Lo schiavetto

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Lo schiavetto

Lo schiavetto

di Giovan Battista Andreini

PERSONAGGI

SCHIAVETTO, poi Florinda, sorella di Lelio

RONDONE, tramendui da schiavi vestiti

ALBERTO, vecchio ricco e avaro

PRUDENZA, figliola

NOTTOLA, finto conte, guercio e gobbo

RAMPINO, amico

GRILLO, CICALA, fanciulli

SCROCCHI

PAGGIO

FULGENZIO, ORAZIO, Inamorati rivali e poveri

FACCETO,

finto comico; nel fine, Lelio Fedele, fratello di Florinda

SOLFANELLO, servo

BARGELLO

SBIRRI

SCEMOEL, CAINO, LION, SENSALE,

ebrei

BELISARIO,

vecchio decrepito e gioieliere

4 FACCHINI

SUCCIOLA,

albergatrice fiorentina, alla fiorentina vestita

SONATORI, da pastori vestiti

[Dedica] All'illustrissimo signor il signor conte ALESSANDRO STRIGGIO, conte di corticelle, consiglier di stato e ambasciatore del serenissimo duca di mantova in milano  Da quegli anni, che la bella Italia cominciò pur a godere una tranquilla pace, quasi a ristoro de' travagli di tante continuate guerre, cominciarono valentissimi personaggi a ritrovare l'antico tralasciato uso del rappresentar comedie. Di queste, nondimeno, pochi si sono potuti conoscere, che se ne dimostrassero insieme i compositori e rappresentanti; contenti gli uni dello studio e gloria della invenzione, si addossarono gli altri il carico del recitare. Per l'eccellenza di questi e di quegli, fattosi dubbio di chi più meritasse a pubblico giovamento; ché, se perfetti dicitori non ci avesse dati il nostro secolo, a notizia di picciol numero di persone sarebbero l'opere de' componenti. Ora, se alcuno acquista fama di riuscita nel rappresentare e nel comporre, altresì questi è il comico Giovan Battista Andreini detto Lelio, il quale, non meno con scelta favella che dottrina, ci se fa veder compiutamente faceto e leggiadro, facondo e saggio, pronunciando e scrivendo. Né perciò vi è chi no'l giudichi con dignità fatto capo de' comici della compagnia, ch'il Serenissimo duca di Mantova ha eletto nella sua corte.  Alle molte opere, che l'istesso Andreini ha composte, in ogni parte lodate, avendo aggiunto quest'altra dilettevolissima comedia, con titolo dello Schiavetto, che nel farla sentire prima in diverse città è stata con ogni applauso gradita, è poscia egli compiaciuto che ne fossero anco le stampe adorne. Io, che della impressione mi sono dato cura, nella dimora che in Milano questa estate ha fatto la compagnia, conceduta da quella Altezza nell'arrivo dell'eccellentissimo signor marchese de la Hynojosa governatore, non ho veduto a chi più convenientemente possa raccomandare il proteggerla, che alla autorità di vostra signorìa illustrissima, la quale, come consiglier di Stato e come ambasciatore dell'Altezza medesima, può farle sostener il decoro nel Mantovano, nel Monferrato, nel Milanese, e in ogni provincia ove essa porti il suo nome avanti, ché in ogni luogo deve esser pervenuto il degno grido di quanto vostra signorìa illustrissima soglia esser defenditrice, e officiosa per virtuosi. Né volendo per ora entrare a maggior campo dell'altre lodatissime qualità, che adornano la sua persona e la tengono in istima presso ogni principe, aspettarò dalla sua benignità la grazia di essa protezione, di che umilmente la supplico. E le faccio riverenza, rendendola padrona sempre di quanto da me può dipendere.  In Milano a 6 di Ottobre 1612.
Di vostra signorìa illustrissima, servitore devotissimo, Pandolfo Malatesta.

[Dedica]

A' BENIGNI LETTORI
GIOVAN BATTISTA ANDREINI

L'avere io molti anni esercitato l'Arte Comica, benché io sia di poco nome, m'ha persuaso a dar alla luce molti di que' suggetti, ch'io composi in varie città recitando; sì per mostrare che in così fatta professione m'affaticai qualche poco, come per far noto, a' molti invidi laceratori, che, quando hanno le comedie de' moderni tempi lacerate, che più per seguitare un pessimo loro costume, che perché meritassero censura, le biasimarono. Ora, da questo, e da altri suggetti miei, ch'io (non mi mancando il tempo) sono per dare alle stampe, conoscer ciascuno potrà che que' comici, che tali favole annodarono e disciolsero, furono gente, che s'affaticarono in conoscer l'arte del comporre, e in sapere quanto più dell'altr'uomo quello sia, che la virtù, che l'onore, seguita.

