L’incognita

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L’INCOGNITA di Carlo Goldoni

L’INCOGNITA

di Carlo Goldoni

Commedia di tre atti in prosa, rappresentata per la prima volta in Venezia

il Carnovale dell’anno 1751.

A SUA ECCELLENZA

LA SIGNORA CONTESSA

MARGHERITA PARACCIANI MARESCALCHI

Alcuni Amici miei, nobilissima Dama, mi van dicendo che anche le lettere, colle quali dedico e raccomando le Commedie mie, vengono lette con avidità e con piacere. Ciò non può essere certamente né perché sieno da me elegantemente scritte, né perché in esse studiato mi sia d’introdurre cose piacevoli, che non è questo il fine per cui son fatte: la ragione sarà piuttosto, perché avendo io fatta scelta, nel dedicare le Opere mie, di personaggi illustri per grado, per nobiltà o per dottrina, godesi da ciascheduno sentire di quelli i meriti, le virtù, i fregi, e quei precisamente che nella serie de’ Mecenati miei si ritrovano, concepiscono degli altri maggior diletto, in compagnia veggendosi di tante eroiche persone, che della protezione loro mi onorano; ma che diranno eglino, allora quando il nome vedranno impresso dell’E. V. ne’ fogli miei?Di questo si consoleranno assaissimo tutti, e correranno con giubbilo a leggere questa ossequiosa mia lettera, in cui cose ritroverebbono alla espettazione loro conformi, se stile avessi e valor bastante per dar al Mondo la giusta idea degl’infaniti meriti di una così gran Dama. È nota bastantemente la Famiglia nobilissima da cui nata siete in Roma, e vive ancora colà il nome del fu Eminentissimo Paracciani, dietro l’orme di cui Vanno i virtuosi Fratelli vostri, fra’ quali Monsignore Auditor di Ruota, pieno di meriti e di sapere; nota è parimente la Casa illustre de’ Sorbellongi romana, dove feste voi collocata, con prime nozze, arricchendola d’un Figlio maschio, che nato da sì gran Madre, non può che promettere la felicità de’ parenti suoi. Cessato di vivere dopo il corso di pochi anni il Consorte vostro in Roma, passaste a felicitarne un altro in Bologna, e ornare col pregevole acquisto della persona vostra la Città medesima, che vi adora. Conosciuta è niente meno la famiglia nobilissima, antica, de’ Conti Marescalchi, sua Eccellenza il signor Senatore Vincenzo, degnissimo vostro Sposo, è un Cavaliere pieno di mille fregi, reso da voi lietissimo e giubbilante nell’anno scorso col pargoletto vezzoso dato da voi alla luce,, destinata essendo dal Cielo a portare ovunque voi siate le celesti benedizioni.

Tutto ciò non per tanto in ogni parte è palese; e quello che può interessare moltissimo l’altrui curiosità, consiste in una relazione dei personali infiniti meriti vostri. Vero è che la fama anche di questi ne ha sparso il grido, ma da me, che la fortuna ho avuto di potervi da vicino ammirare, s’attenderà facilmente dai più lontani dell’E. V. il ritratto. Questa per me sarebbe un’occasione di farmi onore davvero, quando sapessi non dirò i lineamenti del vostro dolce viso dipingere, ma le belle qualità che vi adornano bastantemente spiegare. Pare che noi Poeti sogliamo sempre ingrandir le cose; che i ritratti nostri sieno eccedenti il vero, e perciò sono le lodi nostre sospette, giudicandole il volgo o dall’interesse, o dall’adulazion partorite. Grazie al Signore, non sono io da veruno di questi vizi attaccato, e pur troppo il dire la verità mi ha recato non piccioli pregiudizi. Ma quando anche nel ragionare di V. E. volessi eccedere, non potrei farlo, poiché contenendomi nei limiti della natura umana, senza i pazzi trasporti di quelli che vogliono divinizzare le persone che vivono, nulla dir posso di grande che in voi non si trovi, e non sorpassi il modo mio di spiegarmi, onde quando mi studi a far di voi il miglior ritratto ch’io sappia, dirà chi vi

conosce: non la somiglia. Lo diranno poi anche per quella ragione medesima, per cui a cotal critica sono i più celebri ritrattisti soggetti. Convien riflettere in qual punto di vista l’originale è copiato, Taluno considera più una bellezza d’un’altra. Pare a talun altro che meno un qualche fregio sia rilevato, e siccome in V. E. tutti sono perfetti, con tanti colori vivi, non è sì facile far che tutte le parti abbiano un egual lume. S’io voglio, per esempio, far rilevare la vivezza del vostro spirito sorprendente, brillante, non trovo, per dargli risalto, quelle ombre che in qualche altra spiritosa si truovano; ma colorir dovendo con egual forza la vostra esimia prudenza, due forti colori uniti potrebbono per me, che pochissimo so quest’arte, produrre una confusione. Trattandosi però d’un ritratto di virtù morali, che non sopra una tela, ma va sui fogli colle parole impresso, posso disimpegnarmi, asserendo che il tempo e le occasioni fanno ora l’una, ora l’altra di queste due virtù maggiormente risplendere, sendo voi spiritosissima, quando la conversazion lo permette, savissima, quando l’opportunità lo richiede. Così delle altre vostre prerogative parlando. La gentilezza e il contegno, la splendidezza e la moderazione, il frizzo e la nobiltà de’ pensieri spiccano in voi a vicenda, anzi regnano in voi con armonia perfetta, senza confondersi nelle azioni loro diverse, perché regolate dalla virtù, che è la base fondamentale d’ogni vostra interna bellezza.

Sinora parlato ho di que’ ritratti che far si sogliono colla penna ma se il pregio avessi, che ha il valoroso Pietro Zanotti, di farli, e con questa, e con il pennello, vorrei studiarmi anche adesso di dipingervi sopra una tela qual vi ho veduta, per sei sere, due anni sono, in Bologna in abito da Ermione. Fortunata Andromaca di Racine, tu eri bella più che non sei, recitata colà da una sceltissima compagnia di Dame e di Cavalieri. Andromaca coi dolcissimi modi suoi mi ha fatto piangere per tenerezza, Pirro mi trasportava in Grecia colla verità dell’azione, e Oreste destava in me la maraviglia per una parte, e la compassione per l’altra; ed Ermione? Ah, la bellissima Ermione un carattere sosteneva da non piacere agli animi alla pietà inclinati, ma sapea mescere di tante grazie gli accorti detti e le simulate passioni, che amabile si rendeva, anche nell’atto di tormentare. Il celebre Autor Franzese ebbe animo in questa Tragedia sua di far vedere in Ermione quanto abbia poter la donna sopra d’un cuore amante, e diedele tai sentimenti e tale arte, atta a far delirare. Ma se avesse veduta Racine questa nobile novella Attrice, confessato avrebbe egli stesso, che più delle artifiziose parole sue, forza hanno due neri occhi brillanti, con tale industria or da fierezza, or da pietà regolati, che arte non val poetica né a descrivere, né a immaginare. Questa è l’unica volta ch’io ho saputo invidiare un Autor Franzese, e veggendolo sì fortunato, che al sommo grado fosse l’opera sua per sì bella ragion portata, se in volto della Greca Ermione tanto potere locato avessero i Numi, compatibili state sariano le furie d’Oreste; e quell’istesso impareggiabile Attore, che in faccia vostra un tal personaggio eccellentemente rappresentava, con tutto che fornito egli sia d’uno spirito e d’una vivacità sorprendente, non so come egli potesse anche nella finzione resistere.

Tempo è ormai ch’io esca d’un tal proposito, in cui mi sarò forse troppo arditamente diffuso; ma tanta è l’impressione che fecesi nell’animo mio allora, che con piacer ne ragiono, e come dissi, vi dipingerei anche adesso, se l’arte avessi di farlo. Meglio per me sarebbe per altro ch’io descriver sapessi le morali virtù che vi adornano, e lo farei ben anche, se avessi la perfetta cognizione di esse posseduta dal celeberrimo Dottor Francesco Zanotti, che le ha sì bene descritte in quel suo eccellente trattato della Morale Filosofia, in compendio ridotta, regalatomi gentilmente dall’amico vostro, 1’eruditissimo Signor Conte Gregorio Casali. Leggete pure, nobilissima Dama, col genio vostro alle Lettere, un cotal libro, e troverete in esso di che consolarvi, quelle virtù, quelle massime rilevandovi, che in voi medesima sono e per natura, e per istudio e per educazion radicate; e siccome consiglio tutti a studiare su tal volume la vera virtù, per l’amore che deesi alla medesima avere, e per la facilità che in esso trovasi di ben conoscerla e di fondatamente impararla, così animare li voglio eziandio a farlo, per concepire quell’idea del merito vostro, che a non dà l’animo colle parole mie di rappresentare. Per me dando fine a questo ossequioso mio foglio, restringerommi soltanto a supplicare l’E. V. di accogliere sotto gli auspici dell’alta protezione vostra questa Commedia mia, che umilmente vi raccomando. Ella ne ha bisogno più di alcun’altra, perchè di un genere romanzesco poco a me familiare, e che mi può essere criticato; e il nome che

porta in fronte dell’E. V. può renderla rispettata e gradita. Qualunque siami una tal Commedia riuscita, costami più fatica di tante altre, e almen per questo ho preso io ad amarla, e ingegnato mi sono di procacciarle una magnanima protettrice; spero che la benignità li V. E. non riguarderà la viltà dell’offerta, ma l’animo ossequioso dell’offerente, concedendomi ch’io possa in faccia del,mondo tutto gloriarmi di essere, quale mi onoro di rassegnarmi, Di V. E.

Umiliss. Divotiss. ed Obbligatiss. Serv. Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Questa Commedia che ora pubblico colle stampe, diversa è forse da tutte le altre mie. Ella è romanzesca, fatta per me non per inclinazione ch’io avessi ad un tal genere di teatrale componimento, che anzi ne son nemico, ma per un mero capriccio, in una certa occasione che a farlo mi ha stimolato. Alcune Commedie di tal carattere esposte furono sulle Scene da un valoroso soggetto ch’io tanto venero, quanto egli me disprezza ed insulta. Fortunate riuscirono tali composizioni, da un noto Romanzo onninamente estratte, e quantunque condannassi io dentro di me medesimo la massima di nuovamente sulle nostre Scene introdurle, l’esito m’invaghì di darne una io pure al Popolo, che del sorprendente qualche volta s’appaga. Non volli però io, in ciò facendo, perdere soverchio tempo nella lettura di alcun romanzo, ma ideandomi una favola romanzesca, tessei con tale immagine la presente Commedia, la quale è di tanti fatti, di tanti accidenti ripiena, che potrebbe servir di sommario per un romanzetto di quattro tomi almeno. In verità, se ozio avessi, provarmi vorrei a farlo, e intitolarlo vorrei il Bravo Impertinente. Era questo il titolo d’una Commedia da me promessa al pubblico, fra le sedici scritte nell’anno 1750, ma venendomi voglia di far l’Incognita, in vece sua, per adempire e la mia volontà e l’impegno mio, intitolai la Commedia allora: L’Incognita perseguitata dal Bravo Impertinente.

Parratti superfluo, Lettor carissimo, ch’io voglia renderti conto di una sì frivola mutazione, ma pure ho dovuto farlo, poiché dar si potrebbe che nella edizion di Venezia piantata fosse tale Commedia nella maniera che i Comici l’hanno avuta, e parrebbe a taluno che quella e questa non fossero la stessa cosa. Per dir il vero però, la stessissima cosa non sono, poiché pensando io a stamparla, in molte parti l’ho regolata, e colà (se non vien copiata da questa) sarà come tante altre malconcia. Questa dunque, com’io diceva a principio, è una Commedia romanzesca, perché nel giro di poche ore una moltitudine di accidenti comprende inaspettati e strani, e talor sorprendenti; tuttavolta però studiato ho di condurli in maniera tale, che non abbiano a dirsi impossibili o inverisimili, ma solo da una estraordinaria combinazione diretti. Se avessi prima formato o letto un Romanzo, e i fatti sparsi pel medesimo avessi unito in una Commedia, caduto sarei anch’io per necessità nell’impossibile, o nella confusione almeno, ma la Commedia originalmente tessendo, ho accomodata la favola al bisogno mio, e se gli uditori diranno dopo di averla veduta: oh quanta roba in una Commedia! non diranno almeno: oh quanti spropositi! oh quante bestialità! E chi averà la sofferenza di tener dietro al filo della medesima, partirà contento d’averla sentita. Questo è quello però che sfuggir si deve, cioè non conviene affaticare l’uditore per modo che abbiagli a doler il capo per l’applicazione, e non possa nemmeno soffiarsi il naso, per non perdere la traccia degli accidenti; ma in cinquanta Commedie la varietà parmi non disconvenga, ed ho sentito colle orecchie mie dir più d’uno, essere questa la miglior Commedia che io abbia fatto. Certamente se io l’avessi creduta indegna affatto di compatimento, non l’avrei nemmeno stampata, ma parlo così per i genii più delicati, per quelli che della vera Commedia s’intendono, i quali poi non sono moltissimi.

Personaggi

OTTAVIO finanziere;

BEATRICE sua moglie;

PANTALONE mercante veneziano;

LELIO bravaccio, suo figliuolo;

ROSAURA incognita, tenuta in casa di

COLOMBINA;

FLORINDO cittadino, amante di Rosaura;

RIDOLFO vecchio;

ELEONORA contessa;

BRIGHELLA servitore di Lelio;

ARLECCHINO servitore d’Ottavio;

Un TENENTE di granatieri;

Il MASTRO della Posta;

MINGONE servitore di Ottavio;

Il BARGELLO;

Un CAMERIERE dell’osteria;

Un UOMO ARMATO;

Il VETTURINO;

Sei Granatieri, che non parlano;

Uomini armati, che non parlano.

La scena si rappresenta in Aversa, grossa terra del regno di Napoli.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Campagna, e si vede l’aurora che va dilatandosi.

Rosaura e Florindo

ROS. Oh Dio! Florindo, dove mi conducete voi?

FLOR. Andiamo, e non temete. Un calesse ed un cavallo ci aspettano. Voi salirete in calesse con Colombina, io a cavallo vi seguirò, e fra un’ora al più saremo in luogo sicuro.

ROS. Ah, l’onor mio vi sia a cuore!

FLOR. Questo deve premere a me niente meno che a voi. Se avete a essere mia consorte, immaginatevi con qual zelo procurerò custodirlo!

ROS. Oh Dio! Dov’è Colombina? Non viene? Avvertite che senza di lei non mi lascio condurre.

FLOR. Ella ci segue, e poco può tardare a raggiungerci. Sapete che ha ella acconsentito alla nostra fuga, e vi terrà quella custodia medesima, ove anderemo, che vi ha tenuta per sei mesi nella propria sua casa. Convien superare ogni difficoltà. È necessario togliervi dalle insidie di Lelio che vi perseguita, che v’insulta, che minaccia rapirvi, ed io sapete voi quante volte sono stato in pericolo di perdere per vostra cagione la vita. (Ah, se Beatrice s’accorge della mia fuga, tenterà impedirla. Temo ancor più di Lelio questa donna importuna). (da sé)

ROS. Ma dove andremo? Ma dove pensate voi ricovrarmi?

FLOR. Deh, non perdiamo inutilmente il tempo. Raggiungiamo il calesse, che ad arte ho fatto trattenere fuori di questa terra. Colombina ci avrà prevenuti per via più corta. Andiamo, Rosaura, andiamo. Fidatevi di me, e non temete.

ROS. L’amore che ho per voi, ed il timore di Lelio, son due stimoli alla mia fuga. Il cielo, che vede l’onestà delle nostre intenzioni, ci sarà scorta. Oimè, sento gente.

FLOR. Andiamo, andiamo, non ci arrestiamo per questo; all’alba del giorno i contadini vanno al lavoro. Non vi prendete pena d’incontrar gente. (A quest’ora Beatrice non sarà alzata). (da sé)

ROS. Vedete un uomo che si è fermato dietro quegli alberi?

FLOR. Che importa questo? Seguitiamo la nostra strada.

ROS. Oh Dio! Mette mano alla spada.

FLOR. Cielo, aiutami, egli è Lelio.

ROS. Ah, che il cuore me lo diceva.

FLOR. Presto, nascondetevi.

ROS. Dove?

FLOR. Il traditore non passerà. (mette mano alla spada)

SCENA SECONDA

Lelio con la spada alla mano, e detti.

