L’improvvisata di Parigi

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Commedia in un atto

diJean GIRAUDOUX

Versione italiana di Gigi Cane

da IL DRAMMA n. 108

del 1° Maggio 1950

LE   PERSONE:

MADELEINE OZERAY

MARIE-HÉLÈNE DASTÉ

RAYMONE (ruolo femminile)

MARTA HERLIN

LA PICCOLA VERA

LOUIS JOUVET

RENOIR

BOUQUET

ROBINEAU

BOVERIO

ADAM

CASTEL

BOGAR

SAINT-YSLES

LÉON, il macchinista

MARQUAIRE-MÉNAGER, l'elettricista

(La scena è quella stessa dell'Athénée, un pomeriggio di prove del 1937).

* Tutti i diritti di quest'opera appartengono

   a Jean Giraudoux-Montaigne, Parigi.

SCENA PRIMA

Renoir              Prova del Molière. La ricetta è infallibile.

Boverio            Non so che diavolo abbiano oggi! L'ora della prova è già passata da cinque minuti e stanno ancora tutti sulla scala a discutere.

Marta               Ho già suonato tre volte.

Renoir               Prova del Molière. Tutte le volte che in scena si recita Molière gli attori,  in  qualunque parte del teatro si trovino, lo sentono e arrivano. L'ho   osservato   spesso,   perfino   in  strada.   Molière penetra in ogni palco, fa vibrare ogni fibra.

Boverio             Credo   che  stiano aspettando Jouvet.

Renoir              Vedrai come l'aspettano quando sapranno che c'è Molière. Boverio, tu sai già che commedia scegliere, no?

Boverio             È   ovvio. L'esordio dell'« Impromptu de Versailles ».  Sembra fatto apposta.

Renoir              Quando senti questo richiamo d'oltre­tomba non hai anche tu un'impressione... come se tutti gli attori del mondo stessero arrivando, come se fossero già arrivati?

Boverio            Si può sempre provare.

Marta               Noi vi risponderemo.

Renoir               (declamando)   « Suvvia, signori e signore, smettete di celiare con queste lungaggini. Non vor­reste venir tutti qui! La peste vi colga! Olà! signor de Brécourt! ».

Boverio             (rispondendo)   « Che? ».

Marta               Brécourt assente.

Renoir              « Signor de La Grange! ».

Boverio            « Che c'è? ». Il signor de La Grange se ne infischia!

Renoir              « Signorina Béjart! ».

Marta               Beh! La signorina Béjart è al cinema­tografo.

Renoir              Non preoccuparti, verrà. « Credo che diventerò pazzo con gente simile ». Oh! Perbacco signori! Ma volete proprio farmi arrabbiare oggi?

Boverio            La Champmeslé, Talma, Rachel e nessun altro.

Renoir              Li sento. « Ah! Che animali difficili sono questi attori! ».

Adam                 (entrando e recitando)   « Ebbene, eccoci qui! Che intendete fare? ».

Renoir              Mi congratulo per la sciarpa, Adam.

Castel               (entrando e recitando)   « Quali sono i vostri progetti! ».

Renoir              « Buongiorno, Castel ».

Dasté                 (entrando e recitando)   « Di che si tratta! ».

Renoir              Salve, Dasté. « Di grazia, mettiamoci qui, e poiché siamo già tutti vestiti e il Re non verrà prima di due ore, approfittiamo di codesto tempo per ripetere le parti e studiare la miglior maniera di recitarle ».

Raymone           (entrando e recitando)   « Come possiamo recitare ciò che non sappiamo! ».

Renoir              Un po' di raucedine, Raymone!

La piccola Vera      (entrando e recitando)   « Quanto a me vi assicuro che del mio personaggio non ricordo neppure una battuta ».

Dasté                Ma brava Vera! Sai già Molière a memoria!

La piccola Vera      Solo questo, so. So a memoria soltanto Molière, Racine, Corneille, Beaumarchais e Musset, ma li so bene!

Raymone           Maddalena  è dalla sarta.  Ma arriva subito.  

(Entrano  pure  Bogar e  Saint-Ysles).

Renoir              E così ci siamo tutti! Siete pronti, ragazzi! Cominciamo.

Dasté                 (sedendosi)   Un momento, Renoir, un momento!

Renoir              Sembri fuori di te, Dasté. Di che cosa stavate discutendo sulla scala!

Adam                Non discutevamo. Eravamo perfettamente d'accordo.

Dasté                Ne abbiamo abbastanza. È uno scandalo.

Castel              Perché non diciamo loro quel che si meri­tano una volta per tutte, Renoir!

Renoir              Ma a chi! Con chi ce l'avete!

Dasté                Coi nemici del teatro.

Raymone          Con gli amici del teatro.

Dasté                Se solo avessi un po' di talento, se sapessi scrivere come Bouquet, avrei messo le cose a posto io  da un pezzo.  Mentre  lui,  invece  quando ha un minuto di tempo, suona il flauto.

Boverio            Eppure il pubblico s'interessa del teatro, visto che ci viene. Bisognerà bene che un giorno o l'altro impari che cos'è. Ma non tocca a noi raccon­targli la nostra piccola storia.

Castel              Non servirebbe a nulla.

Adam                Non vi ci vedo a interrompere la rappresentazione e, facendovi alla ribalta, dirgli: «Mio povero pubblico, gli autori ti trascurano, i critici ti accecano, i capocomici ti imbrogliano. Non hai che un vero amico: l'attore! ».

Saint-Ysles     Sembrerebbe una presunzione.

Dasté                Con le loro storie di regìa, per esempio, ti fanno vedere lucciole per lanterne.  E tu non ci capisci più  nulla!

Adam                La conosciamo, la regia! È cosi semplice! È una commedia in cui tutto diventa un'eco della nostra voce, una scena su cui tutto è solido e facile per i nostri piedi.

Castel              La regìa consiste nel gettare una piazzola di cemento per la commedia come se fosse un can­none. E poi, fuoco!

Renoir              Sentite, ragazzi, non vi pare che se faces­simo per benino le nostre prove sarebbe una piccola risposta anche questa ?

Adam                E il loro realismo! Il loro populismo! Manca soltanto che si ricominci il teatro libero!

Dasté                 Era così bello il teatro libero! Si diceva: « Sono le cinque » e c'era un vero pendolo che suonava le cinque. Neppure il pendolo era libero!

Raymone          Quando il pendolo suona le centodue, allora sì che il teatro comincia ad essere teatro.

Renoir               Mio padre, quando aveva otto anni, venne condotto al « Gymnase ». Sulla scena c'era un vero pianoforte. Bene: urlò talmente per la delusione che lo dovettero portar fuori dal teatro. Non ci è tornato mai più.

La piccola Vera      Il teatro è di una semplicità infantile. È l'essere reale nell'irreale. Se volete lo dirò io, questa sera.

Renoir              Tu fila a recitare la tua scena con Andromaca. Silenzio, ragazzi.  E tu, Adam, dove vai?

Adam                Volevo solo togliermi dalla corrente.

Raymone          Se hai paura delle correnti d'aria perché hai fatto l'attore?

Adam                Fuori, calma assoluta. Il cliente di un bar all'aperto che va a telefonare dimenticando sul vas­soio una cartina per sigarette, quando torna la ritrova al suo posto: qui sembra di essere su di un veliero al largo di Ouessant.

Raymone          Vieni in sala con me.

Adam                Neppure per sogno! In sala non c'è che la poltrona  numero ottant’otto  che  non  sia  in   mezzo alle correnti d'aria, e Barrot, naturalmente, ci piazza il leggio per la  prova.

Renoir              Dasté e V'era, volete cominciare, sì o no?

Dasté                E con tutti quei problemi che sollevano ad ogni piè sospinto, da quello delle maschere a quello del palcoscenico girevole, per passare a quello del teatro sovvenzionato e del ciclorama, come volete che quei poveri diavoli non perdano la testa? Si intorbida la vasca per prendere il pesce.

Adam                Dasté cara, la tua indignazione è sacrosanta ma non ti sembra un po'... confusa?

Dasté                Si capisce che è confusa! Ed è appunto per questo che sarei riconoscente a chi me la chia­risse. Non meriterebbe di essere abbracciato colui che liquidasse una volta per tutte questi pasticci, questi sofismi, questi egoismi che guastano il mestiere, che falsano  i  rapporti  fra  pubblico e teatro?

La piccola Vera     Anch'io lo abbraccerei volentieri.

Castel              E io anche.

Bogar               Ci deve pur essere un modo per dire la verità!

Renoir              C'è. O, piuttosto, c'era. E incomparabile.

Adam                La lettera anonima?

Renoir              No: tutto il contrario: il teatro.

Marta                (tornando)   Il signor Jouvet manda a dire che si cominci senza di lui. Tranne tu, Raymone. Va' da lui. Vuole pennellarti subito la gola... E dice che non insistiate tanto, come s'è fatto fin qui, sulle parole « culo di scimmia »...  E che se l'usciere del signor Deval continua a voler entrare, gli si rompa il muso.

Adam                Oggi noi non siamo di un umore tale da non insistere sulle  parole  « culo  di scimmia ».

La piccola  Vera     (interrompendosi improvvisamente, agghiacciata)   Io non provo più. C'è qualcuno in sala.

Renoir              Dove?

Dasté                Laggiù. Sta entrando.

(Movimento tra gli attori).

Renoir              Chi siete, signore?

Adam                Chiudete la porta, almeno!

Bogar               Viene da questa parte!

Renoir              Che cosa fate lì?

Adam                Che fegato! entra dalle quinte.

Renoir              Attento! Corri a dargli una mano, Castel. Quello sta per cadere nel pozzo di Elettra.