E se a ciò mosso non mi avessero le ragioni sudette, credasi certissimo che la penna avrei deposta allora, quando io composi la Florinda tragedia; overo, per deporla con più lode, quando io composi la Divina Visione, la Tecla, la Maddalena, e l'Adamo. Dunque l'intento mio particolare sarà, scrivendo, di fuggir l'ozio e di ricrearmi come uomo in qualche giovevole passatempo, e trattenere, in certo modo, l'umana fiacchezza con inganno utile e virtuoso; a guisa di accorto medico, che nel vaso di miele asperso fa cara all'infermo per la salute l'amara bevanda. E bene quel grande oratore Cicerone, considerando il giovamento che con dolci ravvolgimenti si tra' dalla comedia, la chiamò speculum vitae, poiché, sì come lo specchio rappresenta ad altrui ogni macchia, che nel volto si porti, onde volendo quella levare, far lo possa; così, fatto specchio la comedia, nella quale lo spettatore miri le macchie sue, possa con agevolezza quelle dalla fronte levarsi. In questo specchio, adunque, di questa comedia mia, detta lo Schiavetto, altri potrà, mirando, scorgere nella brutezza d'Alberto, uomo avarissimo, le macchie dell'avarizia sua propria, se di tal pece sarà macchiato; e in uno considerare che, quello che d'Alberto ei leggerà per ridicolosa favola, di lui per istoria indegna dir si potrebbe nelle pubbliche piazze; poiché la piazza altro non è che il teatro de' fatti mondani, e i recitanti sono quelli che, stracchi de' fatti loro, ad altro non attendono che a recitar de gli altri i casi. Onde, fatto cauto, perciò cerchi di sottrarsi da quelle calunnie, che in figura d'Alberto a sé medesimo vedrà indirizzate, co'l darsi a generosa, a liberale vita. Pur, dallo stesso Alberto, trar si potrà che chi per avarizia tiene gran tempo figlia da marito in casa, o ch'ella da sé di marito si procura, overo che, credendo di maritarla senza dote, la sposa con chi è il maggior fallito del mondo.

Da Nottola, lucido come sole, ogni talpa vedrà che male dispensa colui quel dinaro, che senza fatica acquistò; e chi è vago di rapinar l'altrui, spesso a miserabil passo vien condotto. E dalla stessa parte imparerassi a non far capitale più di gente strana, che de' suoi; atteso che, amando quegli più la tua roba, che il tuo utile, in altro non istudia che in far tanto te povero, quanto lui ricco bramasti.

Da Schiavetto, nel fine Florinda donna, pur vedrassi come giovine che, innamorata, non sa essere moderatrice de gli affetti suoi, pone inoncale l'esser donna; e, per ricordarsi dell'amante, di sé stessa si scorda, si scorda il fior virginale, i parenti, e si supponga a mille rischi e d'onore e di vita; e fatta micidiale quanto amante, cerchi al suo amatore di tôr la vita. E al fin poi, capitando nelle mani dello stesso fratello, chieda in premio la vita. Sì che pure s'alcuna fosse, che, di questo amore ardendo, intenta fosse a qualche fuga, considerar potrà, ne gli eventi miseri di costei, i suoi proprii; onde perciò, saggia moderatrice delle sue passioni, imparerà a discoprire gl'interni amorosi flutti a i congiunti in sangue, accioché, con l'aura benigna de' loro consensi, il tempestoso mare si tranquilli, e 'l tutto in calma felicemente goda, non paventando di que' scogli onde Florinda oggi va incontrando.

Da gli ingressi d'Orazio, che volubile sarà nell'amare e in osservar la fede, altri, che in caso tale si ritrovi, conoscerà quanto disdica ad essere infedele; cosa più dell'infedeltà non v'essendo che macchi l'uomo, e tanto più l'uomo ben nato, cui pria la vita che la parola perder dovrebbe, tanto più con donna fedifrago essendo in fede maritale. E qui non li sarà celato come, per vendicar questa violata fede, s'armin le donne, gli uomini e il Cielo. Anzi imparar dovrassi a stare bene sempre con lo stesso Cielo, l'ora dei morir nostro essendo, nella vita, incerta, come dal creduto avelenamento d'Orazio scorger potrassi.