LEL. Indegni, vi ho colto al varco.

ROS. Dei, assistetemi. (fugge)

LEL. Non fuggirai. (vuol seguirla)

FLOR. Chi vuol seguirla, ha da passare per questa spada.

LEL. Inciampo lieve per arrestarmi. (battendosi entrano)

SCENA TERZA

Camera in casa di Ottavio.

Ottavio in veste da camera.

OTT. Che delizioso soggiorno è la campagna! Che bel levarsi la mattina per tempo a godere i fiori novelli, che spuntano con il sole! Che soave piacere udir il canto degli augelletti, che si rallegrano nell’uscire dai loro nidi! Quanto volentieri spendo la metà dei miei giorni in questa solitudine amena! Non darei un giorno di villa per un mese di abitazione in città.

SCENA QUARTA

Rosaura ed il suddetto.

ROS. Ah signore, soccorretemi per pietà!

OTT. Chi siete voi?

ROS. Sono una povera sventurata; il mio nome è Rosaura.

OTT. Parmi di avervi un’altra volta veduta.

ROS. Io due volte ho veduto voi.

OTT. Siete dunque di questa terra?

ROS. Sono sei mesi che vi abito.

OTT. Ed io non son che otto giorni, che ho qui ripigliato il soggiorno.

ROS. Deh signore, per carità, difendetemi. Un traditore m’insidia.

OTT. Non temete. In casa mia non vi sarà chi ardisca insultarvi. Ma chi è il vostro persecutore?

ROS. Lelio, figlio di quell’onorato mercante...

OTT. Sì, lo conosco, il figlio di Pantalone: figlio indegno, che degenera affatto dall’onorato carattere di suo padre; ma da voi che pretende?

ROS. Più volte mi ha chiesto amori.

OTT. Qual sorta d’amori?

ROS. Di quelli che chiedono i discoli pari suoi.

OTT. E voi l’avete scacciato?

ROS. Sì signore.

OTT. Vi lodo, vi stimo e vi reputo per una giovane di merito singolare.

ROS. Signore, io non pretendo di aver gran merito a far quello che ogni fanciulla onorata è obbligata di fare.

OTT. Felice il mondo, se tutti facessero quello che sono obbligati a fare. Ma ditemi, chi siete voi? All’aspetto, al brio, al ragionar che voi fate, mostra essere di voi indegno quell’abito villereccio che ora portate.

ROS. I miei casi non sono di così lieve rimarco, che possa farvene brevemente il racconto, né sonoin grado di favellare più a lungo, oppressa tuttavia dal timore e dalla pena, che egualmente miopprimono.

OTT. Qual timore? Qual pena? Voi siete in luogo di sicurezza.

ROS. Ah, che la mia pena, il mio timore, sono diretti a chi amo più di me stessa.

OTT. Dunque amate?

ROS. Signore, e chi non ama?

OTT. E chi è l’oggetto de’ vostri amori?

ROS. Florindo, quel giovane cittadino che abita in questa terra.

OTT. Sì, conosco anche lui. Giovane di buoni e morigerati costumi. Pratica frequentemente nellamia casa. E qual timore avete per lui? ROS. Lelio lo assalì colla spada.

OTT. Quando? Dove?

ROS. Dietro al vostro giardino, mentre Florindo istesso seco tacitamente mi conduceva.

OTT. Florindo vi conduceva seco tacitamente?

ROS. Lo facea per sottrarmi...

OTT. Sull’alba del giorno? Seco tacitamente?

ROS. Sappiate, signore...

OTT. Voi siete quella giovane savia, che sa con tanto rigore difendere la propria onestà?

ROS. Deh, ascoltatemi...

OTT. Sareste forse una pazzarella, che fugge da un amante per riserbarsi ad un altro?

ROS. Deh, ascoltatemi per pietà!

OTT. Parlate, e non isperate da me soccorso, senza giustificarmi la vostra condotta.

ROS. Ah sì, malgrado la confusione in cui sono, parlerò, mio signore, sì, parlerò. Giuro esser sincera, se tal non sono, scacciatemi, e se vi pare ch’io meriti la vostra pietà, datemi quel soccorso che esigono le mie sventure.

OTT. Via, parlate. (Il di lei volto non mi fa credere ch’ella abbia il cuore scorretto). (da sé)

SCENA QUINTA

Beatrice ed i suddetti.

BEAT. Mi consolo, signor consorte; vi divertite di buon mattino. Non mi stupisco, se vi annoiate di giacere nel letto, poiché una sì bella cagione vi sollecita ad essere vigilante.

OTT. Sospendete di mal pensare di me e di questa povera sventurata.

ROS. Signora, io sono povera, ma onorata.

BEAT. Le povere che oneste sono, non vanno a quest’ora a chieder l’elemosina agli ammogliati.

ROS. Io non sono venuta qui a chiedere un pane.

BEAT. Dunque che pretendete?

ROS. Assistenza, protezione e pietà.

BEAT. Non temete; il signor Ottavio è pieno di carità per le belle giovani, come voi siete.

OTT. Consorte mia, la fanciulla che voi vedete, ha d’uopo della mia protezione. Io non ho cuore d’abbandonarla. Ma acciò non crediate sia interessata la cura che di essa mi prendo, a voi la consegno. Custoditela voi, e rammentatevi che le persone di garbo, come voi siete, hanno impegno di soccorrere gl’infelici.

BEAT. E chi è costei? Da noi che richiede? Qual disavventura la porta a ricorrere a questa casa?

OTT. Nel punto che voi giungeste, ella mi rendeva conto dell’esser suo. Non seppi altro sinora, se non che quel temerario di Lelio l’insulta e la perseguita. Ciò impegnommi a difendere la di lei onestà. Mi riserbai per altro a prendere maggior impegno, dopo la cognizione totale dell’esser suo. Rosaura, il racconto che a me eravate disposta a fare, fatelo alla mia signora: ella non è meno generosa di me; assicuratevi della sua protezione, se sarete in grado di meritarla. Consorte amatissima, a voi raccomando usarle quella pietà ch’ella merita, e rimettendo a voi la di lei causa, e lasciandola all’arbitrio vostro, conoscerete ch’io sono un marito onesto, un cavaliere onorato, un protettore innocente. (parte)

SCENA SESTA

Beatrice e Rosaura.

BEAT. (Mi pento di aver sinistramente pensato). (da sé) Buona giovane, venite qui.

ROS. Eccomi a’ vostri cenni.

BEAT. Sappiate che mio marito è l’uomo più onesto e più prudente di questo mondo.

ROS. Ho sentito da tutti parlar di lui con rispetto.

BEAT. Egli non è capace di amare altra donna che la propria moglie.

ROS. Chi ha una sposa amabile come voi, non lo potrebbe fare volendo.

BEAT. Palesatemi le vostre disavventure, e assicuratevi che troverete in me tutto l’amore, tutta la protezione che abbisognare vi possa.

ROS. Voi mi consolate, signora, e niente meno sperar poteva dalla vostra pietà. Lelio m’insidia, Lelio mi perseguita. A forza mi vuol far sua. Io amo Florin...

BEAT. (Come! Ama Florindo?) (da sé)

ROS. Egli mi vuol sua sposa...

BEAT. (Florindo, impegnato a servirmi, vuole sposare costei?) (da sé)

ROS. Signora, voi non mi ascoltate.

BEAT. (Ed egli a me lo tiene celato?) (da sé)

ROS. Sospenderò l’importunarvi, se vi do noia.

BEAT. Dite, dite. Florindo vi ama? Vi fa sua sposa?

ROS. Sì, mia signora, il cielo impietosito di me, mi offre questa fortuna. Ma Lelio tenta distruggere le mie speranze, tenta rapirmi; ed il mio sposo, per sottrarmi da un sì fiero pericolo, allestito un calesse, m’involava questa mattina agli occhi di quel ribaldo.

BEAT. (Mi sento arder di sdegno). (da sé)

ROS. Lelio ha scoperto la nostra fuga; ci sorprese coll’armi alla mano. Io salvata mi sono, ma di Florindo, oh Dio! sa il cielo che mai sarà succeduto.

BEAT. (Fosse morto l’indegno!) (da sé)

ROS. Venni qui a ricovrarmi senza sapere dove mi portasse il destino. Eccomi nelle vostre braccia, eccomi ad implorare da voi pietà.

BEAT. (Ecco nelle mie mani una mia nemica). (da sé)

ROS. Giusto è per altro, prima che v’impegnate a proteggermi, che dell’esser mio vi renda, per quanto posso, informata. Sappiate dunque ch’io sono...

BEAT. Venite meco. Nelle mie camere con più agio vi ascolterò.

ROS. Vi sieguo ove comandate.

BEAT. Precedetemi. Chi è di là?

SCENA SETTIMA

Servitore e le suddette.

BEAT. Accompagnate questa giovane al mio appartamento. (al Servitore)

ROS. Il cielo vi remuneri di tutto il bene che siete disposta a farmi. Vi raccomando la mia vita, la mia onestà; vi raccomando l’innocente amor mio, e sia un primo atto della vostra pietà assicurarmi che sia vivo e sia salvo il mio adorato Florindo. (parte col Servitore)

SCENA OTTAVA

Beatrice sola.

BEATR. Cosa mi raccomandi, che mi eccita a fiero sdegno. Come! Così poco rispetta Florindo una donna del mio carattere, una donna che lo ammette all’onesto possesso della sua grazia? Io mi sagrifico per sua cagione ad abitare la metà dell’anno in questa piccola terra; preferisco la di lui servitù a quella di tanti altri da me negletti, e così ingratamente il perfido mi corrisponde? Lo so, perché più di me non si cura. Perché non può sperare da una moglie onesta quell’indegno frutto che cercano gli sciagurati da’ loro scorretti amori. Ecco la ragione per cui mi abbandonasti: perché non sai amare virtuosamente. Tu sei vago di compiacere la tua passione. Ma questo tuo pensiere a me non lo hai palesato; che se palesato l’avessi, ti avrei fatto pentire d’aver osato pensare temerariamente di me. Sì, ti amo, ma onestamente; sono di te gelosa, ma senza intacco dell’onor mio. Nulla puoi sperare da me; ma nulla voglio che tu ricerchi da un’altra. Tu amar altra donna? Tu aspirare a sposarla? Giuro al cielo, non sarà vero. L’averai a fare con me. Scellerato Florindo... Ma, oh Dio! che sarà di lui? Tardar non voglio a rintracciarne la verità. Ah, se egli muore, se egli è ferito, se ei mi abbandona, sopra colei che il destino ha condotta nelle mie mani, giuro di fare la più crudele vendetta. (parte)

SCENA NONA

Strada comune.

Lelio e Brighella.

LEL. Sì, lo giuro al cielo, o trovami tu Rosaura, o la tua vita la pagherà.

BRIGH. Ma come oio da far a trovarla?

LEL. Ella non può essere lungi da noi. Fuori di questa terra non può essere andata. Cercala, trovala e pensaci tu.

BRIGH. No disela che gh’era un calesse preparado per condurla via? La sarà andada via.

LEL. In quel calesse non sarà andata via certamente. Il vetturino ha da pensare a guarire dai colpi del mio bastone, ed i cavalli non cammineran con tre gambe.

BRIGH. L’ha bastonà el vetturin? LEL. Sì, e lo stesso farò di te.

BRIGH. L’ha taià una gamba ai cavalli?

LEL. Una a te ne taglierò, se non mi trovi Rosaura.

BRIGH. Caro sior padron, i cavalli con tre gambe i pol camminar; ma mi con una sarà difficile.

LEL. Non è tempo di facezie. Cerca Rosaura, e in qualunque luogo ella sia, assicurati che la saprò involare, a dispetto di tutto il mondo.

BRIGH. Mi farò tutte le diligenze per saverlo, e subito che so qualche cosa, l’avviserò.

LEL. Non vi è stata cosa da me voluta, che ottenuta non l’abbia.

BRIGH. La supplico in grazia: la m’ha dito che i s’ha battudo co sior conte; com’èla andada afenir?

LEL. È venuto mio padre e gli ha salvato la vita.

BRIGH. Povero sior Pantalon!

LEL. Ma che non torni; ma che non torni mio padre in un caso simile. Giuro al cielo! Venirsi a esporre in difesa d’un mio nemico, quando ho la spada in mano? Mio padre ha poca prudenza.

SCENA DECIMA

Pantalone ed i suddetti.

LEL. Brighella, va, trova mio padre, e digli che non faccia più una cosa simile, perché.. perché... Basta, digli che non ci torni.

PANT. Cossa vorla dir, patron? Cossa sarà, se tornerò? La diga, cossa sarà? (a Lelio) Andè via de qua. (a Brighella)

BRIGH. Servitor umilissimo. (in atto di partire)

LEL. (Ehi, ci siamo intesi). (piano a Brighella)

BRIGH. (Non occorr’altro). (a Lelio)

PANT. Cossa gh’è? Segreti?

BRIGH. Eh! Mi son galantomo. La sa chi son. (Sto sior Lelio me vol far perder el pan). (da sé, parte)

PANT. Caro el mio caro fio, ma fio, po fio, che ve lo digo de cuor, che razza de viver xe el vostro? Che razza de parlar? Vostro pare, per provvidenza del cielo, vien avvisà che ve trovè impegnà colla spada alla man; el corre, povero vecchio, el corre in soccorso della vostra vita, in difesa della libertà: el ve libera dal pericolo o de restar sulla botta, o de morir in una preson, e vu lo ringraziè in sta maniera? Un povero vecchio de sessantacinqu’anni, che ha sfadigà tutto el tempo de vita soa per vu, unicamente per vu, per farve ricco, cussì lo trattè? Anca in tempo che el rischia la vita per causa vostra, invece de rengraziarlo, de benedirlo, lo manazzè? Tocco de desgrazià, ti me manazzi? Se ghe tornerò, ti disi? Se ghe tornerò? No, no ghe tornerò più, no tornerò più dove che ti sarà ti; ma ti no ti tornerà dove che son mi. Furbazzo! A sto eccesso ti xe arrivà? Orsù t’ho soffrio abbastanza, no te vôi più sopportar. In casa mia no ghe star più a vegnir. Chi manazza el pare, no xe degno d’averlo. Chi sprezza un pare che gh’ha dà la vita, no merita compassion, no merita che lo soccorra el cielo, no merita che lo sostegna la terra.

LEL. Dunque non mi volete più in casa?

PANT. No, desgrazià, no te vôi.

LEL. Servitor umilissimo. (in atto di partire)

PANT. Dove vastu?

LEL. A provvedermi un alloggio.

PANT. Cussì, co sta bella disinvoltura?

LEL. Così placidamente, senza alterarmi. Vi par molto, eh? che un figlio si senta scacciar dal padre, e non dia quattro cospetti uno più bello dell’altro.

PANT. Ah Lelio, ti va in precipizio, e no ti lo sa.

LEL. Benissimo; se ho d’andare in precipizio, fuori di casa vi anderò più presto.

PANT. Ma varda se ti xe una bestia. Varda se ti xe un omo strambo, un omo senza giudizio. Invece de procurar de placarme, invece de pregarme, de sconzurarme che te tegna in casa, no ti ghe pensi, e ti me disi servitor umilissimo?

LEL. Ho io da inginocchiarmi davanti mio padre, perché mi dia da mangiare e da dormire? Son vostro figlio, siete obbligato a farlo.

PANT. Cussì ti parli a to pare?

LEL. Io parlo schietto. Non ho paura, quando dico la verità.

PANT. Orsù, vame lontan, e vederemo se son obbligà a mantegnirte.

LEL. Oh, mi manterrete anche lontano.

PANT. Anca lontan? Come, cara ella?

LEL. Col vostro grano, col vostro vino. Ma che dico col vostro grano, col vostro vino? Col mio, col mio. In questi poderi ci ho anch’io la mia parte. Mia madre mi ha partorito in casa, ho da vivere anch’io.

PANT. Ben; vederemo quel che te tocca per giustizia, e te lo darò.

LEL. Eh, che la giustizia io me la fo da me stesso.

PANT. Da ti stesso?

LEL. Sì, da me stesso. Se i contadini non vorranno morire bastonati, mi daranno il mio bisogno.

PANT. Oh poveretto mi! A sto eccesso ti arrivi? De sta sorte de cosse ti xe capace? Sassinar to pare? Robarghe le vissere? Farlo morir desperà? Ma ghe troverò remedio. Ricorrerò alla giustizia, te farò metter in t’una preson.