(Rumore di caduta).

Castel              È fatta.

Renoir              Fa luce, Marta. Andrà a sbattere contro la trave del castello di Cartes. 

(Rumore sordo).

Marta               Troppo tardi.

Adam                Non si sente più niente. Dev'essere morto.

La piccola Vera      Se era l'usciere, tanto meglio. Dal rumore sembrava proprio una frattura cranica.

Renoir              Siete morto, signore?

(Suoni indistinti)

Che cosa dice?

Adam                Dice che è vivo, mi pare.

La piccola Vera     Eccolo.

SCENA SECONDA

Robineau          Signore, i miei omaggi! Le mie scuse, signori!

Renoir              Bisogna che ve ne andiate, signore.

Robineau           Il signor Jouvet, se non sbaglio. Porto gli occhiali, ma ho una  memoria infallibile per i volti.

Renoir              No.  Sono il signor  Renoir. Deploro gli incidenti che vi sono occorsi, signore, ma la regola...

Robineau          Ma  io ne sono felice, signore. Sarebbe stata per me una delusione arrivare fino a questo palcoscenico - che venero - senza avventure.

Renoir              In tal caso, signore, me ne rallegro anche io, ma la regola...

Robineau           Sono contento di sapere, signore, che questo regno incantato ha trappole per difendersi, trabocchetti per isolarsi, e pur tuttavia non riesce ad arrestare lo straniero.

Renoir              Infatti, signore.

Robineau          Io sono uno dei vostri fedeli e finora erano ali quelle che mi portavano qui, o forse angeli custodi sotto le spoglie delle vostre deliziose maschere. Ma preferisco di gran lunga, sia pure con grave danno della mia fronte e del mio petto, questa marcia al Santo Graal che mi conduce a calcare il sacro palchetto... Perché è palchetto, non è vero?

Adam                Sì: tavole, signore. Sono tavole di legno.

Robineau          Tavole! Nome meraviglioso! L'ultimo angolo di Francia dove vengono ancora a posarsi, scendendo dal cielo, i sandali e i coturni. Che cosa sono gli altri campi d'atterraggio paragonati a questo? Io le posso toccare, signore. Ritengo di averne il diritto, visto che le ho baciate un momento fa. Sem­bra la tolda di una nave; ma d'altronde tutto, su questo palcoscenico, ha l'apparenza di una nave. E vero che impiegate gabbieri a riposo per mano­vrare lassù, tra quelle sartie? Una nave approdata alla banchina della realtà e della città; e quando recitate, voi ritirate questa scala, levate l'ancora, signore, e navigate.

Renoir              Navighiamo, sì, ma senza clandestini. Che cosa volete?

Robineau          Voglio vedere il signor Jouvet.

Marta               Avete un appuntamento?

Robineau          A dire la verità, le funzioni di cui sono attualmente rivestito mi permettono di presentarmi senza appuntamento.

Adam                Siete l'usciere  del  proprietario!

Robineau           L'usciere del proprietario? Al contrario, signore, al contrario! Anzi, può darsi che io porti dei milioni al signor Jouvet.

Dasté                È pazzo.

La piccola Vera     Sono lì, in quella borsa, i milioni?

Robineau          Ci sono e non ci sono. Questo dipenderà dal signor Jouvet, signorina... Signorina Ozeray, se non sbaglio? Siete giovane nella vita come lo siete sulla scena, signorina.

La piccola Vera     Io sono Vera, signore, e ho dodici anni.

Robineau          Dodici anni! L'età di Giulietta, tre anni prima che ne avesse quindici! Tutti i miei auguri, signorina Vera! Non si fanno mai abbastanza auguri alle bambine di dodici anni.

Renoir              Volete scusarci, signore? Noi dovremmo provare...

Robineau          Per carità! Non aprirò più bocca. (Si appoggia ad uno dei rosai della « Scuola delle mogli »)  È uno dei rosai di « La scuola delle mogli », non è vero? Bell'accessorio. Ben scelto!... Sono sicuro che Molière amava i fiori semplici e che mandano un buon  profumo.

La piccola Vera     Non come Baudelaire.

Robineau          Conoscete già Baudelaire, bambina! E vi si può chiedere che cosa contate di fare nella vita?

Dasté                Vera! Ti sto aspettando!

La piccola Vera      Papà vorrebbe che diventassi un'altra Réjane, e la mamma che finissi gli studi. Secondo voi, che cosa dovrei scegliere?

Robineau          Beh, sono cose molto diverse. Se diven­terete un'altra Réjane, sarete celebre nel mondo intero, farete piangere mille persone tutte in una volta, andrete  al « Bosco » in  una  carrozza  tirata da mule bianche e perfino i re vi scriveranno.

Raymone          Il bello,  mia piccola Vera, è di far piangere una persona sola. Ma farla piangere tanto... Una persona che si ama molto...

La piccola Vera     E se prendo la licenza liceale?

Dasté                Vera!

La piccola Vera     Vengo!

Robineau          Se prendete la licenza liceale? Sarete sapiente. Saprete che lo stomaco somiglia ad un vecchio calzino e la ragione per la quale Luigi XVI è stato ghigliottinato. Saprete vincere le guerre. Il generale Joffre aveva preso la licenza liceale. Sa­prete scrivere dei libri. I nostri più grandi scrittori, da André Gide a Paul Claudel, hanno preso la licenza liceale.

La piccola Vera     Io confondo sempre cosciotto di montone e coscia di vitello.

Robineau          Appunto. Loro, mai.

Adam                Ecco Jouvet!

SCENA TERZA

Jouvet              Buongiorno, ragazzi... Pronto, Léon?

Léon                  Sì, signor Jouvet.

Robineau          I miei rispetti, signore.

Jouvet              Servitor vostro, signore... Teresa, vammi a prendere il collutorio per pennellare Raymone.

Robineau           (avvicinandosi)   Mi hanno fatto salire in palcoscenico.

Jouvet              Hanno fatto male, signore... Hai finito, Léon?

Léon                  Finito. Ci abbiamo passata la notte. Dieci colonne di dodici metri nel cortile e l'arco di trionfo nel giardino.

Jouvet              Bravo! Molto bene! Ma ora che ci penso credo che sia meglio mettere le colonne nel giardino e l'arco nel cortile. Del resto, gli archi di trionfo non mi dicono niente, di mattina. E poi mi devi fare una piramide. Ma bella, alta. Una vera pira­mide. Fatti dare le dimensioni da Castel, che è stato in Egitto.

Léon                  Sta bene, sarà per quest'altra notte. La botola da cui far salire Iris è pronta, signor Jouvet; ma non è stato facile. Abbiamo dovuto segare due tavole e mettere un pilone di sostegno. Ma adesso va...

Jouvet              Bravo! molto bene! Però, credo che la faremo scendere dal cielo. Per Iris è più dignitoso. E mi devi montare una gloria, ma che sia bella, con i cuscinetti a sfere. Sotto con la gloria, Léon!

Léon                  Bene.

(Jouvet urta involontariamente Robineau).

Robineau          Devo spostarmi, signore?

Jouvet            Sì, signore... Sotto coi tuoi riflettori nuovi, Marquaire!

Marquaire       Subito, signor Jouvet.

Jouvet              Hai gli incassi degli altri teatri, Marta?

Marta                (presentando  l'elenco  degli  incassi)   Sup­pergiù cattivi come il nostro, sebbene piovesse.

Jouvet              Oh! La pioggia non basta. Sono molto delicate le « matinées » delle domeniche estive. Più complicate della maionese.

Bogar               Bisogna che piova tutto il giorno.

Jouvet              No, non è così semplice.  Bisogna anzi­tutto che al mattino il cielo sia grigio. L'uomo è stupido: se la domenica mattina, quando apre la finestra, ha il sole negli occhi, non gli passa neppure per il capo che alle due, quando sarà in aperta cam­pagna, può piovere, alle tre far temporale, che alle quattro il fulmine può cadere sull'albero che lo ripara, e che alle cinque può pigliar fuoco la capanna che è riuscito a raggiungere rovinandosi nella pioggia abiti e scarpe. No. L'uomo è un asino. Noi gli offriamo qui un posto dove non rischia di gelarsi i piedi, né di morire affogato o carbonizzato, né d'essere inse­guito da un toro o tormentato dalle formiche rosse... A proposito, Marta, ti avverto che in sala c'è una pulce; ho avuto delle lamentele... Niente! Basta che il sole gli accechi gli occhi al risveglio perché l'uomo sfidi tutti questi pericoli. L'unico aiuto è il tempo­rale delle undici e cinque, l'ora in cui il padre di famiglia tira fuori la macchina. Se non ha messoil cappello nel vano tentativo di farsi passare per un giovanotto se la prende tutta. E allora, ti assicuro che gli passa la voglia di andare a vedere il Petit-Morin o le rovine druidiche di Bièvres.

Renoir              Niente affatto. Se il cielo all'una si rasse­rena partono lo stesso.

Jouvet              Appunto per questo è assolutamente necessario un secondo temporale verso l'una e dieci.

Adam                Ma non si può mica pretendere che faccia brutto tutte le domeniche.

Jouvet              Ma io non chiedo mica che faccia brutto tutta la domenica! Chiedo solo un temporale alle undici e cinque e un secondo temporale all'una e dieci. È il meno che si possa pretendere! Dopo, il sole può scoppiare, il termometro bollire, i cani possono arrostire al sole, io me ne infischio: il mio pubblico ce l'ho.

Marquaire       I riflettori sono pronti, signor Jouvet!

Jouvet              Comincia con l'azzurro... Non v'importa, signore, d'essere colorato in azzurro per un attimo?