Da Fulgenzio poi scorgerà, colui ch'è fedele in un solo maritale amore, benché riamato egli non sia, come il tutto superi questa incorrotta voglia, quel solo merito di quella candidissima fede facendoli ottener quello, che d'ottenere in tutto egli non credeva giamai.

E dalla parte di Facceto, ben vedrà chiaro colui che dell'onor suo è geloso, che fatica lasciar non si dee, né peregrinazione, per conservare e vendicare l'onore, cosa di maggior stima l'uomo non possedendo che la ragione e l'onore.

E da Belisario al fine conoscerassi che il bene acquistato con buon sudore più dificilmente si perde, che 'l male acquistato.

Circa poi che alcuna paroletta licenziosa in bocca di persona bassa s'abbia posto, fatto è solo perché dalle spine si traggano le rose, poiché se, a sorte, al Lettore, che modesto sarà, dispiacerà quel suono, benché sotto velame di metafora, sarà un farlo accorto che, in cotali parole, egli non prorompa giamai, ma sempre delle oneste si serva, poiché se l'anfibologia offende orecchio onesto, tanto più offenderanlo poi parole che alla scoperta si dicano. E qui, credendo al sicuro di dilettar giovando (come a tal fine ne gli andati tempi fu trovata la comedia) finisco.

PER LI RAPPRESENTANTI O VAGHI DI RAPPRESENTAZIONI, NEMICI DELL'OZIO, E AMICI DE' PASSATEMPI VIRTUOSI

Se, per aventura, a questo Schiavetto si concedesse tanta di libertà che dal ceppo si sciogliesse al teatro, si potrebbe agevolare il modo di rappresentarlo con quel che si legge al fine della presente operetta, ove, a ciascuna delle scene e de gli atti, si veggono descritti gli ordigni, stormenti o le cose necessarie a rappresentarlo.

L'istesso si può veder nella Turca comedia dell'autor medesimo, stampata in Casale, ove il signor Fulvio Gambaloita, cavaliero virtuosissimo, pensò di farla rappresentare con sontuoso apparecchio, alla presenza del Serenissimo principe, ora duca di Mantova, e fu impedito dalla morte del Serenissimo Vincenzo, padre glorioso dell'Altezza Sua.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

nottola, rampino, e molti scrocchi malamente vestiti

rampino.

Vi dico, messer Nottola, che l'andar giravoltando tutto il mondo, senza un guadagno alcuno, non fa per me, né per questi tanti poveri uomini, che avete con voi. E per dirvela a lettera di scatole: voi sapete, che la mia casa era di pegolotto e ch'io m'andava buscando la vita, e ch'ogni sera io m'andava riducendo a i cagnardi, dove con le sfoiose spillava, ora perdendo, ora guadagnando. Vedete, io non ho più monacchie, le tiranti sono in pezzi, il pietro l'ho sbasito, il fongo è tutto mangiato da i taruoli, la lima è negra e piena di gualdi, sì che a peggio non posso venire.

nottola.

Or sù, che vuoi concludere, Rampino?

rampino.

Che voglio concludere? Voglio dire che almeno, quando io non era con voi, tra la calca, e tra lo spillare, io mi buscava il mio occhio di civetta il giorno, e ora c'ho trovato voi (che dite mi volete far ricco) ho lasciato ogni utile e sono divenuto il più povero scroccone del mondo.

nottola.

Mo, che 'l Rabbino ti scarpisca dal cofano la perpetua, e in ogni azione ti sia contrario santalto! Abbi pacienza, partiamo da questa città di Pesaro, e poi quanto ho promesso, a te e a tutti voi, manterrò di sicuro.

rampino.

Promitto promittis sta per inzavagliare, da tutti i fanciulli ho udito dire quando, dalle scuole tornando, si disciplinano con le saccoccie piene di libri senza coperte. In nome di tutti costoro io dico, adunque, che non vogliono passar Pesaro. E di più, ecco, vi danno i fardelli, che tanto addosso gli avete fatto portare, ogni sera volendoli appresso di voi, come se fossero stati groppi di gemme. Eccoli qua, gettateli per terra, o così.

nottola.

