per la segretezza posso promettervi e assicurarvi.

LAS. Se ve lo dico, è una donna d'incanto.

NIB. Sappiate dunque, che un Turco, negoziante famosissimo delle Smirne, è venuto in Venezia con una sua nave, per ispacciare le sue mercanzie. Alcuni amici suoi, non so se per ozio, o per qualche interesse, gli hanno fitto nel capo, che sarebbe un buonissimo affare se conducesse alle Smirne una compagnia di virtuosi e di virtuose, per fare un'opera in musica in quel paese. Gli hanno fatto osservare, che in quel porto vasto e mercantile vi è una quantità prodigiosa di Francesi, d'Inglesi, d'Italiani e Spagnuoli, che là non vi è alcun pubblico divertimento, e che questa novità farebbe del merito ad un uomo di spirito come lui, e potrebbe far la fortuna di qualche suo dipendente, se egli non si degnasse di appropriarsi l'utile immenso, che produrrebbe una tale impresa. Il Turco, che è galantuomo, che non è avaro, e che è un po' capriccioso, aderì al consiglio, e si è messo nell'intrapresa; ma egli non ha alcuna conoscenza di questi affari. Gli amici suoi hanno promesso di assisterlo, ed io ho avuto l'incombenza di provvedere i musici e le virtuose. Credo certamente, che i primi che anderanno in quei paesi, porteranno via de' bauli pieni di zecchini, ed io, per il rispetto che ho per il signor Conte, vengo a far la prima proposizione a questa signora, per la quale ei professa della parzialità e della stima.

LUCR. (Ah, questo sarebbe per me il miglior negozio del mondo).

LAS. Caro signor Nibio, vi ringrazio infinitamente. Vedete, signora, se vale qualche cosa la mia amicizia?

LUCR. Avrò a voi tutta l'obbligazione. (Oh sì, di parole mi par generoso).

LAS. Sollecitate, signor Nibio; il tempo è pericoloso. Se avete l'autorità di far la scrittura, accordiamo il prezzo, e fatela immediatamente.

NIB. È vero che l'impresario, in grazia degli amici suoi, si fida di me; ma voglio ch'egli la senta, prima ch'io la fermi, acciò non dica un giorno, ch'io l'ho gabbato. Non ha conoscenza di musica, ma voglio che sia contento.

LAS. Bravo; così mi piace. Conducetelo qui. La signora Lucrezia canterà senza alcuna difficoltà, e stupirà il Turco sentendo quella bellissima aria:

Spiegando i suoi lamenti

Sen va la tortorella.

LUCR. (Or ora mi fa venire il moscherino davvero, davvero).

NIB. Vado a veder se lo trovo, e subito qui lo conduco.

LUCR. Se verrà, sarà ben ricevuto; ma mi dispiace che il cembalo è scordato. Signor Conte, favorisca almeno mandarmi un cembalaro ad accordare il mio cembalo.

LAS. Sì, sì, lo manderà il signor Nibio. Queste cose appartengono a lui. Egli è pratico; egli conosce... Mandate un cembalaro a madama. (a Nibio)

LUCR. (Spilorcio cacastecchi!)

NIB. Lo manderò immediatamente. Vado a cercare del Turco, e vado subito, perché la cosa è gelosa, e questo dovrebbe essere un buon negozio anche per me; spero imbarcarmi anch'io per direttore dell'opera, e fra l'onorario e gli incerti, se le cose van bene, spero ritornar ricco in Italia, e di poter far l'impresario. Chi ha preso il gusto del teatro una volta, non sa staccarsene finché vive, ed io, se alfin dei conti resterò senza niente, pazienza, non potrò finire che come avrò principiato. (parte)

SCENA DECIMA

Il Conte Lasca e Lucrezia

LAS. Mi consolo, signora, d'avervi procacciata una buona occasione.

LUCR. Gli sono obbligatissima, ma il favore, per dir la verità, non gli è costato una gran fatica.

LAS. Ecco, voi cominciate di già ad essere riconoscente alla vostra foggia. Vi pare che io abbia fatto poco, ad essere stato cagione che una persona, che mi conosce, vi preferisca. Ma di ciò non me ne ho punto a male. Conosco perfettamente il vostro sesso ed il vostro mestiere. Scusatemi se vi parlo con libertà, io son uomo sincero. Non desidero niente da voi, né dalla vostra liberalissima compiacenza. Faccio del bene generalmente. Me ne compiaccio, mi diverto nel medesimo tempo. Stimo chi merita, sono amico di tutti, e particolarmente della brava, eccellente e compiacente signora Lucrezia. (salutandola con un rispetto parte)

SCENA UNDICESIMA

Lucrezia sola.

LUCR. Oh, che ti venga il fistolo. Che protettore sguaiato! Per quanto si tenti, sta forte allo scongiuro, se vado alle Smirne, troverò là di quelli che si fanno un merito ad essere liberali. È vero che nella musica non sono ancora valente, ma in altro genere non la cedo a nessuno; so obbligare con grazia, so unire l'onestà alla compiacenza, e so pelare la quaglia senza farla gridare. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera in casa della signora Tognina.

Tognina e Pasqualino

TOGN. Caro signor Pasqualino, da qualche tempo in qua fate una gran carestia della vostra persona. Altro che dire: Tognina è la mia virtuosa, l'amo, la stimo, non anderò a cantare senza di lei, chi vuol me per tenore, deve prenderla per prima donna, e cent'altre cose tenere ed amorose. Due giorni senza venirmi a vedere? Dove siete stato questi due giorni?

PASQUAL. Sono stato...

TOGN. Non vi credo niente.

PASQUAL. Ma lasciatemi dire.

TOGN. Tacete. Credete ch'io non lo sappia, che andate gironi qua e là dappertutto, fiutando tutte le virtuose del mondo? Ditemi, siete stato ancora a veder quella Fiorentina, che è capitata qui ieri sera?

PASQUAL. No; non ci sono stato.

TOGN. Ma sapete che è arrivata.

PASQUAL. Lo so.

TOGN. Ci scommetto che le avete fatto una visita.

PASQUAL. No davvero. (sorridendo)

TOGN. Ridete?

PASQUAL. Rido, perché voi supponete che tutte le ragazze mi corrano dietro.

TOGN. Oh, non dico che tutte siano di voi incantate. Non vi crediate d'essere l'idolo di Citerea. Dico che voi andate qua e là, facendo lo spasimato ed il leccardino.

PASQUAL. Credetemi, Tognina...

TOGN. Tacete. So tutti i vostri raggiri.

PASQUAL. Ma voi mi mortificate...

TOGN. Guardate! povero innocentino! Non lo mortificate, il poverino. Dite, monellaccio del diancine, quanto è che non siete stato dalla Bolognese?

PASQUAL. Io? (sorridendo)

TOGN. Non ridere, galeotto, che da quella ch'io sono, se tu mi ridi in faccia, ti do un ceffone.

PASQUAL. Oh cospetto di bacco baccone! Volete ch'io ve la dica? Sono stucco e ristucco. Pare ch'io sia appo di voi un servitore pagato. Ho per voi della stima, della considerazione, dell'amore anche, se voi volete ma poi, alla fin fine, il troppo volere annoia.

TOGN. Via, via, la non si riscaldi il polmone, la non dia in frenesia. Se dico, lo dico... Lo so io perché dico. Maledetto sia quando si prende a voler bene a questi ominacci.

PASQUAL. (Eh lo so, con queste donne non conviene lasciarsi prendere la mano).

TOGN. Favorisca, signore. (con serietà)

PASQUAL. Comandi. (sorridendo)

TOGN. Anche ora ridete?

PASQUAL. Rido, perché voi sapete quanto bene vi voglio, e fingete di dubitarne.

TOGN. Sguaiataccio!

PASQUAL. Ma voi...

TOGN. Via, via, meno ciarle.

PASQUAL. Io non posso soffrire...

TOGN. Tacete, vi dico. Ho da parlarvi.

PASQUAL. Dite pure; vi ascolto.

TOGN. Meritereste che io facessi di voi quel caso che voi fate di me, e che in un'occasione simile mi vendicassi della vostra poca attenzione.

PASQUAL. Di che potete dolervi di me? Se io...

TOGN. Finiamola. Siete ancora impegnato? Avete fatto scrittura con qualche teatro?

PASQUAL. Questo è un torto che voi mi fate. Prima ch'io mi impegnassi, voi lo sapreste.

TOGN. Posso credervi?

PASQUAL. Voi mi fareste dare al diavolo.

TOGN. Sentite. Voglio farvi una confidenza. Ho promesso di non parlare; ma al mio Pasqualino non posso niente tener nascosto: promettetemi però, e giuratemi, di non dir niente a nessuno.

PASQUAL. Ve lo prometto, e potete esser sicura della mia parola.

TOGN. Il conte Lasca è venuto a farmi una visita, e mi ha detto in confidenza, e colla maggior segretezza del mondo, che è venuto in capo ad un Turco di formar una compagnia per le Smirne; che è ricco, che ci farà delle condizioni avvantaggiosissime, che io sono la prima a saperlo, e che nessun altro l'ha da sapere.

PASQUAL. Finora, per quel ch'io sento, siamo in due a saperlo, poiché il signor Conte ha fatto a me pure la medesima confidenza.

TOGN. Il conte Lasca sa che noi siamo amici, sa che io non voglio recitare senza di voi, per questo vi avrà fatto la medesima proposizione, e colla medesima segretezza.

PASQUAL. Vi ha detto il Conte qual è il posto che vi daranno?

TOGN. Oh, non c'è dubbio. Son la prima a saperlo. Son padrona di sciegliere; nessuna potrà levarmi la parte di prima donna.

PASQUAL. Se vi son due tenori, voglio essere il primo.

TOGN. Caro Pasqualino, voi siete giovane; avete un buon falsetto e de' buoni acuti, non potreste far voi la parte del primo soprano?

PASQUAL. Per qual ragione?

TOGN. Perché, caro il mio bene, mi preme che, anche quando recitiamo, facciamo all'amore insieme; si canta con più piacere l'aria tenera, quando si applica secondo l'intenzione. Se vi è un'aria che dica: Caro, per te sospiro, propriamente le si dà della forza quando si dice di cuore, e il popolo conosce, e giubbila, e dice: bravi.

SCENA SECONDA

Maccario, Annina e detti.

MACC. Si può venire? (di dentro)

PASQUAL. Chi è questi?

TOGN. Non lo conoscete? Il signor Maccario, il poeta.

PASQUAL. E la donna?

TOGN. Siete cieco, o fingete di esserlo? Non conoscete Annina bolognese, detta la Mistocchina? Vengano, vengano; sono padroni. (verso la scena)Fingete di non conoscerla, per darmi ad intendere che non ci andate. (a Pasqualino, con un poco di sdegno)

PASQUAL. Ritorniamo da capo? (con sdegno)

TOGN. Prudenza quando c'è gente, e sopratutto non dite nulla del Turco.

MACC. Servo di lor signori.

ANN. Serva della signora Tognina.

TOGN. Padrona mia riverita.

ANN. Come sta?

TOGN. Per servirla.

ANN. Ella ha una ciera che consola.

TOGN. Ed ella, sta bene?

ANN. Bene, per grazia del cielo. Bene, a' suoi comandi.