LEL. Di ciò me ne rido. I birri non si azzarderanno accostarsi.

PANT. I te mazzerà.

LEL. E allora tutti sarete contenti.

PANT. Ah Lelio, te prego per carità, mua vita, caro Lelio, per amor del cielo, mua vita.

LEL. Orsù, se volete ch’io muti vita, fatemi voi mutare stato.

PANT. Ma come? Farò tutto quello che poderò. Dime come oio da far a farte muar stato?

LEL. Datemi moglie.

PANT. Via; perché no? Troveremo un bon partio, e son contento.

LEL. Il partito l’ho ritrovato. Rosaura mi piace. Datemi quella, e può essere che mi vedrete cambiato.

PANT. Ma ti vol sposar una che no se sa chi la sia?

LEL. A me non importa saper chi ella sia; mi piace, e tanto mi basta.

PANT. No, caro Lelio, la reputazion no vol che accorda sto matrimonio, e po ti sa pur che Florindo la vol per elo, che ti xe stà in cimento d’esser mazzà per sta putta.

LEL. Che cimento? Ammazzerò Florindo e quanti pretenderanno impedirmi ch’io sposi Rosaura. Se incontro colui, lo voglio crivellare colla mia spada... Sentite, signore, se mi trovate in un caso simile, non vi arrischiate a difenderlo. Quando mi accieca la collera, non conosco nessuno. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Pantalone solo.

PANT. Oh povero Pantalon! Oh povero pare desfortunà! Gh’ho un unico fio, e el me dà tanto da suspirar. Per causa soa ho resecà el negozio in città, e me son retirà in campagna, e me contento de viver in t’una terra, acciò le occasion e le pratiche della città no lo fazza precipitar. Ma qua femo pezo che mai. L’ozio della campagna l’ha precipità. Nol parla d’altro che de dar, de struppiar, de mazzar. In sto liogo nol gh’ha suggizion de nessun. Qua la giustizia no ghe fa paura. Ma ricorrerò al governator, me butterò ai so piè, lo pregherò de trovar la maniera de farmelo andar lontan. El xe el mio unico fio, ghe vôi ben più che a mi medesimo; ma se no penso a correggerlo, se no gh’averò cura de castigarlo, sarò mi credesto a parte delle so colpe, sarò mi quello che le averà fomentade, e me crederò sempre in debito de tutto quel mal che averò perdonà a un fio discolo, a un fio vizioso e baron. (parte)

SCENA DODICESIMA

Campagna con prospetto di palazzino.

Florindo solo.

FLOR. Oh me infelice! Dov’è la mia adorata Rosaura? Ah, che se io non la trovo, mi voglio uccidere colle mie mani. Chi sa non l’abbia raggiunta Lelio? Chi sa ch’ella non sia fra le di lui braccia? Oh pensiere che mi tormenta! Oh rabbia che mi divora!

SCENA TREDICESIMA

Rosaura alla finestra del palazzo. Brighella dietro un albero, che osserva, ed il suddetto.

ROS. Ah Florindo mio!

FLOR. Rosaura, voi qui? Voi in casa della signora Beatrice?

ROS. Oh Dio! Ci sono per mia sventura.

FLOR. Cieli! Che vi è accaduto?

ROS. Non posso dirvi di più. Andate voi dal signor Ottavio, gettatevi ai suoi piedi, procurate ricuperarmi.

FLOR. Sì, lo farò. Ma voi con chi siete?

ROS. Addio. Beatrice mi chiama, non posso più trattenermi. (entra)

BRIGH. (Ho visto tanto che basta; vado a avvisar el padron). (da sé, parte)

FLOR. Qual confusione è la mia? Rosaura in casa di Beatrice? Come? Per qual ragione? Sospira? Si lagna? Oh cieli! Che sarà mai? Oh sì, temo che Beatrice medesima, la quale pretende da me non so se mi dica amore o servitù, abbia scoperto il nuovo affetto mio per Rosaura, e ne abbia concepita una specie di gelosia. Se così è, conviene levar la maschera. Anderò io dal signor Ottavio, gli svelerò l’arcano, impetrerò la sua protezione, ed egli ch’è uomo giusto ed onesto, non mi saprà negare la mia Rosaura. La porta di dietro è ancora rinchiusa; mi converrà fare il giro ed entrar per l’altra maggiore. Ah, pur troppo è vero, non si può giungere ad una felicità, senza passare per mezzo a mille spasimi, a mille rancori. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

S’apre la porta del palazzo, da cui escono Rosaura, Arlecchino e due Uomini.

ARL. Cara siora, mi no so gnente: comanda chi deve, obbedisce chi puole. Mi fazzo quel checomanda la mia patrona.

ROS. Ma che ti ha comandato la tua padrona?

ARL. L’ha comandà a mi e ai mi camerada, che ve menemo alla posta, che demo sta carta al mastro de posta, e mi no so altro. L’è una carta che pesa, bisogna che denter ghe sia qualche sella da cavallo.

ROS. Come? Vuol ella forse mandarmi via di qui senza dirmi nulla?

ARL. Mi no so altro; andemo e no perdemo più tempo.

ROS. Oh Dio! Dov’è andato Florindo? Era qui poc’anzi; per mia sventura è partito.

ARL. Animo, camerade, andemo. (alli due uomini)

ROS. No, non sarà mai vero ch’io venga.

ARL. Sangue de mi, se no vegnerì, ve porteremo. (afferrandola per un braccio)

ROS. Lasciatemi, o scellerati.

ARL. Qua no gh’è altro, bisogna vegnir. (vogliono condurla via)

SCENA QUINDICESIMA

Lelio con spada alla mano, ed i suddetti.

LEL. Indietro, canaglia, indietro. (colla spada incalza gli uomini)

ARL. (Salva, salva; anderò dal master della posta, e se no ghe posso portar la donna, ghe porterò sto viglietto). (fuggendo)

ROS. (Ahi, destino crudele!) (da sé)

LEL. Siete pur giunta nelle mie mani. (prendendola per la mano)

ROS. Lasciatemi, per pietà.

LEL. Che lasciarvi? Venite meco.

ROS. Ah no, lasciatemi.

LEL. Prima di lasciar voi, lascierò la vita.

ROS. Oh Dio! Dove mi conducete?

LEL. In luogo di sicurezza. Andiamo. (la tira per forza)

ROS. Ahi, ahi!

LEL. Vieni, vieni, ragazza. Dopo avere gridato un poco, ti placherai. (parte con Rosaura)

SCENA SEDICESIMA

Camera di Ottavio.

Ottavio e Florindo.

OTT. Caro Florindo, da quando in qua vi siete voi acceso delle bellezze di questa incognita?

FLOR. Son da sei mesi ch’ella è venuta ad abitar nella nostra terra. Appena la vidi, il di lei volto mi piacque, ma più mi piacquero i suoi costumi, quando ebbi agio di conversare con esso lei.

OTT. Ma chi è questa donna? Si può sapere?

FLOR. Vi dirò. Ella è figlia di padre nobile, ed un giro di strane vicende l’ha qui condotta...

SCENA DICIASSETTESIMA

Beatrice ed i suddetti.

BEAT. Bella gioia, signor Ottavio, mi avete data in custodia!

OTT. Di chi intendete voi di parlare?

BEAT. Di quella onestissima giovane ch’è venuta stamane per il fresco a domandarvi pietà.

FLOR. Oh Dio! Signora, parlate voi di Rosaura?

BEAT. Sì, di Rosaura, avete voi delle premure per lei?

OTT. Non lo sapete? Il nostro Florindo la vuol sposare. (a Beatrice)

BEAT. Sì? Evviva il signor Florindo. Quando la sposerete? (a Florindo)

FLOR. Signora, non mi tormentate. Rosaura è nelle vostre camere?

BEAT. Rosaura è molto più lontana che non credete.

FLOR. Oimè! Dove?

OTT. Non è ella in custodia vostra? (a Beatrice)

BEAT. La sfacciatella mi è fuggita di mano.

FLOR. Ella anderà in traccia di me.

BEAT. No, v’ingannate. Ella andò in traccia di Lelio; lo ha ritrovato, ed è con esso fuggita.

FLOR. (Ah, costei la nasconde). (da sé)

OTT. Possibile che ciò sia vero?

BEAT. Non lo ponete in dubbio. Ciò è seguito alla vista degli occhi miei. Lo vidi dalla finestra delle mie camere, e tre dei vostri servi la videro nelle braccia di Lelio.

OTT. Io resto attonito. Che dite voi di questa strana avventura? (a Florindo)

FLOR. Rosaura non può essere fuggita. O è stata rapita, o è stata scacciata: chiunque sia il traditore, me ne farò render conto. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Ottavio e Beatrice.

BEAT. Vedete? Questo è quel che si guadagna a ricevere in casa delle persone che non si conoscono.

OTT. Io non mi pento d’aver usati degli atti di pietà ad una ch’io mi lusingava li meritasse.

BEAT. Ciò vi serva d’avvertimento. Gente incognita non ne ricevete mai più.

OTT. Vi ha ella detto nulla dell’esser suo?

BEAT. Sì, cose varie mi ha detto; ma io le credo favole. Da una donna che si è scoperta bugiarda, non si può sperare la verità.

OTT. Di che paese ha detto di essere?

BEAT. Non mi ricordo se sarda o siciliana; di uno di questi due regni assolutamente. Anzi, ora che mi sovviene, ella si fa e dell’uno e dell’altro.

OTT. Nata non può essere in due paesi.

BEAT. In uno è nata, e nell’altro allevata.

OTT. Ma il natale dove lo ha avuto?

BEAT. Se vi dico che non me ne ricordo. (Poco l’ho intesa e meno mi son curata d’intenderla). (da sé)

OTT. È nobile veramente?

BEAT. A sentir lei, è di sangue reale.

OTT. Ma come dice essere in questo stato?

BEAT. Tante cose mi ha dette, che troppo vi vorrebbe a rammentarsene. Il padre fuggito, la madre quasi violata, due fratelli uccisi; un vecchio l’ha raccolta bambina... Cose, vi dico, da formare il più bel romanzo del mondo.

OTT. Ma voi in sostanza non sapete niente.

BEAT. Non so e non m’importa sapere.

OTT. Che stravaganza è mai questa? Siete donna, e non avete avuto curiosità di sapere? In verità, questa volta sono più curioso di voi. In quella giovane vi è qualche cosa di stravagante. Orsù, manderò a chiamare Colombina, ch’è quella in casa di cui è stata alloggiata in questi sei mesi, ed ella ci dirà il vero.

BEAT. Sì, mandatela a chiamare, ne avrò piacere. (Vo’ sapere come Florindo si è innamorato). (da sé)

OTT. Oh, chi l’avesse mai detto, che quella giovane che mostrava esser sì buona, fosse per cadere in simile debolezza? Signora consorte, ecco che cosa siete voi altre donne. (parte)

BEAT. Che cosa siam noi? Niente meno degli uomini. Soggette siamo noi pure alle umane passioni, e queste qualche volta ci trasportano, ci violentano. Io che sospirava il momento di questa lunga villeggiatura, unicamente per il piacere di conversar con Florindo, vengo e lo trovo acceso d’amore, in atto di dar la mano di sposo, e ho da soffrirlo placidamente? Non ho da scuotermi? Non ho da dolermi? Eh, sarei stupida se lo facessi. Florindo è un mal creato, ed io lo tratto com’egli merita, quando deludendo le sue speranze, mi vendico col suo dolore. Pensai di fargli sparir l’amata; ma il caso l’ha in braccio condotta del suo rivale. Ciò mi giova assai più; poiché vengo ad ottenere il mio intento senza il pericolo di essere in me scoperta la cagione della sua fuga. Chi prende impegno con una donna, ci pensi bene, poiché o non gli riesce poi ritirarsi, volendo, o se lo fa con violenza, non è sicuro dalla femminile vendetta. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Camera d’osteria.

Lelio e Rosaura.

LEL. Via, non piangete. Siete con un galantuomo, con un uomo che vi vorrà sempre bene.

ROS. Sono con uno che mi vuol morta.

LEL. No, cara, vi voglio viva, e non morta.

ROS. Ditemi, per pietà, dove siamo?

LEL. Oh sì, in questo vi appagherò. Noi siamo in una camera dell’osteria della Posta.

ROS. Oh Dio! Una giovine onesta sopra d’un’osteria? E voi, signore, fate così poco conto dell’onor mio?

LEL. Cara Rosaura, vi vuol pazienza. Siamo in una terra. Qui è impossibile ritrovar una casa che vi ricoveri.

ROS. Che cosa volete far voi di me?

LEL. Sposarvi.

ROS. Sposarmi in un luogo così indecente?

LEL. Questa è una cosa che si può far da per tutto.

ROS. No, signor Lelio, non sarà mai.

LEL. Giuro al cielo, siete nelle mie mani.

ROS. Mi sposerete per forza?

LEL. Perché no?

ROS. Un tal matrimonio sarebbe nullo.

LEL. Bene, lasciate ch’io vi sposi, e poi annullatelo, se non vi torna comodo.

ROS. Le vostre parole mostrano di volermi in ogni modo infelice; ma io vi replico che follemente sperate...

LEL. Che follemente? Tu sei una scioccherella, non sei degna dell’amor mio, e se ho pensato sinora a farti mia per affetto, ora lo faccio per punire la tua baldanza. (Proverò a spaventarla). (da sé)

ROS. In ogni guisa mi sono orribili le vostre passioni, e sono pronta a morire prima di permettere che vi accostiate.

LEL. Quand’è così, morite, se vi dà l’animo, e contrastatemi il possesso della vostra bellezza.

(s’avanza per afferrarla)

ROS. Cieli, aiuto, pietà!

LEL. Ora siete nelle mie mani.

ROS. Oimè! (cade svenuta)

LEL. Eccola svenuta. Ora che devo fare? Una donna svenuta è lo stesso come se fosse morta. Che voglio io imperversare coi morti, o coi mezzi morti? Bisogna pensare a farla rinvenire, se si può. Chiamerò l’oste, e qualche soccorso mi presterà. (apre la porta)

SCENA VENTESIMA

Florindo colla spada alla mano, e detti.

FLOR. Traditore, ti ho colto.

LEL. Eh, giuro al cielo, non è più tempo. Ora la tua vita è nelle mie mani. (guadagnando la spada a Florindo, con uno stile alla mano)

FLOR. Saziati nel mio sangue.

LEL. Con questo stile ti voglio cavar il cuore. Ma prima osserva la tua bella; osservala in mio potere, svenuta per amor mio.

FLOR. Oh Dio! Dammi la morte, perfido, dammi la morte.

SCENA VENTUNESIMA

Bargello coi birri, ed i suddetti.

BARG. Alto, ferma, la Corte.

LEL. Indietro, o ch’io v’uccido. (i birri arrestano Florindo)

BARG. Questo è preso. Conducetelo alla prigione (ai birri)

FLOR. Infelice Rosaura, ti raccomando alla clemenza del cielo. (parte coi birri)

LEL. Che fate qui voi altri? Perché di qui non andate? (al Bargello)

BARG. Signor Lelio, favorisca venir colle buone; non si faccia maltrattare.

LEL. Eh temerario! Così parli con me? Vi ucciderò quanti siete. (i birri lo circondano, egli si difende, e tutti confusamente partono)

ROS. Oimè! Dove sono? Non vedo Lelio; la porta è aperta: qual nume tutelar mi difese?

SCENA VENTIDUESIMA

Il mastro di posta, Arlecchino e Rosaura.

MAST. (È questa la donna di cui parlate?) (ad Arlecchino)

ARL. (Sior sì, l’è questa).

ROS. (Costui è il servo della signora Beatrice). (da sé, osservando Arlecchino)

MAST. (Dite alla padrona che sarà servita. Ho letto il viglietto, ho trovato dentro il denaro. Il calesse è pronto. Ditele che fra un quarto d’ora la giovane sarà partita). (ad Arlecchino)

ARL. (Benissimo).

ROS. (Che dicono mai fra di loro? Mi trema il cuore). (da sé)

ARL. Siora incognita reverita, ghe son servitor. La fazza bon viazo, la me voia ben, e ghe baso milan. (parte)

MAST. Favorisca, signora, resti servita.

ROS. Dove?

MAST. Qui non istà bene.

ROS. Ma dove mi volete condurre?

MAST. In un luogo dove starà meglio.

ROS. Deh, per pietà...

MAST. Meno ciarle; io non ho tempo da perdere.

