L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra

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L'Ingannatore Di Siviglia e Il Convitato DI PIETRA

Tirso De Molina

PERSONAGGI

Don DIEGO TENORTO, vecchio

Don GIOVANNI TENORIO, suo figlio

CATERINONE, lacchè

Il RE DI NAPOLI

Il duca OTTAVIO

Don PIETRO TENORIO

Il marchese della MOTTA

Don GONZALO D'ULLOA

Il RE DON ALFONSO DI CASTIGLIA

Donn' ANNA D'ULLOA

FABIO, servo

ISABELLA, duchessa

TISBEA, pescatrice

BELISA, contadina

ANFRISO, pescatore

CORIDONE, pescatore

GASENO, contadino

BATRIZIO, contadino

RIPIO, servo

AMINTA, contadina

[Guardie, servi, musici, una donna, pastori, per­sonaggi dell'aldilà, seguito dei re e di Isabella]

(Rappresentò il dramma per la prima volta Rocco di Figueroa

Abbiamo notizie di questo famoso capocomico fin dal 1623; morì nel 1651.

Traduzione di Antonio Gasparetti

ATTO PRIMO

(Stanza nella Reggia di Napoli).

Entrano don GIOVANNI TENORIO e la duchessa ISABELLA.

ISABELLA    Da questa parte potrai uscire con più sicu­rezza, duca Ottavio.

DON GIOVANNI     Ancora una volta, duchessa, vi giuro che pronunzierò il dolce sì.

 ISABELLA   Saranno dunque vere la mia felicità, le pro­messe e le offerte, le gentilezze

                        e i complimenti, l'affetto e l'amicizia?

DON GIOVANNI    Sì, mio bene.

ISABELLA    Voglio accendere il lume.

DON GIOVANNI    Ma perché?

ISABELLA                Perché l'anima si persuada della felicità che ha raggiunto.

DON GIOVANNI    Ed io, il lume te lo spegnerò!

ISABELLA               Cielo! Ma chi sei mai?

DON GIOVANNI    Chi sono? Un uomo senza nome!

ISABELLA               Non sei dunque il duca?

DON GIOVANNI    No...

ISABELLA                Olà! Accorrete!

DON GIOVANNI    Férmati! Dammi la mano, duchessa!

ISABELLA                Non trattenermi, vile! Gente del re! Soldati!

Entra il RE DI NAPOLI con una candela accesa su un candelabro.

RE                               Che avviene?

ISABELLA    (tra sé)   Il re! Me sventurata!

RE                               Chi sei?

DON GIOVANNI    Chi volete che sia? Un uomo con una donna!

RE  (tra sé)     Questa è una saggia risposta... (Ad alta voce) Olà, mie guardie! Arrestate                                     quest'uomo!

ISABELLA    Ah, il mio onore perduto!  (Esce.)

Entrano don PIETRO TENORIO, ambasciatore di Spa­gna, e GUARDIE.

DON PIETRO           Nelle tue stanze, sire, queste grida! Chi ne è stato la causa?

RE       A voi, don Pietro Tenorio, affido il compito di arre­stare costui. Poche parole, e procedete           con cautela: vedete chi sono questi due. E vi raccomando il segre­to, perché temo qualche        grosso guaio: se vedo un uomo in questa stanza, non ho bisogno di veder altro. (Esce.)

DON PIETRO           Arrestatelo!

DON GIOVANNI    E chi oserà farlo? Potrò anche perder la vita, ma la venderò a tale prezzo, che       ben dorrà a qualcuno!

DON PIETRO           Uccidetelo!

DON GIOVANNI    Chi vuol trarvi in inganno? Son ben deciso a morire, poiché son cavaliere dell'ambasciatore di Spagna. S'avanzi, ché a lui solo m'arrenderò.

DON PIETRO (alle guardie)    Allontanatevi, e ritiratevi tutti in quella stanza, insieme con la    donna.             (Escono le guardie.) Ora siamo soli: mostra adesso il tuo coraggio e la tua forza.

DON GIOVANNI    Se anche ho del coraggio, non lo use­rò con voi, zio.

DON PIETRO           Dimmi chi sei!

DON GIOVANNI    Te lo dico subito: son tuo nipote.

DON PIETRO (tra sé) Ahimè, cuor mio! Ho paura di qualche tradimento! (A voce alta) Che hai            dunque fat­to, demonio? Dimmi subito quel che è accaduto. Disob­bediente! Temerario!...           Quasi ti vorrei ammazzare! Suvvia, parla!

DON GIOVANNI    Zio e signore mio: sono giovane, ed anche tu lo fosti; e poiché hai conosciuto       l'amore, il mio amore sia da te scusato. E dal momento che m costringi a dirti la verità,    ascoltami e te la dirò: ho ingannato la duchessa Isabella e l'ho sedotta ...

DON PIETRO           Non una parola di più! Basta! Come hai potuto ingannarla? Parla sottovoce o       tien chiuse le labbra!

DON GIOVANNI    Ho finto di essere il duca Ottavio.

DON PIETRO           Non dire altro! Taci! Basta! (Tra sé) Son perduto, se il re lo viene a sapere...         Che debbo fare? In un caso sì grave, devo ricorrere per aiuto all'astuzia. (Ad alta voce)           Dimmi, codardo: non ti è bastato l'aver perpetrato in Ispagna, con un'altra nobile dama \ un   così grande tradimento, usando con tanta rabbia la violenza? Anche a Napoli hai voluto fare     altrettanto, e per giunta nella reggia stessa e con una dama di sì alto lignaggio? Ti punisca il          cielo! Tuo padre ti mandò qua a Napoli dalla Castiglia, e la schiu­mante sponda del mare             d'Italia ti offerse ospitalità sulle sue rive, attendendosi da te che ricambiassi con la          gratitudine l'offerta: e tu invece ne stai offendendo l'onore, e proprio con una dama di sì          nobile stirpe! Ma in questa occasione ogni indugio è dannoso: vedi quel che ti convien fare.

DON GIOVANNI    Non intendo mendicare scuse con voi, perché dovrei inventarne di false. Il           mio sangue è vo­stro, signore: versatelo, e sarà pagato il fio. Mi arrendo, prostrandomi ai            vostri   piedi: eccovi la mia spada, si­gnore.

DON PIETRO           Rialzati, e prendi coraggio, ché codesta tua umiltà mi ha vinto. Te la senti, di                               calarti giù da quel balcone?

DON GIOVANNI    Altro che! Il tuo favore mi dà le ali.

DON PIETRO           Ebbene, voglio aiutarti. Vattene in Sici­lia o a Milano, e là tienti nascosto. DON GIOVANNI             Partirò senz'altro.

DON PIETRO           Davvero?

DON GIOVANNI    Davvero.

DON PIETRO           Una mia lettera ti darà avviso del come andrà a finire questo triste caso che tu                 hai provocato.

DON GIOVANNI  (tra sé)   Vorrai dire lieto caso, per me. (Ad alta voce) Confesso che son                              colpevole.

DON PIETRO           Codesta tua giovinezza ti ha traviato. Suvvia, calati giù dal balcone.

DON GIOVANNI  (tra sé) Con sì giudizioso ammoni­mento, parto tutto allegro per la Spagna. (Esce.)

Entra il RE DI NAPOLI.

DON PIETRO           Mentre stavo per eseguire, sire, ciò che avevate ordinato, quell'uomo...

RE       Cadde ucciso?

DON PIETRO           Si sottrasse ai miei furiosi colpi di spada.

RE                   E come?

DON PIETRO           Così: avevi appena dato l'ordine, quan­do egli, senz'altra giustificazione,    impugna la spada, avvolge il mantello sul braccio, e con gagliardo im­peto, assalendo i           soldati             e cercando di difendersi per­ché vedeva la morte vicina, si getta come un disperato dal balcone del giardino. I tuoi uomini l'hanno inse­guito subito, e, quando sono usciti dalla porta       lì accanto, l'hanno trovato che agonizzava, contorcendosi come una serpe. Poi, d'un tratto,            balza    in piedi e, mentre i soldati gridano: » A morte! a morte! », il viso tutto coperto di         sangue, fugge con sì eroica pron­tezza da lasciarmi interdetto. La donna, che è Isa­bella (e la        nomino per farti stupire), rinchiusa in codesta stanza, afferma che era il duca Ottavio, che      profittò di lei con un astuto inganno.

RE       Che dici mai?

DON PIETRO           Dico quel che lei stessa ha confessato.

RE   (tra sé) Oh, povero onore! Se tu sei l'anima del­l'uomo, perché poi ti lasciano nelle mani della          donna incostante, che è la leggerezza fatta persona? (Ad al­ta voce) Olà!

Entra un SERVO.

SERVO                      Sire!

RE                              Conducete al mio cospetto quella donna.

DON PIETRO           Già le guardie vengono innanzi con lei, sire.

            Le guardie introducono ISABELLA.

ISABELLA  (tra sé)   Con quali occhi potrò guardare il re?

RE  (alle guardie)   Andate, e sorvegliate attentamente la porta di quelle stanze. (A Isabella)      Dimmi, o donna: quale destino, quale infausta stella ti indusse a pro­fanare, con la tua          sdegnosa bellezza, le soglie del mio palazzo?

ISABELLA    Sire...

RE       Non valgon nulla eserciti, guardie, servi, muraglie, torri merlate, contro l'amore, poiché la           forza di colui che raffigurano come un bimbo passa perfino attra­verso i muri! Don Pietro           Tenorio, conducete all'istan­te questa donna in una torre, come prigioniera; ed in gran segreto      fate sì che arrestino il duca, perché intendo costringerlo a mantenere la sua parola e la    promessa che le ha fatto.

ISABELLA    Volgete almeno verso di me lo sguardo, sire.

RE       Un'offesa fatta a me dietro alle mie spalle è giusto e saggio che sia punita sulle vostre!    (Esce.)

DON PIETRO           Andiamo, duchessa.

ISABELLA    Non v'è giustificazione che attenui la mia colpa; ma non sarà stato tanto grave il mio                   errore, se il duca Ottavio lo ripara. (Escono.)

Entrano il duca OTTAVIO e RIPIO, suo servo.

RIPIO                        Così di buon'ora ti sei alzato, signore?

OTTAVIO      Non c'è riposo che giovi a spegnere il fuoco che l'amore ha acceso nel mio petto. Perché, bambino com'è, non ama il morbido letto con fini lenzuola di tela d'Olanda e          ricoperto d'ermellino. Si corica, ma non riposa; e vuol sempre levarsi di buon'ora per             mettersi a giocare, poiché infine gioca, da bambino qual’ è. Il pensiero di Isabella, amico     mio, mi tiene triste, poiché, siccome ella vive nell'anima mia, il mio corpo è sempre in preda   alle pene, intento a custo­dire, assente e pur presente, il castello dell'onore.

RIPIO                        Perdonami, ma il tuo amore è un amore fuor di luogo.

OTTAVIO      Che dici, sciocco?

RIPIO                        Dico questo: che è fuor di luogo amare come tu ami. Vuoi ascoltarmi?

OTTAVIO      Suvvia, continua.

RIPIO                        Continuo senz'altro: Isabella ti ama?

OTTAVIO      E ne dubiteresti, babbione?

RIPIO                        No, certo. Ma voglio ora chiederti: e tu, non l'ami?

OTTAVIO      Sì.

RIPIO                        E allora, non sarò io uno stupido, e di marca maggiore, se vado perdendo il senno per                 una ch'io amo e che mi ama? Se lei non ti amasse, sarebbe con­veniente starle attorno,                  colmarla di gentilezze e ador­narla, in attesa di vederla cedere. Ma se vi amate                                     entrambi di pari amore, dimmi un po': c'è qualche dif­ficoltà che vi impedisce di                             sposarvi subito?

OTTAVIO      Così andrebbero le cose, ingenuo che sei, se si trattasse delle nozze d'un lacchè o                        d'una             lavandaia.

 RIPIO            E perché? Vi par dunque nulla una donna che fa la lavandaia, che sfrega e strizza,                       che offende e difende, che stende i suoi panni, che li accomoda rammendando? E ho                        detto «dando», perché non c'è nulla che uguagli il « dare » ; se non mi credi, prova a                     « dare » a Isabella, e vedrai se sa prendere o no!

            Entra un SERVO.

SERVO          L'ambasciatore di Spagna è smontato or ora nell'atrio e con una strana aria di irosa                      fierezza chiede di parlarvi. Se non ho inteso male, vi vuole arrestare.

OTTAVIO      Arrestare me?  E per qual motivo?  Fatelo entrare.

Entra don PIETRO TENORIO, seguito dalle GUARDIE.

DON PIETRO           Chi dorme così, senza tèma, ha la coscien­za netta!

OTTAVIO                  Dal momento che vostra eccellenza viene ad onorarmi con il suo favore, non                                è giusto ch'io dorma. Anzi, dovrei eternamente vegliare. Qual è lo scopo e                                   quale il motivo della vostra     visita?

DON PIETRO           È il re che mi manda qui.

OTTAVIO                 Se il re mio signore si ricorda oggi di me, sarà giusto e saggio ch'io dia per lui                               anche la vita. Ditemi, Signore: quale sorte o quale stella mi ha favo­rito tanto,                               che il re abbia            pensato a me?

DON PIETRO           È stata la vostra disgrazia, duca! Io ven­go come ambasciatore del re, e vi                                     reco un suo mes­saggio.

OTTAVIO                  Non me ne preoccupo affatto, marchese; an­zi, sto ad aspettare.

DON PIETRO           II re mi manda ad arrestarvi. Non vi ribellate!

OTTAVIO                 Voi mi arrestate in nome del re! Ma in che cosa ho mancato?

DON PIETRO           Lo dovete sapere meglio di me. Ma, per il caso ch'io m'inganni, ascoltate per       disingannarvi le mie parole, e saprete perché il re mi manda. Quando i giganti  delle       tenebre, ripiegando le lor funebri tende, già fuggivano innanzi al crepuscolo  sospingen­dosi       l'un l'altro, mentre io stavo trattando certe    questioni con sua maestà  (che i potenti stanno sempre agli antipodi del sole), udimmo delle grida femminili, l'eco delle quali, reso meno   ròco dai sacri soffitti della    reggia, ci ripeteva: « Soccorso! ». Al rumore di quelle grida,           duca, accorse il re in persona, e trovò Isabella tra le braccia di un uomo nerboruto; d'altro          canto, chi osa mettersi contro il cielo è indubbiamente un gigante ed un mostro... Il re diede           ordine d'arrestarli entrambi; io rimasi solo con l'uomo, e m'accostai a lui per disarmarlo. Ma            ritengo che in lui il demonio avesse preso forma umana, perché, avvolto di fumo e di   polvere, si gettò dal balcone fra i tronchi di que­gli olmi che circondano i bei tetti della   reggia. Feci allora arrestare la duchessa, la quale, alla presenza di tutti, dichiarò che era il            duca Ottavio colui che l'ave­va sedotta, con la promessa di farla sua sposa.

OTTAVIO                  Che dite?

DON PIETRO           Dico quel che è ormai risaputo da tutti e che ognuno ripete chiaramente: che                                Isabella in mille modi...

OTTAVIO      Lasciatemi stare, e non mi raccontate un si­mile tradimento da parte di Isabella. (Tra                    sé) Ma se fosse una sua astuzia? (Ad alta voce) Andate avanti; perché tacete? Ma se                    mi instillate, parlando, un vele­no che giunge al mio saldo cuore, mi costringete a dire                        che esso fa come la donnola, che concepisce at­traverso l'orecchio e partorisce dalla                bocca! Sarà vero, anima mia, che Isabella mi ha dimenticato al punto di volermi                                morto? Sì, perché si dice che il bene parla ed il male vola. Già il mio cuore s'acquieta               al pensiero che si tratti d'un capriccio che, per più addo­lorarmi, m'è entrato nel                             cervello, ed ha ascoltato con l'orecchio ciò che gli    occhi non possono attestare.                          Signor marchese, è mai possibile che Isabella m'abbia ingannato    e si sia fatta beffe                   del mio amore? Mi pare cosa incredibile! Oh, le donne! Oh, terribile legge del­l'onore,                 contro la quale sono spinto a lottare! Ma or­mai questi riguardi non servon più per                 l'onor tuo! Dunque stanotte c'era un uomo alla reggia, insieme con Isabella?... Mi par                   d'impazzire!

DON PIETRO           Come è vero che nell'aria vi sonò uccelli, e nel mare pesci che a volte                                partecipano di tutti e quattro gli elementi; come è vero che nella gloria v'è gioia, e nel                  buon amico lealtà, e tradimento nel nemico, e oscurità nella notte, e chiarore nel                                  giorno, così è verità quel ch'io dico.

OTTAVIO      Voglio credervi, marchese. E non c'è più nul­la che mi faccia stupire, perché anche la        donna più costante è donna, infine. Non ho più bisogno di veder nulla, poiché l'oltraggio è patente.

DON PIETRO           Dato che siete saggio e prudente, sce­gliete voi la decisione migliore.

OTTAVIO                 L'unico rimedio è fuggire.

DON PIETRO           E allora fate presto, duca Ottavio.

OTTAVIO                 M'imbarcherò per la Spagna, e porrò così termine ai miei mali.

DON PIETRO           Duca, a questo arresto si sfugge attra­verso la porta del giardino...