TOGN. Via, non le dite niente? Siete ben poco civile. (a Pasqualino)

PASQUAL. Io l'ho già riverita. (a Tognina)

TOGN. (Eh, maschera, ti conosco). (a Pasqualino)

PASQUAL. (Io non so che cosa vi diciate). (a Tognina)

TOGN. Che cos'è? Siete venuto rosso? (a Pasqualino)Dica, signora Annina, è molto che non viene il signor Pasqualino da lei?

ANN. Oh, è un pezzo, la mia cara gioia. E poi che occorre che facciate con meco di queste scene? Se è cosa vostra il signor Pasqualino, ci venga, o non ci venga, per me è tutt'uno. Male azioni io non ne so fare.

TOGN. Ve ne avete avuto per male? (ad Annina)

ANN. Oh pensate; e poi non abbiate timore, che presto presto me ne anderò.

TOGN. A recitare?

ANN. Sì, può essere; così spero.

TOGN. Dove? Si può sapere?

ANN. Il dove non lo posso dire.

TOGN. Di che avete timore? A me lo potete confidare liberamente.

ANN. Ve lo direi volentieri, poiché, per dirvela, è una recita che mi fa onore, ma non posso ancora parlare.

TOGN. È qualche arcano?

MACC. Vi dirò io, signora. L'affare che si è intavolato, non è ancora concluso, e fin che non si veda la cosa ultimata, la signora Annina ha impegno positivo di non parlare.

TOGN. E voi siete il suo segretario.

MACC. Io non fo il segretario a nessuno, ma è mio proprio interesse, che di ciò non si parli, poiché in quest'affare devo essere ancor io impiegato, e se si penetra, qualcun altro mi potria scavalcare.

PASQUAL. Vogliono far libro nuovo?

MACC. O nuovo, o accomodato...

PASQUAL. O accomodato, o rovinato...

MACC. Mi maraviglio, signore. Voi non conoscete la mia abilità.

TOGN. Eh via, lasciamo andare. Signora Annina, ho giusto motivo di lamentarmi di lei.

ANN. Per qual ragione?

TOGN. Chi crede ella ch'io sia? Ciarliera non sono, e non lo sono mai stata. S'ella si confida, le giuro e le prometto, che anch'io le confido un segreto; può essere più interessante del suo.

ANN. Davvero? Non voglio nemmen parere di diffidarmi di lei. Lo dico, o non lo dico, signor Maccario?

MACC. Per me sostengo ch'ella farebbe ben di tacere.

TOGN. Oh voi, signor Maccario, voi andate cercando il mal come i medici.

ANN. Orsù, venga qui, che la vuò soddisfare (sono anch'io curiosa di sapere il segreto suo), ma la prego di segretezza.

TOGN. Che serve? Le ho data la mia parola.

ANN. Sappiate, signora Tognina, che a Venezia è venuto un Turco, e che questo Turco vuol far una compagnia...

TOGN. Ah, lo sapete anche voi?

ANN. Che? Anche voi lo sapete?

TOGN. Se lo so? E come! Ditemi, potrei sapere da chi voi l'avete saputo?

ANN. Oh, non lo posso dire. E a voi, chi l'ha detto?

TOGN. A me? Il conte Lasca.

ANN. Fate dunque il conto, che il medesimo signor conte Lasca me l'ha detto in confidenza, e con segretezza.

PASQUAL. E meco ha fatto lo stesso.

ANN. Una bella azione ci ha fatto.

TOGN. Bel protettore!

MACC. Non mi pare, signore mie, che per questo abbiate motivo di lagnarvi di lui. Se il signor Conte ha fatto a voi due questa confidenza, può essere utile all'una e all'altra nel medesimo tempo. In un dramma vi vuole prima e seconda donna, onde tutte due potete essere egualmente impiegate.

PASQUAL. Non dice male il signor Maccario; la cosa può essere innocentissima.

TOGN. Bene; se la cosa è così, non dico niente. Io prima, e voi seconda, saremo tutte due contente.

ANN. Oh perdonatemi, la prima ho da esser io.

TOGN. Per qual ragione, signora? Stimo il vostro merito, ma nella professione ho qualche anno e qualche credito più di voi. Son tre anni ch'io recito da prima donna, e una principiante non verrà a soverchiarmi.

ANN. Principiante! Con chi credete voi di parlare? È vero che son giovine più di voi, e me ne vanto, ma una che canta all'improvviso, non si dice una principiante. Ho fatto finora da seconda per esercitarmi, per imparar l'azione, ma d'ora innanzi non voglio far che da prima.

PASQUAL. Ecco qui, per queste preminenze, per queste pretensioni, vi è sempre il diavolo nelle compagnie. Signore mie carissime, pensate ad aver delle recite, ed a guadagnar del denaro. Non siete ancora sicure di andare alle Smirne, e ciascheduna di voi pretende il posto di prima donna?

TOGN. Veramente il signor Pasqualino ha una gran premura per me. Mi consiglia egli, che per un vil guadagno vada a fare una trista figura?

PASQUAL. Io ho parlato a tutte due con eguale onestà e rispetto. Ma la signora Annina, che si vanta di essere giovinetta, e lo è in effetto, quando verremo al caso, spero vi renderà giustizia, e vi cederà il primo posto.

ANN. Oh, io non cedo a nessuno.

TOGN. Molto meno cederò io.

MACC. Aggiusterò io questa faccenda. Que' poeti che scrivono de' drammi per musica, o non sanno, o non vogliono prendersi un poco di pena. Io non faccio così. In casi simili so che si possono fare due parti eguali, e che le donne siano perfettamente contente. Quando andremo alle Smirne, farò io un libro apposta, nel quale le due donne avranno tanti versi, tante arie, e tanti movimenti eguali per ciascheduna, e se vi sarà la difficoltà, chi debba uscire la prima, le farò sortire tutte due in una volta.

SCENA TERZA

Carluccio e detti.

CARL. Schiavo di lor signori. Riverisco la bravissima signora Zuecchina, la bellissima signora Mistocchina.

ANN. Annina è il mio nome.

TOGN. Ed io mi chiamo Tognina.

CARL. Eh, tutti noi abbiamo per solito un soprannome. Anch'io so che mi chiamano Cruscarello, quasi ch'io fossi la crusca di Farinello; ma farò vedere al mondo, ch'io sono fior di farina della più scelta e della più pura. Ma parliamo d'un'altra cosa. Donne mie, amico Pasqualino, avete recite? Siete impiegati, avete trattati, scritture, chiamate? O siete qui in ozio, senza utile e senza speranze?

TOGN. Oh io, per grazia del cielo, non istò lungo tempo disimpegnata.

ANN. S'io voglio delle recite, non me ne mancano.

PASQUAL. Sono assai conosciuto, e son sicuro di non restar così lungamente.

CARL. Chiacchiere, discorsi vani, speranze in aria. E voi, signor Maccario, avete da lavorare? Come impiegate il vostro tempo, il vostro stupendo, meraviglioso talento? (con ironia)

MACC. La non burli, perché il mio talento è conosciuto, e non mi manca il modo di metterlo in pratica.

CARL. In verità, figliuoli miei, mi fate tutti compassione. Scommetto che non avete niente alla mano per impiegarvi.

TOGN. Ho un trattato che, se riesce, vuol far sospirar qualcheduno.

CARL. Se riesce! Mi fate ridere. Se riesce!

ANN. La signora Tognina dice se riesce, ma io dico che riescirà.

CARL. Siete sicura? Avete sottoscritto? Buon posto? Buona paga? Buone condizioni?

ANN. Le condizioni sono buonissime, e presto si sottoscriverà.

CARL. Si sottoscriverà! ah, ah, ah. (ridendo)Si sottoscriverà!

PASQUAL. Sì signore. Le cose sono sì bene incamminate, che si può contare la cosa come fatta.

CARL. Oh, quante volte le cose quasi fatte si riducono al nulla. Poveri diavoli! Voi non avete niente di certo, e le vostre speranze o sono mal fondate, o saranno di poco valore. Venite qui, son buon amico. Io, io vi voglio impiegare, vi voglio far del bene; ma che bene! una fortuna, fortuna certa, stabile, estraordinaria. Che dite? Co' vostri impegni, colle vostre speranze, siete in caso di accettare le proposizioni di un buon amico, di un galantuomo, di un professore della mia sorte?

TOGN. Sentiamo; se la cosa ci conviene...

CARL. Se vi conviene? Che? Non mi conoscete? Credete voi ch'io venga a proporvi una recita di cento, duecento o trecento doppie? Zecchini a migliaia, e son chi sono, e quando intendo di far del bene, lo faccio come va fatto. Poveri disperati, se non fossi io, voi andreste a sagrificarvi...

PASQUAL. Eh, la recita che noi abbiamo in veduta...

CARL. Corbellerie.

ANN. Se ci riesce, come lo spero, e come son certa...

CARL. Corbellerie, vi dico, corbellerie.

MACC. Ma sentiamo le proposizioni del signor Carluccio.

CARL. Sì, povero il mio Maccario, anche per voi ci sarà del pane.

TOGN. Ma via, diteci.

PASQUAL. Caro amico, parlate.

ANN. Sentiamo. Levateci di pena.

CARL. Sappiate, amici, che un Turco... (tutti fanno una grande risata)Come! ridete? Sì signori. Un Turco...

TOGN. Delle Smirne...

ANN. Ricco mercante...

PASQUAL. Vuol far compagnia...

MACC. E libro nuovo. (tutti ridendo)

CARL. Ah! lo sapete anche voi? (con ammirazione)

PASQUAL. E questo è il gran progetto, il gran benefizio che vuol fare il signor Carluccio a questi poveri disperati.

CARL. Ma come, diancine, avete fatto a penetrare di questo Turco?

ANN. Il conte Lasca...

TOGN. Il conte Lasca...

SCENA QUARTA

Il Conte Lasca e detti.

LAS. Eccomi. Chi mi domanda?

CARL. Signore, mi maraviglio di voi. Venite a farmi una confidenza, venite a propormi una recita con segretezza, e tutto il mondo lo sa.

LAS. E voi, se vi faccio una confidenza, perché andate a propalare il segreto?

CARL. Bel segreto! siamo qui in cinque, e tutti cinque lo sanno.

LAS. Potrei dirvi d'averlo fatto per divertirmi, e ciò dicendo, non farei alcun torto alla vostra prudenza; ma vi dirò, che ho inteso, ammettendovi tutti al segreto, di fare a tutti del bene. Vi è posto per tutti voi, e quando vi ho detto di non parlare a nessuno, ho inteso di dire, che non lo pubblichiate ad altri, ma come ne avete parlato fra di voi cinque, avrete fatto lo stesso con altri dieci, può essere con altri cento; onde me ne lavo le mani.

TOGN. No, signor Conte...

ANN. Non vada in collera.

MACC. Non ci abbandoni...

PASQUAL. Per me l'assicuro che non ho parlato con chicchessia.

LAS. Sentite. Io son buono per natura, mi fate compassione, e voglio anche perdonare una debolezza. Mi spiacerebbe che perdeste quest'occasione; specialmente il povero Carluccio...

CARL. Io non dico ch'io non andassi volentieri alle Smirne, per vedere que' paesi nuovi, que' turbanti e que' mostacci, ma finalmente, se vogliono un buon soprano, non saprei dove potessero cercarne un altro.

LAS. È possibile che non vogliate moderare questa vostra prosunzione?