(Tutti  i riflettori vengono diretti su Robineau).

Robineau          Molto onorato.

Jouvet              Rosso,  Marquaire.

Adam                È più caldo,  no?

Robineau          Solo un iniziato potrebbe notare la diffe­renza.

Jouvet              Giallo, Marquaire. Vediamo un po' come sta il giallo al signore.

Adam                Siete meraviglioso, signore. Evidentemente, il vostro colore è il giallo.

Robineau          È il colore dell'università alla quale ho avuto l'onore di appartenere.

Jouvet              Un po' d'argento, adesso, per annientare completamente il signore. E adesso che vi conosciamo sotto tutti gli aspetti, signore, sparite!

Robineau          Signor Jouvet...

Jouvet              Dite a quelli che vi mandano che noi c'infischiamo di loro.

Robineau          Signor Jouvet...

Jouvet              Che il teatro è degli attori, non degli sfruttatori.

Robineau           Voi vi sbagliate,  signor Jouvet...

Jouvet              Io non mi sbaglio mai.  E che l'ultimo dei saltimbanchi è un modello di umanità rispetto alla razza di cui voi ci fornite un sì triste esemplare.

Robineau          Voi confondete, signor Jouvet...

Jouvet              Io non confondo mai.  E dite a quello che vi manda...

Robineau           Ma  non  è  « quello », signor Jouvet. È « quella »! È la Repubblica!

Dasté                L'ho detto! È pazzo.

Robineau          Non avrei mai osato varcare le soglie del teatro se non fossi stato mandato dalla Repubblica. Sono Jules Robineau, signor Jouvet, ex professore di belle lettere, ex deputato, ex capo partito!

Adam                Azzurro-bianco-rosso,  Marquaire!

Robineau          Stamattina, in commissione, la Camera mi ha nominato all'unanimità suo commissario al bi­lancio dei teatri.

Jouvet              Le mie congratulazioni.

Robineau          Siccome un'imprevista eccedenza d'im­poste ha lasciata libera una nomina notevolissima, m'è venuta l'idea di proporre alla Camera di devolverla interamente al teatro... Questa somma è di cento milioni.

Jouvet              Ma prego, accomodatevi.

Robineau          Poi, rendendomi conto d'essere un pro­fano, mi son detto che avevo una sola risorsa. « Va' da  Jouvet - mi son detto, utilizzando il  monologo d'invocazione nel mio primo slancio teatrale  - il suo appoggio è assicurato  agli sconosciuti ».

Jouvet              Difatti, l'avete visto voi stesso.

Robineau          « E poiché il tuo rapporto dev'essere pronto domani, domandagli di spiegarti in un quarto d'ora il teatro, i suoi segreti, le sue glorie e le sue piaghe ».

Renoir              In un quarto d'ora?

Robineau          Lo so. Lo so che sono ridicolo. Sono come Madame de Staël che, a Weimar, chiedeva a Fichte, nel vano di una finestra, di spiegarle il sistema filosofico ch'egli aveva passato quarant'anni a costruire, e dopo due minuti lo interrompeva dicendogli che aveva capito tutto.

Jouvet              No! no! Si possono dire molte cose  in un quarto d'ora! Rimanete,  ragazzi... Il miglior contorno per questa scena sono senza dubbio gli attori. Fate una piccola prova all'italiana là nel giardino. E rispondete pure voi quando toccherà a me. Sono tutt'orecchi signore.

Robineau          Signor Jouvet, come capita alla mag­gioranza dei francesi, le mie vedute sul teatro mi vengono dai critici  drammatici. Non vi dispiace se c'intendiamo innanzitutto sui critici?

Jouvet                Volevo appunto pregarvene.

Robineau          Credo che non abbiate a lamentarvi di loro...

Jouvet              No, sono degli angeli.

Robineau          Tutti sanno che vi adorano.

Jouvet              Certuni mi abbracciano fino a strangolarmi.

Robineau          Non vorrete negare che vi sostengono senza esitazioni...

Jouvet               Giungono addirittura a fare il saldo del mio conto in banca ad ogni fine mese. Robineau Che storia mi raccontate!?

Jouvet              Un sogno che ho fatto. Un sogno. Un giorno di  fine mese,  quando io e altri capocomici miei amici cercavamo affannosamente mecenati veri o falsi, elemosinando per pagare un anticipo ai nostri attori, ho sognato che dovevamo semplicemente passare in banca: i critici avevano pagato il nostro passivo.

Adam                Che bravi!

Jouvet              Me ne stupii perfino in sogno. Mi dicevo: « Come mai i critici, che hanno tante spese, che vengono a teatro superbamente vestiti e in guanti bianchi per dar lustro allo spettacolo, che comprano senza posa le edizioni del teatro classico e moderno, antico e straniero, che afferrano la prima occasione che si presenti per offrire in premio alle scuole o al conservatorio il "Teatro da una poltrona" o ' Il paradosso sull'attore comico ", che con le loro sotto­scrizioni assicurano un'esistenza senza scosse alle imprese disinteressate, tipo Chimère, Sorbonne, o Petit-Scène, che dànno tanti splendidi ricevimenti in onore degli attori e dei critici teatrali stranieri di passaggio a Parigi di cui ognuno serba eterno ricordo, che insomma, adempiono strettamente la loro mis­sione di critica drammatica, come mai, mi dicevo, possono pescare nella loro borsa ancora tanti quat­trini da pagare le mie passività? ».

Robineau           Già!  Come mai?

Jouvet              « Tanto più - continuavo a ragionare in sogno - che non ci sono mica obbligati. Evidente­mente si devono sentire un po' responsabili. Se la scena francese per decine d'anni non è stata che un asilo di marionette e di gigioni, se la lingua drammatica non è andata più in là del dialetto, se il teatro è stato gravemente colpito nella sua nobiltà, che è il verbo, e nel suo onore, che è la verità, essi ne sono evidente­mente i primi responsabili. La corporazione che ha fatto di Bataille un milionario, e di Becque un man­cato, che va in delirio per « La parola di Cambronne » e che sbadiglia per Claudel, deve senza dubbio sen­tirsi in cuore, qualche volta, un debito lancinante verso il teatro. Ma di lì, a sborsare una parte dello stipendio per pagare i miei debiti, ne corre! ».

Robineau          Difatti è una cosa che nessuno fa, in nessun campo.

Renoir              I nostri critici d'arte, ai quali dobbiamo il Grand Palais e le statue dei nostri marescialli, non si sono mai sognati di pagare le minima inden­nità ai fratelli Perret ed a Maillol.

Robineau          Ma allora perché? Ve l'hanno detto nel vostro sogno?

Jouvet              Me l'hanno detto.

Robineau          Sono tutt'orecchi.

Jouvet              Mi hanno detto: « Caro Jouvet, critica e giustizia sono sorelle. Critici siamo, giusti saremo. Se la critica francese è ora quella che è, stimata, apprezzata, considerata, è perché Copeau, Dullin, Pitoeff, Rocher, Baty, e voi, avete rimesso il teatro francese in carreggiata. No, no, non protestate - m'hanno detto. - Le penne di questi uccelli parlanti che sono i critici acquistano splendore solo se il cielo teatrale è limpido e il clima propizio. Che le belle commedie abbiano o no successo, questa è una que­stione secondaria, e poco importa alla critica: purché ve ne siano. Perché non dovete credere che i fiaschi ci danneggino. Mentre un generale francese torce il naso se si parla di Waterloo o di Azincourt, noi critici sorridiamo lusingati al nome di            « Pedra » dell'« Arlesiana » della « Parigina ». L'enormità dei disastri che noi provochiamo, purché siano immeritati, ci dà lustro. Questo è così vero che al vaglio dei secoli non passano che i nomi delle belle commedie e dei cattivi critici, de « La scuola delle mogli » e di Boursault, di « Chatterton » e di Gustave Blanche, mentre i nomi delle brutte commedie e dei buoni critici scompaiono fatalmente per l'eternità. Perciò non crediate che noi aspettiamo la gloria solo dai vostri successi e che sistematicamente approveremo tutto quello che fate. Forti d'altronde della certezza che il male che potremo dire delle vostre commedie belle, sarà sempre largamente compensato dal bene che diremo di quelle brutte, noi continueremo a trattare su di un piede di parità il vostro repertorio e quello dei vostri colleghi meno disinteressati. È un diritto che acquistiamo all'ingresso, gratuita­mente. Ma non vogliamo che abbiate a soffrire dei vostri tentativi falliti, e poiché sappiamo che li avete fatti in buona fede, come pure sappiamo che, sebbene prematuri o disordinati, finiranno per essere portati alla gran massa del teatro ed a giovare tanto ad esso che a noi, abbiamo deciso in seduta solenne di fare una colletta per evitare la vostra rovina. Questa è una cosa che sentiamo di dovervi ».

Robineau          Ma sarebbero delle spese enormi!

Renoir              Solo per « Tripes d'or » e per « Giuditta » dovrebbero sborsare trecentomila franchi1.

 Adam               Il teatro, o lo si ama o non lo si ama. Loro lo amano.

Jouvet              È proprio quello che mi hanno detto. E allora, io mi sono svegliato.

Robineau          Il vostro sogno ha qualcosa di amaro, signor Jouvet!  Avete per caso litigato coi critici?

Jouvet              Tra i critici e me non c'è il minimo dis­senso. Tra il teatro e i critici, forse.

Robineau          Grave?

Jouvet              Non ne vedo di più gravi per il paese, comprese la suddivisione del latifondo e la svaluta­zione. Conduce d'altronde allo stesso pericolo.

Robineau          Quale pericolo?

Jouvet              All'avvilimento.

Robineau          Del teatro?