Fermatevi, la canaglia! Che modo di fare è questo?

rampino.

Sì, di grazia, fate piano, che qualche gualdo non si rompa il guindo. Un manigoldo se' tu, che n'hai tutti trappolati, facendo ad ogn'uno lasciare il suo camino dicendo: «Vien meco, ch'io ti farò ricco!». L'uomo, non sapendo altro, s'è fidato ed è venuto e ancora molto teco più averebbe trascorso, ma il sentir dir: «Venite allegramente, ché come siamo a Roma mi voglio fermare», poi, a Roma giunti, dire: «Andiamo, ché vi prometto, come siamo a Viterbo, che colà riposarmi intendo», come siamo a Viterbo dire: «Andiamo, ché dadovero come siamo a Siena si rinfrancheremo del viaggio» e così menarne a Pesaro, voler ancora più oltre passare. Insomma, alcun di noi non la vuole intendere. Ed io, che so che la serpentina mi sta meglio ne i merli che a quest'altri, fecimi cura il canzonare.

nottola.

Do', furfante vituperoso, che non so come il manico non t'abbia ogimai gettata al collo una margherita. Va' alle forche, tu e gli altri, ché più non vi voglio meco, come non mi volete ubbidire.

rampino.

Carne da boia se' tu, traditore! Addosso, compagni, con le pugna!

nottola.

Ohimè, ohimè! non più! perdono! Amici, fratelli, signori, perdono!

rampino.

Che perdono? ma che suono di scudi?

nottola.

Che scudi? Guardate per terra! Udite il suono di questi altri, che pur dal seno levandomi, in terra i' getto? che vi pare?

rampino.

Ohimè, che vuol dir questo?

nottola.

Raccoglieteli pur tutti. Tu raccogli quelli, tu quelli, tu quelli. Voi altri fate presto.

rampino.

O quanti scudi! Voglia il Cielo, che non abbiamo fatto qualche errore.

nottola.

Or sù vedete, furfanti, quanto avete me caricato di pugna, tanto ho voluto caricar voi altri d'oro. Ora andate alle forche, canaglia, ché bene solamente siete degni d'abitare i cagnardi, le bettole, e di morire su la paglia, cibo di piattole e di gualdi! Non meritavate di stare appresso un principe come io sono; ma giuro per la nobiltà del mio sangue, che da cinquecento re di Spagna discende, ch'io ve ne farò pentire. A me? a me? a me pugna, figli di puttane? cospettaccio, puttanaccia, rinego il diavolo, che me la pagherete!

rampino.

O come passeggia sbattendo il capo e sbuffando! Figlioli, inginocchiamoci.

nottola.

Che saprete dire?

rampino.

Signore, dirò solo, a mio nome e a nome di tutti questi sbigottiti e impalliditi servi suoi, che non lo conoscendo errammo, ma che tante lagrime spargeremo, quante pugna abbiamo a vostra signorìa date.

nottola.

O bella ricompensa, una lagrima per un pugno. Siete voi pentiti?

rampino.

Dico per tutti di sì, mio signore.

nottola.

Sì? Piangete tutti, e tutti forte! più forte! più ancora! Or sù, fermatevi! Avete voi caro di rallegrarmi?

rampino.

Come, signore, altro non bramano questi sconsolati!

nottola.

Sù, dunque, ridete tutti! ancòra! ancòra! sù, presto, insieme tutti rizzatevi! cantate e ballate! sù, presto.

rampino.

Adesso signore.

Chi t'ha fatto quelle scarpette

che ti stan sì ben

che ti stan sì ben

Gerometta che ti stan sì ben.

nottola.

Fermatevi, non più! Vien qua, Rampino, voglio tutti or ora mutar di camisia. Taglia questo fardello.

rampino.

Ecco appunto il cortello, co 'l quale vado a ciavatte. Ecco ch'io taglio.

nottola.

Guarda che v'è dentro.

rampino.

Oh che belle camisie! oh come sono sottili, oh che belle cose, oh come candide!

nottola.

Portamele qua. To' tu! tu, ancor tu! vien qua tu! tu fatti innanzi! tu prendi questa! tu questa, tu questa, tu pure questa, questa e così ancor tu! Tu, benché picciolo, to' questa, ci farai duo fazzoletti ancòra! e così ancor tu di quest'altra.

rampino.