CARL. L'umiltà è bella e buona, ma qualche volta bisogna che rendiamo giustizia a noi medesimi.

LAS. E quando lo fate da voi medesimo, impedite agli altri di farlo.

ANN. Non ci perdiamo in queste dispute inutili, poiché il signor Carluccio, quando principia, non la finisce mai.

TOGN. Sì, parliamo di quello che preme. Il Turco verrà egli da me?

LAS. Se lo prego, spero non mi dirà di no.

ANN. E da me lo farà venire?

LAS. Se la signora Tognina il consente, voi potete aspettarlo qui.

ANN. Oh signor no, davvero. Io non ho niente che far con lei. Se il Turco vuol sentirmi, ha da venire da me. Ho anch'io, per grazia dei cielo, una casa assai propria, che un principe vi potrebbe venire. Ho un buon clavicembalo. Vi è la mamma, vi è mio fratello; e non voglio farmi sentire fuori di casa.

TOGN. (Che maledetta superbia! non la posso soffrire).

ANN. Ha capito, signor Conte?

LAS. Ho capito.

ANN. E che cosa dice?

LAS. Dico che fate tutto quel che volete, che poco o nulla m'importa.

ANN. Bella risposta!

CARL. Brava, signora Annina. Sostenete il vostro decoro. Così va fatto. Il Turco, se vuol sentirmi, deve venire anche da me.

LAS. E anche da voi, signor Pasqualino? (ridendo)

PASQUAL. Io non sono meno degli altri.

LAS. E anche da voi, signor Maccario?

MACC. Oh, io poi non sono così difficile. Andrò da lui tre, quattro, sei volte, quanto gli parerà e piacerà; e mi raccomando alla di lei protezione.

LAS. Sì, caro il mio poeta, mi piace la vostra umiltà, m'impiegherò di buon cuore per voi.

SCENA QUINTA

Nibio e detti.

NIB. Padroni miei riveriti.

TOGN. Venite innanzi, signor Nibio.

ANN. Riverisco il signor Nibio.

NIB. Son servo a tutti questi signori.

CARL. Come sta di salute il signor sensale de' musici abbandonati?

NIB. Benissimo. Pronto per tutti, ed anche per il signor Carluccio, se ha bisogno di me.

CARL. Oh sì, voi siete quel grand'uomo che ha avuto l'onore di mettere sulla scena per la prima volta la mia persona, e credo di aver fatta io la vostra riputazione.

NIB. Avrei fatta io la sua, s'ella si fosse condotta con un poco più di prudenza.

CARL. Caro Nibio, tu sei pazzo, e ti voglio bene, e se io vado alle Smirne, ti vuò condurre con me.

NIB. Alle Smirne? (con meraviglia)

LAS. Caro signor Nibio, voi vedete come il segreto è ben custodito.

NIB. Chi è stato la bestia che ha parlato?

TOGN. Il signor Conte.

LAS. Che impertinenza!... (a Tognina, con caldo)

TOGN. Scusi, non ho detto per lei.

NIB. Via, quel che è fatto, è fatto. Cerchiamo di rimediarvi. Or che la cosa è sparsa, dobbiamo sollecitar d'avvantaggio. Farò per tutti quel che potrò. Ma io non ho l'autorità di formar le scritture. Il Turco mi ha dato la facoltà di trattare, e si è riserbato l'autorità di concludere.

TOGN. L'impresario deve venir da me.

ANN. E anche da me

CARL. Può esser che prima venga da me.

PASQUAL. O da me.

NIB. Signori miei, per non far torto a nessuno, mi ha detto il Turco liberamente, che non vuole andare a casa di chicchessia. Chi vuol andar da lui, è padrone; chi non vuole, resti, a chi va, non posso far altro che insegnargli la strada.

TOGN. Ma che cosa mi ha ella detto, signor Conte?

LAS. Io credeva di poterlo far qui venire; ma vedo che il Turco ha ragione, e vi consiglio di andar da lui.

TOGN. Quest'è una cosa terribile. Una donna della mia sorte andare in casa di un impresario? Non l'ho mai fatto, e non lo farò.

LAS. E voi, signora Annina?

ANN. Per me... Non so... Ma se ci anderò, ci anderò colla mamma e con mio fratello.

TOGN. (Costei vorrebbe soverchiarmi). Basta, signor Conte, trattandosi di un Turco che non sa le usanze, può essere che io ci vada, s'ella volesse favorire di venir con me.

LAS. Scusatemi; vi servirei volentieri, ma ho un affar di premura...: andate, vi raggiungerò. Può essere che ci troviamo insieme dal Turco. (Non voglio farmi vedere per la città al fianco di una virtuosa di musica). (parte)

TOGN. (Ci scommetterei ch'ei lo fa per non pagare la gondola). Pasqualino, mi farete voi il piacere di accompagnarmi?

PASQUAL. Vi accompagnerò volentieri.

ANN. (Non vorrei ch'ella ci andasse prima di me). Signor Nibio, vuol ella favorire di accompagnarmi?

NIB. Quando vuol ella andarvi?

ANN. Subito, se volete.

NIB. Andiamo. Sono con lei.

TOGN. Come, signora Annina? Vuol ella andare a farsi sentire dal Turco senza la mamma e senza il fratello?

ANN. (Cospetto! ella sempre mi stuzzica. In casa sua non le voglio rispondere, ma se canteremo insieme, le farò mangiar l'aglio). (parte con Nibio)

CARL. Io rido di quei che si affollano, come se loro mancasse da vivere. Io sto sul mio decoro, non vo a cercare nessuno, e chi mi vuole, ha da venire da me. (Ho buona gamba, e spero di arrivare prima degli altri). (parte)

TOGN. Si sentono cose che fanno inorridire! Che dite di quella prosontuosa di Annina? Mi tratta come s'io fossi una virtuosa da dozzina. Non sa ella che ho cantato a Rimini, a Sinigaglia, a Chiozza ed alla fiera di Rovigo? Povera sciocca! Non è degna di far meco l'ultima parte. La prima sera la vuò far morir disperata. Se mi sentono alle Smirne, farò la mia fortuna e quella dell'impresario. Fatemi una bella parte, signor Maccario, e non dubitate. Son donna riconoscente, e vi esibisco l'alloggio, la tavola e qualche incerto a misura delle mie avventure. (parte con Pasqualino)

MACC. Tutto è buono. Ad un povero autore, come son io, non faranno male allo stomaco anche gl'incerti delle virtuose. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera nell'albergo d'Alì, con un gran sofà nel mezzo e varie sedie.

Alì con lunga pipa fumando, poi un servitore della locanda.

ALÌ (Si pone a sedere sul sofà, e fuma)

SERV. Signore, una persona brama di riverirla.

ALÌ Star signor? o star canaglia?

SERV. All'aspetto pare una persona civile.

ALÌ Far venir.

SERV. (Parte)

SCENA SECONDA

Alì, poi Carluccio

ALÌ (Segue a fumare, ed entrando Carluccio s'alza dal canapè)

CARL. Servitor suo. Mi hanno parlato di lei, e per il piacer di conoscerla, son venuto a riverirla.

ALÌ Star omo, o star donna? (a Carluccio)

CARL. Star uomo, padrone mio. (con un poco di caldo)

ALÌ (Si rimette a sedere sul canapè con qualche sprezzatura)

CARL. (S'egli siede, voglio sedere ancor io). (vuol mettersi a sedere sullo stesso canapè)

ALÌ Chi aver detto che tu seder? (gl'impedisce di sedersi)

CARL. Ho dunque da stare in piedi? (Manco mal che non c'è nessuno). Vedo, signore, che voi non mi conoscete. Io sono un virtuoso di musica, e posso vantarmi di essere uno de' più famosi, e forse il più famoso de' nostri giorni. E vengo ad esibirmi per la vostra impresa, non per necessità o per interesse, ma per curiosità di vedere le Smirne.

ALÌ Smirne non aver bisogno di tua persona. Se voler andar Turchia, io ti mandar Costantinopoli, serraglio de Gran Signore.

CARL. A che far nel serraglio?

ALÌ Custodir donne de Gran Sultan.

CARL. Chi credete ch'io sia?

ALÌ Non star eunuco?

CARL. Mi maraviglio di voi; non sono di questa razza villana. Sono un virtuoso di musica.

ALÌ Star musico? (con meraviglia)

CARL. Star musico. (con caricatura)

ALÌ Chi poder pensar, che Italia voler omo come tu, per cantar per donna? Turchia voler donna per donna.

CARL. Io sono un soprano. La mia voce è argentina, ma recito e canto nelle parti da uomo.

ALÌ Non star voce de omo. Io non star così bestia, a voler musico che cantar come gatto.

CARL. I musici miei pari si stimano, si onorano dappertutto, e sono rari al mondo. Domandatelo a Nibio. Egli ch'è il mezzano della vostra impresa, vi dirà s'io sono un virtuoso celebre ed eccellente. Ho fatto i primi teatri. Per tutto dove ho cantato, gl'impresari hanno fatto de' guadagni immensi. Uno de' miei passaggi, un mio trillo, una mia cadenza, una semplice mia volatina basta a fermare l'udienza. Non si è ancora sentito una voce come la mia, chiara, forte, sonora, unita, e senza difetti. Ho ventisette corde, e tutte uguali. So tutti gli artificii musicali, posseggo la comica, e recito da demonio, vesto di un ottimo gusto, correggo ed ammaestro quei che non sanno, e faccio, se occorre, da poeta e da maestro di musica.

ALÌ De tutte tue bravure non m'importar.

SCENA TERZA

Servitore e detti.

SERV. Ho veduto una signora ascender le scale. (ad Alì)

ALÌ Star musica? (al Servitore)

SERV. Così credo.

ALÌ Come star? (toccandosi il viso sorridendo, volendo accennar s'è bella)

SERV. Non vi è male.

ALÌ Star sola?

SERV. Parmi aver veduto, che ci sia con lei un certo Nibio.

ALÌ Sì, sì, Nibio star bravo. (sorridendo)

SERV. Eccola che viene. (parte)

CARL. Signore, se voi volete...

ALÌ Star giovine. Star bellina. (si alza, osservando fra le scene)

CARL. Volete ascoltarmi, signore?...

ALÌ Andar diavolo. (a Carluccio)

SCENA QUARTA

Nibio, Annina ed i suddetti.

ANN. Serva sua divotissima. (ad Alì, con una riverenza)

NIB. Ecco, signor Alì, una brava virtuosa di musica.

ALÌ Musica. (ad Annina, vezzosamente)

ANN. Sì, signor, per servirla.

ALÌ Seder presso di me. (siede primo sul canapè)

ANN. Con sua buona licenza. (siede vicino ad Alì)

CARL. (Ella seduta, ed io in piedi? Non soffrirò quest'impertinenza). (si prende una sedia, e si mette a seder con orgoglio)

ALÌ Dir tuo nome. (ad Annina)

ANN. Annina ai suoi comandi.

ALÌ Tuo paese?

ANN. Bologna.

ALÌ Piacer tanto tua grazia bolognese.

ANN. È tutta sua bontà.

ALÌ Star brava, come star bella? (ad Annina)

ANN. Non istà a me a dirlo. Ma il signor Nibio mi conosce e sa s'io ho dell'abilità.

NIB. È una brava giovane, ve l'assicuro.

ALÌ Se star brava e star bella, far tutti innamorar.