Jouvet              Del teatro.  Vale a dire dell'immagina­zione, della lingua. Vale a dire del paese.

Robineau           Non avrei proprio mai creduto che i critici fossero vostri nemici giurati.

Jouvet               Distinguiamo, signor  Robineau, distin­guiamo! Ci sono critici e critici. Anzitutto quelli che pensano del teatro ciò che ne penso io: sono i miei amici, i miei fratelli; sono i buoni critici.

Robineau          E ci sono quelli che non pensano come voi?

Jouvet              Sì. E sono i cattivi critici.

Robineau          E io che credevo  il corpo  dei critici tanto onorevole nell'insieme!

Jouvet              E infatti lo è. Questo è il guaio. È colto, sensibile, onesto. È un'élite colta, sensibile, onesta che danneggia il teatro. Come d'altronde la Francia. La Francia muore per colpa di questi cenacoli colti, sensibili, onesti che rifiutano Claudel all'Accademia, lasciano che Renault installi le sue officine nelle isole di Meudon, fanno di tutto per aggravare i malintesi tra il paese ed i suoi maestri, siano essi architetti, istitutori o preti.

Robineau          Ma com'è possibile che i critici non amino il teatro?

Jouvet              Ma lo adorano! Gli sacrificano serate e pranzi in famiglia. Vanno a teatro nonostante raffreddori e reumatismi, sotto la pioggia, i fulmini, la grandine. La sera della prima, aprendosi digni­tosamente un varco tra la folla aggressiva e rumorosa, appariscente e meschina, un corteo di cinquanta scrittori calmi, generosi, imparziali, dotati di vera cultura, di estro poetico, di divinazione, passa le porte del teatro: è la critica che entra.

Robineau          Mi fa piacere di vedervi cosi imparziale.

Jouvet              Lasciatemi finire. E la serata giunge al termine. È stato un successo. La folla si scioglie lentamente: commossa, fremente, come rinnovata. Quando, all'improvviso, si sente investire da una coorte di cinquanta scrittori lanciati verso il guar­daroba e l'uscita, stanchi, abbattuti, ridiventati brontoloni, senza opinione, senza gusto, sviati, astiosi, qualcuno perfino annoiato: è la critica che esce.

Robineau          Qualunque sia la commedia?

Adam                Pare che dalle commedie in cui una donna bianca mette al mondo un piccolo negro escano giubilanti.

Robineau          Ma che cosa è successo? Che cosa gli è mancato?

Bogar               Ciò di cui l'autore era pieno, signor Robineau. Ciò di cui gli attori traboccavano. Ciò che in loggione sconvolgeva lo studente, ciò che incollava le inser­vienti alle fessure dei palchi per sentire e vedere un po' della nuova commedia. L'amore.

Robineau          Ma se dite che entrando l'avevano!

Jouvet              Non parlo dell'amore del teatro. Parlo dell'amore. L'amore degli uomini, degli animali, delle piante. Spente le luci, tutto questo pubblico si fonde e si raccoglie nell'ombra per perdersi, per darsi, per abbandonarsi. Sente improvvisamente il sorriso ad un centimetro dalle labbra, le lacrime dagli occhi, l'angoscia dal cuore. Insomma: ama. Ma ama senza egoismo, senza piccineria. Immobile, illanguidito, ama come Dio può amare quando gli è dato di seguire da uno squarcio apertosi all'improv­viso tra le nubi il dramma di qualche creatura mise­rabile o magnifica. Un dio paralizzato, impotente, forse diverso da quello vero, ma che, come il vero, si sente pieno di pietà, e di riconoscenza per questi esseri fraterni o filiali che stasera accettano di buon grado di soffrire, di vivere e di morire al posto suo. È un'ora d'eternità, l'ora teatrale! I critici al con­trario, all'aprirsi del sipario, si sono irrigiditi, isolati per scrupolo, per una diffidenza verso se stessi che è diventata diffidenza verso lo spettacolo; credono di essere come giurati incaricati di condannare o di assolvere: non si trovano davanti a personaggi, ma davanti ad una commedia ch'essi hanno la missione di pesare e di misurare e che turbina nel loro cervello gonfiato di capolavori. E, tuttavia, Cygne de Coufontaine è pronta a vivere questa sera per Georges le Cardonnel, Elettra a darsi ad Andrea Bellesort. Essi lo vietano. Gelosi di Racine, meticolosi per Molière, sdegnosi di De Musset, attingono a quelle fonti di luce e di bontà nient'altro che miopia e stizza, e ogni volte che dallo spettacolo nasce una verità nuova, o una nuova gioia, o una nuova gloria, o una nuova angoscia che fa accapponare la pelle perfino alle cariatidi di stucco, essi, che all'entrata erano i più inclini a favorire questa nascita, sono all'uscita i soli a non comprenderla.

Boverio            Hai ragione, Jouvet. Il male è che credono che ci siano commedie, quando non ci sono che autori.

Renoir              Bisogna dire, però, che anche il critico è da compatire. È un inquilino ambulante. Ogni sera lo  si sfratta da un nuovo alloggio prima ancora che abbia  potuto scoprire dove siano l'acqua e il gas, tanto che, trovandosi  imbarazzato nei palazzi per il loro lusso complicato, il personale nuovo o nelle ville moderne, finisce per apprezzare soltanto quelle casupole senza storia, dove funzionano i soliti rubi­netti di spirito e sensibilità, e dove ci si toglie benis­simo d'impaccio con  una donna di servizio. Tutte le volte che vedo in periferia una villetta che  si chiama « Il mio sogno » oppure « Questo mi basta », m'inchino. E la casa della critica.

Robineau          Andiamo, signor Jouvet! I critici hanno fatto tanto per voi! tanto per i vostri autori! Jouvet Ma sì! ma sì! hanno fatto moltissimo per il buon teatro. Ma non hanno fatto abbastanza contro il cattivo.

Robineau          E voi sareste più lusingato dal male che potrebbero dire degli altri che dal bene che dicono di voi?

Jouvet              Se volete metterla così, sì.

Robineau          Voi non pensate che i critici rappresentano il pubblico?

Jouvet              Sarebbe a dire?

Robineau          Dico che il nostro pubblico, purtroppo, è facilone, ama la facilità.

Jouvet              Ecco che anche voi parlate come loro. Siete mai stato ad Orango, signor Robineau?

Robineau            Ad Orange?

Jouvet              Ad Orange. A Bussang. A Saintes. Non avete mai visto un pubblico di contadini, di vignaioli, di piccoli bottegai assistere alle « Erinni » o all'« Orazio »?

Robineau Ma questo succede ad Orange, a Saintes.

Jouvet              Capisco. Voi pensate che soltanto l'aria libera ridona al pubblico la sua nobiltà originale e che tra quattro pareti i francesi ricadono nella vol­garità, non è vero?

Robineau          Io penso che quelle sono oasi privile­giate nelle quali l'entusiasmo ha conservato il ris­petto al teatro.

Renoir              Ma mentre voi non vedete il mezzo per trasformare tutti i teatri degni di tal nome in queste specie di oasi, noi ne conosciamo uno, invece.

Robineau          Che gli   spettatori entrino  in teatro con rispetto e comprensione?

Jouvet              No. Che i capocomici trattino con com­prensione e rispetto gli spettatori.

Robineau          Che le maschere nei corridoi stiano zitte, che le poltrone siano comode, che i guardaroba siano accessibili anche alle classi medie.

Jouvet              Che si offrano allo spettatore delle comme­die scritte in francese.

Robineau          Ah! Finalmente ci sono! Voi difendete contro i critici la causa del teatro letterario.

(Mormorio tra gli spettatori).

Jouvet              Disgraziato! Non adoperate quella parola!

Robineau          Che cosa ho detto di tanto spaventoso?

Jouvet              Aiuto, amici!

Renoir              Caro signor Robineau, se a Parigi il pubblico ha rischiato di perdere il senso del teatro, cioè della più grande delle arti, è perché un certo numero di uomini di teatro ha avuto l'idea di rivol­gersi soltanto alla sua faciloneria, e, per conseguenza, alla sua bassezza. Si trattava di piacere coi mezzi più comuni e più vili. E siccome la lingua francese, parlata e scritta correttamente, resiste di per se stessa a questo ricatto e non obbedisce che a quelli che stima, si è allora partiti all'offensiva contro di essa e per le commedie dove non era nè insultata, né imbastardita, si è trovato un attributo che equi­vale, sembra, all'insulto peggiore, quello di commedia letteraria.

Boverio            Proprio così. Se nella vostra opera i personaggi non avviliscono la parola e lo stile, se per spiegare il proprio pensiero si servono di tutte le sfumature della nostra grammatica e della nostra lingua, se nei loro discorsi ci sono dei congiuntivi, dei futuri, dei condizionali, dei tempi, dei generi, se, insomma, hanno cortesia, volontà, delicatezza, se adoperano il monologo, il racconto, l'invocazione, se cioè sono ispirati, se vedono, se credono, subito vi sentite dire, gentilmente, ma con estremo disprezzo che non siete un uomo di teatro, ma un letterato!

Bogar               Avete un bel mettere in scena il terrore, la fatalità, le Erinni, un vero terrore, delle vere Erinni: il solo fatto che coniughiate esattamente i verbi vi tirerà addosso l'accusa di compiacimenti letterari, vi si dirà cioè che indulgete in giochi di parole, in sottigliezze da vocabolario.

Adam                Insomma, imparate per vostra norma che pur essendo aperti alla letteratura tutti i campi dell'attività in Francia, la banca, la marina mer­cantile, la borsa, la moda, ce n'è uno al quale l'entrata è preclusa: il teatro.