ROS. Andiamo; andiamo a morire. (parte col Mastro di posta)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera di Beatrice.

Beatrice ed Arlecchino.

BEAT. Vieni qui, che cosa diavolo dici?

ARL. Ghe digo cussì che Rosaura l’è montada in calesse e l’è andada via.

BEAT. Ma come? Se Lelio l’ha involata e l’ha seco condotta?

ARL. Ben, el l’ha menada all’ostaria; i è vegnù i sbirri, e i sbirri ha menà via l’ostaria.

BEAT. Vedi che non si può credere alle tue parole? Perché dici hanno condotto via l’osteria?

ARL. Voio dir la zente che era all’ostaria.

BEAT. E chi vi era?

ARL. Gh’era... gh’era...

BEAT. Florindo?

ARL. Giusto elo.

BEAT. E l’hanno i birri condotto via?

ARL. Gnora sì.

BEAT. E Rosaura?

ARL. L’è montada in calesse.

BEAT. E Lelio?

ARL. Anca lu.

BEAT. Anche Lelio in calesse?

ARL. No in calesse.

BEAT. Ma dove?

ARL. L’è andà via. L’ha fatto scampar i sbirri, el s’ha defeso, e el s’ha salvà.

BEAT. Ma, e Rosaura?

ARL. Oh, quante volte che ve l’ho dito! L’è montada in calesse e l’è andada via.

BEAT. Chi l’ha fatta andar via?

ARL. Mi.

BEAT. Tu? Come?

ARL. Col viglietto che m’avì dà.

BEAT. L’hai forse dato al mastro di posta?

ARL. Giusto a lu.

BEAT. Ed egli l’ha fatta partire per ordine mio?

ARL. Gnora sì.

BEAT. (Ora intendo. Rosaura è partita, per l’ordine che aveva dato). (da sé) E Florindo è prigione?

ARL. L’è in preson. Mi l’ho visto a chiappar.

BEAT. (Povero giovane! Farò ogni sforzo per liberarlo). (da sé) Con Rosaura è partito nessuno?

ARL. Un omo dell’ostaria.

BEAT. (Appunto secondo la commissione che ho data). (da sé) Sento gente; guarda chi è.

ARL. La servo. (parte, poi ritorna)

BEAT. Ancorché sdegnata sia con Florindo, non ho cuore di soffrirlo in carcere. Or ch’è partita Rosaura, e che sarà fra poco da mia sorella in Napoli fatta passar nel ritiro, Florindo si scorderà di colei e mi chiederà scusa dell’indegna azione commessa.

ARL. Sala chi è?

BEAT. E bene, chi è?

ARL. La posta.

BEAT. Come la posta? Vuoi forse dire il mastro della posta?

ARL. Giusto lu.

BEAT. (Verrà a rendermi conto della sua attenzione in servirmi). (da sé) Digli che passi... ma no, fermati. (Vien mio marito, non vo’ che mi veda parlar con costui). (da sé) Digli che parta e torni verso la sera.

ARL. Gnora sì. Vanne, ferma, digli, senti. Sia maledetto i matti. (parte)

SCENA SECONDA

Beatrice, Ottavio e Colombina.

OTT. Signora Beatrice, ecco Colombina; ella ci darà contezza della bella incognita.

BEAT. Quel bella lo potevate risparmiare.

COL. (Già, queste signore elle sole vogliono esser belle). (da sé)

BEAT. Diteci, quella donna, Rosaura è vostra congiunta?

COL. (Quella donna? Gran superbiaccia!) (da sé) No signora, non è niente di mio.

BEAT. Come ha fatto Florindo a innamorarsi di lei?

OTT. Consorte mia, questa interrogazione non ha niente che fare con quello che noi vogliamo sapere. Garbata giovane, venite qui.

COL. (Oh, il signor finanziere tratta un po’ meglio). (da sé) Che mi comanda?

OTT. Ditemi: questa Rosaura chi è?

COL. Vi dirò: sei mesi sono giunse in questa terra un uomo civile, di età avanzata, nominato Ridolfo, il quale mi ha conosciuta in Napoli, quando andava alle fiere colla mia povera madre, ed è stato anch’egli parecchie volte a villeggiare da noi. Venne, come diceva, un giorno a ritrovarmi e aveva seco Rosaura. Mi pregò di tenerla per qualche tempo in mia compagnia, promettendo pagar per essa le spese, e in fatti mi diede subito dieci ducati. A vedere dieci ducati in una volta saltai come un daino; ma a quest’ora, per dirla, me ne ha mangiati più di trenta. Però non importa, le voglio bene. (E prego il cielo di ritrovarla). (da sé, si asciuga gli occhi)

BEAT. E Florindo come si è introdotto?

OTT. Aspettate. (a Beatrice) Dite, Colombina carissima, quello che ve l’ha consegnata, vi ha detto chi ella fosse?

COL. Mi ha detto essere una giovane assai civile che per salvare la di lei vita era forzato tenerla occulta in un luogo lontano dalla città, e che da lì a pochi mesi sarebbe venuto a prenderla, o per ricondurla in Napoli, o per nasconderla in qualche luogo ancor più remoto di questa terra.

OTT. E non sapete niente di più?

COL. Ho detto tutto quello ch’io so.

BEAT. Ora posso chiederle di Florindo? (ad Ottavio)

OTT. Abbiate sofferenza. Gran premura avete di questo Florindo! Dalla giovane avete mai ricavato niente? (a Colombina)

COL. Niente affatto. Ella sa qualche cosa, ma non vuol parlare.

OTT. Ha detto di esser nobile?

COL. Sì, questo l’ha detto.

OTT. Ha detto nulla di che paese ella sia?

COL. Per quel che si sente, pare non sappia nemmen ella dove sia nata precisamente.

OTT. È mai uscita a dire, essere stata in pericolo per qualche amoretto?

COL. Mi ha giurato più volte non essere stata mai innamorata.

BEAT. Poverina! E appena ha veduto Florindo, subito si è accesa d’amore.

COL. Oh, son passati più di tre mesi ch’ella non lo voleva nemmen salutare.

BEAT. Poi come ha principiato?

COL. Dai un giorno, dai l’altro; la seguitava per tutto; veniva a passar le notti sotto la sua finestra. La povera giovane, vedendo l’amore e la fedeltà di quell’amabil giovanetto, non ha potuto resistere.

BEAT. Come ha fatto egli a venire in casa? Gli avete fatto voi la mezzana?

COL. Signora, mi perdoni...

OTT. Cara signora Beatrice, questa è una cantilena stucchevole. Voi badate a ricercare quello che a noi non deve premere né poco, né molto.

BEAT. Certo; a me non preme; ne dimandava per semplice curiosità. (Non mancherà tempo di ricercar costei per minuto). (da sé) Se avete altre interrogazioni da farle, fatele pure, ch’io mi ritiro; parmi però che il soggetto di cui si tratta, non meriti tanta cura. (Vadasi a liberare, se fia possibile, il carcerato, e sia la mia pietà un maggiore stimolo alla di lui gratitudine). (da sé, e parte)

SCENA TERZA

Ottavio e Colombina.

OTT. Che avete voi, che piangete?

COL. Parlando di Rosaura, non posso trattenere le lagrime.

OTT. Per qual ragione?

COL. Mi è sparita, non so dire dov’ella sia.

OTT. A voi non è noto ciò che l’è accaduto con Lelio?

COL. Oimè! Non so nulla, Lelio la perseguitava.

OTT. Sì, la perseguitava. Ella è una pazzerella; ella è fuggita con Lelio.

COL. Ah signore, non è possibile. La più onesta giovane non praticai di Rosaura.

OTT. Ma se è fuggita con Lelio!

COL. Perdonatemi. Non lo posso credere. Rosaura è onesta, e se il vero non dico, mi fulmini il

cielo. OTT. Dunque Lelio l’avrà rapita.

COL. Se così fosse, impetrerei per essa la vostra protezione.

OTT. Un’altra volta m’impegnai stamane a proteggerla.

COL. Deh, non l’abbandonate.

OTT. La farò rintracciare. Se fia possibile, la troverò e se Lelio l’avrà temerariamente insultata, me ne renderà stretto conto.

COL. Che siate benedetto! Il cielo vi feliciti per mille anni.

SCENA QUARTA

Mingone e detti.

MING. Signore, questo viglietto viene a lei. (dà il viglietto e parte)

OTT. Leggiamo.

COL. (Povera Rosaura! Nelle mani di Lelio?) (da sé)

OTT. Chi scrive è Rosaura. (a Colombina)

COL. Dov’è? Dove si ritrova? Povera sventurata!

OTT. Udite. Signore, sono in carcere e ne ringrazio i numi, i quali mi hanno preservata da una sventura maggiore. Ricorro a voi, che siete l’unico che possa in questa terra soccorrere un’infelice. Spero che mi userete gli atti della vostra pietà, e non abbandonerete alla disperazione la vostra serva Rosaura. Sentite? (a Colombina)

COL. Deh, non tardate a soccorrere la sventurata.

OTT. Sì, vado tosto a indagar dal governatore la causa della sua carcerazione. Farò tutto per renderle assistenza e soccorso, quando ella di ciò sia degna, e tale sia veramente, quale voi me l’avete amorosamente dipinta. (parte)

COL. Povera la mia Rosaura! ma più povera me, se torna il vecchio Ridolfo e non la trova più meco! Il povero mio marito è alla campagna e non sa nulla di ciò. Oh, voglia il cielo che vada bene, che Rosaura torni a casa come era prima; ma lo credo difficile. (parte)

SCENA QUINTA

Camera nell’osteria.

Eleonora, Ridolfo, cameriere dell’osteria.

CAM. Restino qui serviti. Questa è la camera migliore dell’osteria.

ELEON. Certa Colombina la conoscete voi? (al Cameriere)

CAM. Sì, signora, la conosco.

ELEON. È ella qui in Aversa?

CAM. Vi è senz’altro.

ELEON. Ridolfo, facciamola a noi venire?

RID. Anderò io a ricercar Colombina. Già ho pratica della terra.

ELEON. Sì, andate e conducete con voi Rosaura.

RID. Sarà tutta lieta nel rivederci.

ELEON. Sarà più lieta, quando saprà le nuove felici che le rechiamo.

RID. Ardo di volontà d’abbracciarla. (parte)

SCENA SESTA

Eleonora sola.

ELEON. Povera Rosaura, ella è stata finora un giuoco della fortuna; ma spero che questa instabile deità, fissato il chiodo alla ruota, stanca sarà di perseguitare una sventurata innocente. Io sarò l’araldo felice dei suoi contenti. Per la brama di essere la prima a mirar col labbro ridente l’afflitta giovane, ho bene impiegato questo piccolo viaggio, il quale, tutto che non ecceda le dieci miglia, comodo certamente non mi è riuscito. (siede) Stanca sono, e la stanchezza al riposo m’invita. Se non torna Ridolfo, sola addormentarmi non deggio. Ma il sonno sempre più mi violenta. Oh Dio! Un momento solo di quiete. (s’addormenta)

SCENA SETTIMA

Lelio, la suddetta, poi il Cameriere.

LEL. Non v’è l’oste? Non vi son camerieri? Non vi è nessuno che sappia rendermi conto... Come! Rosaura ancora svenuta? Che vedo? Questa non è Rosaura; ma se non è Rosaura, non è cosa da gettar via. Sola all’osteria della Posta chi mai può essere? Oh buono! Sarà un’avventuriera, ed io mi lascierò fuggir dalle mani una sì bell’avventura? Sarei ben pazzo, se lo facessi.

CAM. Signore, che fa ella qui? Nelle camere dei forestieri non s’entra con questa libertà. (a Lelio)

LEL. Briccone! Così parli con me? (gli dà uno schiaffo)

ELEON. Oimè! (si sveglia)

CAM. A me uno schiaffo?

LEL. Sì, a te, e per giunta un carico di bastonate. (lo bastona)

CAM. Ahi, ahi, aiuto! (parte)

ELEON. Misera me! In qual luogo son io venuta?

LEL. Prendi, e impara. (chiude la porta)

ELEON. Signore, chi siete voi?

LEL. Un galantuomo.

ELEON. Da me che volete?

LEL. Niente, signora, non vi sgomentate.

ELEON. Che fate in questa camera?

LEL. Ci sono venuto a caso.

ELEON. Perché chiusa avete la porta?

LEL. Per non essere disturbato.

ELEON. Ma che pretendete?

LEL. Niente altro che esibirvi la mia servitù.

ELEON. Sapete voi chi son io?

LEL. Non ho l’onor di conoscervi.

ELEON. Entrate in camera d’una donna che non conoscete?

LEL. Un uomo d’onore può entrar da per tutto.

ELEON. Gli uomini d’onore non perdono il rispetto alle dame.

LEL. Siete dama? Compatitemi. (si cava il cappello) Con tutto il rispetto. (s’inchina)

ELEON. Contentatevi di uscir di qui.

LEL. Come! Per essere una dama mi discacciate? Credete voi ch’io sia qualche uomo di villa?

ELEON. Qualunque voi siate, avete commessa un’azione indegna.

LEL. Perché un’azione indegna?

ELEON. Entrar in camera d’una donna che dorme? Chiuder la porta? Che pretendete voi di fare colla porta chiusa?

LEL. Se la porta chiusa vi offende, ecco che per obbedirvi io l’apro. (apre la porta)

ELEON. (Tornasse almeno Ridolfo). (da sé)

LEL. Ora sarete contenta.

ELEON. Sarò contenta, se voi uscirete da questa stanza.

LEL. Sono un uomo d’onore, e voi m’offendete se mi scacciate.

ELEON. Restatevi dunque, ed io partirò. (va per partire)

LEL. No signora, non partirete. (l’arresta)

ELEON. Mi userete voi un’impertinenza?

LEL. Vi pregherò di soffrirmi.

ELEON. Ditemi, che volete?

LEL. Placatevi, e parlerò.

ELEON. Parlate; vi ascolterò, se lo meritate.

LEL. Signora, qui non sono venuto per voi; ma poiché la sorte ha offerto ai miei lumi il vostro bel volto, sarei stato indegno di un bene, se non mi fossi trattenuto a mirarlo.

ELEON. Chi siete voi?

LEL. Son uno che si darà a conoscere, se voi avrete la bontà di manifestarvi.

ELEON. Né io vi dirò il mio nome, se voi a me non isvelate il vostro.

LEL. Dunque seguiteremo a discorrere senza esserci conosciuti.

ELEON. Spero che di qui partirete.

LEL. Per ora sarà difficile.

ELEON. Vi farò pentire della vostra insolenza.

LEL. Ora conosco che siete una gran signora. Principiate a parlare con dei termini gravi.

ELEON. In questa terra son conosciuta.

LEL. Io non vi conosco..

ELEON. Mi darò a conoscere al signor Ottavio del Bagno, ed egli mi farà rendere soddisfazione.

LEL. Ottavio del Bagno? Lo conoscete voi?

ELEON. Io non l’ho mai veduto; ma so esser egli informato della mia casa.

LEL. Signora, eccolo ai vostri piedi.

ELEON. Voi Ottavio? Il capo dei finanzieri?

LEL. Sì, il vostro servo.

ELEON. Perdonatemi se vi ho aspramente trattato, e concedetemi ch’io vi dica, che in villa non siete quell’uomo prudente che vi reputa la città.

LEL. Vi dirò, la libertà della villa concede qualche cosa di più. Signora, vi domando perdono.

ELEON. Non vi credeva capace di una simile debolezza.

LEL. Scusatemi, ve ne prego, e onoratemi di far che io conosca la dama, con cui favello.

ELEON. Eleonora son io dei conti di Castel Rosso.

LEL. Oh nobilissima dama! Servitore io sono della vostra famiglia, ch’io reputo per una delle più cospicue di questo regno. (Sia maledetto, se so nemmen che vi sia). (da sé)

ELEON. (Non mi altero di vantaggio, poiché d’Ottavio ne posso aver di bisogno). (da sé)

LEL. Ma, contessa mia, per qual motivo siete venuta in Aversa? Ditemi, siete sola?

ELEON. Ecco la persona che mi ha accompagnata.

LEL. Chi è quel vecchio?

ELEON. È un cavaliere siciliano; povero, ma onorato.

SCENA OTTAVA

Ridolfo e detti.

RID. Chi è questo signore? (ad Eleonora)

ELEON. Egli è il signor Ottavio del Bagno.

RID. Oh signore, vi riverisco. Il cielo mi offre opportunamente l’occasione di conoscervi, in tempo che della vostra assistenza ho estrema necessità.