CARL. Sì, la signora Annina ha del merito, e quando lo dico io...

ALÌ Cosa intrar ti parlar? (sdegnato, a Carluccio)

CARL. (Or ora mi vien voglia di prenderlo per i mostacci).

ALÌ Quanto mi piacer tua maniera.

ANN. Effetto della sua gentilezza.

ALÌ Quanto voler per tua paga?

ANN. (Se gli piaccio davvero, voglio farmi pagar bene). Io sono una giovane discreta, ma se si tratta d'andar in un paese lontano, e quel che è peggio, per mare, non ci verrò per meno di cinquecento zecchini.

CARL. Oh, oh, cinquecento zecchini? Credete aver domandato molto? Io non ci vado per mille.

ALÌ A tua persona io non dar trenta soldi. (a Carluccio)Bella Bolognese, tutto quel che voler. (ad Annina)

CARL. (Nibio, mi raccomando a voi. Questo Turco ignorante non conosce il merito. Ditegli voi chi sono, fate ch'egli mi prenda, fatemi dare una buona paga, e vi prometto di darvi il dodici per cento). (piano a Nibio)

NIB. Signore, (ad Alì)se voi volete formare una compagnia ad uso d'Italia, che piaccia agli Europei che sono alle Smirne, è necessario che prendiate un musico soprano, e vi parlo sinceramente, un soprano migliore di questo è difficile a ritrovare.

ALÌ Se musico bisognar, tu trovar musico, trovar soprano, che non cantar come donna.

NIB. Scusatemi, quei musici che cantano con voce virile, si chiamano tenori, e sono quelli che fanno le parti da padri, da re, da tiranni; ma per la prima parte vi vuole un soprano, che faccia il primo amoroso, e che canti bene, principalmente le arie patetiche.

ALÌ Io non voler patetico.

NIB. Ma questo è necessario.

ALÌ Voler musica allegra.

NIB. Il soprano è indispensabile.

ALÌ Maledetto soprano, maledetto tu ancora.

NIB. Che lo fermi, o che non lo fermi?

ALÌ Sì, fermar tuo diavolo, tuo malanno. (a Nibio con sdegno)Bella cantarina, perdonar. (ad Annina)Tenor, sopran, più non mi romper testa (a Nibio)

ANN. La prego, la non vada in collera, la non si riscaldi; mi preme la di lei salute. (ad Alì)

ALÌ Star buona, star buona, Bolognesina, star buona.

NIB. Dunque possiamo trattare. (a Carluccio)

CARL. Quanto vorrebbe dare ad un musico della mia sorte? (ad Alì)

ALÌ Andar via. (a Carluccio)

NIB. Non voglio che spendiate mille zecchini, ma ottocento almeno. (ad Alì)

ALÌ Andar via. (a Nibio)

CARL. Ottocento zecchini non servono. (a Nibio)Voglio mille zecchini ed il quartiere. (ad Alì)

ALÌ Andar via. (con impazienza)

NIB. Orsù, accomoderò io la differenza. Cento più, cento meno...

ALÌ Andar via, maledetto. (a Nibio, con sdegno)

NIB. Tornerò con più comodo. (parte)

CARL. E voglio un appartamento comodo e la carrozza, e il piccolo vestiario, e voglio quel libro che più mi piace, e voglio...

ALÌ Se più voler, se più seccar, romper pipa. (lo minaccia di dargli la pipa a traverso della faccia)

CARL. Signor impresario, la riverisco umilmente. (parte)

SCENA QUINTA

Alì ed Annina

ALÌ Aver fatto in vita mia tanti negozi, non intender, non poder capir negozio per teatro. Se musici star tutti come musico che andar via, io non aver testa per poder star saldo. (siede)Ma se omo star insolente, femmina star bona. Mi aver tanto piacer de mia cara Annina.

ANN. Mi fa troppa finezza. Dica, signore, la mi perdoni, se ho l'onor di venir con lei, farò io la prima donna?

ALÌ Prima donna? Sì, in mio cuor star prima, se ti voler.

ANN. Ma farò io la prima parte?

ALÌ Cosa star prima parte?

ANN. Se nell'opera vi sono due donne, vi ha da essere la prima e la seconda, ed io le domando se farò la prima.

ALÌ Prima star miglior de seconda?

ANN. Sicuramente.

ALÌ Far tutto quello che ti voler.

ANN. Obbligatissima alle sue grazie. (Ho fatto bene a venir la prima, l'ho preso in impegno, e son sicura del primo posto).

ALÌ Mia carina, mia bellina, che star tanto bonina, dar a me tua bianca manina.

ANN. Oh, in questo poi, mi perdoni... (ritira la mano)

ALÌ Perché non voler dar tua manina? Tutto mondo avermi ditto, che virtuose star buone.

ANN. Le dirò, signore, vi sono di quelle che, prima che l'opera vada in scena, fanno le graziose, e sono facili coll'impresario per obbligarlo o a dar loro miglior paga, o a far loro un bell'abito, e poi, quando cominciano a recitare, danno un calcio all'impresario, e si attaccano al musico o al ballarino. Io sono sempre stata modesta, ho sempre preferito l'impresario modestamente, e sarò sempre sua buona amica, salva l'onestà e la modestia.

ALÌ Star Turco, e non intender troppo ste to parole.

ANN. Voglio dire...

ALÌ Dar manina, e dir tutto quel che voler.

SCENA SESTA

Il servitore e detti.

SERV. Signor...

ALÌ Cosa tu voler? (con sdegno)

SERV. Un musico tenore...

ALÌ Mandar via.

SERV. Vi è una donna con lui.

ALÌ Donna... donna... vegnir.

SERV. (Oh, quando è in collera, la donna lo cangia subito). (parte)

ANN. (Ci gioco ch'è la Tognina).

ALÌ Tua man non voler dar? (ad Annina)

ANN. Basta, non voglio nemmeno ch'ella abbia a disgustarsi di me. (allunga la mano, ed Alì, vedendo venir Tognina, non le bada)

SCENA SETTIMA

Tognina, Pasqualino e detti.

ALÌ (Star pezzo da sessanta). (osservando Tognina)

TOGN. (Eccola qui; l'ho detto; è venuta prima di noi). (piano a Pasqualino)Padrone mio riverito. (ad Alì)

ALÌ Tu chi star?

TOGN. Tognina, virtuosa di musica, per obbedirla.

PASQUAL. Ed io, signore...

ALÌ De ti non domandar. (a Pasqualino)Tognina virtuosa, sentar qui presso di me. (fa luogo a Tognina sul canapè, ed ella siede alla dritta, ed Alì resta in mezzo fra le due donne)

TOGN. Grazie alla sua gentilezza. (siede)

ANN. (Mi dispiace che a Tognina abbia toccato la mano dritta, ma se reciteremo insieme, mi vendicherò).

TOGN. Signor Pasqualino, con licenza di questo signore, prendete una sedia, e sedetevi ancora voi.

ALÌ Cosa voler tu qui? (a Pasqualino)

PASQUAL. Sono venuto con lei...

ALÌ Cosa intrar con tua persona? (a Tognina)

TOGN. Per non venir qui sola, mi ho fatto accompagnare da lui. Egli è un tenore bravissimo, che canta a perfezione, e che fa onor alla musica.

ALÌ Sua figura non star cattiva. Se saper ben cantar, perché tenor non poter far per soprano?

TOGN. E chi ha detto che non lo può fare?

ALÌ Star Nibio, che per forza voler io prender maledetto sopran.

TOGN. Nibio non sa quel che si dica. Le giuro e le protesto, che un tenore di questa sorte è meglio di tutti i soprani del mondo.

ALÌ (Nibio star furbo, star farabutto, voler me per suo interesse ingannar).

ANN. (L'amica vuol produrre il suo favorito).

ALÌ Dir, tu quanto voler? (a Pasqualino)

PASQUAL. Signore, io non sono difficile. Verrò, se vi contentate, per quattrocento zecchini.

ALÌ (Musico voler mille, tenor quattrocento, al diavolo mandar soprano). E tu quanto mi domandar? (a Tognina)

TOGN. Tutto quel ch'ella vuole. So che vossignoria è un galantuomo. Mi piace la sua bella fisonomia, e per lei canterei, come si suol dir, per niente.

ALÌ Tognina star generosa; tuo discorso tanto obbligar, che de Alì tu non aver lamentar. (a Tognina)

ANN. Se io ho domandato, signore, l'ho fatto per obbedirla, ma di me pure ella può far tutto quello che vuole. (ad Alì)

ALÌ Star furba Bolognesa. Cognoscer adesso, che Tognina aver fatto meglio non domandar.

TOGN. Per me ho parlato di cuore. È la prima volta che ho l'onor di vederlo, ma proprio ci ho della simpatia. (lo prende per la mano)

ANN. Anch'io propriamente, subito che l'ho veduto, mi è piaciuto (lo prende per l'altra mano)

ALÌ Star furba Bolognesa. Star tutte due belline, tutte due graziosine. Prometter tutte due voler per mie virtuose.

TOGN. Io non sarò malcontenta di avere la signora Annina in mia compagnia, ma intendiamoci bene: io da prima, ed ella da seconda.

ANN. Signora mia, siete venuta un po' tardi. La parte di prima, il signor Alì l'ha promessa a me.

TOGN. L'ha promessa a lei? (ad Alì)

ALÌ Non saver cosa aver promesso.

ANN. Non si ricorda più, o finge non ricordarselo, che mi ha promesso ch'io farò la parte di prima donna?

ALÌ Star prima, o star seconda, non star l'istesso? (a Tognina, alzandosi)

TOGN. Signor no. O la prima parte, o niente.

PASQUAL. (Maledetto puntiglio! si vuol precipitare, e vuol precipitare anche me).

ALÌ Se paga star l'istessa, cosa star vostra pretension?

ANN. Non m'importa della paga, m'importa dell'onore. (alzandosi)

ALÌ Dell'onor? Dir tu: seconda parte star parte da briccona? (a Pasqualino)

PASQUAL. No, signore, anzi qualche volta la seconda parte è miglior della prima.

ALÌ Dunque star prima, o star seconda, star indifferente. (alle donne)

ANN. O la prima, o niente.

TOGN. O prima, o la ringrazio.

ALÌ Via, se ben mi voler... (a Tognina)

TOGN. La mia riputazione.

ALÌ Se aver stima per me... (ad Annina)

ANN. Sono quella ch'io sono.

TOGN. Nemmeno per mille doppie.

ANN. Né anche se mi facessero regina.

TOGN. Non lo farò mai certamente.

ALÌ No? no? Ed io al diavolo tutte due mandar.

SCENA OTTAVA

Servitore e suddetti.

SERV. Un'altra visita.

ALÌ Star stufo.

SERV. Un'altra donna.

ALÌ Non voler più donne.

SERV. Dirò dunque, che se ne vada.

ALÌ Fermar... sentir... chi star?

SERV. Credo sia un'altra virtuosa di musica.

ALÌ Star sazio di musica. Donne più non soffrir... ascoltar... star bella?

SERV. È graziosissima.

ALÌ Ah!... far... far venir.

SERV. (Parte)

PASQUAL. (Pensateci bene. Se un'altra si presenta, non vi tornerà il conto). (piano a Tognina)

TOGN. (Lasciatemi fare. So il mio merito, e non ho paura). (piano a Pasqualino)

SCENA NONA

Lucrezia e detti.