Dasté                Si può ancora ammettere che un capoco­mico la pensi così. Dopotutto il capocomico ammi­nistra un'azienda, deve farla fruttare e non fallire, e la parsimonia dello Stato gli impedisce di essere un educatore, una vestale o un filantropo. Ma non è ammissibile che certi critici credano che la tutela della nostra lingua sia riservata al Teatro Francese, che pur essendo scrittori, essi stessi s'irritino davanti ad una commedia scritta e non parlata, e che prima d'intentare un processo all'autore, dove d'altra parte potrebbero anche avere ragione, non si prendano l'incarico di segnalare ai lettori a che altezza si stia lavorando: e quando, vagamente coscienti del proprio errore, vi dicono, per scusarsi: « Che commedia noiosa! ma quanto ci divertiremo a leggerla! » sono giudici di se stessi, perché questa frase dà il loro vero signi­ficato agli applausi che hanno prodigato il giorno prima ad un'altra commedia: « Che commedia magni­fica! Quanto ci divertiremo a non leggerla! ».

Robineau          Capisco benissimo, ma...

Boverio            Mi volete dire che vita sarebbe quella dell'attore, signore, se non avesse la consolazione della lingua e dello stile? Costretto com'è a pro­nunciare le parole più stupide e più grossolane, a che varrebbe il suo mestiere se non dovesse pronun­ziare anche le più nobili? Dove trovare la ricompensa e la giustificazione di quelle mimiche, di quelle tossi, di quei balbettii sotto i quali ha nascosto per cento sere la povertà di un testo, se non in una parte che gli renda le modulazioni, le profondità, i silenzi del vero linguaggio, e dove non è più che la statua ani­mata della parola? Che soffietto banale sarebbero i polmoni di un attore se non inspirassero ed espiras­sero secondo il ritmo di Racine!

Robineau          Capisco benissimo, ma non vi pare che i critici proteggano in tal modo un diritto essenziale: il diritto che il pubblico ha di capire?

Castel              E se non capisce, spieghino! Questa po­trebbe essere la loro missione.

Jouvet              Capire? La parola «capire» non esiste a teatro. La capisci tu la parola «capire », Renoir? Barrot, va a vedere dov'è andata a cacciarsi Raymone. Ha le tonsille grosse come fichi.

Renoir              È con questa parola « capire », signor Robineau, che gli pseudo letterati hanno guastato il pubblico. « Andate a sentire soltanto ciò che capite » gli ripetono da un mezzo secolo. « Andate alla " Tosca ": quando dodici carabinieri prendono a schioppettate il suo amante, voi avrete agio di capire che lo fucilano. Andate a " Les avariés ", e capirete che alla vigilia delle nozze non conviene gettare la propria vita di scapolo tra due braccia mercenarie anche se sono di velluto ». Per fortuna il vero pub­blico non capisce, subisce. Gli si può dunque mostrare tutto senza compromessi e senza reticenze. Quelli che a teatro vogliono capire sono quelli che non capiscono il teatro.

Dasté                E nella vita è lo stesso. Da quando non mi sforzo più di capire trovo che va molto meglio.

Robineau          Vorreste farmi credere che il pubblico si diverte ad una commedia che non capisce! (A Castel)  Vi prendo a testimonio, signore, voi che recitate le parti di buon senso in questa compagnia.

Bogar               Quello che Jouvet vuol dire, signore, è che il teatro non è un teorema, ma uno spettacolo; non una lezione, ma un filtro. Il teatro parla più all'immaginazione che ai sensi, allo spirito, ed è per questo, secondo me, che il dono della lingua gli è indispensabile; perché è proprio lo stile a suscitare sull'animo dello spettatore mille riflessi, mille iri­descenze ch'egli non ha bisogno di capire più di quanto non si capisca un raggio di sole riflesso da uno specchio.

Adam                Al Palays-Royal non ci andate mica per capire, signor Robineau. I riflessi della vostra alle­gria sono meccanicamente eccitati dalla comicità, e voi ridete. Perché rifiutare gli stessi diritti ai riflessi della vostra dolcezza, della vostra ambizione, della vostra tenerezza? Dal momento che siete a teatro, in un luogo, cioè, di luce incantata, di bella lingua, di  figure immaginarie, gustate  questo paesaggio, i fiori, le foreste, le altezze, i declivi dello spettacolo: tutto il resto è geologia.

Boverio            Ho conosciuto un bambino che voleva capire il caleidoscopio, e così s'è privato di tutte le gioie del caleidoscopio. I suoi compagni con quel gingillo capivano che c'è il rosso, l'azzurro, l'arco­baleno, le nubi, i bastoni di fuoco, l'inferno, la voluttà, la morte. Lui non capiva nulla. E ruppe il suo gio­cattolo.

Robineau          Non è la stessa cosa.

Jouvet              È la stessa cosa. E quando vedo uno spettatore in poltrona che strabuzza gli occhi, tende l'orecchio, che, congestionato, si domanda « Che cosa avrà voluto dire? », che cerca di trovare un senso in ogni nostro gesto, in ogni nostra intonazione, in ogni diversa tonalità, in ogni nostro atteggiamento, mi vien voglia di venire alla ribalta e gridargli: « Non datevi tanta pena, caro signore, non avrete che da aspettare e lo saprete domani ».

Robineau          Domani?

Jouvet              Dormirete e lo saprete. È proprio quello che i critici dovrebbero dirvi: « Se domani al risveglio vi sentirete la testa pesante, se l'idea di lavorare vi darà la nausea, se sarete preciso, meticoloso, se non vi parrà d'essere come purificato, come risusci­tato, leggero, vuol dire che la commedia era brutta. Se al contrario vi sembrerà di avere dentro di voi una bolla di sapone, se sorriderete agli angeli, allora vuol dire che la commedia era bella. Dall'autobus, vedo qualche volta in istrada un vecchio signore grassoccio al braccio di una ragazza: essi cammi­nano con passo leggero, guardandosi negli occhi; sono certo che il giorno prima hanno visto una bella commedia. Non l'avranno forse capita. Ma, a parte la commedia, oggi capiscono tutto: il bel tempo, la vita, le foglie dei platani, le orecchie dei cavalli. Una commedia ben scritta, non c'è dubbio! Lo stile è passato sulle anime stanche della settimana di lavoro come il ferro da stiro sul bucato: ed esse sono diventate lisce...

(Entrano Madeleine Ozeray e Raymone) 

Ah, finalmente arrivi, donna Narsete!

SCENA QUARTA

Raymone          Vengo. Corro. Pare che ci sia una visita...

Renoir              Raymone, ti presento il signor Commissario generale del bilancio.

Raymone          È  molto simpatico.

Robineau          Vi ho applaudita nel « Misantropo » e nell'« Auvergnat », signorina Raymone! Eravate vera­mente affascinante.

Raymone          È anche molto audace.

Renoir              Ed ecco la signorina Ozeray.

Robineau          Fortunatissimo, signorina!

Ozeray             Felicissima, signore!

Robineau          Permettetemi di dirvi che voi interpre­tate la parte di Agnese meglio di Agnese stessa! Ozeray Ve lo permetto, signore. Non è vero, ma ve lo permetto.

Robineau          Io aspetto sempre le Agnesi al varco di: « Il gattino è morto ». Voi lo dite meravigliosamente.

Raymone          Il fatto è, signore, che si applica molto.

Robineau          Che questo capolavoro di naturalezza sia  frutto di esercizio, no, signorina, non lo posso credere. Confessate che avete un segreto.

Ozeray             Un segreto ce l'ho: penso a qualcosa.

Robineau          Oh, ma che testa! Pensate alla morte! L'adorabile personcina che siete pensa alla morte! Ecco perché riuscite a commuoverci tanto!

Ozeray             No, signore, penso a un gattino.

Robineau         È  incredibile! A un povero gattino morto?

Ozeray             Mai! Non è mica cosi semplice. Un gatto morto è un gatto morto. Tanto peggio per lui. 0 tanto meglio. Non che voglia dir male della vita, ma sapete anche voi che cos'è.

Robineau          Lo so, signorina, purtroppo lo so!... Al­lora, se capisco bene, per poter dire in quel modo miracoloso « Il gattino è morto », voi pensate a un gattino vivo?

Ozeray             No, signore, penso a un gattino malato.

Robineau          Che arte prodigiosa è il teatro! Natu­rale! Bastava che venisse in mente! Un gatto molto malato?

Ozeray             Perché molto malato? Un gattino molto malato è come se fosse morto.

Robineau          E allora ricadiamo nel caso precedente. Che sciocco che sono!

Ozeray             Provate voi stesso a dire: « Il gattino è morto » pensando ad un gatto molto malato. Vedrete che differenza! Provate per credere.

Robineau          Volete scherzare, signorina!

Ozeray             Vedrete se vogliamo scherzare! Sarà una cosa lugubre.

Robineau          Non mi vedo ripetere davanti ad una assemblea di attori famosi « Il gattino è morto ». Questa sera sì, alla commissione del bilancio, davanti ai deputati miei colleghi che saranno molto interes­sati dell'esperimento, ma non certo qui.

Jouvet              Provate lo stesso, signor Robineau.

Robineau          Tanto più che mia madre non ha mai avuto che gatti siamesi o giapponesi. Non potrei pensare che a un gatto siamese o giapponese. La mia battuta potrebbe risentirne e mancare di naturalezza.

Adam                Non vogliamo insistere.

Robineau          Ma continuate la vostra spiegazione, signorina. È appassionante.