O che caro signore.

nottola.

Figlioli, io vi perdono, poiché noi altri principi dobbiamo più perdonare e donare, che vendicare e pelare. E benché ch'io sia guercio, e gobbo, sappiate che, quanto la Natura ne fa più brutti nel corpo, tanto più il Cielo ne fa belli nel cuore. Sì che vi perdono, e sappiate che questi fardelli, che voi stimavate nulla, sono pieni di tesoro; e che sia vero, guardatene uno e guardateli tutti. Mirate, che dite? il folgorar dell'oro e delle gemme non v'abbagliano? non vi par di mirare (disceso in terra) il sole?

rampino.

O quant'oro, o quante gemme, o quanto splendore.

nottola.

Nascondete, nascondete! Sù, sù, inviluppate e legate alla peggio. Or sapete voi perché v'ho detto di città in città fermarmi e giamai non mi son fermato? Perché sono tutte città di miei nemici e per passar sicuro, accioché i postiglioni né per le osterie, né per le poste mi potessero riconoscere, sono andato in questa maniera, né ancora voleva fermarmi qui in Pesaro, ma mi contento per amor vostro e di quattro pugna datemi.

rampino.

Se non gli agrada il partire, mio signore, non parta, poi che noi tutti pendiamo dalle voglie sue, dal solo suo imporre con lo sguardo.

nottola.

Or sù, per segno di pace ogn'uno venga a baciar questa mano, e m'inchini per suo principe.

rampino.

Io sarò il primo, o generosissimo signore.

scrocco.

E io il secondo.

scrocco.

E io il terzo.

scrocco.

E io il quarto.

scrocco.

E io il quinto.

scrocco.

E io il sesto.

scrocco.

E io il settimo.

scrocco.

E io l'ottavo.

scrocco.

E io il nono.

scrocco.

E io il decimo.

nottola.

Or poi, che avete onorato il vostro principe Nottola, battete a questa osteria, ché colà dentro dispenserò i gradi conforme il valore, e sapere, di voi altri, e della nostra generositade. Ma chi canta nell'osteria? Buon augurio.

SCENA SECONDA

succiola, nottola, rampino, scrocchi

succiola.

Lucciola lucciola vien da me

ti darò del pan del Re

e del vin del bottiscino

e del cascio marzolino.

nottola.

O buono! o buono! Rampino, batti.

rampino.

O dall'osteria, olà, alcuno non risponde?

succiola.

Oh, corpo di sanpuccio, e chi bussa così alla sbardellata? e che sì, che vi getto del ranno caldo su 'l capo? Oh vedete che bel briccone! A quest'otta sono fatte le mie limosine? Va' a lavorà, dappocaccio.

nottola.

Che cosa ha detto, che non così tosto apparì alla finestra, che se ne sparì?

rampino.

Ch'io vada in buon ora, ch'è fatta la elemosina.

nottola.

Eh? Veramente tu hai l'aria, non sol che l'abito, da poverissimo uomo; lascia battere a me. O dall'osteria?

succiola.

O sudicio, o forestico, o sbandeggiato, ascolta: e' ti darò d'una pentola su 'l capo se di qui non ti levi, ve'? O tornami a stuzzicare, manigoldo.

nottola.

Ah, Rampino, ha pur tolto me per guidone! Di' pur il vero, all'aria ho più del guidone, che non hai tu del sicuro, non è così? di', sì, dillo dico! dillo, fa' presto.

rampino.

Poi che vuol che così dica: signor sì.

nottola.

Dammi la mano, tu l'hai indovinata. Or sù torna a battere! Ma eccola ch'esce su la strada.

succiola.

O raviggioli freschi, vo' siete i be' buacci! Levatevimi d'andar ronzando intorno a cotesto albergo, ché albergare non vo' di cotesti sudici! se non, che per il corpo di mene i' vi darò de' frugoni, vedete? Che è cotesto, povera mee?

rampino.

O povera voi, certo, questi è un principe incognito e voi non lo conoscete.

succiola.

E se non è incognito non ci si torni! La disgrazia li ha cavato un occhio e la Natura hallo fatto gobbo perché vada incognito bene bene.

rampino.

Vi dico ch'è prencipe, madonna.

succiola.

Oh? A quell'otta stessi tu a manucare, che l'entrate vengono a questo principe. O che bamboccierìe, il mio bel bamboccio! Con coteste pattocchierìe mi voreste impastocchiare, ma non m'impastocchierete.

nottola.