OTTAVIO                 Ah, banderuola! Debole canna! Mi sento sempre più furioso, e debbo       approdare in lontane re­gioni per sfuggire a questa perfida astuzia. Addio, mia patria! Un           uomo insieme con Isabella, ed alla reggia? Mi sento impazzire! (Escono tutti.)

(SPIAGGIA SULLE COSTE SPAGNOLE.)

Entra TISBEA, pescatrice, con una canna in mano.

TISBEA         Io tra quante - piedini di gelsomino e di rose il mare bacia sulle sue rive con         fuggevoli onde, sola libera d'amore e sola nella mia sorte, da pa­drona sfuggo ai suoi folli          legami, qui dove il sole calpesta le onde sonnolente, rallegrando, tramutate in zaffiri, quelle che, avvolte    d'ombre, atterriva. Su que­sta arena sottile (candida come perla talora, ed altre      volte trasformata in atomi d'oro dal sole che in tal modo le dimostra la sua adorazione),             ascoltando gli amorosi lamenti degli uccelli e le dolci lotte dell'ac­qua tra gli scogli, ora con         la canna sottile che si piega al lieve peso del pesciolino che sferza con la coda il mare salato,         ed ora con la rete che imprigiona quanti nelle lor profonde dimore abitano case fatte di   conchi­glie, mi diverto serena, perché gode in piena libertà l'anima mia che non è offesa dal        veleno             dell'amore si­mile ad un aspide. In un burchielletto, in compagnia d'altre giovani,     talora   pettino col remo la schiumosa cervice del mare; e quando più le altre, smarrite, si             lagnano dell'amore, siccome io rido di tutto, da tutte sono invidiata. Me fortunata le mille          volte, o amore, poiché tu mi risparmi, seppure non disprezzi la mia capanna per la sua troppa        umiltà! Obelischi di paglia coronano il mio edificio, e servon di nido, quando non vi son         cicale, alle pazze tortorelle. Conservo tra la paglia il mio onore come un frutto saporoso,           come un vetro ben custodito in mezzo ad essa, affinché non si rompa. Per tutti i pescatori     che Tarragona difende dai pirati col fuoco dei suoi cannoni, lungo la spiag­gia d'argento, io             sono incanto e disprezzo";     sorda ai loro sospiri; insensibile alle loro preghiere; rupe alle           loro promesse. Anfriso, che il cielo con la sua mano possente dotò (prodigio in corpo ed         anima) di ogni grazia, misurato nelle parole, generoso nelle opere, paziente delle offese, moderato nelle sofferenze, ogni mattina ringiovanisce le soglie della mia capanna ri­coperta   di paglia attorno alla quale va girando nelle gelide notti: e così, con i verdi rami che egli         recide dagli olmi, il mio tetto di paglia si ridesta al mattino ricinto di nuovi ornamenti. Poi       con dolci viole e pe­netranti zampogne, mi dedica le sue musiche. Ma tutto ciò non          m'importa, poiché vivo, signora dell'amore, nel mio tirannico imperio, e trovo gioia    nelle sue pene, e nel suo inferno trionfi. Tutte si muoion per lui, ed io ognora uccido lui col   mio sdegno: è carattere pro­prio dell'amore amare chi odia e sprezzare chi adora, giacché            l'amore perisce se gli dàn  gioia, e vive se gli recano offesa. In una giornata sì lieta, stando io             al sicuro dalle lusinghe, l'amore non può sciupare i giovani miei anni; ché in sì fiorita età non è poca fortuna, o             amore, ch'io non vegga le tue reti amorose fra tutte queste d'intorno.         Ma via, pensiero stolto che mi turbi la mente, non mi distrarre in tal modo con cose che nulla    valgono. Voglio affidar la mia canna al vento e la mia esca al morso del pesciolino... - Ma   scorgo due uomini gettarsi da una nave che stava avanzando sulle acque ed ha urtato in uno   scoglio, prima che l'onda la inghiotta: con le sue vele forma, come il pavone, una ruota entro      la quale i piloti mo­strali gli occhi sbarrati... Si va immergendo tra le onde, ed ormai il suo    orgoglio pomposo è quasi svanito. Imbarca acqua da un fianco... È sprofondata ed ha            abbandonato al vento la gabbia, perché la prescelga a sua dimora, ché solo un pazzo come       lui può vivere in una   gabbia...

UNA VOCE  (dall'interno)   Affogo!

TISBEA         Un uomo attende l'altro che dice che affoga... Generoso e gagliardo! Lo prende sulle                 spalle: son co­me Enea ed Anchise, se questo mare può assomigliarsi a Troia. Ecco                      che solca a nuoto le acque, pieno di coraggio; ma non veggo sulla spiaggia chi possa                accoglierlo e    prestargli soccorso. Chiamerò io. Olà, Tirseo, Anfriso, Alfredo! - I                  pescatori mi guardano, e Dio voglia che mi possano udire! Ma ecco che per miracolo                ambedue prendon terra; colui che      nuota è spossato, ma chi gli grava sulle spalle è                    ancor vivo.

Entra CATERINONE, portando in braccio don GIOVAN­NI ; sono entrambi grondanti d'acqua.

CATERINONE         Accidenti alla miseria! Quant'è salato il mare! Qui almeno può nuotare a suo        agio chi vuol salvarsi, ma laggiù è uno scompiglio che promette la morte. Peccato che dove      Dio ha ammucchiato tanta acqua, non abbia messo altrettanto vino! Acqua sala­ta, poi! Bella roba, per chi non pesca! Se è cattiva persino l'acqua fresca, che sarà mai quella salata? Oh,          poter trovare una cantina, anche se dicono che il vino riscalda gli umori! Se scampo da tutta     quella roba che ho bevuto, basta con l'acqua! Da oggi in poi, abrenuntio! Mi fa scappar la             divozione in tal modo, che mi propongo di non guardar più nemmeno l'ac­quasanta, a patto di     non veder acqua! - Signore!... È freddo gelato! Che sia già morto? La colpa è stata del mare,           ma la sventura è toccata a me... Maledetto chi per primo lanciò un pino nel mare e ne             percorse le vie con un fragile legno! 3 Maledetto sia il vile sar­tore che ha cucito sù e giù per    il mare le vie con l'astronomico ago della bussola1-, causando sì gran disastro! Maledetto    Giasone e maledetto Tifi! - È morto; pare incredibile! Oh, povero Caterinone! Che debbo             fare?

TISBEA                     Dimmi: che t'avviene, in siffatte sventure?

CATERINONE         Molti mali m'avvengono, o pescatrice, e vi s'aggiunge la mancanza di molti                     beni. Veggo privo di vita il mio signore, per salvare me. Guarda, se non è vero.

TISBEA                     Ma no. Respira ancora...

CATERINONE         Da che parte? Di qua?

TISBEA                     Sì... E da che parte, se no?

CATERINONE         Avrebbe ben potuto respirare da un'al­tra parte.

TISBEA                     Sei proprio sciocco!

CATERINONE         Vorrei baciarti codeste mani, candide come fredda neve...

TISBEA                     Va' invece a chiamare i pescatori che sono in quella capanna.

CATERINONE         E verranno, se li chiamerò?

TISBEA                     Verranno subito, sta' sicuro. Ma chi è questo signore ?

CATERINONE         È il figlio del gentiluomo maggiore di camera del re, sicché spero d'esser fatto     conte prima che sian passati sei giorni, là a Siviglia, dove siamo diretti e dove risiede ora sua altezza, se vorrà com­pensare adeguatamente la mia amicizia.

TISBEA                     Come si chiama?

CATERINONE         Don Giovanni Tenorio.

TISBEA                     Va' a chiamar la mia gente.

CATERINONE         Vado (Esce. Tisbea prende in grembo il capo di don Giovanni.)

TISBEA                     È un gran bel giovine, e pare nobile e cre­sciuto alla corte. Tornate in voi,                                      signore!

DON GIOVANNI    Dove sono?

TISBEA                     Lo potete ben vedere: tra le braccia d'una donna.

DON GIOVANNI    Se nel mare ho rischiato di morire, in voi ritrovo la vita. Ho ormai perduto            ogni timore di potermi affogare, poiché dall'inferno del mare sono asceso al chiaro          vostro cielo. Uno spaventoso uragano ha infranto la mia nave per gettarmi ai vostri     piedi, ove trovo porto e rifugio: e nel vostro divino oriente rinasco, e non è meraviglia, se           tenete in conto che tra mare   ed amare v'è una sola lettera di differenza.

TISBEA         Avete fiato d'avanzo, per uno che approda sfi­nito; e dopo sì gran tormento sapete           ancora offrire grandi gioie. Ma se il mare è tormento e le sue onde son crudeli, penso che           siano le sue torture quelle che vi fanno parlare. E senza dubbio avete bevuto nel mare le       parole che or ora mi avete rivolto, poiché eran tanto cariche di sale1 unicamente in quanto            venivano dall'acqua salata. Siete eloquente anche quando non parlate; ed anche se apparite        morto, avete ben desti tutti quanti i sensi. E piaccia a Dio che non diciate menzogna! Mi             parete un cavallo greco, come quello di Troia2, che il mare abbia gettato ai miei piedi       fradicio d'acqua come siete, vi arde nel petto il fuoco. E se, così ammollato, ardete, che     farete, una volta asciugato? Promettete un gran fuoco... Piaccia a Dio che non diciate   menzogna!

DON GIOVANNI    Piacesse a Dio, fanciulla, che mi fossi affogato nell'acqua, perché così avrei          finito da saggio la mia vita, e non morrei da folle accanto a voi: il mare avrebbe ben potuto            annegarmi tra le sue onde d'argento, scatenandole oltre misura; ma non m'avreb­be potuto      infiammare. Vi mostrate assai simile al sole, ed il sole ve lo consente, giacché col solo apparire voi infiammate i cuori, pur essendo candida come neve.

TISBEA         Per quanto agghiacciato voi siate, avete in voi tanto fuoco da ardere anche voi con                     me. E piaccia a Dio che non diciate menzogna!

Entrano CATERINONE e CORIDONE ed ANFRISO, pescatori.

CATERINONE         Ecco che vengon tutti!

TISBEA                     E già il tuo padrone è vivo...

DON GIOVANNI    Al tuo cospetto ripresi gli aliti che avevo perduto.

CORIDONE              Che vuoi da noi?

TISBEA                     Coridone, Anfriso, amici miei...

CORIDONE              Cercavamo tutti, in un modo o nell'altro, questa occasione fortunata. Dicci                                  che vuoi, Tisbea: con codeste labbra di corallo non avrai il tempo di dirlo a                                  chi desidera idolatrarti, che già! sull'istante, e senza indugi, egli, si trovi in                                pianura o sulla monta­gna, solcherà il mare, valicherà la terra, calpesterà il                          foco ed arresterà il vento.

TISBEA  (tra sé)   Oh, quanto mi parevano ieri vane queste adulazioni, e come oggi m'accorgo che                   le loro labbra non mentivano! (Ad alta voce) Amici miei, mentre stavo pescando su                     questo             scoglio, scorsi lag­giù una nave che sprofondava e due uomini che nuo­tavano                   tra le onde. Impietosita gridai, ma nessuno mi udiva; e mentre così mi affliggevo,                      sottraendosi al­l'aspra furia del mare, approdò esanime alla spiaggia, recato sulle                          spalle da costui, un gentiluomo ormai af­fogato. Ed in preda a sì triste pena, vi mandai                        a chia­mare.

ANFRISO      Eccoci tutti qua. Ordinaci quel che vuoi che facciamo, anche se sarà per noi                                 impreveduto.

TISBEA         Desidero che sia portato nella mia capanna; e lì ripareremo le loro vesti e li           rifocilleremo, acco­gliendoli come si conviene. Anche mio padre si com­piace di questa pietà che è quasi un obbligo.

CATERINONE         È proprio una bellezza!

DON GIOVANNI    Starami a sentire.

CATERINONE         Ti ascolto.

DON GIOVANNI    Se ti chiedon chi sono, dì che non lo sai.

CATERINONE         A me lo dici?... E vorresti suggerirmi ciò che debbo fare?

DON GIOVANNI    Muoio d'amore per questa bella pescatrice, e questa notte la farò mia.

CATERINONE         E come?

DON GIOVANNI    Vieni con me e taci.

CORIDONE              Avverti i pescatori, Anfriso, che tra un'ora vengano a cantare e a danzare.

ANFRISO                  Andiamo, e stanotte faremo pure baldoria.

DON GIOVANNI    Ahimè, son morto!

TISBEA                     E come mai, se camminate?

DON GIOVANNI    Come un'anima in pena; lo vedete!

TISBEA                     Parlate troppo.

DON GIOVANNI    E voi capite tutto.

TISBEA         Piaccia a Dio che non diciate menzogna! (Escono tutti.)

(SALA NELLA REGGIA DI SIVIGLIA.)

Entrano don GONZALO D'ULLOA ed il RE DON AL­FONSO DI CASTIGLIA.

RE       Com'è andata la vostra ambasceria, commendator maggiore?

DON GONZALO     Ho trovato a Lisbona il re don Giovan­ni, tuo cugino, che preparava trenta navi    da guerra.

RE       Dirette dove?

DON GONZALO    A Goa, mi disse. Ma credo d'aver ca­pito che si prepara a qualche più facile            impresa. Pen­so che voglia assediare nella prossima estate Ceuta o Tangeri.

RE       L'aiuti Iddio, e lo premii per l'impegno che mette nell'accrescer la sua gloria. Che accordi            avete preso?

DON GONZALO     Egli chiede, sire, Serpa, Mora, Olivenza e Toro; ed è disposto a restituirti Villaverde, l'Almendral, Mertola ed Herrera, situati al confine tra Castiglia e Portogallo.

RE       Sia firmato subito il trattato, don Gonzalo. Ma pri­ma ditemi come è andato il viaggio, ché          dovete essere stanco ed affannato.

DON GONZALO     Non mi stanco mai, sire, quando vi servo.

RE                  È una bella città, Lisbona?

DON GONZALO     È la più grande di tutta la penisola4; ma se tu vuoi che ti dica ciò che ho visto,      delle cose più famose ed evidenti, in un istante te ne farò la descrizione, sire, qui, al tuo             cospetto.

RE       Mi farà piacere sentirla. Porgetemi una sedia.

DON GONZALO     Lisbona è l'ottava meraviglia. Dalle viscere della Spagna, vale a dire dalle            terre di Cuenca, nasce il Tago, ricco d'acque, che attraversa mezza penisola; si getta poi nel         mare Oceano, tra le sacre sponde della città, dalla parte del sud; ma prima di disperdere nel mare la sua corrente ed il suo illustre nome, forma tra due file di colline un porto in cui si          ancorano barche, navi e caravelle venute da ogni parte del mondo. Vi son tante galere e tante          saettie che, visto da terra, sembra una gran città su cui regni Nettuno. Dal lato di ponente il        porto è custodito da due fortezze, dette di Cascais e di San Giuliano, che sono le più salde        del mondo. A poco più di mezza lega da questa gran città, vi è Betlemme, il convento di San           Gerolamo, il santo famoso per la pietra ed il leone di guardia che gli dipingono accanto nei    qua­dri, e lì hanno la loro perpetua dimora i re e le re­gine cattolici e cristiani. Dopo questo          insigne monu­mento, a partire dall'Alcantara, si stende una buona lega fino al convento di         Jabregas. Tra l'uno e l'altro rimane la bella vallata coronata da tre colline, e Apelle in             persona, se volesse dipingerle, non vi riuscirebbe: viste da lontano, paiono grappoli di perle        pendenti dal cielo. E in quell'immensa distesa sorgono dieci Ro­me, compendiate in       conventi e chiese, in edifici e contrade, in palazzi di nobili e di signori, nelle lettere e nelle       armi, in una giustizia perfetta ed in una « Mi­sericordia » che onora quelle sponde e            potrebbe far onore alla Spagna ed insegnarle ad usarla. Ma quel che più mi pare da lodare, in         questo superbo insieme, è il   fatto che dal castello medesimo, nel giro di sei leghe, si vedono             sessanta luoghi abitati posti   sulla riva del mare. Uno di questi è il convento di Odivelhas,         nel quale ho visto con questi          miei occhi seicentotrenta celle, e dove, tra monache e         converse, ve ne son più di milleduecento. Lì attorno, in breve spazio, Lisbona ha        millecentotrenta fattorie di quelle che nella nostra provincia Betica si chiamano cascine; ed      hanno tut­te i loro giardini e i loro viali alberati. In mezzo alla città vi è una piazza superba     che si chiama « del Rucio », grande, bella e ben costrutta: cent'anni fa, e forse più, il mare ne             bagnava l'arena mentre ora, di lì alla spiaggia, si son costruite trentamila case, per­ché il    fiume, cambiando corso, si è spostato da un'al­tra parte. C'è una strada che chiamano « rua    Nova », o via nuova, nella quale si è radunata tale ricchezza e grandezza, da far invidia all'Oriente; a tal punto che il re mi narrò che in essa abita un mercante, il quale, non           riuscendo a contarle, misura le monete a staia. La    spianata su cui si erge la reggia del             Porto­gallo ha sempre un'infinità di navi ormeggiate a terra, cariche unicamente di grano e           d'orzo importati dalla Francia e dall'Inghilterra. Infatti, il   palazzo reale, che è lambito dal         Tago, è un edificio costruito da Ulisse (e basti questo a dire se è famoso), dal quale la città        prende il suo nome latino di « Ulissipona », ed ha per emblema la           sfera su cui spiccano, come su un pie­destallo, le piaghe che in sanguinosa battaglia l'Im­mensa             Maestà inferse al        re don Alfonso Enriquez. Nel suo grande arsenale ha diverse navi, e tra le altre quelle della    conquista, tanto grandi che, vedendole da terra, gli uomini immaginano che giungano fino         alle stelle. E quello che ti voglio raccontare, come massima eccellenza di           questa città, si è          che i suoi abitanti, stando seduti a mensa, vedono di lì i balzi del pesce che, tratto a riva        accanto alle loro porte, guizzando tra le maglie delle reti, salta dentro; e scorgono     soprattutto più di mille navi che giungono ogni giorno sul fiume, cariche di svariate           mercanzie e di comuni vettovaglie: pane, olio, vino e legna, frut­ta d'ogni sorta, neve della           Sierra             d'Estrella, che vien poi venduta per le strade da portatori che la recano in capo. Ma a      che mi             stanco inutilmente? A voler de­scrivere anche soltanto una parte dell'opulenta città, è      come voler contare le stelle. Ha ben centotrentamila abitanti censiti, sire, e, per non tediarti       oltre, vi siede un re che bacia la tua mano.