LEL. (Che diavolo sarà mai?) (da sé) Eccomi pronto a servirvi. Comandatemi.

RID. Contessa, la vostra infelice Rosaura è carcerata.

ELEON. Oimè, che sento!

LEL. Dov’è carcerata Rosaura?

RID. In queste carceri del governatore.

ELEON. Per quale cagione?

LEL. Io, io la libererò. (La fortuna mi offre l’occasione di farla mia). (da sé)

RID. Io ho saputo la cosa confusamente... Mi dicono che un certo Lelio... Vi è nessun che ci senta? (osservando la porta)

LEL. No, no, non vi è nessuno: parlate.

RID. Un certo Lelio bravone, impertinente... (si guarda intorno per paura)

LEL. (Ah vecchio disgraziato!) (da sé)

RID. Un figlio di un mercante, che inquieta il paese, che solleva il popolo, che vive di prepotenza. (guarda come sopra)

LEL. (Or ora lo bastono). (da sé)

RID. Costui ha tentato rapir Rosaura. Gli è sortito di farlo. Fu sorpreso con essa in questa istessa osteria, e la povera giovane è carcerata.

ELEON. E di quel temerario che cosa avvenne?

LEL. (Maledetta!) (da sé)

RID. Non lo so. I birri lo volean prendere, e dicono si difendesse; spero che l’averanno ucciso.

LEL. (Or ora non posso più trattenermi). (da sé, freme)

RID. Signore, vedo che voi fremete all’udire simili iniquità. Per amor del cielo, assisteteci, liberate quella povera sventurata, e se Lelio non fosse estinto, e se quell’indegno fosse tuttavia in Aversa, procurate che sia fatto arrestare, che sia punito, ed abbia quella pena che merita un assassino.

LEL. Ma voi parlate assai male.

RID. Poco dico a quel ch’egli merita. Perfido, scellerato.

LEL. Ah vecchio indegno! Sai tu con chi parli?

RID. Oimè!

LEL. Io son quel Lelio che tu maltratti, e se non fossi canuto, ti balzerei ai piedi la testa.

ELEON. Come! Non siete voi il finanziere?

LEL. Sono il diavolo che vi porti. Così si parla di me?

ELEON. E voi così trattate coi forestieri?

LEL. Giuro al cielo, non so chi mi tenga...

RID. Via, ammazzatemi. Io non mi difendo.

LEL. Vecchio temerario, insolente. (lo getta in terra, e parte)

RID. Oimè.

ELEON. Oh Dio! Alzatevi.
RID. È partito?

ELEON. Sì, è partito.

RID. Andiamo dal governatore. (parte)

ELEON. Quanti accidenti! Quante disgrazie! Oh cielo! Dove anderà a finire l’inviluppo di tali e tante avventure? (parte)

SCENA NONA

Camera d’Ottavio.

Ottavio, Rosaura, poi Mingone.

OTT. Eccovi in libertà. A me il governatore non ha ritardata la grazia, affidatosi al carattere mio, che non sa proteggere che con giustizia. Or siete di bel nuovo nella mia casa, ma di qui non si esce, se prima non mi rendete sincero conto di voi medesima.

ROS. Signore, non ho mai ricusato di dire tutto quello ch’io so.

OTT. Chi è di là?

MING. Comandi.

OTT. Dite alla padrona che venga qui.

MING. Signore, ella non è in casa; è uscita collo sterzo, e credo sia andata dal governatore. (parte)

OTT. Sarà andata anch’essa a pregare per voi. Orsù, sediamo, e parlatemi con libertà.

ROS. (Oh Dio! Che mai sarà di Florindo?) (da sé, siede)

OTT. Rasserenatevi. Che mai vi rende così turbata?

ROS. Compatitemi, per pietà...

OTT. Ditemi liberamente; vi ascolterò con amore e vi assisterò con impegno.

ROS. Quanto so, ve lo dirò prontamente. Mio padre nacque nobile siciliano; aveva una bella moglie, e questa fu per lui la più fatale disgrazia. Un cavaliere se ne invaghì. Tentò vincere il di lei cuore, ma sempre invano. Acciecato da pazzo amore, provò insultarla, si difese la casta donna; passò l’empio alla violenza, ella con uno stile lo minacciò, ed egli con un pugnale l’uccise. Mio padre, per vendicar la morte della consorte, non potendo farlo colla strage dell’uccisore, fece trafiggere una sua figliuola, e il cavaliere nemico, benché lontano, fece privar di vita due miei innocenti fratelli. Ecco disfatta l’una e l’altra famiglia; ecco fuggiti ed esiliati li due nemici, confiscati li loro beni, ed io sola rimasta viva, forse perché in poter della balia, non ebbe agio d’avermi il distruttore del nostro sangue. Il buon Ridolfo, amico del povero mio genitore, mosso a pietà delle mie sventure, non ebbe cuore di abbandonarmi in quella tenera età. Mi accolse amorosamente e seco a Napoli mi condusse, e qual sua figlia mi nutrì, mi educò. Ecco quanto mi fu narrato dei casi miei, non dal prudente vecchio Ridolfo, il quale mi ha negato sempre darmi di me contezza; ma la contessa Eleonora di Castel Rosso, ch’è l’unica persona a cui note sono le mie vicende, non ha potuto di quando in quando negarmi qualche piccola soddisfazione. Ciò che a voi ho narrato in una volta, l’ho appreso a poco a poco nel giro di vari anni, e avendomi la contessa le cose senza ordine e senza pensiero narrate, ella non crede ch’io le abbia sì ben ritenute ed unite, onde sia in grado di formarne un racconto. Se più sapessi, più vi direi. Amo tanto la sincerità, che la preferisco ad ogni riguardo, e considerando esser voi un uomo saggio ed onesto, son certa di meritarmi la vostra protezione, depositando nel vostro cuore un arcano, che ho finora con tanta gelosia custodito.

OTT. Ma voi non sapete il nome di vostro padre?

ROS. Credetemi, signore, io non so né il nome di mio padre, né quello della mia vera patria, e se ho da dire il vero, dubito non essere nemmeno il mio vero nome quello con cui mi sento chiamare.

OTT. Per qual motivo siete stata condotta in questa nostra terra?

ROS. Mi ci ha condotto il mio benefattore, sei mesi sono.

OTT. Lo so, ma per qual causa?

ROS. Un improvviso pensiere lo fe’ risolvere a qui condurmi. Pareva ch’io gli fossi cagione d’alto timore. Pretese nascondermi in questa terra; mi consegnò a Colombina, promise che venuto sarebbe dopo qualche tempo a vedermi. Ma son passati sei mesi e invano l’attendo, e temo o ch’ei sia morto o qualche sventura lo tenga da me lontano.

OTT. E voi in luogo d’attendere il suo ritorno, e senza avere di lui novella, volevate fuggir con Florindo?

ROS. Le insidie di Lelio mi obbligavano a farlo. Florindo aveva promesso condurmi poche miglia da qui lontano, in luogo onesto e sicuro.

OTT. Fu sempre imprudente la vostra risoluzione.

ROS. Attender dovea che Lelio venisse colla violenza a insultarmi? Due mi volevano, uno colla forza, l’altro coll’amore; signore, a chi doveva aderire di questi due?

OTT. Brava, brava; vi difendete assai bene.

MING. Signore, manda il governatore a riverirla e dirle che due forestieri dimandano di Rosaura; onde, se si contenta riceverli, li ha mandati da lei.

OTT. Vengano pure. Chi sono?

MING. Sono uomo e donna. L’uomo è un vecchio, che si chiama Ridolfo.

ROS. Oh Dio! Ecco il mio benefattore, il mio amorosissimo padre. (si alzano)

OTT. Fate che passino. (Mingone parte) E la donna chi sarà mai? (a Rosaura)

ROS. Non lo saprei immaginare.

SCENA DECIMA

Ridolfo, Eleonora.

ROS. Che vedo? La mia contessa Eleonora?

ELEON. Cara Rosaura, lasciate che al mio seno vi stringa.

RID. Cara figlia... Signore, vi domando perdono. (ad Ottavio)

OTT. Seguite i vostri teneri affetti.

ROS. Quanto mi avete fatto penare!

RID. Ah ingrata! Quanto mi volevate far piangere... Signore, vi domando perdono. (ad Ottavio)

ELEON. Compatiteci. Egli ama questa fanciulla come figlia, ed io l’amo come sorella. (ad Ottavio)

OTT. Sono a parte dei vostri contenti.

RID. Lasciate ch’io vi abbracci, ch’io mi consoli... Signore, perdonatemi, siete voi il signor Ottavio?

OTT. Quello appunto son io.

RID. (Rosaura, è veramente egli il signor Ottavio del Bagno?) (a Rosaura)

ROS. (Sì, è desso).

RID. (Mi ricordo ancora di quello che mi ha stramazzato per terra). (da sé)

ELEON. Signore, abbiamo necessità dell’aiuto vostro. In me vedete la vostra serva Eleonora de’ conti di Castel Rosso. (ad Ottavio)

OTT. Nobilissima dama, qual fortunato incontro fa che da voi onorata sia la mia casa?

ELEON. L’affetto ch’io ho per questa buona fanciulla, mi obbliga a venire in persona a darle la più felice nuova del mondo.

OTT. Perdonatemi, se non conoscendovi... Presto... da sedere. Chi è di là?

MING. Signore.

OTT. Da sedere.

MING. Ho un’ambasciata da farle.

OTT. Presto. Compatite. (ad Eleonora)

MING. Il signor Lelio dei Bisognosi vorrebbe passare.

OTT. Lelio?

RID. Oimè! Il mio persecutore.

ELEON. Costui è un indegno che m’insultò.

RID. E questo fianco si ricorda di lui.

OTT. Che cosa vuole? (a Mingone)

MING. Io non lo so. Vuol passare.

OTT. Digli ch’io non lo posso ricevere, ma che a suo tempo lo tratterò come merita.

MING. (Se gli dico così, è capace di rompermi tutti i denti di bocca). (da sé, parte)

OTT. Scellerato! A tanto s’avanza?

ELEON. Egli mi ha fatto tremare.

ROS. Ed io sono stata per sua cagione nei maggiori affanni del mondo.

OTT. Come! Vuol venire a forza? (osservando la porta)

RID. Con vostra permissione. (parte)

OTT. Ritiratevi. (a Rosaura ed Eleonora)

ROS. Cielo, aiutami. (parte)

ELEON. Non ho veduto un temerario maggior di questo. (parte)

OTT. In casa mia? (a Lelio che entra)

SCENA UNDICESIMA

Ottavio e Lelio.

LEL. Perdonatemi...

OTT. Che pretendete da me?

LEL. Riverirvi e supplicarvi di non negarmi una grazia.

OTT. Vi ho pur fatto dire, che ora non vi poteva ricevere.

LEL. Ed io, che ho necessità di parlarvi, non ho potuto far a meno di darvi il presente incomodo.

OTT. Con i galantuomini non si procede così.

LEL. Finalmente non parmi avervi fatta una grande ingiuria. Son uomo onesto ancor io, e un finanziere non perde della sua nobiltà ad ascoltarmi. (con qualche alterezza)

OTT. Via, che pretendete?

LEL. In pochi accenti procurerò di sbrigarvi. Io amo Rosaura, e la desidero per mia sposa. Florindo l’ama, e la desidera al pari di me; ma di un tal rivale mi rido, e mi dà l’animo di aver Rosaura, s’ella fosse nel castello d’Armida. Spiacemi per altro avere inteso che voi difendiate la causa del mio rivale, e per la stima che ho di voi, vengo a pregarvi lasciarmi in libertà di poter disputare la sposa, senza mettermi in necessità di perdere il rispetto a chi tentasse di proteggere un mio nemico.

OTT. Voi credete con le vostre parole di mettermi in soggezione, ed io vi dico che ai pari vostri non rendo ragione della mia volontà.

LEL. Signor Ottavio, io ho parlato finora con tutto il rispetto.

OTT. Orsù, favorite andarvene da questa casa.

LEL. Non me n’andrò, se prima voi non mi dite...

OTT. Basta così. Ho dei servitori che vi sapranno condurre.

LEL. I vostri servi non mi spaventeranno più degli sbirri, che ho fatto precipitar da una scala.

OTT. (Costui arriva all’eccesso. È capace di tutte le iniquità). (da sé)

LEL. (Principia a temere). (da sé)

OTT. Ma finalmente che pretendete da me?

LEL. Colle buone, signor Ottavio, colle buone. Non vorrei che proteggeste Florindo.

OTT. Io per lui non ho ancora parlato; per lui non ho fatto passo veruno.

LEL. Se non l’avete fatto voi, l’ha fatto la vostra signora.

OTT. La signora Beatrice?

LEL. Ella appunto; e so di certo, ed ho relazione sicura, che ella sia poco fa passata dalle camere del governatore alla carcere di Florindo.

OTT. (Mia moglie alla carcere di Florindo?) (da sé)

LEL. Abbiamo un governatore troppo condiscendente, che si lascia condurre, che fa a modo di tutti, e voi, sia detto a gloria vostra, esigete più stima del governatore medesimo; onde faccio con voi quel passo, che con lui non mi degnerei di far certamente. Signor Ottavio, vi supplico, fate conto della mia amicizia, non mi ponete in cimento.

OTT. (Beatrice in carcere! Per liberar Florindo vi era bisogno d’andar in carcere?) (da sé)

LEL. Signore, che cosa mi rispondete?

OTT. Ci penserò.

LEL. Pensateci; attenderò le vostre risoluzioni.

OTT. Andate, ve le farò sapere.

LEL. Oh, di qui non parto senza la positiva risposta.

OTT. Parlerò con mia moglie; non so qual impegno possa ella aver preso.

LEL. La signora Beatrice verrà a casa, ed io l’attenderò.

OTT. Io devo uscire di casa mia.

LEL. Servitevi. Frattanto, se mi date licenza, passerò un atto di convenienza col padre, o sia tutore, o sia benefattore di Rosaura, che so essere in casa vostra.

OTT. Sì, è quello che voi avete insultato.

LEL. L’ho fatto non conoscendolo.

OTT. E vi è la dama, che avete egualmente offeso.

LEL. Le tornerò a chiedere scusa.

OTT. E vi son io, che stanco di più soffrirvi, vi dico che ve ne andiate.

LEL. Signor Ottavio, andiamo colle buone.

OTT. Giuro al cielo! Vi credereste di farmi una soverchieria?

LEL. Non vi assicuro della mia collera.

OTT. Temerario! Chi è di là?

LEL. Chi entrerà in questa porta, passerà per la punta di questa spada. (pone mano alla spada)

SCENA DODICESIMA

Pantalone ed i suddetti.

PANT. Mi passerò per sta porta, e no gh’averò paura della to spada.

LEL. Ah, vi ho detto che non vi arrischiate a venire.

PANT. Cossa voressistu dir, tocco de desgrazià? (si lancia alla vita di Lelio e gli leva la spada) Siben che son vecchio, gh’ho ancora forza per desarmarte, gh’ho ancora coraggio per castigarte. Sta spada ti meriteressi che te la cazzasse in tel cuor; ma per quanto un fio sia perfido e scellerato, el pare no ha da esser né giudice, né carnefice del proprio sangue. Mi te sparagno la vita; ma voggia el cielo che no la sia destinada a esser spettacolo ai occhi dei malviventi, e rossor e tormento e morte al povero Pantalon. Spada infame, spada indegna, che no ti xe stada mai impugnada per azion onorate, ma solamente per prepotenze, per iniquità: sì, te vôi scavezzar. (rompe la spada di Lelio) Cussì podessio romper i brazzi a quel desgrazià, che te portava in centura. Sior Ottavio, la me perdona. Son fora de mi. Sto fio me orba, el me fa dar in furor. La compatissa un povero pare, che dopo aver sparso tanti suori, xe in necessità de sparzer altrettante lagreme per un fio desgrazià. Furbazzo, ti sarà contento. Varda el to povero pare pianzer co fa un putello. No me posso più contegnir; la passion m’ha tolto la man, e prego el cielo che me toga presto la vita.

LEL. (Finalmente è mio padre, e m’intenerisce). (da sé)

OTT. Via, signor Pantalone, acquietatevi. Se vostro figlio degenera dai vostri onesti costumi, il mondo vi fa giustizia e si sa che siete un uomo d’onore.

PANT. Ah, sior Ottavio, l’amor del pare xe grando, e quanto xe più grando l’amor, tanto più cresce el tormento de véderse cussì mal corrisposto.