Ozeray             Nei giorni in cui mi sento commossa, se il tramonto del sole è stato bello, se venendo in teatro ho assistito a un incidente, capirete anche voi che non ho bisogno di forzare la mia commozione. Mi basta pensare a un gattino intravisto chissà dove, al quale non sono legata personalmente, magro, spelacchiato, ma ancora vigoroso.

Robineau          E per il pubblico diventa morto! È inaudito!

Ozeray             È nei giorni in cui mi sento arida, restia, indifferente che penso ad un gatto che conosco, che lo colgo dal momento in cui comincia a rifiutare il suo pasto, a sfiancarsi e a dirigerai zoppicando verso la sua cassetta di segatura.

Robineau          Non continuate. È una cosa che stringe il cuore. E per « torta alla crema » è lo stesso? Per dare al pubblico la sensazione di torta di crema, signor Jouvet, voi pensate ad un dolce alla crema?

Jouvet              No. Detesto la torta alla crema. Penso ad un pasticcio di ciliege.

Robineau          E voi, signor Adam, a che cosa pensate durante la vostra tirata della betulla nella « Guerra di Troia » per dare al pubblico l'impressione di essere davanti ad una vera betulla! Adam Io? A un pino Douglas.

Robineau          Ma ad un pino Douglas che avete visto da piccolo, che era vicino alla vostra casa, che è stato l'albero maestro della vostra infanzia?

Adam                Sì, signore, mi ci arrampicavo.

Robineau          Spesso?

Adam                Tre volte al giorno, per dieci anni.

Robineau          Ed ecco come un pino Douglas sul quale ci si è arrampicati diecimila volte, può dare al pub­blico l'immagine esatta di una betulla inaccessibile! Berenice esiste soltanto se in essa s'incarna qualcuna che si chiama Maria o Bianca; Amleto, qualcuno che si chiama Paolo o Ferdinando. Ecco come i nostri cari attori rumeni della Comédie Française, recitando Claudel, ci fanno sorgere davanti agli occhi L'Ile-de-France, isola delle isole, perché pensano magari ad una piccola palude vicino a Costanza o ad un casino di caccia tirolese vicino a Jassy. Grazie, signorina. Grazie, signori. Per merito vostro ho capito il teatro.

Ozeray             Siete più pronto di noi, signore.

Renoir              Noi che non l'abbiamo ancora capito del tutto,  signore, vorremmo lavorare un pochino. Si sta facendo tardi. 

(Nel frattempo Jouvet si è preparato a pennellare le tonsille a Raymone).

Robineau          Purtroppo il mio rapporto esige che io faccia un'ultima domanda al signor Jouvet.

Jouvet              Vi ascolto... Smettila di aprire la bocca di sbieco,  Raymone!  Credi che abbia un pennello a gomito a mia disposizione? (La pennella).

Robineau          Perché recitate anche commedie a suc­cesso, signor Jouvet?  

(Jouvet si volta, sempre pennel­lando Raymone, tra il mormorio d'indignazione degli attori).

Jouvet              Commedie a successo?

Robineau          Non potete negarlo. Voi mettete in scena commedie a successo, che replicate cento volte, duecento volte, trecento volte!

Jouvet              Vorreste per caso che rappresentassi delle commedie a insuccesso?... Raymone, se ti muovi te lo pianto fino al manico!

Robineau          Voglio dire, signor Jouvet, che una com­pagnia la quale mette in gioco la propria esistenza soltanto un paio di volte all'anno, non dà un grande esempio di combattività. È un campionato di pesi massimi. Ogni anno Jouvet mette in scena una com­media, una Dullin, una Baty, e poi ancora... Questo non vi pone affatto al disopra di quei vostri colleghi ai quali rimproverate la sete di guadagno. Quando rappresentate una commedia che il pubblico fa a pugni per venire a vedere, addio, innovazioni, im­provvisazioni, creazioni! Voi la logorate fino all'osso. E ciò non segue davvero più il ritmo della nostra curiosità, non soddisfa più il nostro appetito teatrale. La vostra vocazione drammatica cessa al punto in cui comincia lo sfruttamento. Non vi sembra di essere un pochino fiacco, un pochino pigro di fronte al successo?

Raymone           (che soffoca)   Oh! là, là!

La piccola Vera     Dio com'è delicata la signorina!

Jouvet              Ma, caro signor Robineau, non siamo mica noi ad amare il successo, èil teatro!

Robineau          Quale teatro?

Jouvet              Questo edificio, questo locale nel quale vi trovate, questo palcoscenico, questi camerini, questi lavabi. Signor Robineau, credo di aver colle­zionato tutte le varietà d'insuccessi: con certe com­medie che l'insuccesso rendeva brutte ai nostri stessi occhi, con altre delle quali l'insuccesso - almeno per noi - dava nuova bellezza, con altre ancora che restavano tali e quali. Ho conosciuto il silenzio sotto tutti gli aspetti, la condoglianza sotto tutte le forme, la miseria in tutti i suoi perfezionamenti. L'indomani di una prima trionfale, ho avuto una replica con undici spettatori. Chiedete a Boverio. Domandammo loro se si doveva recitare; si raccolsero in prima fila, ci acclamarono alla fine, e se ne anda­rono tutti undici insieme a prendere una birra. E devo dire che i ricordi di questo passato sono per me i più cari, che non temo il ritorno di tempi come quelli, che l'ovazione di quegli undici spettatori mi attira stranamente, e che sono sempre quegli undici che io saluto, in prima fila, nei trionfi. Ma il teatro non ha la raffinatezza degli attori. Pieno, è un genio. Vuoto, è un mostro. Il teatro di giorno ha questo aspetto invitante, allegro, pittoresco, soltanto quando sa che alla sera sarà esaurito. Quando la serata sarà cattiva, è sinistro. Ogni volta che, entrando in scena davanti ad un pubblico sparpagliato, noialtri attori siamo tentati di provare un po' di gratitudine per questa sala semivuota sentiamo, per non so quale difetto di acustica, non so quale opacità delle luci, che il teatro odia questa sala semivuota e che domani ce la farà pagare molto cara. Quando si vive con un mostro lo si preferisce sorridente.

(Così dicendo ha terminato la sua operazione con Raymone).

Raymone          Ecco. Sorrido.

Jouvet               Non parlavamo  di  te...  Non capisci? Vuoi che ti pennelli anche le orecchie!

Raymone          Presto, continuate, signore.

Robineau          Ma, quest'impressione, la sentite solo voi attori?

Jouvet              Solo noi! Domandate all'autore come si sente ricevuto dal teatro quando il suo lavoro ha fatto fiasco. Dov'egli passa è la morte: questa morte che è il vuoto. Prima il vuoto della strada. Imma­ginate voi come può essere allegro l'autore che riesce a fermare la sua macchina davanti al teatro senza dover manovrare. Poi il vuoto dei corridoi. La costu­mista volta la faccia da un'altra parte: per causa sua, essa veste dei fantocci. L'elettricista lo evita: per colpa sua egli dà colore alle ombre. Per mezzo di un'operazione spaventevole, qui, dove il successo trasfigura tutto, egli restituisce la loro realtà a cose ed a persone: egli rende stucco lo stucco; cerone il cerone; attori che recitano gli attori che recitano. Il sangue s'è ritirato dall'intero edificio; a guardare la tenda scarlatta del sipario la si direbbe diventata bianca. Per conto mio, io sono gentile. Gli faccio dire che non ho tempo di riceverlo. Così durante l'intervallo non mi sorprende a far progetti col suo successore, e non lo rattristo parlandogli dell'incasso. Allora si rifugia presso gli attori, che ama e che l'amano. Ma attori e attrici non gli parlano più della commedia; parlano del giro di Francia, del padi­glione delle feste all'Esposizione, delle cure che si devono prodigare agli annegati. Hanno dimenticato. Per quanto lo riguarda hanno un'amnesia completa. « Guarda » dice Raymone « c'è X... Chiediamo a lui quel che va meglio per togliere le macchie di frutta ». E lui risponde. E consiglia la benzina migliore. Ha ragione. Non servirebbe a nulla dir loro: « Sono io che ho scritto questa magnifica commedia che reci­tate e che non ha successo; questa parte straordi­naria che voi interpretate straordinariamente e nella quale non vi si applaude, è grazie a me che l'avete ». Gli risponderebbero parlando di biscotti per cani o del movimento diplomatico. Bisognerebbe che li prendesse da parte uno per uno, da Léon il macchi­nista alla piccola Vera, e che li richiamasse in vita coi mezzi indicati prima, poveri annegati del teatro. E non è mica che ce l'abbiano con lui, ma, sempli­cemente non lo vedono più, è diventato trasparente. Non è mica che non gli vogliano rispondere, ma, semplicemente, non lo sentono più. È proprio quello che è: un fantasma.

Raymone          Non gli resta che incontrare Renoir. Renoir gli dice: « La va male. E il peggior incasso da tre anni a questa parte e il pubblico si annoia come non si è annoiato mai. Ci dev'essere qualcosa che non va, nella vostra commedia ». Allora il suo viso s'illumina. Renoir lo ha riconosciuto. Renoir sa che recita la sua commedia. E quello se ne va tutto consolato!

Adam                E anche se l'autore è un illustre defunto succede la stessa cosa. Il fantasma che alle prove era presente col suo nome, col suo genio, ridiventa uno spettro sbiadito, un fantasma.

Robineau          Ma voi, signor Jouvet, non potete mica cavar vela così!