RE       Son più contento, don Gonzalo, d'ascoltare dalle vo­stre labbra questo succinto racconto, che      se ne avessi veduto io stesso le grandezze. Ma voi, avete figliuoli?

DON GONZALO     Una figlia, sire, bella e graziosa, nel cui viso divino la natura ha mostrato tutto il suo potere.

RE                               Bene! Le darò marito io stesso.

DON GONZALO     Se questo è il tuo desiderio, sire, ac­cetto a nome suo. Ma chi è lo sposo?

RE                              Sebbene egli non viva in questa città, è di Siviglia, e si chiama don Giovanni                               Tenorio.

DON GONZALO     Vado a recare la notizia a mia figlia donn'Anna.

RE                              Andate in buon'ora, Gonzalo, e tornate con la ri­sposta. (Escono entrambi.)

(LA SPIAGGIA PRESSO TARRAGONA.)

Entrano don GIOVANNI TENORIO e CATERINONE.

DON GIOVANNI    Prepara quelle due mule, che son buone per il viaggio.

CATERINONE         Anche se ho nome Caterinone, signo­re, sono tuttavia uomo dabbene, perché                    non fu             detta per me la frase: « Caterinone è l'uomo ». E ben sai che questo nome non                 mi s'attaglia per nulla; tutt'altro.

DON GIOVANNI    Mentre i pescatori si rallegrano e fan festa, tu barda le due mule, perché                            solamente ai loro piedi veloci io affido la riuscita del nostro inganno.

CATERINONE         Vuoi dunque sedurre Tisbea?

DON GIOVANNI    Se quella di ingannare le donne è una mia vecchia abitudine, perché me lo                        domandi, cono­scendo il mio carattere?

CATERINONE         Lo so bene che fai stragi di cuori fem­minili.

DON GIOVANNI    Sto morendo dalla voglia di conqui­stare Tisbea. È una gran bella ragazza! CATERINONE             Bella ricompensa le prepari, per l'ospi­talità che ti ha dato!

DON GIOVANNI    Sciocco che sei! Che altro fece Enea con la regina di Cartagine?

CATERINONE         Voi che sapete fingere e che in codesta maniera ingannate le donne, la                                         pagherete cara, giun­to in punto di morte!

DON GIOVANNI    Così lontana, la scadenza? Hanno proprio ragione a chiamarti Caterinone! CATERINONE             Fa' pure a tuo modo, ché io, per me, voglio seguitare ad essere Caterinone, in                               fatto d'in­ganni tesi alle donne. Ma ecco quella sventurata che viene.

DON GIOVANNI    Vattene e prepara le giumente.

CATERINONE         Povera donna! Ti si paga bene l'allog­gio che ci hai dato! (Esce.)

            Entra TISBEA.

TISBEA                     Quando ti son lontana, mi pare d'essere fuor di me stessa.

DON GIOVANNI    So che la tua è tutta una finzione, e perciò non ti credo.

TISBEA                     Ma perché?

DON GIOVANNI    Perché, se tu mi amassi, avresti pie­tà di me.

TISBEA                     Ma sono tua!

DON GIOVANNI    E dimmi, allora: che aspetti, signora mia, o a che pensi?

TISBEA                     Penso che è stato un tormento d'amore, quel che ho trovato in te.

DON GIOVANNI    S'io potessi, mio bene, trovare in te nuova vita, mi obbligherei a qualunque                       cosa. Anche a costo di perder la vita per servirti, la darei per te volentieri, e ti                           prometto di divenire tuo sposo.

TISBEA         Troppo inferiore la mia condizione alla tua.

DON GIOVANNI    Amore è un re che sa rendere uguali la seta ed il rozzo panno e dare ad                             entrambi pari diritti.

TISBEA         Quasi ti vorrei credere; ma voi uomini siete traditori.

DON GIOVANNI    È mai possibile, mio bene, che tu ignori i miei amorosi tormenti? Oggi       l'anima mia è appesa ad un tuo capello.

TISBEA         Ecco, io mi piego ai tuoi voleri, contro la tua parola e la tua promessa d'esser mio                        sposo.

DON GIOVANNI    Occhi belli che mi uccidete guardan­domi, giuro che sarò vostro sposo.

TISBEA                     Pensa, ben mio, che c'è un Dio che ti vede ed una morte che ti attende.

DON GIOVANNI    Così lontana, la scadenza? Ma finché Dio mi dà; vita, io sarò , vostro schiavo.                              Eccoti la mia mano e la mia fede di gentiluomo.

TISBEA                     Ed io non sarò avara nel ripagarti.

DON GIOVANNI    Non trovo più pace e riposo.

TISBEA                     Vieni, e la capanna che vide i nostri amori sarà il talamo ove si plachi il                                         nostro fuoco. Nasconditi tra queste canne, finché non giunga il momento.

DON GIOVANNI    Da che parte dovrò entrare?

TISBEA                     Vieni, e te lo dirò.

DON GIOVANNI    Mio bene, mi riempite l'anima di fe­licità.

TISBEA                     Ricambia questo mio amore; e, se no, ti pu­nisca il cielo!

DON GIOVANNI    Così lontana, la scadenza? (Escono.)

            Entrano CORIDONE, ANFRISO, BELISA ed i MUSICI.

CORIDONE Suvvia, chiamate Tisbea, e chiamate an­che i pastori, ché faremo vedere al nostro             ospite, an­che in queste solitudini, uno spettacolo degno della corte.

ANFRISO      Tisbea, Usindra, Atandria! Non ho mai sof­ferto tanto! Tristo e sventurato colui che                     deve star nel fuoco come la salamandra! Avvertiamo Tisbea, prima di cominciare la                 danza.

BELISA         Andiamo a chiamarla.

CORIDONE Andiamo.

BELISA         La troveremo nella sua capanna.

CORIDONE Non credi che sarà occupata da quei for­tunati ospiti, invidiati da mille persone? ANFRISO        Tisbea è sempre stata invidiata.

BELISA         Cantate qualche cosa, mentre l'aspettiamo; vo­gliamo danzare.

ANFRISO      Come potrà riposare un cuore morso dalla gelosia?

MUSICI         (cantano)

A pescar va la bimba,

tendendo reti;

ed anime imprigiona,

non prende pesci.

Entra TISBEA.

TISBEA         Al fuoco, al fuoco! Ch'io ardo, e la mia ca­panna fiammeggia! Sonate a stormo, amici,     ché l'ac­qua scende dai miei occhi. La mia povera casa è in fiamme come una nuova Troia,      poiché, da quando Troia è distrutta, l'amore incendia le capanne. E se l'amore, con la sua           forza rabbiosa e strana, può dar fuoco alle pietre, mal potrà  l'umile paglia difendersi dalla sua furia. Al fuoco, al fuoco, pastori! Acqua, ac­qua! Abbi pietà, amore, che l'anima è in      fiamme!  Ahimè, capanna, vile strumento del mio disonore e della mia infamia! Orrenda             grotta di ladroni che hai protetto chi mi oltraggiava! .Cadano sulle tue chiome i fulmini delle    infocate stelle, così che prendan fuoco, mentre il vento le scompiglia! Ah, ospite falso, che            lasci dietro a te una donna disonorata! Fosti come una nube uscita dal mare per annegarmi.            Al fuoco, al fuoco, pastori! Acqua, acqua! Abbi pietà, amore, ché l'anima è in fiamme! Son             io colei che sempre si fece beffe degli uomini; ma sempre chi si fa beffe degli altri finisce         col restare beffata. Quel gentiluomo m'ingannò dopo avermi dato promessa e mano di sposo,             profanando la mia onestà ed il mio letto. Mi ha sedotto, sì; ed io stessa offersi nuove ali alla       svia malvagità, con quelle due mule che avevo allevato e sulle quali è fuggito,             abbandonandomi. Inseguitelo, in­seguitelo tutti! Ma no; lasciatelo andare, che andrò a           chiedere vendetta al   cospetto del re. Al fuoco, al fuoco, pastori! Acqua, acqua! Abbi pietà,    amore, ché l'anima è in fiamme! (Esce.)

CORIDONE             Correte dietro a quel vile!

ANFRISO                  Sventurato chi soffre e tace! Ma, vivaddio, mi vendicherò su di lui di questa        ingrata! Seguiamo lei, adesso, perché se ne va disperata, e potrebbe darsi che andasse in   cerca di qualche sventura ancor mag­giore.

CORIDONE Così va a finire la superbia. La sua follia e la sua presunzione l'hanno condotta

            a questo!

TISBEA  (dall'interno)          Al fuoco, al fuoco!

ANFRISO      Si getterà in mare!

CORIDONE Tisbea, fermati, sta' calma!

TISBEA         (dall'interno) Acqua, acqua! Abbi pietà, amo­re, ché l'anima è in fiamme!

FINE   PRIMO   ATTO

ATTO SECONDO

(PIAZZA DINANZI ALLA REGGIA DI SIVIGLIA.)

Entrano il RE DON ALFONSO e don DIEGO TENORIO, vecchio.

RE                   Che dici mai?

DON DIEGO                        Ti dico il vero, sire. Sono stato informato della cosa da questa lettera, che è          del tuo ambascia­tore e mio fratello: lo hanno trovato negli apparta­menti stessi del sovrano,   insieme con una bella dama di palazzo.

RE                               Chi era, lei?

DON DIEGO                         Sire, era la duchessa Isabella.

RE                              Isabella?

DON DIEGO            Così almeno...

RE                              Che folle temerità! E adesso, dov'è?

DON DIEGO                        Sire, non posso nascondere la verità a vostra altezza: è giunto iersera a                                          Siviglia, accompa­gnato da un servo.

RE       Sapete bene, Tenorio, quanta stima ho di voi, e scriverò subito al re di Napoli per informarlo      della cosa. Faremo sposare quel ragazzaccio con Isabella, ridando la sua tranquillità al duca Ottavio che sta soffrendo, benché innocente. E subito dopo darete di­sposizioni perché don    Giovanni parta per l'esilio.

DON DIEGO                        Dove dovrà essere confinato, mio sire?

RE       Basterà, perché senta il mio sdegno, che sia ban­dito da Siviglia. Fatelo partire stasera stessa       per Lebrija, e riferitegli che deve ringraziare unicamente i grandi meriti di suo padre... Ma         ditemi ora, don Die­go: che cosa dovremo narrare a Gonzalo d'Ulloa per non offenderlo?     Avevo deciso di dare don Giovanni come sposo alla sua figliola, e non so come rimediare,      adesso.

DON DIEGO                        Dimmi tu, gran sire, che cosa tu vuoi ch'io faccia per non offuscare la       reputazione di questa dama, figlia di un sì nobile padre.

RE       Adotterò un rimedio che varrà a compensarlo del­l'affronto: lo voglio nominare maggiordomo     maggiore.

            Entra un SERVO.

SERVO È giunto or ora un gentiluomo, ancora in abito da viaggio, sire, e dice d'essere il duca   Ottavio.

RE                   II duca Ottavio?

SERVO          Sì, sire.

RE       Indubbiamente è venuto a conoscenza della folle impresa di don Giovanni, e viene qua, spinto dal de­siderio di vendetta, a chiedere il permesso di sfidarlo.

DON DIEGO                        Mio gran re, è riposta nelle tue eroiche mani la mia stessa vita, perché come          tale considero la vita di questo figlio disobbediente; giacché, sebbe­ne egli sia già grande,       gagliardo e prode, tanto che i giovani della sua età lo chiamano l'Ettore di Siviglia per le           audaci e straordinarie imprese che ha compiu­to, la ragione può far miracoli. Se appena è            possibile, non concedere il permesso.

RE       Basta così. Ho già compreso, Tenorio, il motivo che vi spinge: è l'amor paterno. Fate entrare       il duca.

DON DIEGO                        Sire, mi prostro ai tuoi piedi con animo grato. Come potrò ricompensarti di          grazia sì grande?

Entra il duca OTTAVIO, in abito da viaggio.

OTTAVIO      Ai tuoi piedi, gran monarca, accosta le sue labbra un pellegrino, misero e messo al           bando, per­ché giudica più facile la soluzione delle sue avventure qui al tuo cospetto.

RE       Duca Ottavio...

OTTAVIO      Mi hanno condotto fin qua la trista follia di una donna e l'insospettabile oltraggio di       un gentiluo­mo; è per colpa sua che ho osato giungere fino ai vo­stri piedi.

RE       Conosco già, duca Ottavio, la vostra innocenza. E scriverò al re di Napoli che vi riponga            nelle vostre dignità, dato che la vostra fuga v'abbia arrecato qual­che danno. Io stesso vi         accaserò qua a Siviglia, dopo avere ottenuto dal vostro sovrano il consenso alle nozze ed il       perdono per voi; ed anche se Isabella fos­se bella come un angelo, quando avrete visto colei      che sto per darvi vi parrà brutta. Gonzalo d'Ulloa è com­mendatore maggiore di Calatrava, ed è un gentiluo­mo del quale persino i mori intimoriti cantan le lodi, poiché sempre il codardo         cerca di adulare. Egli ha una figliola, alla quale basterebbe come dote la sua virtù, che è sì        grande, da esser seconda soltanto alla sua bellezza, meravigliosa. È come il sole tra le stelle di Siviglia. È costei ch'io vi destino in isposa.

OTTAVIO      Se anche avessi intrapreso il mio viaggio sol­tanto per ottenere questo, sarei ben felice      ora della mia sorte, soprattutto sapendo che tale è la tua vo­lontà.

RE  (al seguito)  Provvederete ad alloggiare il duca, fa­cendo in modo che nulla gli manchi. OTTAVIO             Chi ripone in te le sue speranze, sire, ne avrà buona ricompensa. Anche se ti    chiamano Alfonso undicesimo , tu sei degno d'essere il primo tra i re di Spagna. (Il re e don Diego           escono.)

            Entra RIPIO.

RIPIO                        Com'è andata?

OTTAVIO      A giudicare da quel che m'è accaduto oggi, considero bene spese tutte le pene     sofferte. Ho pall­iato con il re, che mi ha ricevuto e mi ha reso onore. Fui come Cesare al           cospetto di Cesare: vidi, pugnai e vinsi. Ha deciso ch'io riceva dalle sue stesse mani una            sposa, e s'è offerto di indurre il nostro re a re­vocare l'editto promulgato contro di me.

RIPIO                        Allora, è ben giusto che in Castiglia gli diano l'appellativo di generoso. Sicché, è             arrivato persino ad offrirti una sposa?

OTTAVIO      Sì, amico mio, e una donna di Siviglia, per­ché Siviglia produce, se vuoi saperlo e se         vuoi stu­pire, oltre ad uomini forti e prodi, anche bellissime donne. Lo scialle sul viso, grazia    di cui s'ammanta un purissimo sole, dove si può trovare, se non a Siviglia?2 La mia gioia è         tale, che già mi sento compensato di tutti i miei mali.

Entrano don GIOVANNI e CATERINONE.

CATERINONE Fermati, signore, ché c'è qua. il duca, l'innocente Sagittario di Isabella, anche se           dovrei chia­marlo piuttosto il suo Capricorno.

DON GIOVANNI    Non dartene per inteso.

CATERINONE         Sta' a vedere che, dopo tutto, gli fa l'a­mico.

DON GIOVANNI    Poiché dovetti lasciar Napoli in fret­ta, essendo stato mandato a chiamare dal      mio sovra­no, ed essendo legge per me ogni suo desiderio, non ebbi modo, Ottavio, di   prender congedo da voi.

OTTAVIO      Per ciò appunto, don Giovanni, mi è più grato il fatto che ci ritroviamo oggi a                              Siviglia, tutt'e due assieme.

DON GIOVANNI    Chi mai avrebbe potuto immaginare, duca, che vi avrei riveduto a Siviglia, in       modo da po­tervi offrire i miei servigi come desideravo? Come mai avete lasciato Pozzuoli e   la riviera napoletana? Per quanto, pur essendo Napoli un così eccellente soggior­no, la si può anche lasciare, ma soltanto per venire a Siviglia, amico mio.