OTT. Vergognatevi, giovane scapestrato, indegno d’un sì buon padre. (a Lelio)

LEL. Voi m’insultate, perché non ho la mia spada, ma giuro al cielo, non mi crediate già disarmato. (ad Ottavio)

PANT. Come! Ancora arme ti gh’ha? Ancora arme? Vien qua, desgrazià; se ti gh’ha arme, tirele fora. (Sior Ottavio, no la vaga via).

LEL. Per carità, lasciatemi stare. (a Pantalone)

PANT. Mi no te lasso più star. Co ti gh’ha arme, fora arme.

LEL. Io non ho niente.

PANT. No te credo, no me fido. Tocco de sassin, fora arme. (Sior Ottavio, la staga qua).

LEL. Vi dico che non ho armi.

PANT. Sì, che ti gh’ha delle arme. Lassa véder. (s’avventa a Lelio e cade)

LEL. Lasciatemi stare.

PANT. Son qua, son ai to piè; mi no me levo, e ti no ti scampi, se no ti me dà le arme che ti gh’ha in scarsella. (Sior Ottavio).

LEL. (Non mi sono ritrovato più in un caso simile). (da sé)

PANT. Via, astu resolto? Vustu che me butta colla bocca per terra? No sperar che me leva, no sperar che te lassa.

LEL. (Non posso più; mi libererò dalla seccatura e non mi mancheranno altre armi). (da sé) Eccovi le mie pistole, eccovi il mio stile, che volete di più? Eccomi disarmato. Fate ora venire i birri, fatemi prendere, fatemi legare. Avrà il padre la gloria di aver sagrificato il suo figlio.

PANT. Gh’astu altre arme? (gli ricerca per le tasche)

LEL. E voi, signor Ottavio, ricordatevi che mi avete offeso, e che sempre non sarò disarmato.

PANT. (Oh che bestia! Oh che bestia!) (da sé)

OTT. Ancora minacce! Ancora insulti! Chi è di là? (vengono alcuni servi) Scacciate a forza quel temerario.

PANT. Fermeve. No, sior Ottavio, no la se prevala dell’autorità che gh’ha el pare sora del fio, per far le so proprie vendette. Mi l’ho desarmà, mi gh’ho levà ogni difesa, ma no l’ho fatto con animo de abbandonarlo a chi lo vol ingiuriar. El xe mio fio, l’ho desarmà acciò che no l’offienda nissun, ma se nissun vol offenderlo elo, son qua, lo defendo mi. El xe mio fio; el xe un scellerato, ma el xe mio fio. Vorria che el fusse castigà, ma vorria poderlo castigar mi. Me despiase che l’abbia offeso una persona de merito, de autorità. Mi ghe domando perdon per elo; ma no permetterò che el se descazza co fa un baron; el merita esser punio, ma un galantomo offeso no s’ha da far giustizia colle so man. Vorla che el vaga via? La gh’ha rason. Animo, vegnì con mi; sì, vegnì con mi, e considerè che mi son vostro pare per natura, vostro nemigo per giustizia, e vostro difensor per atto de carità. (parte)

LEL. Sono stordito. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Ottavio, poi Mingone.

OTT. Quest’uomo mi ha fatto rimanere fuor di me stesso. Andate. (i servi partono) Un padre di questa sorta è capace di operar più di tutti i castighi che dar si possono a un figlio di mal costume. Di questo fatto è necessario ne sia informato il governatore. Chi è di là?

MING. Comandi.

OTT. Allestitevi, ch’io voglio uscire. È ritornata la padrona?

MING. Sì signore, è ritornata con il suo Florindo.

OTT. Florindo era seco?

MING. Era nel carrozzino con lei.

OTT. Non occorr’altro. (Mingone parte) La premura che ha mia moglie per questo giovane, par ch’ecceda i limiti della pura amicizia. Non vo’ però tutto ad un tratto determinarmi a credere ciò che mi potrebbe suggerire la gelosia. Sarò cauto, e me ne saprò assicurare. L’uomo non deve né tutto credere, né tutto temere. La troppa fede inganna, il timore soverchio fa travedere. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Ridolfo e Rosaura.

RID. Orsù, venite qui, Rosaura, e frattanto che la contessa Eleonora va a far i suoi complimenti alla padrona di casa, discorriamola fra voi e me. Ancora non vi ho potuto dir nulla. Il padre di Lelio ci ha tenuti obbligati a quella portiera, e in verità non ho potuto trattenermi di piangere, vedendo il di lui coraggio e la di lui tenerezza.

ROS. Quanto è buono il padre, altrettanto è scellerato il figliuolo.

RID. Basta, pensiamo a noi. Sediamo un poco. Io son vecchio e non posso star lungamente in piedi. (siedono) Figlia, è giunto il tempo in cui vi è lecito di sapere il nome di vostro padre, quello della vostra patria e il vostro medesimo, mentre voi non vi chiamate Rosaura.

ROS. Qual è dunque il mio vero nome?

RID. Teodora.

ROS. E quel di mio padre?

RID. Ernesto.

ROS. Ed il cognome?

RID. Dei conti dell’Isola.

ROS. Sono io contessa?

RID. Sì, lo siete.

ROS. In qual paese ebbi il natale?

RID. In Cagliari, capitale della Sardegna.

ROS. Dunque non in Sicilia.

RID. No, ve lo assicuro.

ROS. Perché mi diceste più volte esser io siciliana?

RID. Per maggiormente occultare a voi stessa una verità, che vi poteva costar la vita.

ROS. Oh Dio! Da chi mai mi veniva questa insidiata?

RID. Da un fiero inimico del vostro sangue.

ROS. Da quello forse che uccise la mia sventurata madre e due innocenti fratelli?

RID. Come ciò vi è palese?

ROS. Lo seppi confusamente dalla contessa Eleonora.

RID. (Oh donne! Non vi si può confidare un arcano). (da sé) La contessa Eleonora ha quasi tradito una sua cugina.

ROS. E chi è mai questa?

RID. Voi lo siete. Poiché da due fratelli aveste la vita.

ROS. Ma perché dite ch’ella quasi mi abbia tradito?

RID. Perché ora m’avvedo da qual fonte uscita sia quella voce, che sparsa si era per Napoli, del vostro vivere; e siccome il conte Ruggiero avea giurato di voler spargere tutto il sangue della vostra famiglia, tremava sempre per il timor della vostra vita, temendo che anche d’Olanda, dove erasi refugiato il conte, potesse egli ordinare la vostra morte, come ha fatto quella dei due bambini. Sentii porre in dubbio che foste viva, e mi fu detto che l’inimico vostro era in Napoli; onde non tardai a togliervi dalla città e in questa terra condurvi per deludere sempre più le diligenze del temuto avversario.

ROS. Ed ora quai felici novelle mi avete voi a recare?

RID. Sì, figlia, felicissime e da voi inaspettate. Vostro padre, non meno che il suo nemico, furono esiliati dalla Sardegna. Il primo ricovrossi in Napoli, il secondo in Olanda...

ROS. Mio padre in Napoli? Ma ora dove si trova?

RID. Lo saprete opportunamente. Ciascheduno di loro, dopo il giro di venti anni, col mezzo dei buoni amici supplicò la clemenza del Re del perdono, e uscì il favorevol rescritto che, pacificati li due nemici, potessero ritornare alle case loro. Il conte Ruggiero, che fu il primo ad averne notizia, si portò in Napoli e cercò subito di vostro padre, ov’egli non ardiva darsi a conoscere; ma finalmente assicurato del motivo per cui veniva ricercato, si scoprì a persone delle quali potea meglio fidarsi. L’affare è maneggiato assai bene, si pacificherà col nemico, e anderà fra poco a godere i propri beni, la patria, gli antichi amici, e più di tutto goderà di voi sua unica e cara figlia, senza sospetti, senza riserve, e morrà contento, se prima potrà vedervi nello stato comodo, in cui siete nata.

ROS. Mio padre è in Napoli, ed io non l’ho mai conosciuto?

RID. Un esule della Sardegna non potea in Napoli manifestarsi senza timore.

ROS. Ed ora perché non viene a scoprirsi alla sua unica figlia?

RID. La pace non è ancor fra i due nemici conclusa.

ROS. E che si aspetta a concluderla?

RID. Che voi ne prestiate l’assenso.

ROS. Io? Si teme forse che del mio sangue possa io volere vendetta?

RID. No, udite. I mediatori di questa pace hanno stabilito, che per una vicendevole sicurezza d’essersi ogni odio estinto, voi abbiate a sposarvi al figlio unico del conte Ruggiero.

ROS. (Oimè! Che sento?) (da sé)

RID. In fatti, se queste due famiglie si uniscono, formeranno col tempo nei vostri figli la casa più potente della Sardegna. Né voi odiate lo sposo, né lo sposo è in grado di aver odio verso di voi. Quello dei genitori si sarà estinto cogli anni, e il desiderio di terminar i giorni felici nelle case loro paterne, li farà desiderare la concordia e la pace.

 ROS. (Ecco per me una nuova sventura!) (da sé)

RID. Ma voi molto poco lieta accogliete una nuova così felice. Che avete? In luogo di mostrare il riso sul labbro, vi cadono delle lagrime dalle pupille?

ROS. Oh Dio!

RID. Deh parlate! Non mi tenete sospeso. Ditemi, siete voi accesa di qualche fiamma amorosa?

ROS. Ah, negarlo non posso.

RID. Amereste voi forse il perfido Lelio?

ROS. Guardimi il cielo! Amo un giovane civile, onorato e di costumi illibati. Un giovane cittadino che per tre mesi ha pianto per me, senza che io mi sentissi intenerire dalle sue lagrime. Ma oh Dio! Le persecuzioni di Lelio, il non aver notizia di voi, la servitù dell’amante, lo stato miserabile in cui mi ritrovava, tutto mi ha stimolato a non ricusare un partito, che giudicai mi venisse offerto dal cielo.

RID. Sì, è vero; tutto ciò giustifica bastantemente la vostra condotta; ma non basta a sottrarvi dal matrimonio ch’io vi propongo. Si tratta di dare la vita ad un padre.

ROS. Dovrei dunque sagrificarmi alle nozze di uno che non conosco, di uno che probabilmente avrà ereditato dal padre l’odio ch’ebbe col nostro sangue e il disonesto amore che provò per la mia genitrice?

RID. Tutto ciò deve obliarsi e sarà certamente obliato. Son anni che si lavora per questa pace. Ella è conclusa, se voi volete.

ROS. Chi mi può chiedere il sagrificio del cuore?

RID. Un padre che vi diede la vita.

ROS. Questo padre ch’or vuole ch’io mi perda per lui, che cosa ha fatto per me? Vent’anni ha sofferto starmi vicino e non lasciarsi vedere? Mi ha abbandonata al destino, e se voi non mi aveste pietosamente soccorsa, morta sarei di fame. Venga da me mio padre, gli parlerò con rispetto; ma gli dirò che quella figlia, a cui egli non ha pensato per tanti anni, ora non è in istato di sagrificarsi per lui.

RID. Sì, figlia, eccolo quel padre a cui destini di parlare così. Eccolo: io son quello. Di’ che per venti anni a te non ho pensato, che ti ho lasciata morir di fame, ch’io sono un barbaro genitore, e che non merito da una figlia il sagrificio del cuore.

ROS. Oimè! Voi mio padre?

RID. Sì, io sono il misero conte Ernesto. Ah, se non fosse stato l’amore che a te mi teneva legato, sarei passato a vivere in libertà in un regno lontano. Per te ho penato, per te ho sofferto, per te sono invecchiato prima del tempo; ed ora son pronto, per non negarti la compiacenza di un folle amore, andar io stesso a offrire il mio sangue invece della tua mano. (s’alza)

ROS. Deh, fermatevi per pietà!

RID. Ah male spesi sudori! Ah lagrime sparse invano!

ROS. Uditemi. Io non mi credea di parlar con mio padre.

RID. Ma di tuo padre parlavi.

ROS. Né mi credea aver un padre tanto amoroso per me.

RID. Dillo, poteva amarti di più?

ROS. No certamente.

RID. E tu mi pagherai di così trista mercede?

ROS. No, padre, disponete di me.

RID. Sei tu risoluta di dar la mano a quello che io ti offro?

ROS. (Oh Dio!) (da sé) Sì, farò tutto per compiacervi.

RID. Ma tu peni a dirlo.

ROS. Peno, moro, il confesso. Amo Florindo, egli è vero; ma la pena ch’io provo, ma l’amore ch’io nutro, dia maggior merito alla mia obbedienza, e vi sia per questo più cara di vostra figlia la rassegnazione.

RID. Figlia, mia cara figlia, deh, lascia che al seno ti stringa.

ROS. (Ma, oh cieli! Possibile ch’io non abbia mai da sentir un piacere, senza che amareggiato mi venga da una più crudele sventura?) (da sé)

RID. Andiamo dunque. Non perdiamo inutilmente il tempo prezioso.

ROS. Partirò senza rivedere la mia amorosissima Colombina?

RID. Sì, la vedrai. La faremo venir con noi.

ROS. Oh Dio, partirò...

RID. Via, dillo: partirò senza vedere Florindo?

ROS. Sì, partirò senza vedere Florindo.

SCENA QUINDICESIMA

Florindo e detti.

FLOR. Come? Voi partirete senza vedermi?

ROS. Oimè! Qual vista? Caro Florindo...

RID. (Ora è men facile il condurla meco). (da sé)

FLOR. Signore, perché volete involarmi la mia Rosaura? Mia l’ho fatta con il mio amore, mia col sagrificio della mia vita, e non vi sarà sulla terra chi possa contrastarmi il possesso del di lei cuore.

RID. Sì, vi sarà.

FLOR. E chi fia quest’ardito?

RID. Io, che distaccandola dal vostro fianco...

FLOR. Ah, vecchio insensato... (mette mano sulla spada)

ROS. Fermatevi, egli è mio padre.

FLOR. Vostro padre?

RID. Sì, giacché l’incauta m’ha discoperto, sì, son suo padre. Avete voi ritrovato chi vi potrà contrastare il possesso del di lei cuore?

FLOR. Ah, perché piuttosto non ho io ritrovato un padre amoroso, che mi accordi il possesso della sua cara figliuola?

RID. Perché con altri ho disposto della sua mano.

FLOR. Oh Dio! Voi mi uccidete. E voi, Rosaura, soffrirete d’abbandonarmi?

ROS. Ah, quanto terminerei volentieri col mio morire il contrasto di due sì teneri affetti.

SCENA SEDICESIMA

Beatrice ed i suddetti.

BEAT. Olà, che si fa in queste stanze?

RID. Signora, ci siamo con licenza del padrone di casa.

BEAT. Ed io, che sono la padrona, vi prego andarvene in altro luogo.

RID. Son costretto obbedirvi. Figlia, andiamo. Signora, dov’è la contessa Eleonora?

BEAT. La troverete nella galleria, che vi aspetta. Di là dovete passare.

RID. Andiamo, figliuola.

FLOR. Deh, concedetemi ch’io vi siegua. (a Ridolfo)

BEAT. Giovane malnato, così pagate chi vi ha liberato di carcere?

FLOR. Che pretendete da me?

ROS. Florindo, addio.

BEAT. Uditemi. (a Florindo)

FLOR. Eh! (sprezzando Beatrice) Cara Rosaura...

SCENA DICIASSETTESIMA

Lelio con gente armata, e detti.

LEL. Allontanatevi quanti siete. (ferma Rosaura)

FLOR. Ah scellerato!

LEL. Uccidetelo, se si muove. Rosaura è in mio potere, e tu non isperare più di vederla. (a Florindo)

ROS. Padre, Florindo, raccomandatemi al cielo. (viene condotta via da Lelio e da uomini, due dei quali stanno con l’armi al petto di Florindo)

BEAT. Son contentissima. Perdono a Lelio l’insulto fatto alla mia casa, per veder fremere quell’ingrato. (parte)

RID. Oh vecchia età! Tu m’impedisci il seguirla. Numi del cielo, vi raccomando la sua innocenza. (parte) (Gli uomini lasciano Florindo, e partono)

FLOR. Perfidi scellerati, or mi lasciate? Or che non mi riuscirà d’arrivarla? Ma farò ogni sforzo per liberarla. Sì, a goccia a goccia spargerò il mio sangue, prima di abbandonare Rosaura. Perfido Lelio! Misero sventurato amor mio! (parte)

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Notte con luna. Bosco con capanna.