Piano, piano, madonna! Imparate a praticare co' prìncipi bizzarri.

succiola.

Signor principe mio ascoltate: io non voglio che alcuna fiata, per bizarìa, vo' mi portaste via le lenzuola del letto e la coltrice. Per questo i' non voglio alla lunga bazzicar con voi.

nottola.

Siete povera?

succiola.

Sonla. Ma non voglio che voi più m'impoveriate.

nottola.

Adagio. Avete padre?

succiola.

Hollo.

nottola.

Dove sta, come ha nome, che mestiere è 'l suo?

succiola.

Sta a Pogibonci, ha nome Ceccobimbi, è mercante da fichi secchi.

nottola.

Piano un poco, fermatevi. Avete madre? com'ha nome?

succiola.

Holla, e ha nome la Ceccabimba. Ho una sirocchia, che pur si chiama Ceccabimba, una Ceccobimbetta, un'altra Ceccobimbotta. Ora ne volete più di cotesta Ceccobimbaria? O come ride cotesto principe de' Scrocchi, o come si getta via, o come strabuzza que'gli occhi di struzzolo!

nottola.

Ohimè, questa Ceccobimbata m'ha fatto tanto ridere, ch'io mi sono pisciato addosso! Rampino?

rampino.

Signore.

nottola.

Donategli una catena d'oro di quelle grosse.

rampino.

Adesso, signore.

succiola.

I' voglio pur istare a vedere che cicciurlaia ha da essere cotesta.

rampino.

Pigliate, madonna, quest'è la vostra ventura, riconoscetela e pelatela, fate come fanno i cortegiani con i prìncipi, che chi non sa adular non sa regnare. Così vidi scritto sovra il limitare d'uno che s'era fatto ricco la corte servendo.

succiola.

Ma cappari con l'asceto, coteste non sono frascherìe, né pappolate, va' daddovero. Signor principe?

nottola.

Ah, ah, si cala. Donagli venticinque piastre fiorentine.

rampino.

Pigliate. Da' qua quel sacchetto di dinari d'argento.

succiola.

Questo è ben altro che rumore di craice.

rampino.

Pigliate.

succiola.

Uh, quante piastre! o che siate vo' benedetto! gnene rendo grazie! Perdonatemi, vedete, signore, se non la conoscendo la strapazzai: fui iscema, lo confesso; un'altra volta non sarò così sboccataccia. Vuol ella degnarsi di venire con cotestoro a soiare in casa mia? Sì, sì, di grazia. Craldio, Cencio, Bista, Meo, Pippo, Tonio, Maso, Beco, Sandro, Cecco; Bita, Pippa, Ghita, Nena, Tea, Tina, Tancia, Cecca, Sandra, Cece, Beca, uscite, uscite.

nottola.

Non chiamate, non chiamate! Voglio sì desinar con voi, ma pigliate. Questi, per ora, sono ducento scudi, parecchiatemi un poco di collazioncella. Pigliate questi quattrocento, parecchiate il desinare. Pigliate questi cinquecento, darete ordine per la cena. E s'inviti tutta questa città in questa osteria a corte bandita per tre giorni. Entriamo figlioli.

succiola.

O care mane vi bascio e ribascio, anzi i' vi vorrei potere ingollare. Signore, per tutto iscendete e ascendete, ché di tutta casa mia siete signore.

nottola.

O pigliate questo anellino. Di grazia, cantate una canzone alla fiorentinesca, poiché vi ho sentita poco fa in casa a cantare.

succiola.

Di grazia, cotesta canzona appunto è storia vera, poscia ch'un bello spirito fiorentino per mene già la compose.

nottola.

Cheti tutti, figlioli! Di' sù, e poi con questo appetito andiamo a mangiare.

succiola.

Or m'udite signore, che per amor vostro i' la vuo' ancora cantare.

Sono i capegli della manza mia,

morbidi com'un lino scotolato;

e 'l suo viso pulito par che sia

di rose spicciolato pieno un prato,

il suo petto è di marmo una mascìa,

dov'Amor s'acovachia e sta apiattato

sue parole garbate mi sollucherano,

gli occhi suoi mi succiellano e mi bucherano.

nottola.

Eh, eh, eh, eh, o bene, o bene, viva Succiola, cridi ciascuno.

rampino.