 OTTAVIO     Se ve lo avessi udito dire a Napoli e non nel luogo in cui ora mi trovo, ho paura che         avrei ri­so, anziché darvi credito! Ma, se uno viene a viver qua, è tanto ameno il luogo, che   ogni lode che possa far di Siviglia risulta inadeguata. Chi è quel signore che sta venendo        qua?

DON GIOVANNI    È il marchese della Motta. Scusatemi, ma mi vedo costretto a lasciarvi, a                          costo di parere scortese.

OTTAVIO      Se aveste bisogno di qualche cosa da parte mia, qui sono, pronti a servirvi, il mio                         braccio e la mia spada.

CATERINONE  (tra sé)        E se gliene vien l'estro, sarà capace di sedurre un'altra donna          servendosi del suo nome, che è degno d'ogni stima.

DON GIOVANNI    Son ben lieto d'avervi visto.

CATERINONE         Se in qualche modo potesse esservi uti­le Caterinone, signori, mi troverete                                     sempre disposto a rendervi servigio.

RIPIO                                    E dove?

CATERINONE         All'osteria degli Uccellini, che è un ec­cellente tabernacolo! (Ottavio e Ripio          escono.)

            Entra il marchese della MOTTA, col suo SERVO.

MOTTA          È tutta la giornata che vi vado cercando, sen­za mai potervi trovare. È possibile, don        Giovanni, che voi siate qua in città, ed il vostro amico debba star sospirando per la vostra           assenza?

DON GIOVANNI    In nome di Dio, amico, non è spre­cata l'amicizia che mi mostrate! CATERINONE  (tra sé)    A patto che non gli affidiate una ragazza o qualche cosa di simile, potete      benissi­mo fidarvi di lui. Per quanto in fatto di donne sia un vero sparviere, ha una nobile           indole.

DON GIOVANNI    Che c'è di nuovo, a Siviglia?

MOTTA                     La capitale è del tutto cambiata.

DON GIOVANNI    Donne?

MOTTA                     La solita roba!

DON GIOVANNI    Ines?

MOTTA                     Se ne va a Vejel.

DON GIOVANNI    Bel posto per viverci! Una donna che è nata in sì alto luogo!

MOTTA                      È il tempo che vola via, quel che l'ha esiliata a Vejel.

DON GIOVANNI    Andrà a morirci. E Costanza?

MOTTA          Fa pena il vederla, così calva com'è: non ha più un capello sulla fronte né un                    pelo nelle soprac­ciglia. Un Portoghese la chiamerebbe vecchia, ed ella crederebbe che          le         dicesse bella.

DON GIOVANNI    E già, perché velha in portognese ha lo stesso suono di bella in castigliano.

                        E Teodora?

MOTTA          Quest'estate s'è liberata del mal francese con un fiume di sudore, ed è così fresca e                      tenerella, che avantieri mi ha lanciato un dente che le era caduto, legato in un mazzo                   di fiori.

DON GIOVANNI    E Giulia? Quella della Lucernetta?

 MOTTA                     Si tien sù a forza di belletti.

DON GIOVANNI    Si spaccia ancora per civettina?

MOTTA                     Macché! È diventata un barbagianni!  

DON GIOVANNI    Ed il quartiere di Cantarana è ben abitato?

MOTTA                     Son davvero come rane, per la maggior parte, le donne.

DON GIOVANNI    Sono ancora vive le due sorelle?

MOTTA                      Non solo loro, ma persino quella scimmia di Tolù quella ruffiana della loro                                   madre, che pensa ad ammaestrarle nella dottrina!

DON GIOVANNI    Quella vecchiaccia del demonio! Co­me sta la più grande?

MOTTA                      Bianca? Non ha un quattrino; ha ora un san­to, in onore del quale digiuna.

DON GIOVANNI    Ah! Celebra le vigilie?

MOTTA                     È costante, ed è una santa donna.

DON GIOVANNI    E l'altra?

MOTTA                      È di più larghi princìpi: non rifiuta mai nulla".

DON GIOVANNI    Fa come il buon muratore che utiliz­za ogni calcinaccio. E come vanno i tiri                                   birboni, mar­chese?

MOTTA                      Io e don Pietro d'Esquivel ne abbiam fatto uno addirittura crudele, iersera; e           per stanotte ne ho preparati altri due.

DON GIOVANNI    Verrò con voi, e faremo una capatina in un certo nido dove ho lasciato la                                     covata per tutt'e due. E come va il passeggio in piazza?

MOTTA                      Non ci bazzico più, perché ho una preoccupa­zione maggiore che mi tiene              quasi             sull'orlo della tomba.

DON GIOVANNI    Come mai?

MOTTA                     Amo, ma è un amore impossibile.

DON GIOVANNI    Perché? Non vi corrisponde?

MOTTA                     Anzi, mi vuol bene e mi stima.

DON GIOVANNI    Ed allora? Chi è?

MOTTA                      Donn' Anna, mia cugina, che è arrivata a Si­viglia da poco.

DON GIOVANNI    E prima, dov'era?

MOTTA                     A Lisbona, all'ambasciata spagnola, con suo padre.

DON GIOVANNI    È bella?

MOTTA                      È straordinaria; vi posso dire che la natura ha fatto miracoli, in donn'Anna                                   d'Ulloa.

DON GIOVANNI    È dunque così bella? Vivaddio, che la voglio vedere!

MOTTA                     Vedrete in lei la più splendida bellezza che occhi di re possan vedere.

DON GIOVANNI    Se è così bella, sposatela.

MOTTA                     II re l'ha destinata già in isposa, e non si sa ancora a chi.

DON GIOVANNI    Non vi vuol bene?

MOTTA                     Mi vuol bene e mi scrive.

CATERINONE  (tra sé) E taci, sciocco; non vedi che il più grande seduttore di Spagna cerca                                d'ingannarti?

DON GIOVANNI    Se siete così sicuro del suo amore, quali sventure dovete temere? Rapitela,                                   corteggiatela, scrivetele, seducetela, e poi lasciate che il mondo ar­da e vada in                             cenere!

MOTTA                      Sto aspettando proprio ora la sua definitiva decisione.

DON GIOVANNI    Non perdete dunque l'occasione; io v'aspetto qua.

MOTTA                      Torno subito.   (Esce.)

CATERINONE         Addio, sor Testa quadra o sor Testa tonda.

SERVO                      Addio.   (Esce.)

DON GIOVANNI    Ora che siam rimasti noi due soli, amico, va' dietro al marchese che è entrato                                nella reg­gia. (Caterinone esce.)

            Una  DONNA s'affaccia ad un'inferriata e chiama.

DONNA                     Ps! Dico a voi!

DON GIOVANNI    Chi m'ha chiamato?

DONNA                    Se siete suo amico, e cortese e avveduto come sembrate, date subito al                                         marchese questo foglio. E badate che da esso dipende la felicità d'una dama.

DON GIOVANNI    Vi prometto che glielo darò. Sono suo amico e gentiluomo.

DONNA                     Questo mi basta, signor forestiero. Addio.

DON GIOVANNI    La voce se n'è già andata. Non pare un incantesimo, quel che è successo or           ora? Il foglio mi è giunto nelle mani, come recato dalla staffetta del vento. Sicuramente            dev'essere di quella dama che il marchese ha tanto encomiato. È stata una bella for­tuna, la mia. Siviglia m'ha chiamato in altri tempi « L'ingannatore », ed infatti la maggior gioia che       può esserci per me è quella di ingannare una donna e la­sciarla disonorata. (Esaminando il           foglio) Vorrei aprirlo, giurabbacco! E se ci fosse sotto qualche altra astu­zia?... Mi vien da             ridere! Il famoso foglio è dissuggel­lato, ed è chiaro che vien da lei, perché è firmato

            « Donn'Anna ». Dice             così: « Quell'uomo sleale di mio padre mi ha maritata segretamente           senza che io mi sia potuta    opporre. Non so se potrò ancora vivere, perché è stato come           darmi la morte. Se apprezzi             com'è giusto il mio amore ed il mio attaccamento, e se il tuo           amore è sincero, devi dimostrarlo      in questa oc­casione. Perché tu veda quanto ti amo, vieni         stanotte da me; la porta alle undici    sarà aperta. Così, cugino mio, potranno avverarsi le tue            speranze, e godrai il premio del tuo   amore. Per farti riconoscere da Leonorina e dalle        governanti, amor mio, ti metterai un man­tello rosso. A te affido tutto il mio cuore. Addio ».             Po­vero innamorato. S'è mai vista una cosa    simile? Già rido della bella beffa. La farò mia,         vivaddio, con lo stesso inganno e la stessa   astuzia che ho usato a Na­poli con Isabella.

            Entra CATERINONE.

CATERINONE         Sta tornando il marchese.

DON GIOVANNI    Stanotte avremo da fare, tutt'e due.

CATERINONE         Che c'è? Qualche nuova beffa?

DON GIOVANNI    Fuor del comune, questa!

CATERINONE         Non ti posso approvare. Tu vuoi arri­vare al punto, signore, che una volta o                                   l'altra i beffati siamo noi. Perché chi vive beffando il prossimo finirà a sua                                   volta beffato,             pagando in un sol colpo tutti i suoi peccati.

DON GIOVANNI    Ti sei messo a fare il predicatore, im­pertinente?

CATERINONE         La ragione dà coraggio.

DON GIOVANNI    Ed il timore rende codardi. Chi si mette a fare il servitore non deve più avere                               una sua volontà: deve pensar soltanto a fare, e non a parlare. Uno che serve è                              come se stesse giocando; e se poi vuol guadagnare, deve limitarsi a fare,                                        perché             al gioco chi più fa più vince.

CATERINONE         Ma anche chi fa e chi dice il più delle volte perde.

DON GIOVANNI    T'ho voluto avvisare questa volta, per non doverti avvisare mai più.

CATERINONE         Va bene. Vuol dire che d'ora innanzi farò quel che mi ordini, e al tuo fianco                                 saprò domare anche una tigre o un elefante. E stiano in guardia i priori, ché,                                se tu mi comandi di tacere e di violentar­li, li violenterò senza batter ciglio,                         signore.

DON GIOVANNI    Taci, che viene il marchese.

CATERINONE         Dev'esser dunque lui, il violentato?

            Entra il marchese della MOTTA.

DON GIOVANNI    Per voi, marchese, m'han dato attra­verso codesta inferriata un cortesissimo                       incarico, sen­za che riuscissi a vedere la persona che me lo dava; unicamente son                          riuscito a capire, dalla voce, che era una donna. Mi ha detto in sostanza che alle                              dodici tu vada in gran segreto alla porta (che verrà aperta alle undici), e che le tue                        speranze saranno coronate dal possesso del tuo amore; ha detto che dovrai in­dossare,                per farti riconoscere da Leonorina e dalle go­vernanti, un mantello rosso.

MOTTA          Che dici?

DON GIOVANNI    Che questa imbasciata mi fu data da una finestra, senza che potessi vedere chi                              era.

MOTTA          Così i miei tormenti avranno fine. Ahimè, ami­co mio! Solo per merito tuo la mia                         speranza rinasce! Te ne son grato davvero. E ti bacerei i piedi!

DON GIOVANNI    Ricordati che non sono io tua cugina! Sei tu che devi aver la gioia di                                             possederla, e vorresti baciarmi i piedi?

MOTTA                      È tale la mia gioia, che mi ha sconvolto tutto. Affretta il passo, o sole!

DON GIOVANNI    In effetti, il sole volge al tramonto.

MOTTA                     Andiamocene, amici. Torneremo stanotte. Mi sembra d'impazzire!

DON GIOVANNI   (tra sé) Si vede benissimo; ma io pen­so che alle dodici farai pazzie peggiori! MOTTA                   Oh, cuginetta cara, cuginetta mia, che final­mente vuoi premiare la mia                                         fedeltà!

CATERINONE  (tra sé)   Per Cristo, io so che non darei un soldo, per sua cugina! (Il marchese esce.)

            Entra don DIEGO

DON DIEGO                         Don Giovanni!

CATERINONE         Tuo padre ti chiama.

DON GIOVANNI     Che desidera, vossignoria?

DON DIEGO                         Vorrei vederti più saggio, più buono e più stimato. È mai possibile che tu                                    cerchi ad ogni mo­mento di farmi morire di pena?

DON GIOVANNI    Perché dici questo?

DON DIEGO                        Per i tuoi modi e le tue follie. Il re ha finito per ordinarmi di bandirti dalla                                    città,    perché             giu­stamente si è indignato per una tua malvagia azione.                                          Sebbene tu me l'abbia nascosta, ormai lo sa anche il re, qua a Siviglia; ed è un                              delitto di tale             gravità, che quasi ho vergogna di parlarne. Un simile                                              tradimento nello stesso palazzo reale, e per giunta contro un ami­co?                                                Traditore, possa il cielo infliggerti un castigo qua­le merita un simile delitto! E                               bada che, se anche in apparenza il Signore ti lascia fare ed attende, la sua                                                punizione non giunge mai troppo tardi, e che vi de­ve pur essere un castigo per                              voi che profanate il suo santo nome,             giacché in punto di morte Dio è giudice                                    severo.

DON GIOVANNI    In punto di morte? Così lontana, la scadenza? Da qui ad allora, il viaggio è                                  lungo!

DON DIEGO                        Poi ti parrà troppo breve!

DON GIOVANNI    Ed il viaggio che adesso mi tocca fa­re perché così ha deciso sua altezza è lungo                           anch'esso?

DON DIEGO                        Finché il duca Ottavio non riceva soddi­sfazione di un oltraggio così                                             immeritato, e finché a Napoli non si sia posto rimedio ai guai che hai cau­sato                               con la faccenda di Isabella, il re vuole che tu ri­manga confinato a Lebrija in                                pena del tuo tradimento e delle tue astuzie; ed è un castigo troppo lieve, in                             confronto con la tua malvagità.

CATERINONE  (tra sé)   Se sapesse anche la storia di quella povera pescatrice, sarebbe ancor più                                 adirato, il buon vecchio.

DON DIEGO                        E, visto che con tutto quel che faccio per te e con tutto quel che ti dico, non                                c'è nulla che rie­sca a farti pentire, lascio a Dio il compito di punirti. (Esce.)

CATERINONE         Se n'è andato con le lagrime agli occhi, povero vecchio!

DON GIOVANNI    Piangi anche tu come lui, e come si conviene ai vecchi. Andiamo in cerca del                               marchese, già che è scesa la notte.

CATERINONE         Andiamo pure; così alla fine conquiste­rai anche la sua dama.

DON GIOVANNI    Sarà una beffa che farà rumore.

CATERINONE         Prego Iddio che ce ne faccia uscire sen­za danno.

DON GIOVANNI    Sei proprio un Caterinone!

CATERINONE         E tu, signore, sei una vera piaga, per le donne. E sarebbe bene che si                                             notificasse con pub­blico bando, in modo che, dopo averlo ascoltato, si potesse                            mettere in guardia contro di te ogni donna ancor pulzella: « Si guardino da un                                  uomo che seduce e inganna le donne, e che è l'ingannatore di Spagna ».

DON GIOVANNI    M'hai dato un titolo proprio adatto!

            Entra il marchese della MOTTA, con abiti appropriati alla notte, accompagnato da        MUSICI; passeggia per il palcoscenico, mentre quelli entrano cantando.

MUSICI         (cantano)

                        Chi il suo ben godere spera,

                        se più spera, più dispera.

DON GIOVANNI    Che c'è?

CATERINONE         È musica!

MOTTA                     Par proprio che il poeta abbia voluto alludere a me. Chi è là?

DON GIOVANNI    Un amico.

MOTTA                     È don Giovanni?

DON GIOVANNI    È il marchese?

MOTTA                     E chi potrebbe essere, se non io?

DON GIOVANNI    Ho capito che eravate voi, non appe­na ho veduto il mantello.

MOTTA  (ai musici) Cantate pure, che c'è qua don Gio­vanni.

MUSICI         (cantano)

            Chi il suo ben godere spera,

            se più spera, più dispera.

DON GIOVANNI    A chi appartiene la casa che state guardando?

MOTTA                     A don Gonzalo d'Ulloa.

DON GIOVANNI    E ora, dove avete intenzione di an­dare?

MOTTA                     A Lisbona.

DON GIOVANNI    Ma come, se siamo a Siviglia?

MOTTA                     E vi stupite por questo? Forse che non vive a suo agio, nel meglio della                                        Castiglia, il peggio del Portogallo?

DON GIOVANNI    Dove abitano?

MOTTA                     Nella via della Serpe: potrai vedere là Ada­mo tradotto in portoghese che in                                 questa valle di la­grime mille Ève cercano di adescare con buoni boc­coni. E                                  anche se paion d'oro, sono in realtà boccon­cini con cui esse si prendono i                                        nostri   danari.

CATERINONE         Io, veramente, di notte non vorrei an­darci, in quella strada sleale, perché quel                              che di gior­no è miele, la notte lo restituiscono mutato in... cera 5. Una volta,                                 per mia sventura, me la vidi piombare sul­le spalle, e dovetti riconoscere che,                                 se era cera di Por­togallo, doveva essere guasta, perché puzzava.