Colombina sola.

COL. Oh povera la mia Rosaura! Le tue disavventure vanno sempre di male in peggio! Tante me ne hanno raccontate, tante ne ho io vedute, che mi fanno stordire. Io non credo che in un giorno si sieno mai combinati tanti accidenti per affliggere una povera donna! All’alba del giorno s’avvia, attendendomi in compagnia dell’amante. Lo trova il rivale, si battono, ed ella fugge. Si ricovera in casa di un finanziere, e la moglie la discaccia; torna a incontrarsi con Lelio, la rapisce e la conduce sull’osteria. Egli la tenta, ella si difende, alla fine cade svenuta, e liberata dalle mani di un assassino, passa in quelle di un altro, che la costringe a salire in un calesse e partire senza sapere per qual parte del mondo. Gran cose! Incontra l’amante fra la sbirraglia, balza dal calesse, e vien condotta prigione. Di là la libera Ottavio, trova il padre ed una cugina, e nel mentre si crede felice, le propongono un matrimonio che la rende misera e sconsolata. Risolve seguire il padre, l’amante giunge, piangono, si tormentano, e in questo mentre ecco Lelio, che la rapisce la terza volta. Oh Dio! Dove l’avrà egli condotta? Secondo quel che mi hanno detto i villani, si avviarono gli scellerati alla volta di questo bosco. Può darsi che non fidandosi Lelio di altro ricovero, qui destini celarla sino all’alba novella. Almeno li riscontrassi. Parmi di sentir gente. Cresce il calpestio. Oimè! Sono in truppa. Sento piangere, sento gridare, principia a tremarmi il cuore. La curiosità cede il luogo al timore. Oh Dio! Eccoli. Mi celerò entro questa capanna. (entra nella capanna)

SCENA SECONDA

Lelio armato, Rosaura e vari armati.

LEL. Custodite i passi, e alcuno di voi s’aggiri d’intorno al bosco, per essere di qualche sorpresa opportunamente avvisati. (tre armati partono)

ROS. Oh dei! Che cosa sarà di me?

LEL. Via, cara, non piangete. Accomodate l’animo vostro ad incontrar quel destino, che vi viene dalla sorte esibito. Io non intendo oltraggiar l’onor vostro: vi bramo mia sposa, e tal vi prego di essere.

ROS. Quai luoghi indegni e fatali scegliete voi per le nozze? Prima un pubblico albergo, ed ora un bosco?

LEL. Se foste stata meco meno severa, vi avrei data la mano in casa di Colombina; ma poiché voi mi costringete a rapire ciò che tante volte vi ho chiesto in dono, non è poca sofferenza la mia, che io pur continui a pregarvi.

ROS. Che pretendereste di fare?

LEL. Potrei dir voglio.

ROS. Potreste uccidermi, e niente più.

LEL. Vi sono degli alberi e delle corde.

ROS. Vi sono i dei che proteggono l’innocenza.

LEL. Bene, o disponetevi ad esser mia, o vediamo se vi sarà chi possa trarvi dalle mie mani.

ROS. Credete voi così poco nella provvidenza del cielo?

LEL. Ora non ascolto che le voci dell’amor mio.

ROS. Amor perfido, amore scellerato!

LEL. Se più l’irritate, lo cambierò in fiero sdegno.

ROS. Oh, quanto temo meno il vostro sdegno del vostro amore!

LEL. Ne faremo la prova. Venite meco.

ROS. Dei, assistetemi.

UN ARM. Signore. (venendo dalla scena frettoloso)

LEL. Che cosa c’è?

UN ARM. Presto. Siamo sorpresi. La sbirraglia è poco lontana.

LEL. Amici, o salvarci, o morire. Se cadiamo in mano dei birri, la nostra morte sarà ignominiosa. Seguitemi, e non temete. Altre volte ho fatto fuggire questa canaglia.

ROS. Ecco, ecco il soccorso del cielo.

LEL. Giubbili, indegna, lusingandoti di fuggire? Giuro al cielo! Non ti riuscirà questa volta. Entra in quella capanna.

ROS. Oh Dio!

LEL. Cacciatela a forza. (a due armati)

ROS. Misera me! (entra nella capanna)

LEL. (Chiude) Voi restate alla custodia di questa donna, e se tenta fuggire, uccidetela. Saprò rimunerare la vostra fede. Eccovi intanto due zecchini per ciascheduno. Ecco in questa borsa la maggior parte dell’oro che aveva mio padre... Sentite il calpestio. Prendiamo i posti, e attendiamoli al varco. (parte cogli armati, restando due alla custodia di Rosaura, i quali si ritirano dietro alla capanna)

SCENA TERZA

Arlecchino con lanterna accesa.

ARL. Sia maledetto sto servir zente matta. Se pol dar de sta me patrona, che la vol per forza che vada a st’ora a trovar Florindo? E tolì, per causa soa son andà squasi in preson. L’è che semo amici coi sbirri, da resto i me cuccava senz’alter. Sarà mèi che fazza quel che m’ha dit el barisello, e che chiappa sti quattro paoli, e se la patrona vol aspettar, che l’aspetta. Za non ho da far alter che zirar qua intorno, e se vien zente, avvisarlo. Oh, sto mestier el me pias più del servir. Quattro paoli vadagnadi senza fadiga? Mo l’è la più bella cossa del mondo. (in questo punto si sentono delle schioppettate) Oh poveretto mi! Coss’è sto negozio? Oimè, presto, dove me nascondio? Anderò in sta capanna. (i due armati escono con lo schioppo, e fanno il chi va là) Aiuto, son morto. Salva, salva. (fugge via)

SCENA QUARTA

Lelio con armati.

LEL. Eccoci liberati ed illesi, il lume della luna ci ha favorito. Quei vili parte son morti, e parte sono fuggiti. Vi siete portati da valorosi; tenete, eccovi il premio che meritate. (dà denari a tutti) Amici, entrate nella capanna, prendete la donna, guidatela a me viva o morta, e seguitemi. Io vi precedo, per iscoprire se qualche nuovo tradimento ci fosse. (parte con alcuni armati)

SCENA QUINTA

Colombina condotta fuori dalla capanna a forza dai due uomini armati.

COL. Scellerati, che volete da me? Io non sono quella che ricercate. Aiuto, povera me! La mia pudicizia. (vien condotta via)

SCENA SESTA

Arlecchino solo.

ARL. No me par che ghe sia più nissun. Posso arrischiarme de vegnir fora de sti alberi. Se savesse mo dove trovar el barisello, vorria andarghe a dir che ho sentido della zente e delle schioppetade. Mi crederia che i quattro paoli el me li dasse. Quando ghe digo quel che ho sentido, ho fatto el mio debito.

SCENA SETTIMA

Rosaura dalla capanna, ed il suddetto.

ROS. Oh Dio! Dove sono?

ARL. (Zitto, che gh’è dell’altra zente).

ROS. Sapessi almeno dove ricovrarmi.

ARL. Una donna!

ROS. Oimè. Ecco un altro assassino.

ARL. Come parlela, signora? Son un galantomo.

ROS. Mi par di conoscerlo. Dite... siete voi il servo del signor Ottavio?

ARL. Oh diavolo! Siora Rosaura, ben tornada, cossa fala! Ala fatto bon viazo?

ROS. Deh, assistetemi per carità.

ARL. Coss’è stà? Ala mal?

ROS. Conducetemi dal vostro padrone.

ARL. Ma no posso; ho un poco da far.

ROS. Vi prego per carità.

ARL. El barisello m’aspetta.

ROS. Tenete questo piccolo anello e fatemi un tal piacere.

ARL. (Sto anello el valerà più de quattro paoli). (da sé) Basta, per farghe servizio, andemo.

ROS. (Oh Dio! E la povera Colombina? Dove sarà stata condotta? Che l’abbiano in vece mia strascinata?) (da sé) Ditemi, avete voi veduta un’altra donna per questo bosco?

ARL. Mi non ho sentido altro che delle schioppetade; e andemo via, avanti che i replica el ponto.

ROS. Sì, andiamo. (Mi sta sul cuore la mia povera Colombina). (parte con Arlecchino)

SCENA OTTAVA

Camera di Ottavio con lumi.

Ottavio e Beatrice.

OTT. Orsù, preparatevi a partire per Napoli, e in Aversa non pensate a villeggiare mai più.

BEAT. Perché una sì repentina risoluzione? Avete voi soggezione di Lelio? A momenti si aspetta da Napoli un rinforzo di birri con una compagnia di soldati per arrestarlo, e quando alla giustizia non riesca di averlo, a voi non manca il modo di farlo uccidere e vendicarvi.

OTT. Gl’insulti che ho ricevuti da Lelio, non anderanno impuniti; ma questo non è il pensiere che più mi occupa, e che mi fa risolvere l’abbandonamento di questa terra.

BEAT. Dunque che mai vi agita?

OTT. Voi e la vostra imprudenza.

BEAT. Io? Come?

OTT. Avete fatto bastantemente parlar di voi. Le vostre premure per Florindo sono troppo avanzate. Ne dubitai alla prima, ora certo ne sono. Me lo assicurano i ministri del governatore, me lo accerta la servitù, e Florindo istesso, tuttoché colorir procuri con aria di pietà la vostra passione, non sa negarmi di essere da voi con tenerezza distinto. Una moglie onorata non deve nutrir pensieri, li quali a poco a poco scordar le facciano il suo decoro. Io non penso già che la vostra passione ecceda i limiti dell’onestà: che se ciò mi credessi, un veleno, uno stile, sarebbero i vendicatori dell’onor mio. Ma poiché tutte le passioni si rendono col tempo pericolose, riparerò opportunamente ai disordini del vostro cuore. All’alba del giorno salirete nel carrozzino; andrete a Napoli, non vedrete più questa terra, e se non cambierete costume, più non vedrete la luce del sole. (parte)

SCENA NONA

Beatrice sola.

BEAT. È svelata la mia parzialità per Florindo, nota è ad Ottavio; e domani principierò a disperare di più vederlo. Che mi suggerisce la mia passione? La via di mezzo è perduta. Siamo agli estremi, o perdere il cuore, o arrischiare il decoro. Ah, pur troppo ora m’avvedo che lusingava me stessa, allorché mi credea che la parzialità per Florindo non fosse amore. Gelosia non si dà senza amore, e chi vuol far prova se ami o no il proprio cuore, esamini s’egli è geloso. Sì, partirò, mi scorderò di Florindo; ma non soffrirò mai la ria memoria della sua ingratitudine. Nel giorno ch’io lo traggo di carcere, pianger sugli occhi miei per una donna da me aborrita? Perfido! Ti odio quanto ti amai, e se dall’onor mio mi vien vietato l’amarti, non mi sarà impedito di farti tutto quel peggio che mai potrò.

SCENA DECIMA

Arlecchino e detta.

ARL. Siora patrona.

BEAT. Ebbene, hai ritrovato Florindo?

ARL. No l’ho trovà in nissun logo. Gh’ho da parlar.

BEAT. Che vuoi tu dirmi?

ARL. L’è tornada.

BEAT. Chi?

ARL. Rosaura.

BEAT. Dov’è tornata?

ARL. L’è qua in sala, che la domanda el patron.

BEAT. Rosaura è qui? Come fuggì nuovamente da Lelio? Lelio dove si trova?

ARL. Giusto adess, vegnindo in qua, l’ho visto a scuro e l’ho cognossù, che l’avriva la porta della so casa.

BEAT. Ed egli non ha veduto te?

ARL. No l’ha visto né mi, né Rosaura che era con mi.

BEAT. Ma come Rosaura è teco?

ARL. L’ho trovada per la strada.

BEAT. Io ti ho mandato a ricercare Florindo; l’hai forse ritrovata verso la di lui casa?

ARL. Siora sì, verso la di lui casa.

BEAT. Voleva ella ricoverarsi colà?

ARL. Giusto colà.

BEAT. (È giunta a tempo nelle mie mani). (da sé) Dunque Lelio è in casa?

ARL. L’ho visto mi.

BEAT. L’hai veduto solo?

ARL. L’era solo. In lontan gh’era dell’altra zente, ma no credo che i fusse con lu.

BEAT. Fa che entri Rosaura... Tu non partire dall’anticamera, che avrò bisogno di te.

ARL. Non occorr’altro. (Se sfadiga assae e se magna poco. Se no m’inzegnasse de fora via, poveromo mi). (da sé, parte)

BEAT. Costei mi somministra un’occasione opportuna per vendicarmi di Florindo.

SCENA UNDICESIMA

Rosaura e la suddetta.

ROS. (Oimè! in luogo del marito trovo la moglie!) (da sé)

BEAT. Accostatevi, Rosaura mia, e non temete. Finalmente ho scoperto che siete una saggia ed onesta giovine, ho risaputo l’esser vostro, ho pietà delle vostre disavventure, e sono disposta a far tutto per rendervi consolata.

ROS. Signora, il cielo rimuneri la vostra pietà. Ma ditemi, se il ciel vi salvi, dov’è mio padre?

BEAT. Vostro padre non è molto di qui lontano, e se bramate vederlo, vi farò scortare dov’egli presentemente si trova.

ROS. Non mi potete fare grazia maggior di questa.

BEAT. Come avete fatto a liberarvi dalle mani di Lelio?

ROS. Oh Dio! Non lo so. Guidommi al bosco, mi chiuse in una capanna. Colà per prodigio vi ritrovai Colombina; ella mi fu levata, rimasi sola; trovai il vostro servo... Signora, sono agitata a segno che non so nemmeno s’io viva.

BEAT. Povera sventurata! Ditemi, avete più veduto Florindo?

ROS. Ah, non mi parlate di lui.

BEAT. Lo vedreste voi volentieri?

ROS. Oh Dio! Non mi tormentate.

BEAT. (Così potessi levarti il cuore). (da sé)

ROS. Per pietà, mandatemi dal mio genitore.

BEAT. Florindo sarà poi vostro sposo?

ROS. Sarà di me tutto quello che è scritto lassù nel cielo.

BEAT. (No, non sarà scritto che tu sia sposa di lui). (da sé) Via, rasserenatevi; se non potete esser lieta colla vista del vostro amante, lo sarete con quella del vostro genitore. Ehi, Arlecchino.

SCENA DODICESIMA

Arlecchino e le suddette.

ARL. Signora.

BEAT. Condurrai questa giovine a quella casa, ove trovasi il di lei padre.

ARL. Ma dov’èla sta casa?

BEAT. Sciocco, non lo sai?

ARL. No me l’arricordo.

BEAT. Nel venir che facesti a questa volta, non vedesti tu entrare un uomo solo in una casa?

ARL. È vero.

BEAT. Bene, colà devi condur Rosaura.

ARL. Là donca sta so pader?

BEAT. Sì, là sta suo padre.

ARL. (Bisogna che la sia fiola de Pantalon e sorella de Lelio). (da sé) Siora sì, la condurrò là.

ROS. Oh Dio! Che non errasse il vostro servo.

BEAT. Non può errare. Avverti non isbagliare la casa.

ARL. Non èla dove sta quel vecchio?

BEAT. Sì, per l’appunto.

ARL. Quel vecchio forestier?

BEAT. Sì, quel vecchio è suo padre.

ARL. (Oh bella! L’è fiola de Pantalon!) (da sé) Andemo, andemo, che ve menerò da vostro pader.

ROS. Lo conoscete voi?

ARL. Oh, se lo cognosso. Chi diavol averia dito che quel fosse vostro pader?

ROS. Né io certamente l’avrei creduto.

ARL. Via, via, andemo.

BEAT. (Senti. M’intendesti. Alla casa di Lelio). (piano ad Arlecchino)

ARL. (Sì, ho inteso. In casa de so pader). (a Beatrice)

BEAT. (E fa che passi nelle mani di Lelio).

ARL. (Sì, de so fradello).

BEAT. (Che dici?)

ARL. (Ho inteso tutto). Son a servirla. (a Rosaura)

ROS. (Il cuore mi presagisce qualche nuova sventura). (da sé)

BEAT. Via, andate. (a Rosaura)

ROS. Ah signora, non mi tradite.

BEAT. Mi maraviglio di voi. Così parlate a una donna che vi soccorre?

ROS. Perdonate; andiamo. (ad Arlecchino)

ARL. Son qua. Sta notte fazzo el menador. (parte con Rosaura)

BEAT. Se Arlecchino non mi tradisce per ignoranza, Rosaura torna in mano di Lelio, e Florindo rimane un’altra volta deluso. Più di lui non mi curo. Domani partirò per non più rivederlo; ma partirò contenta, se partirò vendicata. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Camera terrena in casa di Pantalone.