LUCR. Serva umilissima del signor Alì. Perdoni l'ardire. Il signor conte Lasca mi ha detto, che ella è un signore così garbato, che ho preso animo di venirla a riverire. Il signor Nibio mi ha anch'egli detto, che hanno parlato di me, e che ella volea venirmi a favorire in mia casa. Non avrei mai permesso ch'ella si prendesse quest'incomodo, e sono venuta io stessa a riverirla, e conoscerla, e ringraziarla insieme dell'onore ch'ella vuol fare alla nostra musica, volendola portare di là dal mare. Amo la mia professione, e venero e stimo quelle persone che possono e che cercano d'illustrarla.

TOGN. (Parla come un libro stampato). (ironicamente a Pasqualino)

ANN. (Che signora compita!) (da sé ironicamente)

PASQUAL. (Osservate come il Turco la guarda attentamente). (piano a Tognina)

ALÌ (Bella fisonomia! bel discorso!) Favorir di seder. (a Lucrezia, accennando il canapè)

LUCR. Se comanda così... (siede nel mezzo)

TOGN. Anch'io vuò seder. (siede presso Lucrezia, alla dritta, dove volea seder Alì)

ALÌ (Passa dall'altra parte, e vuol sedere, ma Annina gli prende il posto)

ANN. Io non vo' star in piedi. (siede)

ALÌ Donne! Donne! Aver rispetto per donne.

PASQUAL. Sedete qui, signore. (gli offre la sua sedia)

ALÌ No, no, star avvezzo Turchia sentar sofà, o cuscini. Star in piedi, e sopportar volentieri graziosa inciviltà di bellezza.

LUCR. Non è dovere, se il padrone sta in piedi, che facciasi con lui la conversazione sedendo. Queste signore, ch'io non ho l'onor di conoscere, saranno dame o cittadine di rango, onde per fare il mio dovere, m'alzerò io la prima. (Credo che siano dame come son io, ma conosco i Turchi, e voglio vincerlo di cortesia).

TOGN. (Fa da vomitare con queste sue affettazioni).

ANN. (Dica pur quel che vuole, io sto ben dove sono).

ALÌ Vostro nome? (a Lucrezia)

LUCR. Lucrezia per obbedirla.

ALÌ Star musica?

LUCR. Sì, signor, per servirla.

ALÌ Star profession medesima tutte queste persone.

LUCR. Umilissima serva di queste signore. (a Tognina e ad Annina)Riverente m'inchino. (a Pasqualino)Come! par che ognuno mi sdegni? Han ragione, signore; senza merito alcuno, sconosciuta, e povera di virtù come sono, non merito da persone di rango un trattamento migliore.

ALÌ (Questa par non aver catarro de voler far prima donna).

LUCR. Credo, signore, che a quest'ora il di lei ingegno felice avrà scelto i virtuosi più degni per la sua impresa. Io che sono, in materia di musica, del popolo inferiore, non potea meritarmi di essere preferita. È vero che ho sortita dalla natura una voce di cui non vi è la compagna, che sul teatro la mia statura e la mia presenza mi danno dell'avvantaggio; è vero che più maestri e più dilettanti hanno deciso in favore della maniera mia di cantare, che intendo il contrappunto, che canto all'improvviso, e per tutto dove ho recitato, dirò modestamente, mi han compatito; ma non posso mettermi in competenza con persone di sì alto merito, e sarebbe una fortuna per me, se per imparare il canto, fossi degna di recitare con esse loro.

TOGN. (Sentite, ci corbella). (piano ad Annina)

ANN. (Che cosa importa? Non le diamo il gusto di accorgerci della sua ironia). (piano a Tognina)

PASQUAL. (Veramente le Fiorentine per accortezza non la cedono a verun'altra nazione).

ALÌ (Molto me piacer sua modestia). Smirne voler venir? (a Lucrezia)

LUCR. Perché no? Se io ne fossi degna, ci verrei volentieri.

ALÌ Quanto voler per paga?

LUCR. Di questo parleremo poi. Favorisca dirmi prima in qual grado dovrei venire.

ALÌ Per musica venir.

LUCR. Per musica, capisco. Ma, vi domando perdono, se avete fermata qualch'altra virtuosa prima di me, bramo sapere qual parte mi sarà destinata.

ALÌ Tu meritar la prima; ma donne non trovar, che voler far seconda. Tu che parlar con mi tanto modesta, spero che seconda parte vorrà far tua persona.

LUCR. Caro signore Alì, ella mi onora in ogni maniera; e son contenta ch'ella abbia concepito di me una sì buona opinione. Per me non ho pretensioni, e non sono soggetta all'orgoglio; tutte le parti per me sono buone, e le stimo tutte egualmente. Spiacemi solo per il mio maestro. Ci va della sua stima, se si sa che io non recito da prima donna. Che direbbe la mia patria? Che direbbero i miei parenti, i miei amici ed i miei protettori? Tutti sarebbero sconcertati, offesi, incolleriti per questa mia compiacenza. La professione istessa, che pretende essere sostenuta, si dolerebbe di me. Queste signore medesime, che mi stanno ascoltando, e sorridono fra di loro, cosa direbbero di me, s'io condiscendessi ad una tale viltà? Gradisco la vostra offerta, ma vi parlo schietto: se avrò l'onore di servirvi, o prima donna, o niente. (fa una gran riverenza, e parte)

TOGN. Avete inteso il sermone? Avete ammirato la sua gran modestia? Eh, signore impresario, siamo tutte compagne. Ella ha inteso i miei sentimenti, all'onore di riverirla. (parte)

PASQUAL. Riverisco il signor Alì. Se ha bisogno di me...

ALÌ Andar, lasciar, maledetto, non mi seccar.

PASQUAL. (Parte)

ANN. (È restato incantato, stupito, come una statua, non ardisco parlargli). Là... là... (verso Alì)

ALÌ Uh! (con esclamazione di collera)

ANN. (Mi fa paura. Vado via senza dirgli niente). (parte)

SCENA DECIMA

Alì, poi Nibio e Maccario

ALÌ (Passeggia arrabbiato, senza parlare)

NIB. Signore, son qui venuto...

ALÌ Andar diavolo, tu ancor maledetto.

NIB. Che cosa avete con me?

ALÌ Tu aver messo mia testa far opera Smirne. Aver scritto, aver ordinato per teatro; amici aspettar opera Smirne; Alì galantuomo, star impegno, voler far, voler spender, voler tutto far ben, e non trovar donna che voler far seconda. (con sdegno)

NIB. Non è altro che questo? Non ci pensate; non vi mettete in pena. Non c'è altra abbondanza al mondo che di donne di teatro; ne troveremo da seconda, da terza, e da ultima parte.

MACC. Favorisca, signore, senta il consiglio di un uomo come son io; se trova delle difficoltà per le donne, faccia fare un libretto con una donna sola.

ALÌ Chi star tu? (a Maccario)

MACC. Star poeta, signor.

ALÌ Poeta che voler? (a Nibio)

NIB. Si lasci servire. Ho provveduto un poeta, perché in un'impresa è necessario. Farà de' libri nuovi sul gusto del paese, se ce ne sarà di bisogno, ed accomoderà i libri vecchi. Se il maestro di cappella vuol mettere in un'opera nuova un'aria vecchia, il signor Maccario ha il talento di mettere le parole sotto la musica, in modo che persona non se n'accorga.

MACC. Ditegli ancora, ch'io insegno le azioni ai musici, ch'io dirigo la scena, ch'io corro per i palchetti ad avvisar le donne, che assisto alle comparse, e che avviso col fischio quando si devon mutar le scene.

ALÌ Che imbroglio star questo? Niente capir.

SCENA UNDICESIMA

Fabrizio e detti, poi tutte quelle persone che da Nibio vengono nominate.

FABR. Mio signore. (ad Alì)

ALÌ E quest'altro, chi star?

NIB. Quest'è un bravo pittore da teatro, il quale farà le scene, e condurrà con lui tutti i suoi scolari e tutti i suoi operai. Venite innanzi, signori. (verso la scena)

ALÌ Quanta gente venir?

NIB. Ecco i pittori ed i lavoranti. Questi è il capo dell'illuminazione. Ecco qui il capo delle comparse con trentadue compagni, bella gente e pratica del teatro. Questi sono i tre portinari. Questi sono i due paggi da sostener la coda alle donne. Ecco un bravo suggeritore, capace di suggerire le parole e la musica. Ecco due uomini per dispensare i biglietti. Ecco quei che devono assistere ai palchetti, per dare e ricuperare le chiavi. Questi sa far da orso. Quest'altro sa far da leone. E quest'altro, forte e robusto come vedete, è destinato per batter le mani.

ALÌ Condur Smirne tutta questa canaglia?

NIB. Tutte persone necessarie.

ALÌ Mangiar impresa e impresario. Sensal maledetto. Tu voler Alì precipitar. Ma se mal riuscir, omo d'onor, tu far impalar. (parte)

NIB. Questa ci mancherebbe!

MACC. Non temete di nulla. Vi farò un libro, che incanterà la gente. E se mai succedesse quel caso orribile, che il signor Alì vi ha predetto, voi morirete glorioso, ed io vi farò l'epitaffio in versi. (parte)

NIB. Non bado alle sue sciocchezze; penso al pericolo a cui mi espongo. Ma non voglio per questo tralasciar di tentare la mia fortuna. Questo è il mio mestiere; lo faccio come so e come posso. Faccio come fan gli altri, e in caso di disgrazia, farò quello che fanno tanti altri; procurerò di stare alla cassetta, e al primo buon vento, m'imbarcherò per Italia. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Notte. Camera di Lucrezia con lumi.

Lucrezia ed il Conte Lasca

LAS. Spiacemi non avermi potuto trovare dal Turco; ma ho saputo tutto quello che colà è succeduto. So la ridicola pretensione delle altre due donne, e vi do ragione di aver voluto sostenere il vostro punto.

LUCR. Ed io so che presentemente mi corbellate.

LAS. E perché?

LUCR. Perché ora voi mi date ragione; e quando sarete coll'altre, farete seco loro lo stesso.

LAS. Voi non mi conoscete, e pensate male di me. Protesto che per voi ho il primo e il più forte impegno.

LUCR. Lasciamo le fanfaluche da parte, e favelliamo sul sodo. Sarò io la prima donna?

LAS. Sì, ve lo prometto.

LUCR. E con qual fondamento?

LAS. Dopo che voi partiste dal Turco, sono andato da lui. L'ho trovato in un'agitazione grandissima. Nibio, con imprudenza, gli aveva fatto scaldar la testa, guidandogli un esercito di mangiapani. Studiai di rasserenarlo, m'impegnai d'interessarmi per lui, e nello stato in cui si trova, gli pare d'aver trovato in me un aiuto del cielo. Si fida di me, mi si raccomanda, ed aderendo a' miei consigli ed alle mie premure, mi ha dato parola, che verrà qui da voi questa sera.

LUCR. Verrà da me il Turco? (con piacere)

LAS. Me l'ha promesso, e l'aspetto.

LUCR. Almeno avrò il piacere di parlargli io sola, senza la presenza incomoda di quelle due impertinenti.

LAS. Ma deggio dirvi, che anche la signora Annina e la signora Tognina verranno qui istessamente.