DON GIOVANNI    Mentre andate in via della Serpe, io vorrei giocare un certo tiro.

MOTTA                     Sentite: poco lontano di qua, ce n'c uno pro­prio buono che m'aspetta.

DON GIOVANNI    Lasciate fare a me, signor marchese, e vedrete che non me lo lascio sfuggire. MOTTA                Andiamo, dunque; indossate il mio mantello, e la cosa vi riuscirà più facile. DON GIOVANNI             Dite bene. Venite con me; mi mostre­rete la casa.

MOTTA                     Nel mandare ad effetto l'impresa, alterate la voce ed il modo di parlare.                                       Vedete quella gelosia?

DON GIOVANNI    Sì, che la vedo.

MOTTA                     E allora, avvicinatevi e dite: « Beatrice », ed entrate senz'altro.

DON GIOVANNI    Che razza di donna è?

MOTTA                     Tutta rosea e fresca.

CATERINONE         Fatta apposta per levar la sete!

MOTTA                     Vi aspettiamo alle gradinate

DON GIOVANNI    Arrivederci, marchese.

CATERINONE         Ma dove andiamo?

DON GIOVANNI    Sta' zitto, sciocco; taci. Andiamo a mandare ad effetto la mia beffa.

CATERINONE         Non te ne lasci sfuggire una!

DON GIOVANNI    Mi piace cambiare.

CATERINONE         Hai fatto sventolare il mantello dinanzi al toro.

DON GIOVANNI    Anzi, è il toro stesso che mi ha dato il mantello. (Esce con Caterinone.)

MOTTA                     La donna penserà che sia io.

MUSICI                     Che bel tiro!

MOTTA                     Sarà! come indovinare per isbaglio.

MUSICI                     Tutti sbagliano, a questo mondo. (Cantano) Chi il suo ben godere spera, se                                  più spera, più dispera.

            Escono, e si ode di dentro la voce di donn’ ANNA che grida :

DONN'ANNA   (dall'interno)           Traditore! Non sei il mar­chese! È tutto un inganno!

DON GIOVANNI   (dall'interno)    Vi dico che son io!

DONN'ANNA   (dall'interno)           Sei un demonio crudele! Tu menti, tu menti!

            Entra don  GONZALO, con la spada sguainata.

DON GONZALO     È la voce di donn'Anna, quella che odo!

DONN'ANNA  (dall'interno) E non c'è nessuno che am­mazzi questo traditore, quest'infame che ha                  ucciso il mio onore!

DON GONZALO     Chi può essere tanto temerario? E ha detto che il suo onore è morto! Ahimè!                                Ed è la sua lingua sconsiderata che diffonde il suo disonore?

DONN'ANNA   (dall'interno)   Ammazzatelo!

            Entrano don GIOVANNI e CATERINONE, impugnando la spada, e SERVI.

DON GIOVANNI    Chi c'è, qui?

DON GONZALO     Hai abbattuto la cima della torre del mio onore, custodita da me per tutta la                                 vita, traditore che sei!

DON GIOVANNI    Lasciami il passo!

DON GONZALO     Lasciarti il passo? Prima dovrai affron­tare la punta di questa mia spada!

DON GIOVANNI                T'ammazzerò!

DON GONZALO                 Non m'importa.

DON GIOVANNI                Bada che t'uccido!

DON GONZALO                 Muori, traditore!

DON GIOVANNI                Ora ti mostro come muoio io!

CATERINONE                     Se questa volta scampo, basta con le beffe, basta con le feste!

DON GONZALO                 Ah, m'hai dato la morte!

DON GIOVANNI                Sei tu che ti sei tolto la vita.

DON GONZALO                 Che ne avrei fatto, della mia vita, ormai?

DON GIOVANNI   (a Caterinone)   Fuggi.    (Escono don Giovanni e Caterinone.)

DON GONZALO     Bada che questo sangue che hai sparso accresce il mio furore. Sono morto:                                   nulla più può aiu­tarmi. Ma la mia collera ti seguirà, perché sei un traditore,                                   e chi è traditore è traditore perché è codardo.

Il cadavere di don Gonzalo vien portato via. Entra il marchese della MOTTA, accompagnato da servi

MOTTA          Le dodici stanno per scoccare, e don Giovanni è molto in ritardo: brutta cosa, dover                   aspettare!

            Entrano don GIOVANNI e CATERINONE.

DON GIOVANNI    Siete il marchese?

MOTTA                     Siete don Giovanni?

DON GIOVANNI    Sono io: eccovi il vostro mantello.

MOTTA                     E la beffa?

DON GIOVANNI    È andata male. C'è stato un morto, alla fine, marchese.

CATERINONE         Fuggi dal morto, signore!

MOTTA                     Scherzate, amico? Come si fa, adesso?

CATERINONE   (tra sé)     La beffa l'avete avuta anche voi!

DON GIOVANNI    Lo scherzo è costato caro.

MOTTA                     Ora toccherà a me farne le spese, don Giovan­ni, perché la donna se la prenderà                           con me.

DON GIOVANNI    Stan per sonare le dodici.

MOTTA                     E va bene! Purché io goda i favori della mia amata, non m'importa se non farà                             mai più giorno!

DON GIOVANNI    Addio, marchese.

CATERINONE   (tra sé)   Si troverà in un bel pasticcio, questo disgraziato!

DON GIOVANNI    Fuggiamo!

CATERINONE         E così veloci, che nemmeno un'aquila ci potrà raggiungere! (Escono entrambi.)

MOTTA                     Voi potete tornarvene tutti quanti a casa: ché io devo andar solo.

SERVI                       Dio ha fatto la notte per dormire.

            Escono tutti, lasciando solo il marchese della MOTTA.

VOCI  (dall'interno)   S'è mai vista disgrazia più grande? S'è vista mai maggiore sciagura?

MOTTA          Che Dio m'aiuti! Sento gridare sulla piazza del­la reggia. Che cosa può essere                   accaduto, a quest'ora? Mi sento agghiacciare il cuore. Di qua pare che tutto sia in fiamme       come una novella Troia, ché tanti lumi assie­me paiono un gran falò. Vedo venire verso di      me una squadra di gente con torce; come mai il fuoco si muove come le stelle nel cielo,          suddividendosi in isquadre? Voglio sapere che avviene.

            Entra don DIEGO TENORIO, seguito da GUARDIE con fiaccole.

DON DIEGO                        Chi va là?

MOTTA                     Uno che aspetta di conoscere il motivo che ha suscitato tanto rumore.

DON DIEGO                        Arrestatelo!

MOTTA                     Arrestar me? (Mette mano alla spada.)

DON DIEGO                        Ringuainate la spada, e mostrerete più coraggio non ricorrendo alle armi. MOTTA                         Come si osa parlare in questo modo al mar­chese della Motta?

DON DIEGO                        Consegnate la spada, ché il re ha ordinato di arrestarvi.

MOTTA                     Vivaddio!...

            Entra il RE con il suo seguito.

RE       Non troverà ove nascondersi in tutta la Spagna; e non lo troverà neanche in Italia, seppur           riesce a fug­gire.

DON DIEGO                        Sire, il marchese è qua.

MOTTA          È vostra altezza che ha dato ordine di arre­starmi?

RE                  Portatelo via e appendetene la testa ad un gancio! Come osi presentarti al mio                             cospetto?

MOTTA          Oh, ingannevoli gioie dell'amore, così leggere nel fuggire e così pesanti nel vivere!                      Diceva giusto quel sapiente, che il pericolo c'è anche tra la bocca e la tazza; ma lo                        sdegno del re mi lascia interdetto e mi spaventa. Non so neppure perché mi si arresta.

DON DIEGO                        E chi meglio di voi può conoscere la vera ragione?

MOTTA                     Io?

DON DIEGO                        Suvvia, andiamo.

MOTTA                     Che strana situazione!

RE                  Si apra immediatamente processo al marchese, e egli si tagli la testa domattina.                            E poi si faccia al commendatore il funerale, con tutta la solennità e la pompa                             riser­vata ai personaggi sacri e regali. Gli sia preparato un sepolcro di bronzo e di                        marmi diversi, con una statua; e, sopra, un'iscrizione in caratteri gotici, disegnati a               mosaico, proclami la sua vendetta. E voglio che il fune­rale, la statua ed il sepolcro               sian fatti a spese mie. Dov'è andata donn'Anna?

DON DIEGO                        Donn' Anna s'è rifugiata sotto la protezio­ne della regina mia signora.

RE                              La Castiglia intera sentirà la mancanza di quest'uo­mo; e Calatrava                                                rimpiangerà un simile condottiero.  (Escono tutti.)

(CAMPAGNA PRESSO IL VILLAGGIO DI DOS HERMANAS.)

            Entrano BATRIZIO con la sua promessa sposa AMINTA; GASENO, vecchio ; BELISA e      PASTORI che suonano e cantano.

PASTORI       (cantando)

Splende lieto il sol d'aprile

tra trifoglio e cedronella;

ma, sebben sia solo stella,

pare Aminta più gentile.

PATRIZIO                 Siedi su questo tappeto fiorito, sul quale a stento s'avanza tra la distesa di                                    brina    il sole con i suoi raggi appena nati; il luogo ameno par che c'inviti a                                   giacere.

AMINTA                   Cantate ancora al mio dolce sposo, a mille a mille, le vostre armoniose strofe. PASTORI    (cantando)

Splende lieto il sol d'aprile

tra trifoglio e cedronella;

ma, sebben sia solo stella,

pare Aminta più gentile.

GASENO       Benissimo! Bel solfeggio! Nemmeno il kirie è più armonioso!

BATRIZIO    Quando si confronta con le sue labbra, la rosa stessa, tutta fatta di porpora, corre                                    vergognosa a nascondersi tra la cedronella ed il trifoglio, che si levano nel sole                            d'aprile.

AMINTA       Batrizio, ti ringrazio, anche se sei bugiardo e adulatore; ma se rivolgi a me i tuoi                          raggi come fossi il sole, io sarò la tua luna. Tu sei il sole che mi fa risplen­dere, anche                 se son sorta calante, affinché l'alba ti can­tasse il suo saluto in tono gentile.

PASTORI       (cantando)

Splende lieto il sol d'aprile

tra trifoglio e cedronella;

ma, sebben sia solo stella,

pare Aminta più gentile.

            Entra CATERINONE, in abito da viaggio.

CATERINONE         Signori, alle nozze assisterà un ospite.

GASENO                   Questo nostro giubilo dev'essere conosciuto da tutti. Chi è l'ospite? CATERINONE       Don Giovanni Tenorio.

GASENO                   Chi? Il vecchio?

CATERINONE         No; questo è don Giovanni.

BELISA                     Sarà il suo giovane figlio.

BATRIZIO                Mi sa di malaugurio, perché giovanotti e gen­tiluomini son fatti apposta per                                  spegnere il piacere ed accender la gelosia. Ma chi gli ha fatto sapere delle mie                              nozze?

CATERINONE         Nessuno. Passa di qua, diretto a Lebrija.

BATRIZIO                Ho idea che sia il demonio che lo manda. Ma perché me la prendo? Vengano                               pure ad assistere al mio matrimonio tutti i gentiluomini di questo mondo...                                   Eppure, malgrado tutto, un gentiluomo alle mie nozze mi sa di malaugurio! GASENO                  Venga magari il Colosso di Rodi, venga il papa; venga il Prete Gianni venga                             pure don Alfonso undicesimo con tutta la sua corte, che vedranno dove                                          giungono il cuore e l'animo di Gaseno. In casa ci son montagne di pane e                                     fiumi   di vino, larghi come il Gua­dalquivir2; ci son babilonie di pancetta,                                     pronte per lar­dellarne i timorosi eserciti di uccelletti, di piccioni e di polli.                                    Venga dunque questo gran signore ad onorare quest'oggi, qui a Dos                                             Hermanas, la canizie di                                    questo vegliardo!

BELISA                     Dev'essere il figlio del cameriere maggiore...

BATRIZIO  (tra sé)   E a me pare che sia tutto di malau­gurio, perché sicuramente lo metteranno a                                sedere ac­canto alla mia sposa. Ancora non l'ho avuta, e già il cielo mi sta                                      condannando ai tormenti della gelosia! Amore è soffrire e tacere!

            Entra don GIOVANNI TENORIO.

DON GIOVANNI    Per caso, nel passar di qua, ho appre­so che si celebra un matrimonio in paese,                               ed ho voluto presenziarvi, dato che ho avuto questa fortuna.

GASENO                   Vossignoria è giunto appuntino per fare onore agli sposi e per render più                                      splendide le nozze.

BATRIZIO (tra sé)     Ma io, che sono il maggiore interes­sato, dico dentro di me che vi venga il                                     malanno!

GASENO                    Non fate posto a questo gentiluomo?

DON GIOVANNI    Col vostro permesso, vorrei sedermi qua. (Prende posto accanto alla sposa.) BATRIZIO                         Se vi sedete prima di me, signore, sarà come se foste voi lo sposo!

DON GIOVANNI    E quand'anche lo fossi, non avrei fat­to una cattiva scelta.

GASENO                   Badate che è lui lo sposo!

DON GIOVANNI    Vi chiedo perdono del mio errore e della mia ignoranza.

CATERINONE   (tra sé)       Povero marito!

DON GIOVANNI    (piano a Caterinone)              È rimasto lì a testa bassa.

CATERINONE       (piano a don Giovanni)            Lo vedo bene; ma, d'altra parte, se è destinato al                 peso delle corna, non è giusto che stia a testa bassa? Io non darei un cornoné per sua              moglie né per il suo onore. Te sventurato, povero villano, che sei caduto nelle mani                 di Lucifero in persona!

DON GIOVANNI    È possibile, signora, ch'io sia tanto for­tunato da sedervi accanto? Invidio di                                 tutto cuore lo sposo.

AMINTA                   Mi par che sappiate adulare.

BATRIZIO  (tra sé)    Lo dicevo, io, che un uomo potente è di malaugurio alle nozze!

GASENO                   Sù, mettiamoci a tavola; così sua signoria po­trà riposare un poco. (Don                                         Giovanni cerca di prender la mano alla sposa.)

DON GIOVANNI    Perché la ritirate?

AMINTA                   Perché è mia!

GASENO                   Sù, andiamo.

BELISA         E voi, cantate ancora!

DON GIOVANNI   (a Caterinone)             Che ne dici?

CATERINONE    (a don Giovanni)             Io? Che ho una gran paura che questi villani ci faran la pelle.

DON GIOVANNI     (c. s.) Begli occhi... Mani bianche... La guardo e mi sento infiammare e                           ardere!

CATERINONE   (c. s.)         Bollar d'infamia e scappare! Con questa, saranno quattro!

DON GIOVANNI   (c. s.)    Vieni, che ci stanno osservando.

BATRIZIO   (tra sé)              Gentiluomo alle mie nozze, malau­gurio!

GASENO                              Sù, cantate!

BATRIZIO   (tra sé)              Mi sento morire!

CATERINONE   (tra sé)       Cantate, cantate, che poi gli al­tri piangeranno!

            Escono tutti, e così

FinE   SECONDO ATTO

ATTO TERZO

(CAMPAGNA PRESSO IL VILLAGGIO DI DOS HERMANAS)

Entra BATRIZIO, pensieroso.

BATRIZIO    Gelosia, svegliarino degli affanni, che dài ad ogni istante tormenti che uccidono,             anche se suoni a sproposito; gelosia, logorio della vita, che fai diventar sciocca la gente,     giacché più cresci, meno la lasci pen­sare; cessa di torturarmi, poiché so fin troppo bene che tu cerchi di darmi la morte, quando l'amore mi vuol dare la vita! Che mai volete da me,           gentiluomo, per tormentarmi così? Avevo ben ragione, quando vi vidi alle mie nozze, di         pensare al malaugurio! Non ba­stava che si fosse seduto a cenare accanto a mia moglie e che       non mi lasciasse mai mettere la mano nel piatto? Ogni volta che cercavo di mettercela, mi      spingeva in disparte e diceva, ad ogni boccone che prendevo: « Vil­lania, villania! ». Persino       quando mi lamentavo con qualcuno, mi sentivo rispondere ridendo: « Non dovete lagnarvi;             questo non importa nulla; non dovete aver paura; tacete, ché dev'essere un'usanza di corte ». Belle usanze, squisita cortesia! Di meglio non si potrebbe fare nemmeno a Sodoma: lo     sposo costretto a digiu­nare, mentre la sposa mangia con un altro! E quel­l'altro birbantaccio,        poi! Ad ogni boccone che tentavo di cacciare in bocca, mi diceva: « Questo no, vi potrebbe   far male! ». E me lo toglieva d'innanzi sul­l'istante. Mi sento proprio avvilito; e capisco ora          che quello è stato un serpente, non un matrimonio. È una cosa che non si può sopportare, e        che nemmeno do­vrebbe accadere, tra cristiani. E questo è niente! Volete vedere che, una          volta finito di cenare con noi due, vorrà venire anche a dormire con noi, se gliene salta il             ticchio, e che, quando farò per accostarmi a mia moglie, si metterà ancora a predicare:     «Villania, vil­lania»? Eccolo che viene; non ne posso più! Ora mi nascondo... Ma non può         essere, perché mi pare che mi abbia visto.

Entra don GIOVANNI TENORIO.

DON GIOVANNI    Batrizio!