Viva Succiola! Viva Succiola! Viva Succiola!

SCENA TERZA

fulgenzio, prudenza

fulgenzio.

Come provo che 'l fuoco amoroso arde, e non consuma, poiché se consumasse, Fulgenzio, ch'è, omai stato tanto tempo materia a questo fuoco, sarebbe arso e incenerito. Ma che? O stolto, dovrai tu sempre in questo fuoco ardere senza procurar modo (se non di spegnerlo, ché questo non brami) almeno di temperare l'ardor suo, ch'è così grande? Pur sai che chiuso fuoco è più ardente; per farlo adunque meno cocente, aprigli il varco con le parole, fa' che essali omai fuori dal seno. Voglio farlo per certo, poiché Amore molto mi promette in questo giorno, e ben ch'io non parlasse giamai alla signora Prudenza di questo amore, se non con gesti, e saluti, voglio nondimeno oggi tanto avanzarmi, che le ne mostri maggior certezza. O dalla casa?

prudenza.

Che mi commanda vostra signorìa, mio signor? che vuole, che ha battuto a questa casa?

fulgenzio.

O Fulgenzio, o Fulgenzio, chiedi, che indugi? Molto ottiene chi presto chiede, non temere! Mia signora, avendo io da cento lingue, e cento, inteso che le piaghe amorose sono di così fatta natura, che alcuno sanar non le può, se non colui che fu cagion di quelle, a voi, sagittaria infallibile, se ne viene questo misero amante saettato, piagato da gli sguardi suoi, anzi da i suoi animati strali, per ottenere da quelli oportuna medicina.

prudenza.

Oh, oh? Questa è buona da intendere. Signore, se io con uno sguardo v'ho ferito, e or con uno sguardo vi risano; però vi lascio. Ma per l'avenire guardatevi da gli sguardi miei saettatori.

fulgenzio.

Deh, per grazia, se ha la beltà nel volto, Diana nel petto, Minerva nella lingua, abbia la gentilezza nel cuore ancora. Fermisi alquanto, e m'ascolti. Ohimè, sarà aspide a così care preghiere? Oda, in grazia: ella stima d'avermi sanato, e più profonda hammi fatta nel cuore la piaga.

prudenza.

Mi si conceda, adunque, ch'io vada a studiare alquanto, per renderla sana, ond'io micidiale non abbia da esser da tutti reputata.

fulgenzio.

Eh non parta, mia vita, se di levarmi la vita forse non è vogliosa! Sappia che due parolette sole sole, ben che morto, mi potrebbero fare alzar la fronte dal sepolcro.

prudenza.

Signore, ben ch'io sia poco pratica in amore, nondimeno il mondo non è così fanciullo, né io così semplice, che non intenda e conosca chiaramente l'amorosa passione, che nel tacer della lingua efficacemente per gli occhi ragiona. Con tutto ciò, avend'io assai ben appreso, con l'esempio di molti infelici donne, quanto sia cosa misera il sottoporsi all'amoroso imperio, ho fatto ferma resoluzione di non voler di modo alcuno ricevere nel seno mio le sue fiamme; assicurandolo però che, quando altrimente fosse, io mi terrei fortunata d'aver il signor Fulgenzio per amante, poiché, e per costumi e per virtù e per costanza, lo reputai sempre degno d'esser da qualunque donna riamato. Né, di grazia, mi vada ponendo in dubio s'io fo bene, o no, a fuggire questo amore, poiché la cosa anderebbe in infinito, e a me non è lecito di stare tanto affacciata alla finestra, né tampoco lo star con uomini in simili ragionamenti.

fulgenzio.

Certo, signora, ch'io armava la lingua di mille pungentissime ragioni per diffender la causa mia, e farle conoscere come sia disdicevole ad anima gentile lo sdegnare l'amoroso giogo. Ma perché ella assolutamente in questo mi impone silenzio, tacerò, dicendo solo che per l'avenire penerò contento, benedicendo le lagrime, i sospiri, che per lei io spargo; poiché, benché ora amando non venga ad essere amato, vivo sicuro, almeno, che questo non mi accade per merito d'altro più fortunato rivale, ma per solo compiacimento della mia bella Prudenza, la quale forse ancor pentita un giorno e desiderosa d'abbandonar le selvatichezze di Diana, per seguir le dolcezze di Venere, anteponendomi a tutti gli altri, mi potrà fare per sempre felice.