LUCR. Come! verranno in casa mia? (con isdegno)

LAS. No, cara signora Lucrezia, non dite in casa vostra. Noi siamo in una locanda. Qui tutti possono liberamente venire. Se poi non volete che vengano nella vostra camera, Beltrame le ne darà un'altra, e voi allora...

LUCR. No, no, vengano pure se vogliono; mi basta che voi ci siate, e che non ardiscano in camera mia di fare le saccenti.

LAS. Vi assicuro che staranno in cervello. Mi conoscono, e sanno che, dove sono io, non si fa il bell'umore. Ho già loro parlato, e quando verranno, le vedrete trattarvi con tutta la possibile civiltà.

LUCR. Con chi tratta bene meco, so corrispondere con egual politezza; anzi penso, che se vengono nella mia camera, sarà necessario di far loro un picciolo trattamento.

LAS. Eh, questo non preme.

LUCR. Non dico di far gran cose, ma un poco di caffè, un poco di cioccolata, si usa al paese mio.

LAS. Tutto ciò, credetemi, è superfluo.

LUCR. Eh, non importa! Farò preparar io.

LAS. Se ciò si dovesse fare, toccherebbe a me a farlo.

LUCR. Fatelo, se volete, io non mi oppongo.

LAS. Lo farei, se fosse necessario; ma non vengono qui da voi per far la conversazione; vengono per affari, e sarebbe un'affettazione... Oh, ecco la signora Tognina. Fatele buona ciera. Questo val meglio di tutti i rinfreschi del mondo.

SCENA SECONDA

Tognina e detti

TOGN. Padrona mia riverita.

LUCR. Serva sua divotissima.

TOGN. Sta bene?

LUCR. Per obbedirla.

LAS. Brave, signore mie, avrò piacere che siate buone amiche e buone compagne.

TOGN. Sarebbe per me una fortuna, s'io avessi il bell'onore di essere in compagnia di questa signora, che è tanto buona e di buon cuore. (con ironia)

LUCR. Anzi potrei chiamarmi io fortunata di vivere con una persona sì amabile e sì gentile. (con ironia)

TOGN. Questo è un effetto della di lei bontà, che accresce il merito alla sua virtù.

LUCR. S'inganna, signora mia, io non merito niente.

TOGN. Ma che maniera che incanta!

LUCR. Quanto mi piace questa signora. (forte al Conte)

LAS. (Queste troppe finezze son certo che non vengon dal cuore).

LUCR. Se anderemo alle Smirne, ce la goderemo, saremo amiche, e vivremo insieme.

TOGN. E in nave? Nella nave voglio che passiamo bene il nostro tempo; porterò la mia spinetta, le passerò io la parte. Compagno qualche cosetta. E ella?

LUCR. Qualche poco.

TOGN. Oh, ella sarà perfetta. È ella soprana?

LUCR. Per servirla.

TOGN. Brava: arriverà, m'immagino, fino al gesolreut.

LUCR. Oh, anche un poco di più in là.

TOGN. Capperi! me ne consolo infinitamente. Tanto più mi pregio di avere una compagna di tanto merito. Io non sono delle più brave, ma sentirà. Ho tre ottave nettissime.

LUCR. Oh, quanto mi consolo della di lei bravura!

LAS. (Io le ascolto e le godo col maggior piacere del mondo).

TOGN. Dica, ha ella osservato questa mattina dal Turco quella virtuosa?

LUCR. E chi è? Come si chiama?

TOGN. La Mistocchina.

LUCR. Che vuol dir Mistocchina?

TOGN. Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità. Non sa poverina, quel che si dica. Sono più di dodici anni che impara la musica, e non sa nemmen solfeggiare; non unisce la voce, non intuona una nota, va fuori di tempo, strilla, mangia le parole, ed ha cent'altri difetti.

LAS. (Ora principia il buono della conversazione).

LUCR. E voleva mettersi a recitare con lei? Questa è una specie di temerità. Ella, signora mia, oltre il merito del canto e del sapere, si vede che ha dell'azione, del movimento. Credo che per recitare non ci sia un'eguale. Se si scalda qui nella conversazione, che non farà ella in teatro? Ammiro sopratutto in lei quel gesto sì naturale, quel muovere delle braccia, quell'accompagnare le sue parole coi movimenti del capo, delle mani e fin delle spalle. È una cosa che mi piace e m'incanta.

LAS. (Che tu sia maladetta, può corbellarla di più?)

TOGN. Qualche volta mi movo un poco troppo, per dirla, ma è l'effetto della vivezza e dell'età.

LUCR. Certo. Ella è giovinissima.

TOGN. Oh, sono ormai vecchia. (sorridendo con vezzo)

LUCR. Quanto avrà? Diciott'anni?

TOGN. Oh, sono ormai venti.

LUCR. (Con dieci appresso)

TOGN. Eh, ella non li averà ancora venti.

LUCR. Eppure sono suonati.

TOGN. (Lo credo anch'io).

LUCR. E la Bolognese?

TOGN. Chi sente lei, non ne ha diciassette.

LUCR. Oh, io gliene do ventiquattro.

TOGN. E colla coda.

LUCR. E il signor Conte non dice niente?

TOGN. Sta lì come una statua.

LAS. Io ascolto ed ammiro.

TOGN. Noi parliamo degli anni. I suoi quanti saranno?

LAS. I miei?... ventitrè non finiti.

TOGN. Oh carino! ventitrè?

LUCR. Mettetegli il dito in bocca; vedete se ha fatto i denti.

LAS. Mah! giustizia per tutti. Se calano per voi, hanno da calare ancora per me.

TOGN. (Che galeotto!)

LUCR. Mi pare di sentir gente.

LAS. Ecco la Bolognese.

LUCR. Voglio andarle incontro.

TOGN. Eh, resti qui. Non si prenda soggezione di questa sorta di gente.

LUCR. Scusi. Vuò fare il mio dovere. È vero che questa mattina tutte due lor signore sono state sedute, mentre io stava in piedi parlando. Può essere, se lo fanno, che qui sia ben fatto, ma al mio paese si usa la civiltà. (va ad incontrare Annina)

LAS. Ve l'ha appoggiata a tempo. (a Tognina)

TOGN. È una superba, un'impertinente, ch'io non posso soffrire.

SCENA TERZA

Annina, accompagnata da Lucrezia, e detti.

TOGN. Brava, signora Annina, eravamo impazienti di vedervi.

ANN. Davvero?

TOGN. Finora abbiamo parlato di voi.

ANN. Che cosa ponno aver detto di me?

TOGN. Quello che meritate. (ad Annina)

LUCR. Quello che le conviene. (ad Annina)

LAS. Ed io ne son testimonio. (ad Annina)

ANN. Io non merito queste finezze. Elleno son virtuose ed io non sono che un'ignorante.

TOGN. Via, via, troppa modestia.

ANN. Dica, signor Conte, l'amico non si è ancora veduto?

LAS. Non è ancora comparso.

TOGN. Il Turco? Parla del Turco? L'aspettiamo anche noi.

LUCR. Mi fa l'onor di venire da me.

TOGN. Signora Annina, ha ella deciso? Va ella sicuramente alle Smirne?

ANN. Se piace al cielo.

TOGN. (Signor Conte, che cosa vuol far di tre donne?) (piano al Conte)

LAS. (Io non voglio far niente di nessuna). (piano a Tognina)

TOGN. Ma come...

LAS. Zitto. Ecco il signor Alì. Ei viene per causa mia, e ve lo protesto, signore, se fra di voi nascono dei nuovi puntigli, lo faccio andar via, e non se ne parla più. Chi di voi ha bisogno, s'accheti a quel ch'io dico, e se la condizion non vi comoda, sappiate che per me poco o nulla m'importa. Vi sono cento donne che pregano, e la massima è già fissata: la prima di voi che parla, e si lamenta, e fa strepito, sarà esclusa da quest'impresa.

LUCR. (Se egli non è bugiardo, io deggio essere la prima donna).

ANN. (Converrà tacere, e rassegnarsi).

TOGN. (Mi preme in ogni modo di andare alle Smirne).

SCENA QUARTA

Alì e detti.

LAS. Venite, signor Alì.

ALÌ Star fatto? (al Conte)

LAS. Fatto niente. Ho piacer che siate anche voi presente al contratto. Ecco qui, queste tre signore desiderano tutte tre venir con voi, e ciascheduna ha il suo merito.

ALÌ Star tre donne?...

LAS. Star zitto. Vi dirò il perché. Senza accrescer la spesa, vi può esser luogo per tutte tre.

ALÌ Se far tanto diavolo per prima e per seconda, cosa far per terza?

LAS. Non ci pensate. La terza può impiegarsi per una terza donna, se il libretto lo chiede; e quando non ne abbisognin che due, l'altra in abito da uomo farà l'ultima parte.

ANN. Io no certo.

TOGN. Né men io sicuro.

LAS. Zitto. (alle tre donne)

LUCR. Per me, io non parlo.

ALÌ Conte, star tu patron.

LAS. Ed io terminerò quest'affare. Signore, noi vogliamo per prima donna quella che ci pare e piace. Chi non si contenta, può andarsene, e chi si rassegna, non avrà da pentirsene.

ALÌ Bravo, Conte. Star bravo. Per me, non parlar.

LAS. Che la signora Tognina e la signora Annina abbiano dunque per questa volta pazienza. Noi abbiamo destinato il posto di prima donna alla signora Lucrezia.

TOGN. Ed io ho da soffrir questo torto? (mortificata)

ANN. Ed io ho da tacer, senza lamentarmi?

LAS. O tacere, o partire.

TOGN. Parli ella, signor Alì.

ANN. Mi renda ella giustizia. (ad Alì)

ALÌ Non parlar con me. Conte star impresario, Conte star patron. Benedetto star Conte.

LAS. Io sono uno che accomoda le cose facilmente. Via, signora Lucrezia, faccia al signor Alì il suo complimento.

LUCR. Ringrazio il signor impresario ed il signor mediatore. Ma favorisca, in grazia, qual sarà il mio onorario? (ad Alì)

ALÌ Conte, Conte parlar. (a Lucrezia)

LAS. Quanto pretenderebbe la signora Lucrezia?

LUCR. Vede bene...

LAS. No, parlate liberamente.

LUCR. A una prima donna, a una donna della mia sorte, trattandosi di andare alle Smirne...

LAS. Alle corte.

LUCR. Vuol darmi meno di seicento zecchini?

LAS. Il signor impresario non ne vuol dare che quattrocento.

LUCR. Scusi, signore, questa paga...

LAS. Basta così. La signora Tognina quanto domanderebbe, se dovesse fare da prima donna?

TOGN. Per me, non sono interessata, e mi contenterei...

LUCR. Oh, se si tratta di usar generosità, son capace anch'io, ed accetto i quattrocento zecchini. (al Conte)

LAS. Questa è fatta.

ALÌ Bravo, Conte, star bravo.

LAS. E la signora Tognina quanto domanda per il posto di seconda donna?

ANN. Ed io, signore?

LAS. Ora non parlo con voi. Verrà la vostra volta.

ANN. Mi destina dunque...

LAS. O tacere, o partire. Quanto domanda la signora Tognina?

TOGN. Direi... almeno, almeno...

LAS. Vi comodano duecento e cinquanta zecchini?

TOGN. Non posso. Non è possibile.

LAS. E voi, signora Annina?

TOGN. Aspetti, aspetti... Viaggi pagati, e quartiere?