Jouvet              Naturalmente no. Lo invito a colazione il giorno dopo. Ordino quel che mangiavamo golo­samente durante le prove: un piatto di tonno, che lui adorava. Ma ho un bel dirgli: « Beh, vecchio mio, noi il nostro dovere l'abbiamo fatto. Più di così non si poteva. Se quegli imbecilli non hanno fatto il loro questo non ci riguarda. La coscienza è in regola. Mangiamo il nostro tonno di buon appe­tito... ». So di non dire la verità. Peggio ancora, il tonno è insipido e la coscienza non è in regola. Né la sua, né la mia. Né quella dei macchinisti. Né quella della custode del teatro. Questa è la suprema ingiustizia: la responsabilità dell'insuccesso non è né del critico, né del pubblico, ma è di quelli che nel delitto non c'entrano per nulla, che hanno fatto di tutto per trasformarlo in un atto di amore, in un gesto di verità: sono l'attore e l'autore che la portano. E se è Gogol, se è De Musset. dico loro: « Dopo tutto puoi infischiartene. Tu sei Gogol, tu sei De Musset, e quelli sono un mucchio di cafoni, di becchi e di artritici ». Ma non dico la verità. Gogol e De Musset, quella sera, sono i colpevoli. Più di tante commedie che vivono ancora io amo forse quelle che hanno vissuto solo qualche giorno: ma non voglio ricordarle. Non ci si può attaccare alle farfalle.

Robineau          Preferite i pappagalli?

Jouvet              Mi piace una commedia con la quale ho passato l'inverno e la primavera, durante la quale le foglie hanno avuto il tempo di spuntare, gli uc­celli di covare. Avevo una gatta cui ero molto affe­zionato: ebbene, mentre recitavo la stessa commedia, essa ebbe tutto il tempo di nascere, di conquistarmi, di avere i suoi piccoli e di morire. Queste si chiamano commedie! E se aveste visto che gatta! Non voglio dire che se fossi un antico dragone o un arrabbiato cavallerizzo come Dullin mi piacerebbe recitare una commedia che duri quanto la vita di un cavallo. Ma, tra un'avventura e l'altra, una relazione seria non fa male.

Robineau          Già, quell'avventura di tre giorni con Shakespeare.

Jouvet              Oh, ne ho avute tante di queste avventure di tre giorni! Ne ho avute perfino di un giorno solo! E spero di averne altre. E, dentro di me, ho una decina di avventure con Molière, Calderon e com­pagni. Ma vorrei anche essere in pace col mio teatro. Se sapeste che faccia vi fa l'Athénée quando va male! Le due facce, quella di via Boudreau e quelle di via Caumartin! E soprattutto, caro signore, le com­medie di lunga vita sono quelle che conducono gli attori allo loro vera missione, alla loro vera meta, come dicono i critici.

Robineau          Che meta?

Renoir              Al pubblico.

Robineau          Ma tutto il  vero pubblico lo trovate nelle prime dieci repliche.

Renoir              Non c'è il vero pubblico: c'è il pubblico, e basta.

Robineau          Quando in sala è passata la critica, gli appassionati del teatro, gli snobs e gl'intenditori francesi e stranieri, non mi direte mica che il compito dell'attore è di ripetere un testo che non sente neanche più davanti ad un pubblico che diventa sempre meno colto ed educato ad ogni rappresentazione?

Jouvet              Bisognerà che voi veniate a trovarci una sera di duecentesima. Non è vero, Renoir?

Renoir              Caro signor Robineau, a cominciare dalla centesima replica, nel momento in cui, truccati da re o da indiani, scendiamo in palcoscenico reggendo gli strascichi sulle braccia o evitando di toccare i costumi delle nostre compagne con le cosce tinte al mallo di noce, proprio da quel momento ci doman­diamo ogni sera con angoscia crescente: « Come saranno oggi? »; e ascoltiamo il mormorio di quelli che entrano, guardiamo dagli spiragli del sipario come si siedono, come si regola la proporzione tra gallerie e poltrone, tra capigliature e calvizie. Fino alla centesima replica siamo sulla terra ferma. Anche se ogni volto di spettatore, preso a sé, ci è estraneo, conosciamo quel volto, quell'aspetto della sala. Siamo in famiglia, conosciamo questa risata della sala, questo brusio della sala, questa tosse della sala. D'altronde è raro che lo spettatore non finisca per diventare un amico. Verso la ventesima replica abbiamo un gigante, sempre lo stesso: ha finito per trovare il posto in cui da meno fastidio, all'angolo della prima fila...

Saint-Ysles     Una sera mi ha teso la mano dalla sua poltrona.

Adam                Verso la quarantesima arrivano i nostri cari amici sordi, quasi che la commedia diventasse intelligibile ai sordi a cominciare dalla quarantesima replica!

Renoir              Verso la cinquantesima veniva, fino all'anno scorso, un prete in sottana. Indovinava che quel giorno noi recitavamo un poco per lui; ci lasciava con rincrescimento, sempre l'ultimo al guardaroba, dove lo attendeva, solo, liberato dalla vicinanza degli ermellini o delle claques, un mantello da curato.

Dasté                Non lo si è più visto, quest'anno. Dev'essere morto.

Renoir              Verso la settantesima, tre allievi ufficiali...

Castel              È davvero un enigma per noi: come mai ci sono a Saint-Cyr tre cadetti che non invecchiano mai, che resteranno sempre cadetti?!

Renoir              Non vi dico poi della signora col cane muto, il solo che noi ammettiamo, né delle due graziose gemelle. Tutte queste amicizie ci divertono, ci occupano. Riuscire a recitare » Jean de la lune » in modo che piaccia ad un gigante, e adattare per un prete « La Margrave » o « Le coup du 2 décembre », è una cosa che dà al nostro lavoro uno scopo preciso...

Robineau          E alla centesima tutto si complica?

Renoir              Al contrario. Non ci sono più individui. Non ci sono che platee. Ci sono platee semplici, credule, che applaudono ogni battuta di spirito, che fremono di orrore, che scoppiano alle facezie, e proprio non si capisce perché siano così ingenue: le signore vestono con raffinatezza, gli uomini hanno visi di pensatori greci. Ci sono platee che capiscono tutto, che traggono dalla commedia degli insegnamenti che neppure noi avevamo rilevati, e proprio non si capisce perché capiscano tutto, dal momento che ne fanno parte perfino contadini in abiti da lavoro e ogni faccia che si cerca di distinguere è una faccia da idiota. Talvolta capitano delle platee distratte, incantate dalla prima parola all'ultima, che han l'aria di seguire una sciarada o di aspettare che Bouquet canti, che Castel infili un sottanino e si metta a danzare « La morte del cigno », e che alla fine si alzano senza fretta, chiedendosi perché non cominciamo, e ci guardano senza applaudire, spe­rando nella soluzione della sciarada...

Adam                E quelle sale incomprensibili, Renoir, in cui la gente pare sia venuta per le ragioni più diverse tranne quella di sentire la commedia. O per errore. 0 in attesa di prendere il treno. O per evitare un cane arrabbiato che circola in via Auber. O come fosse una riunione di congiurati che aspettano l'ora della rivolta. Quelle mi fanno paura. Mi par sempre che, ad un dato segnale, il teatro si debba vuotare di colpo.

Boverio            E ci sono le sale fortunate, le sale disgra­ziate, le sale fredde e le sale calde, le sale di assas­sini e le sale di salvatori. E noi, dal giorno in cui diventano nient'altro che facce, facce immense, facce inumane, sentiamo che comincia il nostro lavoro. Dopo aver navigato sul fiume, la commedia si cimenta infine con la marea, con le profondità, comincia veramente il suo viaggio. E quella parti­colare perfezione che acquistano improvvisamente le nostre frasi, i nostri gesti, ci fa comprendere che è. proprio verso questo pubblico senza volto, senza nome, che il nostro destino ci porta, verso questo oceano del teatro. Gli attori non sono marinai d'acqua dolce.

Jouvet              E quanto al successo, questo può bastare. E non ne andiamo mica più orgogliosi. Non crediate che sia piacevole appartenere ad una religione che non ammette né incompresi né martiri!

Marta               C'è l'usciere, signor Jouvet.

Jouvet              Buttalo fuori.

Marta               Veniva soltanto a chiedere dei biglietti di favore.

Adam                Dagli il palco 35. C'è un bel chiodo in una sedia.

Léon                  La gloria è pronta, signor Jouvet.

Robineau          La gloria?

Adam                Parola molto francese, no!

Robineau          Che intendete per gloria, in teatro?

Renoir              È un sistema precario di pulegge  che innalza uno di noi nel cielo per qualche minuto, non senza procurargli il mal di mare: poi lo lascia ricadere.

Adam                Questa è la gloria!

Jouvet              Guardatela!

Raymone          Fateci il piacere di provarla, signor Robineau. I nostri ministri dell'Aeronautica si diver­tono a provare i paracadute: provate con noi l'appa­recchio inverso.

Robineau          Accetto volentieri, signorina Raymone. Sarà un caro ricordo. Non lo si potrebbe immorta-. lare con una fotografia!

Jouvet              Porta la tua macchina, Bogar!

(Viene introdotta la gloria. La piccola Vera vi colloca Robineau).

La piccola Vera     Non avete che da tenervi diritto, a testa alta.

Robineau          Lo so, la gloria non ama le schiene curve.

La piccola Vera      Se  volete guardarvi intorno non girate la testa, girate gli occhi.

Robineau          Ma posso parlare?

(La gloria si solleva a fatica).

Jouvet              Di lassù le vostre parole saranno molto più sonore.

(Nuovo sbalzo della gloria. Robineau si alza di un metro).

Robineau          Allora, parto! Signor Jouvet, signore e signori, prima di lasciarvi... Dite, non c'è mica pericolo!

Renoir               Nessunissimo. Un giorno ci abbiamo dimenticata Marta,  che faceva la parte di Iris: il mattino dopo l'abbiamo ritrovata intatta.