Lelio ed un armato.

LEL. Mio padre sarà ito al riposo; i servi non si sentono. Introduci nella mia camera la donna che levasti dalla capanna. (armato parte) Rosaura sarà mia a suo dispetto. Qui siamo in un appartamento terreno, dove difficilmente posso essere scoperto: abitazione ch’io scelta mi sono per essere in maggior libertà. Strilli pure Rosaura, non saranno intese le di lei voci.

SCENA QUATTORDICESIMA

Colombina ed i suddetti.

LEL. Che volete voi qui? (a Colombina)

COL. Voi che volete da me, che mi avete fatto condurre? (a Lelio)

LEL. Io vi ho fatto condurre?

COL. Sì, voi; da me non ci sarei venuta, se avessi creduto di guadagnare un milione.

LEL. Dov’è Rosaura?

COL. Voi lo saprete meglio di me.

LEL. Ehi. Dove siete? (chiama)

ARM. Signore.

LEL. Dov’è Rosaura?

ARM. Chi è questa Rosaura?

LEL. Quella che vi ho ordinato togliere dalla capanna e condur meco.

ARM. Eccola qui.

LEL. Questa?

COL. Sì signore, io era nella capanna con Rosaura, e quei bricconi mi hanno preso invece di lei.

LEL. Oh stelle! Che cosa sento? Ma voi che facevate là dentro?

COL. Mi era rimpiattata per la paura.

LEL. E perché tacere?

COL. Ho gridato; ma coloro non si sono mossi a pietà.

LEL. Voi perché prender questa, e lasciar quell’altra? (all’armato)

ARM. Questa è quella che si è presentata alla porta della capanna.

COL. (La mia curiosità mi ha fatto essere più vicina alla porta). (da sé)

LEL. Son disperato. Son fuor di me. Non so chi mi tenga, che non isfoghi la mia collera contro di te. (a Colombina)

COL. Non ci mancherebbe altro, che vi sfogaste contro di me.

LEL. E tu, maledetto, tu me la pagherai. (all’armato)

ARM. Io non ci ho colpa. (parte)

COL. Signore, lasciatemi andare.

LEL. No; giacché ci sei, ci devi restare.

COL. Che cosa volete fare di me?

LEL. Lo vedrai, lo vedrai.

COL. (Oh marito mio, ci sono). (da sé)

ARM. Signore, state allegro. (tornando)

LEL. Perché?

ARM. È qui da voi quella Rosaura che cercate.

LEL. Come? Chi la conduce?

ARM. Arlecchino, servitore del signor Ottavio...

LEL. Che favola è questa? Io non l’intendo.

ARM. Volete che ella passi?

LEL. Sì, venga.

ARM. Manco male, sarà contento. (parte)

LEL. Andate via. (a Colombina)

COL. Lasciatemi vedere la mia Rosaura.

LEL. Andate via.

COL. Vi prego...

LEL. Andate, o vi caccio dalla finestra.

COL. Aiuto.

SCENA QUINDICESIMA

Rosaura ed i suddetti.

ROS. Dov’è Colombina?

COL. Mi caccia via.

ROS. Dov’è mio padre?

COL. Qui vostro padre? Altro che padre! Osservate. (le mostra Lelio)

ROS. Oimè! Son tradita. (vuol partire)

LEL. Fermatevi, e voi partite. (a Colombina)

COL. Vado, vado.

LEL. Subito.

COL. Sì, vado. (Oh, se mi riuscisse avvisar il signor Pantalone! Se potessi mandar gente a soccorrerla! Ma questi cani non lascieranno passar nessuno). (da sé parte)

SCENA SEDICESIMA

Lelio, Rosaura ed armati.

LEL. Eccovi per la quarta volta nelle mie mani.

ROS. Ah, mi ha tradita Beatrice!

LEL. Chi? La consorte di Ottavio?

ROS. Sì, ella. Col pretesto di farmi trovare il padre, mi ha crudelmente sagrificato.

LEL. Quando vedrò la signora Beatrice, la ringrazierò di una tal finezza (Ma Colombina uscita andrà a spargere che è qui meco Rosaura). (da sé) Elà. (si accostano gli armati) Io chiudo la porta, voi restate in quell’altra stanza, e sia chi esser si voglia, nessuno entri. Mio padre sarà al riposo; ma se mai venisse, avvisatemi. Al nuovo giorno andremo in luogo sicuro. In questa notte non abbiamo a perdere il frutto delle nostre fatiche. Andate, e niuno passi, e se alcuno si introducesse, ammazzatelo. (armati partono, e Lelio chiude la porta)

ROS. (Ahi, che il dolore mi opprime! Cielo, assistimi, che io non torni a svenire). (da sé)

LEL. Orsù, Rosaura, è tempo che pensiate a rasserenarvi, considerando che di qui non si esce senza esser mia; siate saggia, e la necessità v’insegni ad accordarmi la vostra mano, se non volete ch’io mi prevalga dell’occasion favorevole per obbligarvi.

ROS. Signore, le tante volte che replicate mi avete simili ingiuriose voci, mi hanno insegnato a meno temerle. Vi dirò francamente che invano mi chiedete la destra, e che pria di concedervi una minima parte di questo cuore, spargerò tutto il sangue delle mie vene.

LEL. Eh, giuro al cielo... Questo sangue che sparger volete... (si sente rumore alla porta laterale) Oh diavolo! Chi mai sarà che entrar tenti per questa porta segreta? Ah, altri che mio padre non può saperla. Ma giuro al cielo, non entrerà. (va a difender la porta, e si sente che la buttano giù) (Mio padre viene ad arrischiare la vita). (da sé) Amici, soccorretemi. (vuol aprir la porta)

SCENA DICIASSETTESIMA

Pantalone e detti. Pantalone butta giù la porta segreta, ed entra con lume e pistolese.

PANT. Férmete, desgrazià.

LEL. (Ah maledetta porta! Come diavolo l’ha egli gettata a basso sì facilmente?) (da sé)

PANT. Tocco de furbazzo! T’ho trovà sul fatto. Xe un pezzo che so che ti te diletti de menar donne in sta camera. Cossa fastu de quella povera putta?

LEL. Ma chi diavolo ha detto a voi che io era qui?

PANT. Colombina me l’ha dito. Sì, Colombina m’ha trovà a tola, che magnava la mia panada.

LEL. Orsù, signor padre, io non sono quel perfido che voi pensate. Questa giovine io la desidero in moglie. Fino che ella era un’incognita, voi potevate negarmela con ragione; ma ora che si è scoperta essere la figlia del conte Ernesto dell’Isola, spero che mi procurerete una sì buona fortuna.

PANT. Cossa disela, siora, lo vorla mio fio? (a Rosaura)

ROS. No certamente, e prima morirò che sposarlo.

PANT. Sentistu? (a Lelio)

LEL. Via, pregatela, ditele delle buone parole.

SCENA DICIOTTESIMA

Ridolfo ed i suddetti.

RID. Oimè! Figlia? Sei tu qui? Sei tu salva?

ROS. Ah padre, assistetemi per pietà.

PANT. No ve dubitè gnente, son qua mi, e vostra fia la defendo mi. (a Ridolfo)

LEL. Che pretendete voi qui? (a Ridolfo)

RID. Pretendo la mia unica figlia.

LEL. Chi vi ha detto che ella era in mia casa?

RID. Lo seppi da Colombina.

LEL. (Ah, lo dissi! Colei ha rotto ogni mio disegno). (da sé)

SCENA DICIANNOVESIMA

Ottavio ed i suddetti.

OTT. Dove non è chi riceva le ambasciate, si passa per necessità. Signor Pantalone, di voi veniva in traccia. Trovai la prima porta chiusa e difesa, e Colombina mi facilitò per altra parte l’accesso.

LEL. (Diavolo, portati Colombina. Ci mancava costui). (da sé)

PANT. Cossa me comanda el sior Ottavio?

OTT. Un uffiziale di Sua Maestà desidera con voi parlare. Egli è mio amico, ed io l’ho accompagnato alla vostra casa.

LEL. Non introducete uffiziali. (a Pantalone)

OTT. Eccolo. Passate, signor tenente, passate.

SCENA VENTESIMA

Un Tenente con sei granatieri.

OTT. Questi è il signor Pantalone dei Bisognosi. (al Tenente)

LEL. (Se verrà per arrestarmi, l’ucciderò). (da sé)

TEN. Signore, la vostra casa è circondata da sessanta soldati, e quaranta birri in distanza aspettano il vostro figliuolo. (a Pantalone)

LEL. Io? Giuro al cielo...

TEN. Fermate. Ecco sei granatieri, li quali hanno ordine di ammazzarvi, se resistete.

LEL. Olà, dove siete? (vuol chiamare i suoi armati)

PANT. Férmete, cossa fastu?

LEL. Dove siete? dico.

PANT. Vustu far una guerra in casa?

LEL. (Ah che i codardi mi hanno abbandonato. Spaventati dal numero dei soldati, mi hanno lasciato solo. Misero! Che farò?) (da sé)

TEN. Arrendetevi per vostro meglio. (a Lelio)

LEL. Sì, le armi onorate dei soldati fanno quell’impressione nell’animo mio, che non han fatto quelle dei birri. Io che ho rovesciata la sbirraglia giù per una scala, io che l’ho disfatta in un bosco, cedo e mi arrendo a un piccolo numero di soldati, assicurandovi che ho coraggio per saper morire colla spada alla mano.

TEN. Cedete la spada.

LEL. Eccola. (Maledetto destino). (dà la sua spada al Tenente, ed egli ad altra persona)

PANT. Sior offizial, per carità, cossa sarà del mio povero fio?

TEN. Siccome i suoi delitti non sono che di superchierie, non credo che il suo castigo eccederà la prigionia di un castello.

PANT. Vedeu? Questo xe quello che se vadagna a far el bravo, a far l’impertinente. No so cossa dir. Ti xe mio fio, e me despiase véderte in sto miserabile stato, ma co penso che stando in t’un castello e provando i rigori della giustizia, ti pol far giudizio e schivar mazori pericoli e castighi più grandi, ringrazio el cielo; accetto sto dolor per una providenza del cielo, e morirò più contento, se te lasso in un liogo che pol esser un zorno la to salute. (a Lelio)

LEL. Per quel che sento, voi non impiegherete un passo per liberarmi. (a Pantalone)

PANT. Ghe penserò. (Cagadonao, ti m’ha fatto paura anca a mi). (da sé)

TEN. Per questa notte qui resterete in arresto con sentinella di vista. Ehi, prendete i posti. (i soldati con baionetta in canna occupano le due porte)

RID. Signor Pantalone, con vostra licenza, prendo mia figlia e meco me la conduco.

PANT. Per mi, comodeve pur.

LEL. (Che smania non poterlo impedire). (da sé)

RID. Figlia, andiamo.

ROS. Eccomi ad ubbidirvi. (piange)

RID. Oh Dio! Quando avrai finito di piangere?

ROS. Quando avrò finito di vivere.

RID. Perché non ringraziare il cielo di averti preservata da tante e tante sventure?

ROS. Ah, una me ne riserba, che avvelena tutte le mie contentezze.

RID. T’intendo. Tu peni per le nozze che io ti propongo. Odimi; io t’amo, e pria di vederti dolente, sagrifico anco la mia vita alla tua passione.

ROS. No, padre, andiamo pure; troppo avete per me sofferto, troppo a voi devo. Sarei un’ingrata, se ricusassi di compiacervi.

SCENA VENTUNESIMA

Florindo e detti.

FLOR. Deh, prima che da me v’involiate, permettetemi, cara Rosaura, che due parole vi dica; me lo conceda il padre, me l’accordi il padrone di questa casa. Rosaura, io vi ho amata, vi amo e vi amerò sempre. Compatisco la necessità che vi stacca dall’amor mio, voi sarete d’altrui, ma io sarò sempre vostro. Voi vi sposerete fra poco, io morirò quanto prima.

ROS. Oh Dio! Non posso né rispondere, né mirarlo. (piange)

LEL. (Manco male; se non l’ho io, non l’abbia nemmeno il mio rivale). (da sé)

RID. Rosaura, andiamo. Compatite. (a Florindo)

TEN. Signore, chi sono questi che piangono? (a Pantalone)

PANT. Do poveri innamorai che se lassa. Questo xe un certo Florindo Ardenti, e quella la contessa dell’Isola, quondam Rosaura.

TEN. Dov’è suo padre? Dov’è il conte Ernesto?

RID. (Oimè! Son conosciuto). (da sé) Eccomi ai vostri cenni.

TEN. Con l’occasione che io venni ad eseguire in questa terra gli ordini regi, mi fu data una commissione per voi. Gli amici vostri, che trattato hanno il vostro accomodamento col conte Ruggiero, vi fanno sapere che il di lui figliuolo, il quale doveva sposar vostra figlia, ha confessato essere segretamente ammogliato in Olanda, con sensibile dispiacere del suo genitore. Egli per altro si è appagato della vostra disposizione ad un tal matrimonio, ed ha senz’altre riserve sottoscritti i capitoli della pace, li quali a voi offerisco per ordine dei mediatori, acciò vi consoliate e siate più lieto nel ritornare a Napoli colla vostra figliuola.

RID. Siano ringraziati i numi.

ROS. Caro padre, io sarò dunque libera dal vostro impegno?

FLOR. Signore, quello che doveva sposar vostra figlia, è ammogliato in Olanda?

RID. Ah giovani innamorati, v’intendo. Figlia, l’amor mio vi dia quest’ultima prova della sua tenerezza. Non fia che il contento di conoscere il padre vi costi la perdita dell’amante. Abbracciatevi con giubbilo, con letizia, e dalle braccia di vostro padre passate a quelle del caro sposo. (Rosaura si avvicina a Florindo, che la prende per mano)

LEL. Ah, questo è troppo! Toglietemi dinanzi agli occhi l’oggetto della mia disperazione, o uscite di questa stanza, o fatemi passare in un’altra. (al Tenente)

TEN. Qui siete in arresto. (a Lelio)

RID. Fra poco usciremo. Ora non mi getterete più in terra. (a Lelio)

PANT. (No so cossa dir. Lo compatisso. Sto véder magnar, aver fame, e zunar, credo che la sia una gran pena). (da sé)

SCENA VENTIDUESIMA

Colombina e detti.

COL. Posso venire?

ROS. Sì, cara Colombina, venite ad abbracciare la vostra Rosaura, anzi la vostra contessa Teodora.

FLOR. Sì, la mia sposa.

COL. Evviva, mi consolo di cuore.

LEL. Tu, disgraziata, hai sollevato tutti contro di me. (a Colombina)

COL. Sì, sono andata io per la terra a battere di porta in porta, per chiamar gente in soccorso di quella povera assassinata. La contessa Eleonora attende con impazienza di vedervi. Andiamola a consolare. (a Rosaura)

SCENA ULTIMA

Mingone e detti.

MING. Signore, la padrona è qui collo sterzo, e manda a vedere che novità ci sono.

OTT. Ditegli che in questo momento Florindo ha dato la mano di sposo alla contessa Teodora. (Mingone via) Signori miei, invito tutti a terminar la notte in casa mia.

PANT. Che i vaga pur; mi resterò per sta notte a far compagnia a mio fio, za che sa el cielo quando lo vederò mai più.

LEL. Caro padre, vi domando perdono.

PANT. Adesso ti me domandi perdon? Va pur dove el ciel te destina; meggio fin no podeva far un bulo della to sorte. (Mingone torna)

MING. Signore, la padrona se ne torna a casa, e siccome spunta l’alba del giorno, a momenti partirà per Napoli, se V.S. si contenta.

OTT. Dille che si trattenga, che non si lasci vincere dall’impazienza, che avrò io il contento di accompagnarla nel viaggio. (Mingone via) (Conosco il motivo della sua intolleranza). (da sé) Orsù, andiamo, che l’ora si fa assai tarda. Sposi, siete alfin consolati. Conte, voi sarete felice.Povero signor Pantalone, voi mi fate pietà; e voi, signor Lelio, imputate a voi stesso il vostro destino. Gran casi, grandi accidenti accaduti sono in un giorno e in una notte! Nell’ore dell’ozio, di tali avvenimenti vo’ formarne un romanzo, dal quale un giorno potrà cavarsi una qualche buona commedia.

Fine della commedia