LAS. Ci si intende. Questo è per tutti. Gli accettate?

TOGN. Gli accetto. (mortificata)

ALÌ Bravo, Conte; star bravo.

LAS. A voi, signora Annina.

ANN. Per terza donna?

LAS. E per ultima parte, se occorre.

ANN. Una virtuosa della mia sorte?

LAS. Ne ho dieci, che mi pregano.

ANN. E quanto mi vuol dare? (mortificata)

LAS. Cento zecchini.

ANN. A una donna del mio merito?

LAS. O dentro, o fuori.

ANN. Pazienza! gli accetterò.

LAS. Tutto è fatto. Tutto è finito. (ad Alì)

ALÌ Bravo, Conte, tu meritar far bassà, far visir.

LAS. Ehi, della locanda. (viene un servitore)Portate subito penna, carta e calamaio. (Servitor parte)Faremo subito le scritture.

LUCR. E quando sarà la nostra partenza? (al Conte)

LAS. Dite voi, signor Alì, quando credete di dover partire?

ALÌ Nave star alla vela. Domattina voler partir. Tutta compagnia venir casa mia, domattina buon'ora. Portar tutta roba per imbarcar peota, e andar bordo aspettar buon vento.

LAS. Voi avete capito. (alle donne)Egli vi aspetta domani di buon mattino. Oh, ecco il servitore. Favorisca, signora prima donna venga ella a sottoscriver la prima. (Il Conte e Lucrezia vanno ad un tavolino, che è in fondo alla SCENA, ed il Servitore porta l'occorrente per iscrivere, poi parte)

TOGN. Povero signor Alì! mi dispiace infinitamente per lei. Parlo sinceramente, senz'invidia e senz'interesse, ma parlo per la verità. Ella ha una prima donna, che vuol far la rovina della sua impresa. Che cosa ne dite signora Annina? sentirà che canchero. Se quella donna incontra, voglio perdere un occhio. (ad Alì)

ALÌ Non star brava?

TOGN. Che brava? È un'ignorantaccia, che non sa né la musica, né l'azione.

ANN. Sentirà, sentirà, scommetto che sarà obbligato a mandarla via dopo quattro giorni.

ALÌ Ma Conte no saver?

TOGN. Eh, il signor Conte la protegge, la mette in grazia, e corbella il signor impresario, perché è di lei innamorato.

ANN. Si vede apertamente; e per causa di questa passione ha fatto a noi un'ingiustizia.

ALÌ (Star possibile, che voler Conte tradir?)

LAS. Questa è fatta. Venite, signore, se volete, a sottoscrivere anche voi. (forte alle donne, stando al tavolino)

TOGN. Io, se facessi da prima donna, io potrei fare la sua fortuna (al Alì, e va al tavolino)

ANN. Ella farebbe de' gran quattrini, se si fidasse di me. (al Alì, e va al tavolino)

ALÌ (Pensa, passeggia, smania, si liscia i mostacchi, batte i piedi e mostra la sua inquietudine)

LUCR. Che cosa ha, signor Alì, che mi pare turbato?

ALÌ Non saper, aver dubbio; non conoscer ben malizia italiana, ma dubitar, e quasi pentir, d'aver fatto quel che aver fatto.

LUCR. Perché?

ALÌ Perché pagar per aver gente bona, e dubitar che musica Smirne deventar cattiva.

LUCR. Se parla per quelle due cantarine, lo compatisco. In materia di musica non sanno quello che si facciano, mancano di fondamenti; sono così cattive, che non trovano recite né meno in tempo di carnovale.

ALÌ Star compagne di te.

LUCR. Le domando perdono, sentirà alle Smirne il mio sapere e la mia bravura.

ALÌ Mi non aver più testa.

LAS. Ecco qui le scritture formate e sottoscritte. (vuol dare le scritture ad Alì)

ALÌ Non saper cosa far, non voler scritture.

LAS. Bene; le terrò, le unirò colle altre, e ve le porterò domattina.

TOGN. Serva del signor Alì. Domattina per tempo sarò da lei col mio equipaggio. Stia bene, dorma bene, e per domattina, si ricordi di farci preparare la cioccolata. (parte)

ANN. Cioccolata io non ne prendo. Ella avrà del buon vino di Cipro; me ne prepari una bottiglietta con de' biscotti. (parte)

LUCR. Con loro permissione. Io vado nel mio camerino a spogliarmi, perché l'ora vien tarda. Se vogliono restare, sono padroni, li lascio in libertà. Serva, signor Alì. Domani di buon mattino sarò da lei. Signor Conte, serva umilissima. (parte)

SCENA QUINTA

Il Conte Lasca, Alì, poi Nibio

LAS. Signor Alì, sia detto a gloria mia, la vostra compagnia non istà male in donne, e le avete ad un prezzo...

ALÌ Conte, io aver paura, che tu per bella donna me voler trappolar.

LAS. Mi maraviglio di voi. Che maniera è la vostra? È questo il ringraziamento di quel che ho fatto per voi?

ALÌ Conte mio, compatir. Non saper... Non aver più testa.

NIB. Signori, una buona nuova. Ho fermato il primo musico per seicento zecchini, ed un secondo per duecento.

LAS. Chi avete fermato per secondo?

NIB. Un certo Sganarello...

LAS. Quello sguaiato? Signore, non lo prendete, che è una caricatura capace di metter l'opera in ridicolo. (ad Alì)

NIB. Scusi, è forse migliore di Carluccio, ch'ella protegge. (al Conte)

ALÌ Musici non voler. (a Nibio)

NIB. La scrittura è firmata. Non vi è più rimedio, ed ho fermato e scritturato due tenori.

ALÌ Senza ch'io saper?

NIB. Ma se domani si parte, non si potea differire.

LAS. In questo non ha tutto il torto.

NIB. Ed ho fermato tutti quegli operai ch'ella ha veduto nella sua camera.

ALÌ In tutti quanti star?

NIB. Ho fatto il conto, che saremo in tutti settanta persone.

ALÌ Scialamanacabala! (esclamazione alla turca)

NIB. E tutti, pria di partire, domandano quattrini a conto.

ALÌ Quanto voler?

NIB. Almeno, in tutti, cinquecento zecchini.

ALÌ Dar cinquecento diavoli, che portar tua malora. (parte)

NIB. (Dica quello che vuole, il danaro è necessario. Cento zecchini per me, e gli altri spartiti fra questa povera gente). (parte)

LAS. Che imbroglio, che impiccio, che malorato impegno è quello di un impresario! lo pratico i teatri, conosco e frequento i virtuosi e le virtuose, ma non mi è mai venuto voglia di mettermi alla testa di una impresa. Poveri impresari! fanno fatiche immense, e poi cosa succede? L'opera in terra, e l'impresario fallito. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camera nell'albergo d'Alì.

Carluccio in abito di viaggio, con pelliccia, stivali, una scuriata, berretta da viaggio; poi un servitore

CARL. O di casa. O di casa? (facendo strepito, e battendo la scuriata)Dormono ancora? Che baronata è questa? Si parte o non si parte?

SERV. Che diavolo di rumore? (a Carluccio)

CARL. Chiamo, chiamo, e nessun mi risponde.

SERV. Dica piano, signore. Lasci dormire i forestieri che dormono.

CARL. Il Turco è risvegliato?

SERV. È risvegliato, ed è uscito fuori di casa.

CARL. Portami il cioccolato con del pane arrostito.

SERV. E dove vuol che lo prenda?

CARL. Che? non vi è cioccolato? L'impresario non ce l'ha preparato? Prendilo alla bottega.

SERV. E chi pagherà?

CARL. Pagherà l'impresario.

SERV. Scusi; non mi ha dato questi ordini.

CARL. Pagherò io.

SERV. È ancor di buon'ora, la bottega non è aperta; quando si aprirà, farò venire il garzone.

CARL. Ma io non posso aspettare. Son di stomaco delicato, ho tralasciato di far colazione per venire di buon'ora da quest'asino d'impresario... Guarda se c'è qualche cosa nell'osteria.

SERV. Signore, questa non è osteria, ma è locanda.

CARL. Maledette siano le locande ed i locandieri! Fanno gli osti, e non vogliono che si dica osteria. Portami da mangiare.

SERV. Io non so cosa darle, e non le porterò niente.

CARL. Ti do un calcio. Ti do la scuriata a traverso la faccia.

SERV. Mi fa ridere! Cosa vuol fare in nave della scuriata e degli stivali?

CARL. Animale! i pari miei non viaggiano senza stivali, e colla scuriata terrò i marinari svegliati.

SERV. Badi bene, che se farà il pazzo in nave, la getteranno in mare.

CARL. Asino.

SERV. Non istrapazzi, che cospetto della luna, a bastonar lei mi parrebbe di bastonare un sacco. (con forza)

CARL. Ma, caro amico, non posso più; ho bisogno di reficiarmi, portatemi qualche cosa per cortesia.

SERV. Oh, se parlerà così, è differente. Vado subito a servirla.

CARL. E che cosa mi porterete?

SERV. Un bicchier d'acqua tepida.

CARL. Dell'acqua ad un par mio?

SERV. Non ho altro da darle. Se la vuole, la prenda; se non la vuole, la lasci. (parte)

SCENA SECONDA

Carluccio, poi Maccario

CARL. Dove si sarà cacciato quell'animale di Nibio? Scommetto che egli è a far la corte a qualche virtuosa. Invece di venire da me... Invece di portarmi il primo quartale anticipato, come mi aveva promesso. Corpo di bacco! ho dovuto sortir di casa avanti giorno, per evitare la folla de' creditori.

MACC. (Maccario da viaggio con un cattivo pastrano)(Che cosa vuol dire questa stravaganza? Non si vede ancora nessuno? Son suonate le quindici, e non si vede... Oh, ecco qui il soprano).

CARL. Schiavo, signor Maccario.

MACC. Avete veduto l'impresario?

CARL. È fuor di casa quell'animale.

MACC. E Nibio?

CARL. Non è ancora comparso.

MACC. Mi pare che avrebbe dovuto trovarsi qui prima degli altri.

CARL. Il quartale ve l'ha dato?

MACC. Non mi ha dato un quattrino. M'alzai di buon'ora, andai da lui, e mi hanno detto che è uscito prima del giorno, ed io prima di partire ho bisogno di qualche denaro.

CARL. Avete qualche debito, non è vero, pover'uomo?

MACC. Sì, signore. Chi non ha debiti, non ha credito. I debiti non guastano il galantuomo.

CARL. (Così dico ancor io).

MACC. E prima di partire ho da comprar qualche libro, di cui posso avere bisogno.

CARL. E di quai libri volete voi provvedervi?

MACC. D'un Metastasio, d'un Apostolo Zeno, delle opere del Pariati, e d'una raccolta di drammi vecchi, e sopratutto d'un buon rimario. Alle Smirne voglio lavorar di buon cuore. Farò de' libri stupendi.

CARL. De' libri impasticciati.

MACC. Caro signor Carluccio, voi sapete chi sono. Con i miei pasticci, voi sapete ch'io servo al vostro bisogno. Voi non avete che due arie, cantate e ricantate e le mettete in tutte le opere nelle quali voi recitate, e sapete quante volte mi avete fatto cambiar le parole a queste due arie eterne. Mi ricordo ancora di quell'aria, che mi faceste cambiare per Genova. Non mi deste tempo a pensare, e per rimare cielo con ruscello, mi faceste lasciare un elle nella penna.