Robineau          Prima di lasciarvi, e dopo quest'ora di cui conserverò preziosa memoria...

(la gloria sale dolcemente,  poi  si ferma)  

potrei offrirvi per la difesa del teatro il mio modesto aiuto!  Oggi sono il delegato dello Stato presso di voi.  Avete da trasmet­tergli qualche messaggio?

Jouvet              Certamente.

Robineau          Sono tutt'orecchi.

Jouvet              Correte a dirgli questo!

Robineau          Corro! (La gloria riprende l'ascesa)  Volo!

Jouvet              Questo io dico allo Stato: « Stato, dal momento in cui ti curvi amichevolmente su di noi... » no! no! non muovetevi! «... vorrei farti una do­manda... ». Scusatemi se gli dò del tu, ma è una consuetudine  teatrale.

Robineau          E anche protocollare. Il « voi », con lo Stato, sarebbe poco rispettoso.

Jouvet              « Stato, mio grande, caro Stato, mi senti? »

Robineau          A meraviglia, mio piccolo Jouvet.

Jouvet            « So bene quanto sia difficile la tua situa­zione, ma riconosci che ci fai fare una vita che non è precisamente un letto di rose. Confessa che non ci dài la minima facilitazione. Ci dài gli scioperi, ci dài i fallimenti, ci dài le crisi, ci chiedi di lavorare per te due giorni su cinque, e alla prima mancanza ci dài la botta in testa. Non protestare, perché la botta in testa ce la dài. Ci dài il petrolio al prezzo del latte, il giornale al prezzo dei classici; ci dài la suddivisione del latifondo, i consigli di gestione, la radio, i manifesti  pubblicitari, la punzonatura dei biglietti del Métro, la guerra... Non protestare! L'hai voluta fare tu... Insomma, ogni sera tu mandi ai mici sportelli un popolo nervoso, stanco delle fatiche della giornata, diffidente, irritato e soprattutto contro di te... Ah, meno male che lo sai! E in cambio che facciamo noi per questo popolo! Lo calmiamo, lo divertiamo. Regaliamo a questo schiavo scal­cagnato l'onnipotenza sui colori, i suoni, le musiche. Diamo a questo automa un cuore di carne, con tutti i suoi compartimenti ben ordinati, con tanto di generosità, di tenerezza, di speranza. Lo rendiamo sensibile, bello, forte. Gli diamo una guerra in cui non rimane ucciso, una morte dalla quale risuscita. Gli diamo l'uguaglianza, quella vera, quella davanti alle lacrime ed al riso. E te lo riconsegniamo a mezza­notte senza rughe in fronte, senza rughe nell'anima, padrone del sole e della luna, con le ali ai piedi, pronto a tutto, capace di tutto. Ti par proprio di non essere in debito verso di noi! ».

Robineau          Evidentemente no. E allora?

Jouvet              « Allora, non ti pare che, se il compito del teatro è di fare in modo che il popolo si svegli ogni mattina contento all'idea di occupare il proprio posto nello Stato, il compito dello Stato sia quello di fare in modo che il popolo sia disposto e maturo per il teatro ogni sera! ».

Robineau          Il carro di Tespi e il carro dello Stato che si dànno il cambio! Capisco. Tu vorresti il teatro gratuito!... Oh!. Scusate, signor Jouvet. Senza ba­darci vi davo del « tu » anch'io.

Jouvet              Ne sono lusingato... « Ma se credi che si tratti del teatro gratuito, commetti uno dei tuoi numerosi sbagli, e uno dei più grossi. Si tratta di sapere se lo Stato vorrà infine capire che un popolo ha un'intensa vita reale soltanto se intensa è pure la sua vita irreale. Che la forza di un popolo èla sua fantasia, e che alla sera, quando la notte con la sua presenza lo conduce dolcemente al riposo ed al sogno, non basta colorare con l'elettricità i monumenti del suo passato. Illumina pure la Torre Eiffel, ma non credi che sarebbe ancor meglio illuminare i cervelli? ».

Robineau          Tu sei pazzo! Non vorrai mica che il Presidente del Consiglio sia un drammaturgo politico o sociale?

Jouvet              A nome dei capocomici io chiedo che lo Stato, invece di darci ogni giorno dei piccoli fastidi, ci dia delle grandi volontà e pretenda da noi grandi imprese...

Robineau          Non posso mica andargli a dire: « Caro Presidente del Consiglio, metti un po' più di follia nel tuo urbanesimo, di sogno nelle tue finanze, un po' più di messinscena nella tua economia agricola! ».

Jouvet              E  credi  che  il risultato  sarebbe  molto peggiore?

Robineau           Proprio nel momento in cui ci sforziamo, e a che prezzo, di ridare alla Francia la sua calma e il suo tradizionale buon senso?

Jouvet              Permettimi di dirti che hai torto. Mi vien voglia di ridere quando sento proclamare che il destino della Francia è d'essere una specie di freno. Il destino della Francia è d'essere la guastamestieri del modo. Essa è stata creata, essa si è creata per sventare nel mondo le insidie delle parti stabilite, dei sistemi chiusi. La Francia è la giustizia, ma solo in quanto la giustizia consiste nell'impedire di aver ragione a quelli che hanno ragione troppo a lungo. Essa è il buon senso, ma solo in quanto il buon senso fa la parte del paladino, del vendicatore. Finché ci sarà una Francia degna di questo nome non vi sarà nulla di definitivo nell'universo, le nazioni arric­chite non saranno tranquille, sia che abbiano con­quistato il loro rango con il lavoro, la forza o il ricatto. Nell'ordine, nella calma, nella ricchezza, c'è come un insulto all'umanità ed alla libertà, insulto che la Francia è qui per raccogliere e vendicare. Nell'applicazione della giustizia integrale essa viene subito dopo Dio, e, cronologicamente prima di Lui. Suo compito non è di scegliere prudentemente tra il male ed il bene, tra il possibile e l'impossibile. Così facendo sarebbe perduta. La sua originalità non sta nella bilancia, che è la giustizia, ma nei pesi di cui essa si serve per raggiungere l'equilibrio, e che possono anche essere l'ingiustizia... La missione della Francia è che ogni prospero borghese, ogni florido pastore, ogni tiranno riconosciuto, si dica andando a letto alla sera, rimboccando le coperte: « In com­plesso non andrebbe male, se non ci fosse quella maledetta Francia! »; perché non è difficile imma­ginare il rovescio di questo monologo nel letto dell'esiliato, del poeta e dell'oppresso.

Robineau          Sta bene. Ma in che cosa mi puoi essere utile tu, Teatro!

Jouvet              Hai mai sentito parlare di un certo Molière?

Robineau          Il figlio del tappezziere, morto in una poltrona?

Jouvet              Sì, quello al quale, all'epoca di Descartes, la Francia deve la luce; all'epoca di Colbert, la giustizia; all'epoca di Bossuet, la verità. Ti sei mai domandato che cosa avrebbe potuto fare, lui povero paria, contro i tre Stati, contro la moda e la cabala, se lo Stato non lo avesse sorretto?

Robineau Portami Molière e io m'incarico d'essere Luigi XIV.

Jouvet È Luigi XIV che ha cominciato. Comincia anche tu. D'altronde non hai scelta. In questo paese che ha tanti giornalisti e non ha stampa, che ha la libertà e così pochi uomini liberi, in cui la giustizia appartiene ogni giorno un po' meno ai giudici e un po' di più agli avvocati, che altra voce rimane se non la nostra? La tribuna? Non ci sono più oratori quando il teatro è arrochito. Ma nulla sarebbe per­duto se ogni sera l'arricchito, il pedante, dovessero dirsi: « Tutto andrebbe bene, ma c'è il teatro! ». E se l'adolescente, l'erudito, la famiglia modesta, la famiglia agiata, quello che spera nella vita e quello che ne è stato deluso, si dicessero: « Tutto andrebbe male, ma c'è il teatro! ».

Robineau          Ma questo creerà doveri terribili per gli autori!

Jouvet              Per gli autori! No. Non ne hanno mai avuto che uno: quello di essere scrittori. La parola dice tutto. Ma a te sì, che creerà doveri immensi. Tu devi curare il teatro come i tuoi denti, non lasciar su di esso né polvere né macchie; devi renderlo splendente. Non è questione di crediti. I denti d'oro non sono indispensabili... È questione di salute, di alito. Teatro cariato, nazione cariata... Visto che hai cento milioni, impiegali subito a scacciare dal tempio - non me ne vorrai se chiamo così le nostre sale - i falsi mercanti. Finirai per guadagnarci!... Ed ora, caro signor Robineau, ci piacerebbe tanto continuare questa chiacchierata... ma c'è il teatro! Ci rimane un'oretta per la prova. In acena, ragazzi! Ritira la tua gloria, Léon!

Robineau          Ritira la tua gloria, Léon!

(La gloria, invece di scendere, riprende a salire).

Jouvet              Che diavolo fai, Léon? Hai capito sì o no?

Léon                  Il meccanismo si dev'essere guastato. Non risponde più ai comandi.

Robineau          Non preoccupatevi, signori. Qualunque sia il modo con cui lascerò questo palcoscenico, vi prometto che lo Stato verrà informato dei vostri desideri!

La piccola Vera      (urlando)   Rimanete diritto, calmo.

Robineau          Rimango diritto, calmo...

Raymone          Ecco che sale in cielo!

Robineau           (salendo)   Tanto meglio!... Questo è il teatro! (Sparisce).

FINE  DELLA COMMEDIA

Questa commedia è stata rappresentata per la prima volta al «Théatre de l'Athénée» di Parigi il 3 dicembre 1937.


1 Franchi, s'intende, del 1937. (N. d. T.)