BATRIZIO                Che comanda vossignoria?

DON GIOVANNI    Vorrei dirvi...

BATRIZIO  (tra sé)   Che ci può esser di nuovo, se non qualche altra disgrazia per me?

DON GIOVANNI    ...che da molto tempo, Batrizio, ho dato ad Aminta tutto il mio cuore, e ne ho                 avuto in cambio...

BATRIZIO    II suo onore?

DON GIOVANNI    Sì.

BATRIZIO (tra sé)    È la più manifesta e chiara dimo­strazione che avevo visto giusto: se non le           avesse voluto bene, non sarebbe mai venuto a casa sua. È don­na anche lei, come tutte le            altre.

DON GIOVANNI    Alla fine, Aminta, o per gelosia o per la disperazione di sentirsi dimenticata         da me, nel ve­dersi fidanzata ad un altro, mi scrisse questa lettera per mandarmi a chiamare,      ed io le promisi di mante­nere compiutamente la parola che le avevo data. Le cose stanno in        questi termini. Ora pensate bene che cosa vi convenga fare; che io, se qualcuno tenta di   intromettersi, l'ammazzerò.

BATRIZIO Se tu lasci a me la scelta, farò di tutto per accontentarti, perché l'onore e la donna non        son cose da lasciare in sospeso. La donna, se dà esca alle chiacchiere, perde assai più che        non guadagni, perché è come la campana che si giudica dal suono; e perciò è chiaro che ci   rimette di reputazione, quando una donna qualunque dà suono di campana fessa. Dal momento che mi fai dubitare del bene che il mio amore si ripro­metteva, non voglio una             donna che non posso sapere se sia buona o cattiva: sarebbe come prendere quattrini tra il            lusco e il brusco, senza vederli bene. Goditela, signor mio, per mill'anni, perché io, per mio             conto, preferisco l'esistere, disingannarmi e magari morire, ma non vivere in mezzo      agl'inganni!   (Esce.)

DON GIOVANNI    L'ho vinto, parlandogli dell'onore, per­ché questi villani ne hanno sempre   piena la bocca e non pensano che a se stessi. E mi pare che, a giudicare dalle falsità del             mondo, l'onore si sia rifugiato in cam­pagna, scappando dalle città. Ma, prima di combinare         un guaio, voglio metter le cose a posto: andrò a par­lare con suo padre per condurre meglio il mio inganno. Finora l'ho svolto bene, e stanotte spero di farla mia. Ma intanto la notte             s'avanza e sarà bene che chiami il vecchio. Stelle che mi illuminate, concedetemi fortuna in         questo inganno, dato che la ricompensa di tutto questo la serbate per la mia morte, ed è scadenza lontana.  (Esce.)

Entrano AMINTA e BELISA.

BELISA         Bada che tra poco verrà il tuo sposo. Entra in casa. Aminta, e spogliati.

AMINTA       Non so che pensare, Belisa, di questo mio disgraziato matrimonio. Il mio Batrizio è         stato tutto il giorno immerso nella melanconia più profonda; mi pareva che fosse tutto preoccupato e geloso. Vedete che guaio! E ditemi: chi è quel gentiluomo che mi ha alienato      l'animo del mio sposo? Par proprio che la sfacciataggine in Ispagna abbia preso il posto della      cavalleria! Ma via, lasciatemi, che ci perdo la testa; lasciatemi, che mi sento avvilita. Sia     maledetto il gen­tiluomo che mi toglie ogni gioia!

BELISA         Zitta: mi pare che stia venendo Batrizio. Nes­sun altro potrebbe accostarsi con tanta         sicurezza alla casa di un novello sposo.

AMINTA       Che Dio t'assista, Belisa mia.

BELISA         F'agli passare il malumore stringendolo fra le tue braccia.

AMINTA       Piaccia al cielo che i miei sospiri possan far da parole dolci, e da carezze le mie    lagrime! (Escono.)

Entrano don GIOVANNI, CATERINONE e GASENO.

DON GIOVANNI    Gaseno, addio.

GASENO       Vorrei accompagnarvi per rallegrarmi con mia figlia di questa fortuna che le         tocca.

DON GIOVANNI    Vi resterà tempo domani, per farlo.

GASENO                   Avete ragione. Nella mia ragazza vi affido tut­ta l'anima mia.

DON GIOVANNI    Chiamatela pure la mia sposa. (Gase­no esce.)

DON GIOVANNI  (a Caterinone) Sella le bestie.

CATERINONE         Per quando?

DON GIOVANNI    Per l'alba, che domattina spunterà ri­dendo a crepapelle di questo inganno. CATERINONE             Laggiù a Lebrija, signore, ci sta aspet­tando un'altra festa di nozze. Per l'anima                             tua, cerca eli sbrigartela, con questa!

DON GIOVANNI    Ti dico che questa dovrà essere la bef­fa meglio riuscita!

CATERINONE         Per me, vorrei che ci riuscissero bene tutte quante.

DON GIOVANNI    Di che hai paura, se è mio padre il capo della giustizia ed il favorito del re? CATERINONE             Di coloro che godon la fiducia dei sovra­ni il cielo suol prender vendetta, se                     non puniscono i delitti. È come nel gioco, dove finiscono col perdere anche quelli              che stanno a guardare. Ed io son sempre stato a guardare il tuo. Sicché non vorrei                  proprio che, per aver   soltanto guardato, mi piombasse addosso un fulmine e mi                                  riducesse in cenere.

 DON GIOVANNI   Sù, adesso va', e ricordati di sellar le bestie, perché domani debbo dormire a                    Siviglia.

CATERINONE         A Siviglia?

DON GIOVANNI    Sì.

CATERINONE         Che dici? Pensa a quel che hai fatto, e bada, signore, che la vita più lunga è                                 ben corta, dinanzi alla morte, e che dopo la morte ci può esser l'inferno.

DON GIOVANNI    Se la scadenza è così lontana, avanti senza paura con gl'inganni!

CATERINONE         Signore...

DON GIOVANNI    Sù, vattene, ché mi stai seccando, con i tuoi sciocchi timori.

CATERINONE         Tu l'hai fatta al Turco, allo Scita, al Persiano e al Garamante  al Galiziano e                                 al troglodita, al Tedesco e al Giapponese, e vuoi farla anche al sarto che tiene                              in mano il suo bell'ago d'oro, imitando giorno e notte la Bianca bimba!                            (Esce.)

DON GIOVANNI    La notte si stende in cupo silenzio, e le Caprette, tra grappoli di stelle, son            presso al polo più alto. È il momento di mettere in opera il mio dise­gno. L'amore mi spinge a     seguire la mia inclinazione; ed alla propria indole non c'è uomo che possa resistere. Arriverò    fino al letto!... Aminta!

Entra, discinta come se si levasse dal letto, AMINTA.

AMINTA                   Chi chiama Aminta? È il mio Batrizio?

DON GIOVANNI    No, non sono il tuo Batrizio.

AMINTA                   E chi, allora?

DON GIOVANNI    Guarda bene chi sono, Aminta.

AMINTA                   Povera me! Son perduta! In casa mia, e a quest'ora?

DON GIOVANNI    Queste son le mie ore.

AMINTA                   Tornate indietro, o mi metterò a gridare. Non mettetevi sotto i piedi il rispetto                             che è dovuto al mio Batrizio. E ricordatevi che anche qui, a Dos Hermanas, ci                             sono Emilie come quelle romane, e Lucrezie che san­no vendicare il proprio                              onore!

DON GIOVANNI    Ascoltami un momento, e richiama dalle gote al cuore l'onda di porpora che                                 in te appare più preziosa e più ricca.

AMINTA                   Vattene, che verrà il mio sposo!

DON GIOVANNI    Son io il tuo sposo. Ti stupisci?

AMINTA                   Da quando in qua?

DON GIOVANNI    Da adesso.

AMINTA                   Chi ha concertato le nozze?

DON GIOVANNI    La mia felicità.

AMINTA                   E chi ci ha sposato?

DON GIOVANNI    I tuoi begli occhi.

AMINTA                   Con quali poteri?

DON GIOVANNI    Con lo sguardo.

AMINTA                   E Batrizio, lo sa?

DON GIOVANNI    Sì, e ti ha dimenticato.

AMINTA                   Come? Mi ha dimenticato?

DON GIOVANNI    Sì, perché io ti adoro.

AMINTA                   Ma come?

DON GIOVANNI    Con queste mie braccia.

AMINTA                   Fatti in là!

DON GIOVANNI    Come potrei, se è vero che muoio per te?

AMINTA                   Quale enorme menzogna!

DON GIOVANNI    Aminta, ascoltami; e saprai, se vuoi che te la dica, la verità; perché voi donne                   siete ami­che del vero.- Io sono un nobile gentiluomo, unico ere­de della casa dei                                   Tenorio, gli antichi conquistatori di Siviglia. Mio padre vien subito dopo il re, nel                    rispetto e nella stima di tutti, ed a corte la vita e la morte di­pendono da una sua                                   parola. Mentre percorrevo a caso questa strada, ho avuto il bene di vederti, perché                      alcu­ne volte l'amore governa le cose umane in modo tale da travolgere ogni                                    previsione degli uomini. Ti vidi, ti adorai, ed arsi tanto d'amore per te, che decisi di                     sposarti. E vedi che altro non potevo fare. Ed anche se tutto il regno dovesse                              criticarmi, se anche il re si adi­rasse, se anche mio padre, nella sua collera volesse                        impedirmelo con le minacce, io debbo essere il tuo sposo. E adesso, che dici? AMINTA     Non so più che dire, perché le tue verità si nascondono sotto troppe retoriche                                     menzogne. Infatti, se sono già la promessa sposa di Batrizio (e tutti quan­ti lo sanno),                     la parola data non si può sciogliere, se anche egli vi rinunzia.

DON GIOVANNI    Se il matrimonio non è ancora con­sumato, o per inganno o con l'astuzia si può                  annullare.

AMINTA                   Ma in Batrizio non vi fu mai altro che sin­cerità!

DON GIOVANNI    Orbene: dammi la tua mano, e dan­domela confermerai il tuo consenso. AMINTA                       Non m'inganni, dunque?

DON GIOVANNI    Su di me ricadrebbe l'inganno.

AMINTA                   Giura allora che manterrai la promessa fatta.

DON GIOVANNI    Giuro su questa tua mano, signora, che è simile ad un inferno fatto di gelida                                neve, di mantener la mia parola.

AMINTA                   Giura dinanzi a Dio che possa maledirti, se non la mantieni.

DON GIOVANNI    Se mai mancassi alla mia parola ed alla fede data, prego il Signore che mi                                     faccia morire a tradimento per mano d'un uomo1... (tra sé) ...mor­to; ma per                                  mano d'un vivo, Dio non lo consenta!

AMINTA                   Dopo questo tuo giuramento, sarò tua sposa.

DON GIOVANNI    Tutta l'anima mia t'offro, qui tra le mie braccia.

AMINTA                   Tua è la mia vita; tua è l'anima mia.

DON GIOVANNI    Oh, Aminta degli occhi miei! Domani calzerai i tuoi bei piedini con scarpette                               di terso ar­gento, punteggiate di chiodini d'oro del Tibar2; impri­gionerai la tua                              gola alabastrina in un collare di perle; ti adornerai le dita di splendidi anelli,                             nel cui castone appariranno iridescenti le perle più fini.

AMINTA                   Da ora in poi, sposo mio, il mio volere cede dinanzi al tuo. E sono tua.

DON GIOVANNI  (tra sé) Come conosci male l'inganna­tore di Siviglia!  (Escono entrambi.)

LA SPIAGGIA PRESSO TARRAGONA.

Entrano ISABELLA e FABIO, suo servo, in abito da viaggio.

ISABELLA    Possibile che chi ne era il padrone m'abbia rubato la cosa che più amavo e più       stimavo? Eppure è questa la verità! O notte tenebrosa che vieni a velare il giorno, ponendoti agli antipodi del sole, tu che sei sposa del sonno!

 FABIO          A che giova, Isabella, la tristezza nell'anima e negli occhi, se amore è solo astuzia e          reca con sé, tra le contrarietà, i dolori; se colui che ora ride tra breve piangerà le sue     sventure? Il mare è tempestoso e nel violento turbine grave è il pericolo. Le galere,          duchessa, han cercato ridosso presso la torre che domina queste spiagge.

ISABELL       A Ma dove siamo, ora?

FABIO           A Tarragona. E di qui a poco giungeremo a Va­lenza, magnifica città e dimora del            sole. Ti tratterrai qualche giorno colà per riposarti, e poi andrai a vedere l'ottava meraviglia          del mondo, la splendida Siviglia. E se hai perduto Ottavio, don Giovanni è più bello ed      appartiene all'antica casata dei Tenorio. Perché dun­que sei triste? Dicono che già don          Giovanni Tenorio è stato fatto conte; il re te l'ha destinato per marito, e suo padre gode di       tutta la fiducia a palazzo.

ISABELLA    La mia tristezza non deriva dal fatto che dovrò andare sposa a don Giovanni, giacché     nessuno ignora la sua nobiltà illustre; io soffro per le voci che son corse, perché la mia fama          perduta dovrò rimpian­gerla finché avrò vita.

FABIO           C'è laggiù una pescatrice che si lamenta e so­spira teneramente e piange dolci        lagrime. Viene senza dubbio verso di noi per veder te. Mentre io raduno la tua gente, le             vostre pene s'addolciranno a vicenda. (Esce.)

Entra TISBEA.

TISBEA         Violento mare di Spagna, onde di fuoco, onde fuggevoli che avete fatto della mia          capanna una se­conda Troia, le cui ceneri son già disperse negli abissi delle onde, fiamme          che il mare ha trasformato in ac­qua! Sia maledetto il legno che s'aperse la via sul tuo amaro        specchio, maledetta la prima canapa o il primo lino che i venti dipanarono per farne ordito e   trama di inganni e di perfidie, in odio alla triste Medea!

ISABELLA    Perché così teneramente rivolgi al mare i tuoi lagni?

TISBEA         Ho mille ragioni di muovergli rimprovero. Fe­lice voi che ora, mentre egli è in gran           tormento, po­tete rider di lui!

ISABELLA    Anch'io mi sto dolendo di lui. Di dove siete?

TISBEA         Di quelle capanne che vedete laggiù, battute dal vento che trionfa su di esse in tal           maniera, che le loro povere pareti travolte piomban giù a pezzi, offren­do agli uccelli mille         nidi nelle loro crepe. Vissi tra la paglia di quelle capanne con un cuore fermo e duro come   diamante; ma l'opera3 di questo mostro che vedi infuriare così mi rese poi tanto molle, che è     più robu­sta la cera esposta al sole. Ma siete voi dunque la bella Europa? E sono tori, che vi       trasportano?

ISABELLA    Mi conducono a Siviglia dove, contro il mio volere, sarò sposata.

TISBEA         Se la mia pena v'induce a compassione, e se le ire del mare vi turbano, conducetemi        in vostra com­pagnia per servirvi come umile schiava; perché vor­rei, se il dolore e l'oltraggio           subito non mi uccidono, chieder giustizia al re per un crudele inganno, per un'astuzia           traditrice. Sbattuto dalle onde, approdò a questa terra don Giovanni Tenorio, mezzo morto e qua­si annegato; lo soccorsi, l'ospitai in quel grave fran­gente, e quell'ospite vile fu per me      come una vipera che mi mordesse il piede tra la tenera erbetta. Mi pro­mise d'esser mio             sposo: e colei che si faceva beffe di tutti gli uomini di questa costa, si arrese all'ingannato­re.       Maledetta la donna che si fida degli uomini! Fuggì, infine, e mi abbandonò: vedi se non è        giusto ch'io cer­chi vendetta!

ISABELLA     Taci, maledetta donna! Fuggi lungi da me, ché m'hai ucciso! Ma sé è il dolore che ti                    spinge, non sei tu la colpevole! Continua il tuo racconto.

TISBEA          Sarebbe stata la mia felicità.

ISABELLA    Maledetta la donna che si fida degli uomini! Ma chi dovrà accompagnarti?

TISBEA          Un pescatore, Anfriso; un povero padre che fu testimone di tutte le mie sventure. ISABELLA  (tra sé)   Non c'è vendetta che meglio s'ade­gui ai miei mali. (A Tisbea) Vieni dunque con me.

TISBEA         Maledetta la donna che si fida degli uomini! (Escono entrambe.)

(UNA CHIESA IN SIVIGLIA.)

Entrano don GIOVANNI e CATERINONE.

CATERINONE         Le cose si metton male.

DON GIOVANNI    E come mai?

CATERINONE         II duca Ottavio è ormai al corrente del tradimento di cui è stato vittima in            Italia, ed il mar­chese della Motta, profondamente offeso, si querela giustamente contro di te,           dicendo che il messaggio di sua cugina che tu gli riferisti, fu artefatto e alterato a bella posta,   e che ti servisti del suo mantello per ordire il tradimento che l'ha infamato. E poi sta per   arrivai Isabella, che dovrà sposarsi con te; e la gente dice...

DON GIOVANNI    Taci!   (Gli dà un ceffone.)

CATERINONE         M'ha spezzato un dente in bocca!

DON GIOVANNI    Chiacchierone! Chi t'ha rivelato, tutte assieme, tante sciocchezze?