CARL. Oh, oh, di questi arbitrii voi altri poeti ve ne prendete quanti volete.

MACC. È vero che le licenze poetiche sono permesse.

CARL. Ecco la Bolognese. Che diavolo è quella gente che viene con lei?

MACC. La mamma, suo fratello ed il servitore con i cani.

SCENA TERZA

Annina da viaggio, una Vecchia, ed un Giovane mal vestito, ed un Servitore con livrea con due cani legati con un nastro; e detti. La Vecchia va a sedere in fondo della scena.

ANN. A quel ch'io vedo, io sono la prima. Se sapeva così, sarei stata in letto ancora un'oretta.

CARL. Quando ci sono io, che sono il primo soprano, ci potete essere anche voi.

ANN. Cosa fanno, che non vengono queste due sguaiate? Si metteranno in bellezze. Io sono una bestia. Per non fare aspettare, non ho fatto nemmeno la mia tavoletta.

CARL. Chi ha da venire? Chi sono quelle che si fanno aspettare?

MACC. L'Acquacedrataia e la Zuecchina.

CARL. È egli vero, che voi fate l'ultima parte? (ad Annina, ridendo)

ANN. Andiamo a sbarcare alle Smirne, e là la discorreremo. Per ora ho dovuto ingoiar questa pillola amara: ma quando saremo di là del mare, vedranno chi è l'Annina bolognese.

CARL. Avete ragione. Voi non siete per fare l'ultima parte. Io vi sosterrò contro l'impresario e contro tutto il mondo; e se vorranno opporsi a quel ch'io dico e quel ch'io voglio, giuro da quel ch'io sono, manderò l'opera a terra.

SCENA QUARTA

Tognina da viaggio, con un cane in braccio ed uno legato con una cordicella, Pasqualino con varie scatole e fagotti; e detti.

TOGN. Eccomi. Dov'è l'illustrissima signora prima donna? Sono stata ben pazza io a venire prima di lei. Questa gran signora vuol farsi aspettare. Dov'è l'impresario? Dov'è Nibio? Dove sono i quattrini?

MACC. L'impresario non c'è, e Nibio non si vede.

TOGN. Che impertinenza! Non mi hanno né meno mandato la gondola. Per la gran paga che mi danno! Per venir qui ho dovuto spendere trenta soldi del mio.

PASQUAL. Via, per trenta soldi non vi fate scorgere.

TOGN. Tacete voi, e badate alle mie scatole.

CARL. Che cosa vuol dir questo, signora? Voi non fate da prima donna? (a Tognina)

TOGN. Che dite eh? Il bel conto che si fa in oggi del merito. Quest'impresario selvatico, quel caro signor conte Lasca, mi hanno fatto questo torto per causa di quella sguaiata.

CARL. Per la Fiorentina?

TOGN. Signor sì. Per quella gioia. Mi vien voglia di stracciar la scrittura.

CARL. Non temete niente. Troverò io la maniera di umiliarla e di escluderla. Dirò ch'io non voglio cantar con lei.

TOGN. Se vi è qualche duetto, sapete quel ch'io so fare. Se lo cantiamo insieme, faremo innamorar tutto il mondo.

ANN. Se abbisognano dei duetti, io ne ho cinque o sei di superbi.

TOGN. Scusatemi, signora, voi non c'entrate. Voi siete l'ultima parte.

ANN. O l'ultima, o la prima, ci parleremo.

TOGN. (Guardate, non ha rossore a mettersi con noi). (piano a Carluccio)

CARL. Io sono il primo soprano, e voglio la prima donna a modo mio.

PASQUAL. Caro amico, vi consiglio per ora non far rumori.

CARL. Come c'entrate vei nelle mie pretensioni? Siete forse geloso? Oh quest'è bella! Voi fate all'amore in casa, ed io lo vuò far sulla scena.

TOGN. Signor sì; vogliamo fare quel che vogliamo. (a Pasqualino)

PASQUAL. Io sono stanco di tener questi impicci alle mani. (getta in terra tutte le scatole)

TOGN. Guardate che animalaccio! Prendete su quelle scatole. (a Pasqualino)

PASQUAL. Eh, sono stanco. (con isprezzatura)

TOGN. Prendete voi, signor Maccario. (con imperiosità)

MACC. Io? (con maraviglia)

TOGN. Guardate che maraviglie! Potreste bene incomodarvi. Siete venuto tante volte a desinare con me.

MACC. (Andiamo alle Smirne. Voglio servirla come va. Parte, arie, tutto cattivo. Tutto farò per dispetto).

TOGN. (Povero, e superbo). Quel giovane, fatemi il piacere di raccogliere quelle scatole. (al Servitore di Annina)

ANN. Si faccia servire dal suo servitore. (a Tognina, e prende per il braccio il Servitore, e lo tira lontano)

TOGN. (Indegni quanti siete! Quando saremo alle Smirne...) (ramassa ella le scatole)

CARL. Oh, ecco la Fiorentina.

ANN. È ora, è ora davvero! Si è ella bene stuccata? Si è ben bellettata?

SCENA QUINTA

Lucrezia da viaggio con un cane, un Servitore con un pappagallo ed un gatto; e detti.

LUCR. Serva di lor signori. Perdonino di grazia. Mi hanno forse aspettato?

CARL. Niente, la mia cara gioia, la mia dea, la mia principessa. Voi siete la prima donna, e potete farvi aspettare.

ANN. (Credo ch'ei la burli).

TOGN. (Sì, sì, la prima donna! Quando saremo alle Smirne).

ANN. (Oh maladetta! Il pappagallo!)

TOGN. (La gatta!)

LUCR. L'impresario dov'è?

MACC. È sortito, e non è ancora tornato.

LUCR. Perché farmi venir qui ad aspettarlo? Prima d'andare in mare, voglio saper un poco quale abbia da essere nella nave il mio posto.

TOGN. Oh, prenderà per lei un bastimento apposta, una nave da guerra.

LUCR. Non ho parlato con voi, signora, e non vi rispondo.

CARL. Per me voglio la camera del capitano, e mi contento di dividerla con voi. (a Lucrezia)

LUCR. Sarà bene che stiamo vicini.

CARL. Senza dubbio. Siete la mia prima donna, siete la mia regina; noi dobbiamo stare lontani dalla turba volgare.

TOGN. (Dite davvero?) (piano a Carluccio)

CARL. (Non dubitate). (a Tognina)

ANN. (Parlate voi sul sodo?) (piano a Carluccio)

CARL. (Non temete, sono per voi). (ad Annina)(Ah tutte queste virtuose sono incantate del mio gran merito e della mia bellezza). (da sé)

SCENA SESTA

Nibio con una quantità di persone inservienti al teatro, e detti.

NIB. Eccoci qui tutti uniti.

MACC. Signor Nibio, quattrini.

CARL. Il mio quartale? (a Nibio)

TOGN. Danari, padron mio. (a Nibio)

ANN. I danari che mi avete promessi. (a Nibio)

LUCR. Vi ho aspettato invano. Dove sono i quattrini? (a Nibio)

PASQUAL. Se si ha da partire, ci vogliono de' quattrini.

NIB. Ma via, non mi mangiate. Quattrini, se non me ne danno, non ne posso dare. Aspettate l'impresario e darà a tutti quel che ha promesso.

CARL. Dov'è andato costui?

NIB. Mi sono informato, mi hanno detto ch'è stato veduto col conte Lasca, e poco possono star a ritornare.

LUCR. Ma che diancine faranno? Dove diancine saranno andati?

NIB. Io penso che siano andati dal banchiere a pigliare il danaro.

TOGN. E aspettano a quest'ora?

CARL. Questa è un impertinenza.

SCENA SETTIMA

Il Conte Lasca e detti.

LAS. Schiavo di lor signori.

NIB. Dov'è l'impresario?

CARL. Dov'è questa bestia d'Alì?

TOGN. Viene, o non viene?

ANN. Si parte, o non si parte?

LAS. Mi rallegro di vedere questa bella compagnia pronta, unita e raccolta. Il signor impresario saluta tutti, fa il suo complimento a tutti, e mi ha dato questa borsa con duemila ducati, perché io ne faccia il comparto, e a tutti ne dia a proporzione. Spero che ognuno sarà contento. (ciascheduno allunga le mani)Ma piano; prima ch'io distribuisca il danaro, deggio informarvi di un'altra cosa. Il signor impresario, stordito, affaticato dai musici, dal sensale, dal poeta e dagli operai, la notte scorsa non ha potuto dormire. Vegliando e ripensando, ha presa la risoluzione di sagrificare le spese che ha fatto fare alle Smirne; manda questi duemila ducati in regalo alla compagnia, ha profittato del vento favorevole, ed è partito per le Smirne.

TOGN. Oh maledetto impresario!

ANN. Oh cosa mi tocca a sentire!

LUCR. Piantare così una donna della mia sorte?

NIB. Presto, signor Conte, principiate a dividere i duemila ducati.

CARL. Cinquecento per me.

MACC. Ricordate che tutti ci abbiamo a bagnar la bocca. (al Conte)

LAS. Figliuoli miei, di questo danaro, se è diviso in tanti, poco a ciascheduno può toccare. Sentite una mia idea, una mia proposizione. Lo terrò io in deposito; ci servirà di fondo, voi farete una società, si farà un'opera di quelle che diconsi a carato. Ciascheduno starà al bene e al male. Se anderà bene, dividerete il guadagno, se anderà male, spero non ci rimetterete del vostro.

CARL. Io ci sono, e basto io solo per la fortuna di quest'impresa.

LUCR. Io sono la prima donna.

TOGN. Se siamo a carato, io sono anziana, e la prima voglio esser io.

ANN. Ora non siamo alle Smirne, e la cosa non deve andare così.

LAS. A monte tutte le gare e le differenze. Che la compagnia resti come è, e come era già stabilita. Se così non si accorda, intendo che la società sia disfatta, e come io ebbi dal Turco l'arbitrio e la facoltà di disporre a modo mio di questo danaro, ne farò quell'uso che mi parerà, in favore di chi sarà più docile, e punirò i prosontuosi.

LUCR. Per me, mi rimetto al signor Conte.

TOGN. Io non guasto; non voglio che dicano, ch'io son difficile.

ANN. Ci riportiamo alla cognizione ed alla bontà del signor Conte.

PASQUAL. Voi mi conoscete, e mi raccomando alla vostra protezione. (al Conte)

MACC. Anch'io mi raccomando a voi, son galantuomo, e mi contento di tutto.

NIB. Farò io da direttore, se vi contentate.

TOGN. La signora Lucrezia è mia buona amica.

ANN. Non vi sarà che dire fra noi.

LUCR. Sì, viveremo in pace. Ecco un bacio.

ANN. Ecco un bacio.

TOGN. Un bacio. (tutte tre si baciano)

LAS. Così mi piace. Così va bene. Spero che starete in pace, e che tutti contribuirete per il comune interesse. Ecco la differenza che passa fra un teatro a carato, e quello d'un impresario. Sotto di un uomo che paga, tutti sono superbi, arditi, pretendenti. Quando l'impresa è dei musici, tutti sono rassegnati, e faticano volentieri. L'Impresario delle Smirne è una buona lezione per quelli che vogliono intraprendere di tali imprese, difficili, laboriose, e per lo più rovinose.

Fine della Commedia