CATERINONE         Sciocchezze! Sciocchezze! È la pura ve­rità!

DON GIOVANNI    Non ti domando se è o no la verità. Se anche Ottavio mi vuole uccidere, son                    io forse già morto? Non ho anch'io le mani? Dove hai preparato l'alloggio?

CATERINONE         Lungo la strada, ben nascosto.

DON GIOVANNI    Bene!

CATERINONE         La chiesa è terra santa.

DON GIOVANNI    Voglio vedere chi, di pieno giorno, verrà qui per ammazzarmi! Hai poi visto         lo sposo di Dos Hermanas?

CATERINONÈ         Ho visto anche lui, triste e preoccupato.

DON GIOVANNI    Per due settimane almeno Aminta non si renderà conto della beffa.

CATERINONE         C'è caduta tanto bene, che si fa chia­mare donn'Aminta!

DON GIOVANNI    Sarà una bella delusione!

CATERINONE         Bella e rapida; ma dovrà piangerla per sempre.

            Si scopre il sepolcro di don Gonzalo d'Ulloa.

DON GIOVANNI    Che tomba è codesta?

CATERINONE         Vi è sepolto don Gonzalo.

DON GIOVANNI    Ah! Quello che ho ammazzato io? Gli han fatto una gran bella sepoltura! CATERINONE             È stato il re che ha ordinato di farla. Come dice la scritta?

DON GIOVANNI    « Qua il più leale dei gentiluomini aspetta dal Signore la vendetta di un    fellone ». Mi fa ridere, l'epigrafe! (Alla statua) E volete vendicarvi voi stesso, buon vecchio          dalla barba di pietra?

CATERINONE         Non gliela potrai strappare, ché è una barba ben dura!  

DON GIOVANNI    Vi aspetto stasera a cena in casa mia. E lì, se ci tenete tanto alla vendetta,             potremo batterci a nostro agio. Ma sospetto che il duello sarà disuguale, se anche la vostra            spada è di pietra.

 CATERINONE        S'è già fatto buio, signore. È ora di ri­tirarci.

DON GIOVANNI    Sarà affare lungo, questa vendetta! Se la volete fare proprio voi, vi converrà        non dormirci su: se aspettate la mia morte per vendicarvi, è bene che per adesso perdiate          ogni speranza, perché la vo­stra collera e la vostra vendetta hanno troppo lunga la scadenza. (Escono.)

SALA IN CASA DI DON GIOVANNI.

Due SERVI stanno apparecchiando la mensa.

PRIMO SERVO        Voglio apparecchiare, che tra poco sarà qua don Giovanni per la cena.

SECONDO SERVO             La tavola è apparecchiata. Ma lui se la piglia comoda... Il padrone è, come             sempre, in ritar­do; ed è una cosa che non va: i cibi si raffreddano e le bevande     s'intiepidiscono. Ma si può sapere chi ob­bliga don Giovanni a questa vita disordinata?

Entrano don GIOVANNI e CATERINONE.

DON GIOVANNI                Hai chiuso?

CATERINONE                     Ho eseguito i tuoi ordini. Ho chiuso.

DON GIOVANNI                Olà! Servite la cena.

SECONDO SERVO                         Eccola pronta.

DON GIOVANNI                Siedi, Caterinone.

CATERINONE                     A me piace mangiar comodo...

DON GIOVANNI                T'ho detto di sederti.

CATERINONE                     Vuol dire che brinderò anch'io.

PRIMO SERVO  (tra sé)      Crede d'essere ancora in viag­gio, questo, se si mette a tavola con lui! 1 DON GIOVANNI               Siedi!

Si sente un colpo, dall'interno.

CATERINONE         Avete sentito? Un colpo.

DON GIOVANNI    Mi pare che abbian bussato. Guardate chi c'è.

PRIMO SERVO        Volo a guardare.

CATERINONE         E se fosse la giustizia, signore?

DON GIOVANNI    Se anche fosse, non aver paura.

Il servo rientra di corsa.

DON GIOVANNI    Chi c'è? Perché tremi?

CATERINONE         Dev'esserci qualche guaio.

DON GIOVANNI    Freno a stento la mia collera! Parla, rispondi: che hai veduto? Ti sei trovato                      davanti un qualche demonio? (A Caterinone) Vacci tu, e vedi chi c'è alla porta.                           Presto, muoviti!

CATERINONE         Io?

DON GIOVANNI    Tu, sicuro. Fa' presto, muovi codesti piedi!

CATERINONE         Mia nonna fu trovata morta, appesa alla corda come un grappolo d'uva; e da        allora si dice che la sua anima sia in pena e vada vagando intorno. Tutti questi colpi mi             garban poco!

DON GIOVANNI                Fa' presto, t'ho detto.

CATERINONE                     Signore, dal momento che sai ch'io sono un Caterinone ...

DON GIOVANNI                Muoviti!

CATERINONE                     Che paura!

DON GIOVANNI                Non ci vai?

CATERINONE                     Chi le ha, le chiavi della porta?

SECONDO SERVO                         È chiusa col solo chiavistello.

DON GIOVANNI                Ma che ti prende? Perché non vai?

CATERINONE                     Oggi il povero Caterinone muore. E se fossero le donne che hai                 sedotto, che vengono a ven­dicarsi di tutt'e due?

            Caterinone va alla porta e toma indietro di corsa; inciampa, cade e si rialza.

DON GIOVANNI                Ma che fai?

CATERINONE                     Che Dio m'aiuti! Mi agguantano, m'am­mazzano!

DON GIOVANNI                Chi è che t'agguanta, chi è che t'am­mazza? Che cosa hai visto? CATERINONE             Signore, io lì ci ho visto, quando... Poi sono andato... Chi mi afferra?        Chi mi trascina? Ero appena arrivato, quando poi, come cieco... Quando l'ho veduto,     giuraddio!... Mi parlò e mi disse... « E voi, chi siete? »... Mi rispose... e poi io gli risposi...       Mi imbattei in... e vidi...

DON GIOVANNI    Ma chi?

CATERINONE         Non so.

DON GIOVANNI    Guarda un po' che scherzi fa il vino! Dammi la candela, pulcino bagnato, e           andrò io a ve­dere chi c'è.

Don Giovanni prende la candela e s'avvia alla porta. Gli viene incontro don Gonzalo , tale e quale com'era sul­la sepoltura, e don Giovanni retrocede sbigottito, con la spada sguainata in una mano e la candela nell'altra. Don Gonzalo s'avanza verso di lui, a passettini\ e con la stessa andatura don Giovanni indietreggia, ritirandosi fi­no al centro del palcoscenico.

DON GIOVANNI    Chi va là?

DON GONZALO     Son io.

DON GIOVANNI    E chi siete, voi?

DON GONZALO     Sono quell'onorato gentiluomo che tu hai invitato a cena.

DON GIOVANNI    Ci sarà da cenare per tutt'e due; e, se anche tu venissi accompagnato, ce ne          sarà per tut­ti. La tavola è apparecchiata. Siedi, dunque!

CATERINONE         Dio mi protegga! San Panunzio, San­t'Antonio! Dimmi un po': i morti        mangiano?... Fa cen­no di sì.

DON GIOVANNI    Siedi anche tu, Caterinone.

CATERINONE         No, signore; io ho bell'e cenato!

DON GIOVANNI    Vedi che scompiglio! Che paura hai d'un morto? E che faresti, se fosse vivo?       È una paura da sciocchi e da villani.

CATERINONE         Cena pure con il tuo convitato; per con­to mio, ho bell'e finito di cenare.

DON GIOVANNI    Vuoi proprio che perda la pazienza?

CATERINONE         Signore, vi giuro dinanzi a Dio che son pieno di puzza!

DON GIOVANNI    Vieni avanti, che t'aspetto.

CATERINONE         Mi pare d'esser già morto, e che sian morte e putrefatte anche le mie parti             posteriori... (I servi tremano.)

DON GIOVANNI   (ai servi)           E voialtri, che dite? Che fate? È proprio da sciocchi, tremare!

CATERINONE         Non vorrei mai mettermi a tavola con gente d'altri paesi. Volete proprio,   signore, che divida la cena con un convitato di pietra

DON GIOVANNI    Sciocche paure! Se è di pietra, che vuoi che ti faccia?

CATERINONE         Potrebbe rompermi la testa...

DON GIOVANNI    Parlagli con cortesia.

CATERINONE  (alla statua)   State bene? È una bella regione, l'altra vita? È pianura o montagna?       Al mon­do di là, si dàn premi ai poeti?

PRIMO SERVO         Dice di sì a tutto, chinando il capo!

CATERINONE         Ci son molte taverne, laggiù? Devono essercene di sicuro, se ci abita Noè.

DON GIOVANNI    Avanti! Versate da bere.

CATERINONE         Signor morto, all'altro mondo si usa be­re il vino gelato con la neve? (La    statua china il capo assentendo.) Così, dunque, c'è anche la neve: bel paese!

DON GIOVANNI    Se volete sentire cantare, canteranno. (La statua fa cenno di sì, chinando il           capo.)

SECONDO SERVO                         Ha detto di sì.

DON GIOVANNI                Cantate, dunque.

CATERINONE                     II sor morto ha buon gusto.

PRIMO SERVO                    Di sicuro è un nobile, e gli piace di­vertirsi.

MUSICI         (dall'interno, cantando)

                        Se del mio amore aspettate,

                        bella signora, per sorte,

                        la pena in punto di morte,

                        termine lungo mi date!

CATERINONE         O il caldo gli ha fatto passare l'appetito, al signor morto, o dev'essere uomo          che mangia poco. Mi trema la mano, nel metterla nel piatto! Bevon poco, nel mondo              di là: berrò io per tutt'e due. (Beve.) Perdinci! Il brindisi d'una pietra! Ho già me­no paura.

MUSICI    (dall'interno, cantando)                                    

                        Se m'invita la scadenza

                        a goderti, e ancor mi resta

                        lunga vita, fa' che lesta

                        via trascorra: è gran sapienza!

                        Se del mio amore aspettate,

                        bella signora, per sorte,

                        la pena in punto di morte,

                        termine lungo mi date!

CATERINONE         Con quale delle tante donne che hai in­gannato, signore, parlano i musici?

DON GIOVANNI    In questo momento, amico mio, mi ri­do di tutte quante. A Napoli, Isabella...

CATERINONE         Codesta, signore, oggi non è più ingan­nata, perché deve sposarsi con te, come     è giusto. Hai ingannato invece la pescatrice che ti aveva salvato dal mare, ricompensando         l'ospitalità che t'aveva dato con la moneta dell'ingratitudine. Hai ingannato donn'Anna...

DON GIOVANNI    Taci, ché c'è qua uno che ha sofferto fin troppo, per lei, e che aspira

                        a vendicarsi.

CATERINONE         È uno, per giunta, che vale assai: lui è di pietra, tu sei di carne. Non è certo un     buon af­fare! (La statua fa cenno che si sparecchi la mensa, per restar sola con don       Giovanni.)

DON GIOVANNI    Sù, sparecchiate! Fa cenno che dob­biamo rimaner soli noi due e che gli altri         se ne vadano.

CATERINONE         Brutto affare, perdinci! Non restar qui, ché ci son morti che con un cazzotto        t'accoppano un gigante!

DON GIOVANNI    Andate via tutti! Se fossi un Catti­none, allora... Vattene, che s'avvicina.

Escono i servi e Caterinone ; rimangon soli don Giovali ni e la statua che gli fa cenno di chiuder la porta.

DON GIOVANNI    La porta è già chiusa. Son qua che aspetto. E ora, dimmi: che vuoi, ombra,           fantasma o visione? Se sei anima in pena, o se attendi da me qual­che soddisfazione che ti dia           sollievo, dimmelo, ed io ti dò la mia parola di fare quel che mi ordinerai. Stai godendo della vista di Dio?1 O ti diedi la morte mentre eri in peccato mortale? Parla, che mi tieni so­speso.

  La statua parla, con molta lentezza, come per grazia divina.

DON GONZALO     Manterrete la promessa che vi chiedo, da gentiluomo?

 DON GIOVANNI   Sono uomo d'onore, e mantengo la mia parola, da gentiluomo qual sono.

 DON GONZALO    Dammi la mano, non aver timore.

DON GIOVANNI    Che dici? Timore, io? Se tu fossi l'in­forno stesso, ti darei ugualmente la    mano.  (Gli dà la mano.)

DON GONZALO     Con questa stretta di mano e sotto il vincolo della promessa, domani alle dieci     ti starò ad aspettare per cenare insieme. Verrai?

DON GIOVANNI    Credevo che mi avresti chiesto qualche promessa più impegnativa. Domani          sarò tuo ospi­te. Dove debbo venire?

DON GONZALO     Nella mia cappella.

DON GIOVANNI    Da solo?

DON GONZALO     No, col tuo servo; e mantieni la pa­rola, come te l'ho mantenuta io.

DON GIOVANNI    T'ho detto che la manterrò; non per nullasono un Tenorio.

DONN GONZALO Ed io sono un Ulloa.

DON GIOVANNI    Verrò senza fallo.

DON GONZALO     Ti credo. Addio.   (S'avvia alla porta.)

DON GIOVANNI    Addio. Aspetta, che ti faccio lume.

DON GONZALO     È inutile, perché sono in grazia di Dio.

Se ne va molto lentamente, guardando fisso don Giovan­ni. Don Giovanni lo guarda andar via fino a che scom­pare, e rimane lì sbigottito.

DON GIOVANNI    Dio mi protegga! Ho tutto il corpo madido di sudore; e mi pare che il cuore        mi si geli entro le viscere. Quando mi prese la mano, me la strin­se in tal guisa che pareva     l'inferno fatto persona: non ho mai sentito un simile calore. E nel mandar fuori la voce respirava un alito così gelido, che sembrava il respiro dell'inferno. Ma no; son tutte idee che       na­scono dall'immaginazione; il timore, e soprattutto l'a­ver paura dei morti, è il più vile dei       timori. Perché, se non si teme un corpo vivo e nobile, dotato di sen­timenti e di ragione,   fornito di un'anima, chi mai do­vrà aver paura di corpi morti? Domani andrò alla cap­pella in     cui sono stato invitato, sì che Siviglia stupi­sca e tremi del mio valore. (Esce.)

(SALA DEL PALAZZO REALE DI SIVIGLIA.)

Entrano il RE col suo seguito e don DIEGO TENORIO.

RE                              È arrivata finalmente, Isabella?

DON DIEGO                        È molto addolorata.

RE                              Perché? Non le va, il matrimonio?

DON DIEGO                        Le duole, sire, che tutti parlino del suo disonore.

RE                              Io sospetto che il suo dolore abbia ben altra causa. Dov'è?

DON DIEGO                        È alloggiata nel convento delle Scalze.

RE                  Fatela uscire immediatamente dal convento, per­ché voglio che venga qui a palazzo e       stia a suo agio con la regina.

DON DIEGO               Sire, se deve maritarsi con don Giovanni, dà ordine che egli venga al tuo cospetto.

RE                  Fatelo venire, e ditegli di presentarsi bene, perché voglio che questa gioia sia nota a                    tutti quanti. Da que­st'oggi, don Giovanni Tenorio sarà conte di Lebrija; gliene darò il              possesso e la signoria, in modo che, se Isabella ha dignità ducale, ora che ha perduto                       un du­ca, abbia comunque un conte per marito.

DON DIEGO                        Per la tua generosità, sire, ci prostriamo tutti ai tuoi piedi.

RE                  Siete tanto degno del mio favore, che, se qui met­tessimo a confronto i meriti, anche                    con l'onore che oggi vi faccio, rimarrei debitore. Io penserei, don Die­go, di celebrare              insieme, quest'oggi, anche le nozze di donn'Anna.

DON DIEGO                        Con Ottavio?

RE                  Non mi pare conveniente che tocchi al duca Otta­vio riparare l'onta da lei sofferta.                       Donn'Anna mi ha chiesto, per bocca della regina, ch'io perdoni al mar­chese, perché,                    ora che ha perduto il padre, vorrebbe maritarsi, in modo da risarcire il danno.                                    Andrete, con poca gente di scorta e senza fare scalpore, a parlare con lui nella               fortezza di Triana; gli direte che lo perdono purché soddisfaccia i suoi obblighi e renda   l'onore alla sua oltraggiata cugina.

DON DIEGO                        So già che in tal modo colmerete i suoi voti.

RE                              Potete anche dirgli che le nozze si celebreranno questa sera.

DON DIEGO                        Così tutto finisce bene. Sarà facile persua­dere il marchese, perché era                    innamoratissimo di sua cugina.

RE       Potete anche avvertire Ottavio. Quel povero duca ò proprio disgraziato, con le donne?: son        tutte osti­nate e capricciose. Mi hanno detto anche che è molto adirato con don Giovanni.

DON DIEGO                        Non me ne stupisco, se ha saputo della colpa dì don Giovanni, causa di tutti i      suoi guai. Ma sta venendo il duca. Ilio Non vi allontanate, perché anche voi siete coinvol­to    nella colpa di vostro figlio.

Entra il duca OTTAVIO.

OTTAVIO      Invitto re, lasciate che mi prostri ai piedi di vostra altezza.

RE                  Alzatevi, duca, e copritevi1. Che volete da me?

OTTAVIO      Vengo a chiedervi, prostrato ai vostri piedi, una grazia; e si tratta di cosa giusta, che        può essermi degnamente concessa.

RE       Purché sia giusta, vi dò fin da questo momento la mia parola di concedervela. Chiedete pure. OTTAVIO             Tu già sai, sire, attraverso le lettere del tuo ambasciatore, ed il mondo già sa dalla            lingua della fama, che don Giovanni Tenorio con arroganza tutta spagnola ha profanato a     Napoli, in una notte che per me fu la peggiore di quante ne ho veduto, usando del mio nome,     la santità dell'onore di una dama.

RE       Non continuate. Ho saputo infatti della vostra sven­tura.     Che volete, in sostanza?

OTTAVIO      Desidero aver da voi licenza di sfidarlo, in modo che difenda in campo il suo agire da    traditore.

DON DIEGO                        Questo non è vero. Il suo illustre sangue è così onorato...

RE                              Don Diego!

DON DIEGO                        Sire!

RE                              Chi sei tu, che osi parlare in tal modo al cospetto del tuo re?

DON DIEGO                        Sono uno che tace, perché il re lo coman­da; perché, se no, (a Ottavio) ti                risponderei con la punta di questa spada!

OTTAVIO                 Sei troppo vecchio.

DON DIEGO                        Fui però giovane un tempo, in Italia, e ve ne dolse, ché la mia spada fu ben             conosciuta a Na­poli e a Milano!

OTTAVIO       Hai ormai il sangue ghiacciato nelle vene. Non vale dire fui; bisogna poter dire sono.

DON DIEGO                        Ebbene, fui e sono. (Mette mano all'elsa della spada.)

RE       Fermatevi! Basta! Sta bene. Tacete, don Diego, per­ché mi pare che portiate poco rispetto           alla mia per­sona. E voi, duca, parlerete con me più agiatamente dopo che saran celebrate le   nozze. Don Giovanni è un gentiluomo della mia camera, ed è creatura mia. È un rampollo di questo illustre tronco: portategli ri­spetto.

OTTAVIO      Sire, farò come tu comandi.

RE                  Venite con me, don Diego.

DON DIEGO  (tra sé)     Ah, figlio mio! Come mi ripaghi male l'amore che ti ho portato!

RE                  Duca!

OTTAVIO      Sire...

RE                  Domani si celebreranno le vostre nozze.

OTTAVIO      Si faccia pure, se voi così ordinate. (Escono il re e don Diego.)

Entrano GASENO ed AMINTA.

GASENO Questo signore ci potrà dire dov'è don Gio­vanni Tenorio. (A Ottavio) Signore, sapete se       vi è da queste parti un certo don Giovanni, del quale sarà già notorio il nome?

OTTAVIO      Vorrete dire don Giovanni Tenorio.

AMINTA       Sissignore; proprio quel don Giovanni lì.

OTTAVIO      È qui a Siviglia. Che volete da lui?

AMINTA       È il mio sposo, quel signore.

OTTAVIO      Come?!

AMINTA       È mai possibile che non lo sappiate, se an­ello voi vivete qua a palazzo?

OTTAVIO      Don Giovanni non me ne ha detto niente.

GASENO       È mai possibile?

OTTAVIO      Proprio così, davanti a Dio!

GASENO       Donn' Aminta sarà molto onorata, quando si  celebreranno le loro nozze, perché è di       vecchia fami­glia cristiana , fino alle midolla, ed ha per giunta un patrimonio, là a Dos   Hermanas, che potrebbe mante­nere, nonché un conte, un marchese! Don Giovanni l'ha scelta     come sua sposa, togliendola a Batrizio.

AMINTA       Ditegli anche che ero verginella, quando mi son data a lui.

GASENO       Qua, adesso, non si fa un processo, né si spor­ge querela

OTTAVIO (tra sé) Questa è un'altra delle beffe di don Giovanni, e costoro me la stanno            raccontando, giusto a proposito per la mia vendetta. (Ad alta voce) Ma che volete, insomma? GASENO           Io vorrei, visto che i giorni passano, o cele­brare il matrimonio o querelarmi dinanzi       al re.

OTTAVIO      Mi pare che le vostre intenzioni siàn giuste.

GASENO       Non solo, ma ragionevoli e legali!

 OTTAVIO (tra sé) Questa faccenda viene proprio a pennello per quel che pensavo io. (Ad alta voce) Qua alla reggia ci sono nozze, oggi.

AMINTA       Chissà che non si tratti delle mie.

OTTAVIO  (tra sé) Per riuscire al mio scopo, voglio va­lermi di un espediente. (Ad alta voce)      Venite a vestir­vi alla moda di palazzo, signora, e poi vi introdurrò io stesso negli            appartamenti del re.

AMINTA       Allora, mi condurrete voi, dandomi il brac­cio, da don Giovanni?

OTTAVIO      Ci serviremo di questa astuzia.

GASENO       È una pensata che mi garba.

OTTAVIO  (tra sé) Per riuscire al mio scopo, voglio va- dicarmi di quel traditore di don Giovanni,        per l'oltrag­gio fatto a Isabella. (Escono.)

(STRADA ACCANTO ALLA CHIESA.)

Entrano don GIOVANNI e CATERINONE.

CATERINONE         Come ti ha ricevuto, il re?

DON GIOVANNI    Più amorevolmente di mio padre.

CATERINONE         Hai poi visto Isabella?

DON GIOVANNI    Ho visto anche lei.

CATERINONE         Come ti è parsa?

DON GIOVANNI    Come un angelo.

CATERINONE         Ti ha accolto bene?

DON GIOVANNI    Con quel suo viso fatto di sangue e di latte, come la rosa che all'alba fa     scoppiare la ver­de prigione del bocciolo.

CATERINONE         Le nozze si faran dunque stasera?

DON GIOVANNI    Senza fallo.

CATERINONE         Se ti fossi sposato prima, signore, non avresti ingannato tante donne; ma tu                      vai a nozze, si­gnore, con gravi pesi sulla coscienza!

DON GIOVANNI    Di' un po': cominci a far lo stupido?

CATERINONE         E potresti anche rimandare le nozze a domani, perché oggi è una giornata di         malaugurio.

DON GIOVANNI    Perché? Che giorno è oggi?

CATERINONE         È martedì.

DON GIOVANNI    Tutti gli imbroglioni e tutti i pazzi si mettono in mente codeste idee. Io invece     chiamo tristo, malaugurato e detestabile soltanto il giorno in cui non ho quattrini. Tutto il           resto è sciocchezza!

CATERINONE          Andiamo, se devi mutar d'abito. Ti stan­no aspettando, ed è già tardi.

DON GIOVANNI    Anche se mi aspettano, abbiamo pri­ma un'altra faccenda da sbrigare.

CATERINONE         E quale?

DON GIOVANNI    Cenare col morto.

CATERINONE         Questa è la sciocchezza più grande di tutte!

DON GIOVANNI    Non lo sai che gli ho dato la mia pa­rola?

CATERINONE         E quand'anche tu non la mantenessi, che importanza può avere? Vuoi che una      statua scol­pita nel diaspro te ne venga a chieder ragione?

DON GIOVANNI    II morto potrebbe benissimo tacciar­mi apertamente d'infamia.

CATERINONE         La chiesa è già chiusa3.

DON GIOVANNI    E tu bussa.

CATERINONE         E se busso, che volete che succeda? Chi volete che venga ad aprire, se i    sagrestani dormono?

DON GIOVANNI    Bussa alla porticina.

CATERINONE         Questa è aperta.

DON GIOVANNI    Entra, dunque.

CATERINONE         Se vuole entrare, ci entri un frate, con tanto di stola e di aspersorio.

DON GIOVANNI    Seguimi e taci.

CATERINONE         Devo tacere?

DON GIOVANNI     Sì.

CATERINONE         Che Dio mi liberi da simili banchetti!

Escono da una porta per rientrare da un'altra.

CATERINONE         Com'è buia, la chiesa, per essere così grande, signore! Ahimè! Aiuto, signore!      Mi afferrano per il mantello!

Entra don GONZALO con lo stesso aspetto delle scene precedenti, e vien loro incontro.

DON GIOVANNI    Chi è là?

DON GONZALO     Son io.

CATERINONE         Ed io son morto!

DON GONZALO     Sono io, il morto, non ti spaventare! Non credevo che avresti mantenuto la                      parola data, vi­sto che ti fai beffe di tutti.

DON GIOVANNI    Mi credi dunque un codardo?

DON GONZALO     Sì, perché quella notte, quando mi hai ammazzato, fuggivi dinanzi a me.

DON GIOVANNI    Fuggivo per non essere riconosciuto; ma adesso son qua dinanzi a te.

            Fa' presto a dirmi che cosa vuoi.

DON GONZALO     Voglio solo invitarti a cena.

CATERINONE         Siamo anche disposti a farne a meno, perché devon essere tutti piatti rifreddi,      visto che non si scorge l'ombra di una cucina.

DON GIOVANNI    Ceniamo, dunque.

DON GONZALO     Per cenare, bisogna che prima tu sol­levi codesta tomba.

DON GIOVANNI    E, se vuoi, posso anche sollevare quei pilastri!

DON GONZALO     Sei ben ardito!

DON GIOVANNI    Ho in corpo animo e coraggio.

CATERINONE         Questa è una mensa all'uso della Gui­nea1, tant'è nera. Non c'è nessuno che           lavi la bianche­ria, all'altro mondo?

DON GONZALO     Siedi.

DON GIOVANNI    E dove?

CATERINONE         Stanno venendo con le sedie due paggi tutti neri.

Entrano, vestiti a lutto, due PERSONAGGI che portan le sedie.

CATERINONE         Anche qua si usa vestirsi a lutto con stoffe di Fiandra?

DON GONZALO     Siedi anche tu.

CATERINONE         Io, signore, ho già fatto merenda que­st'oggi.

DON GONZALO     Non ribattere!

CATERINONE         Non ribatto. Dio mi liberi da tutta que­sta storia! Che razza di pietanza è   questa, signore?

DON GONZALO     È un piatto di scorpioni e vipere.

CATERINONE         Bella pietanzina!

DON GONZALO     Questi sono i nostri cibi. E tu, non mangi?

DON GIOVANNI    Mangerei anche se mi mettessero da­vanti aspidi, tutti gli aspidi che l'inferno        rinserra!

DON GONZALO     Dirò che cantino anche, per te.

CATERINONE         Che sorta di vino si beve, qui?

DON GONZALO     Assaggialo.

CATERINONE         È fatto di fiele e d'aceto, questo vino!

DON GONZALO     I nostri torchi non ne spremono altro.

MUSICI  (dall'interno, cantando)

Ascolta, tu, che di Dio

credi i giudizi pesanti:

non c'è scadenza infinita,

né pena che non si paghi!

CATERINONE         Brutta faccenda, questa! Per Cristo! Ho capito l'antifona: il testo è scritto

            per noi!

DON GIOVANNI    Un senso di gelo mi squarcia il petto! MUSICI   (dall'interno, cantando)

            Finché si vive nel mondo nessuno credere deve che la scadenza non giunga: ha da pagare

            tra breve!

CATERINONE         Di che cosa è fatto, questo intingoletto?

DON GONZALO     Di unghie.

CATERINONE         Devono essere unghie di sarto, se è proprio d'unghie.

DON GIOVANNI    Ho finito di cenare; fa' sparecchiare, adesso.

DON GONZALO     Dammi la mano. Non aver paura di darmela!

DON GIOVANNI    Che dici? Paura, io?... Ah, brucio! Non mi ardere con il tuo fuoco!

DON GONZALO     E questo è nulla, in confronto al fuo­co che ti- sei andato cercando. I miracoli       di Dio, don Giovanni, sono imperscrutabili; ed egli vuole che tu paghi il fio delle tue colpe     per mano di un morto. Se ti tocca pagarlo in questo modo, è dunque la giustizia di Dio che lo            esige: « Chi di spada ferisce, di spada perisce ».

DON GIOVANNI    Ardo, brucio! Non mi stringere! T'ammazzerò con la mia daga... Ma ahimè,          m'affatico inva­no a dar colpi nel vuoto1. Non ho oltraggiato tua fi­glia: ella s'accorse prima,   del mio inganno...

DON GONZALO     Questo non conta, perché l'intenzione l'avevi.

DON GIOVANNI    Lascia che chiami qualcuno che mi confessi e m'assolva.

DON GONZALO     Non c'è più tempo; ci pensi troppo tardi.

DON GIOVANNI    Ardo! Brucio! Son morto!

Cade a terra morto.

CATERINONE         Non c'è maniera di scappare. Devo mo­rire qui anch'io, per farti compagnia! DON GONZALO             Questa è la giustizia di Dio: « Chi di spada ferisce, di spada perisce ».

Si sprofonda il sepolcro, e con esso don Giovanni e don Gonzalo, con grande strepito; Caterinone vien fuori tra­scinandosi carponi.

CATERINONE         Dio m'assista! Che è mai avvenuto? Tut­ta la cappella è in fiamme, e son    rimasto accanto al morto per vegliarlo e custodirlo. Trascinandomi come posso, andrò ad      avvertire suo padre. San Giorgio, Sant'Agnus Dei, fate che raggiunga in pace la strada!   (Esce.)

SALA DEL PALAZZO REALE.

Entra il RE, accompagnato da don DIEGO e dal seguito.

DON DIEGO                        Sire, il marchese attende d'essere ammes­so a baciarvi il piede.

RE                  Fatelo entrare senz'altro, ed avvertite il conte af­finché non debba aspettare.

Entrano BATRIZIO e GASENO.

BATRIZIO    Dove mai, sire, è consentita una sì grande sfacciataggine, che i tuoi servi vadano             oltraggiando la povera gente?

RE       Che dici?

BATRIZIO    Don Giovanni Tenorio, quel detestabile tra­ditore, la sera stessa del mio matrimonio,        prima che fosse consumato, mi ha tolto la mia sposa; e ne ho qua i testimoni.

Entrano TISBEA ed ISABELLA col suo seguito.

TISBEA         Se vostra altezza, sire, non fa giustizia di don Giovanni Tenorio, giuro che           continuerò ad appellarmi a Dio ed agli uomini finché avrò vita. Il mare lo ributtò sulla    spiaggia, esanime; lo rianimai e gli diedi ospi­talità, ed egli ha ripagato il mio amichevole       soccorso mentendo ed ingannandomi, dopo avermi promesso di esser mio sposo.

RE       Che dici?

ISABELLA    Dice la pura verità.

Entrano AMINTA e il duca OTTAVIO.

AMINTA       Dov'è il mio sposo?

RE                  Chi è?

AMINTA       Come? Non lo sapete ancora? È il signor don Giovanni Tenorio, con il quale sono           venuta a sposar­mi, poiché mi è debitore dell'onore che ho abbando­nato a lui; e siccome è   nobile, non può negarlo e ri­fiutarsi d'esser mio marito. Comanda che si celebri il           matrimonio.

Entra il marchese della MOTTA.

MOTTA          È giunto il momento, sire, che la verità ven­ga alla luce. E devi sapere che la colpa            che mi è sta­ta da te imputata, la commise don Giovanni Tenorio, il quale, fingendomisi amico, m'ingannò crudelmente. E ne ho due testimoni.

RE                   Ci può essere spudoratezza maggiore? Prendetelo ed ammazzatelo senz'altro.

DON DIEGO                        In ricompensa dei lunghi servigi che t'ho reso, ordina, sire, che lo arrestino e         che paghi il fio delle sue colpe, affinché non scenda dal cielo un fulmine ad incenerirmi, se   mio figlio è un simile malvagio.

 RE Così agiscono i miei fedeli favoriti!

Entra CATERINONE.

CATERINONE         Signori, ascoltate tutti l'avvenimento più strabiliante che sia mai accaduto in       questo mondo; e, dopo avermi ascoltato, mandatemi a morte. Un giorno don Giovanni, per        prendersi gabbo del commendatore, dopo che gli aveva strappato le due cose che valevan di   più, l'onore della figlia e la vita, tirando la barba alla sua statua di pietra, per recargli     oltraggio, l'invitò a cenare con lui: e non l'avesse mai fatto! La statua venne alla cena, e       l'invitò a sua volta. E adesso, per farla breve, dopo aver cenato tra mille infausti pre­sagi, lo             prese per mano e gliela strinse fino a lasciarlo morto, dicendo: « Dio mi ordina d'ammazzarti      così, in punizione dei tuoi delitti. Chi di spada ferisce, di spa­da perisce ».

RE       Che dici mai?

CATERINONE         La pura verità. E prima di morire di­chiarò che non aveva disonorato          donn'Anna, perché el­la s'era accorta dell'inganno per tempo.

MOTTA          Quest'ultima notizia merita una ricompensa!

 RE                  Giusto castigo del cielo! Ed ora sarà bene che si celebrino tutti i matrimoni, dal                           momento che è mor­to chi fu la causa che diede vita a tanti guai.

OTTAVIO      Poiché Isabella è rimasta vedova, voglio spo­sarla io.

MOTTA          Ed io voglio sposar mia cugina.

BATRIZIO    E noi le nostre donne, perché così finisca il Convitato di pietra.

RE                  Ed io ordino che il sepolcro sia trasportato a San Francesco3 di Madrid; affinché la                     memoria del fatto duri più a lungo.

F I N E