SCENA QUARTA

orazio, fulgenzio, prudenza

orazio.

Ohimè, che vedo? e Prudenza mi ama? Voglio celarmi. Ohimè, ella mi ha scoperto! Io voglio minacciarla. E' ride? o misero, o me tradito.

fulgenzio.

Ah, mia signora, so ben perché ride! Ride perché vede che partir da lei io non so, ben che di partire più volte abbia fatto mostra; non è così?

prudenza.

È più che vero.

orazio.

Ah traditrice!

prudenza.

Facciasi più avanti, caro il mio signore.

fulgenzio.

Sì, signora, eccomi.

orazio.

Ella ha detto a me co 'l gesto, voglio farlo.

fulgenzio.

Vuole forse che più mi faccia avanti?

prudenza.

No, no, signore, ella sta bene dove è. M'ode pure, non è così?

fulgenzio.

Sì signora, e anche intendeva colà dov'io era, ben ch'io fosse un poco più lontanetto.

prudenza.

Eh? Ho veduto ch'ella era in collera, e questo perché certo ella non aveva inteso. Ma ora stia un poco più attento, poiché l'esser vicino lo concede.

orazio.

Voglio pur vedere che saprà dire.

fulgenzio.

Che sarà questo, Amore? Ohimè, tutto diletto sono, tutto gioia.

prudenza.

Caro signor Fulgenzio, risponda a colei della cui tanto brama udir le voci: già prima d'ora non s'è discoperta di Prudenza amatore, non è così?

fulgenzio.

No, mia signora, poi ch'oggi solo, e in questo punto appunto, cortese commodità dal Cielo mi fu conceduta di richiederla dell'amor suo.

prudenza.

Pur sa ch'io risposi di non poterla amare.

fulgenzio.

È verissimo, negar no'l posso.

orazio.

O me contento, errava, errava Amore.

prudenza.

Or si consoli, ché tanto ha potuto il merito suo, ch'io le giuro, per gli strali d'Amore, che solo vostra signorìa io amo.

orazio.

Sì sì, mia vita, purtroppo il so.

fulgenzio.

Ohimè, che ascolto?

prudenza.

Sì, mio cuore, sì, mia anima, che Prudenza, con matura prudenza, elesse ella sola d'amare.

fulgenzio.

Ohimè, che dalla dolcezza mi liquefaccio.

orazio.

O balordo, o cieco.

prudenza.

Signor Fulgenzio, perché più caro le sia l'amor mio, e la sua Prudenza, sappia che pur io sono amata.

orazio.

Ben lo so. Ecco il tuo amatore.

fulgenzio.

Da altri che da me ell'è amata? Se non è Giove per novella Leda, se non è Pluto per più bella Proserpina, se non è Nettuno per più vezzosa Teti, egli è morto.

prudenza.

Giove non è, non è Pluto, non il Nettuno, poiché di questi così grandi amori meritevole non sono, ma un certo ganimeduccio spelatello, ch'io odio come odia ogni reo la morte. È appunto grande come vostra signorìa, ma non ha poi la grazia sua. Ha due occhi, come i vivaci occhi suoi, ma non sono poi così risplendenti e predatori come quelli, ch'io abbagliandomi vagheggio, fatta aquila amorosa. Ha una barbettina del color della sua, ma non è poi così beneaffettata, contesta e arricciata. Insomma, somiglia tutto il mio signore, eccetto che l'uno è tutto grazia e l'altro tutto disgrazia.

orazio.

O buono, o buono.

fulgenzio.

Gentilissima signora, s'è vero che nulla ad umile intercessore si nieghi, supplicola, mia speme, a far sì che come costui con la solita arditezza sua le comparisce avanti, che da lei ancora sia discacciato con quelle parole, ch'ad un par suo più si convengono.

prudenza.

S'io lo farò, altro appunto questo cuore non bramava, e per ora poi che intendo che tale è la sua brama ancora, altro non desidero se non di vederlo. Oh perché non è alla presenza mia e vostra signorìa in un cantoncino? perché non lo veggh'io? o come bene lo vorrei trattare! Oda, in grazia, come dir m'agradirebbe.

orazio.

Ben ascolto.

fulgenzio.

Per udirla già sono fatto l'attenzione istessa.

prudenza.

Così parlar seco vorrei. Gentil uomo selvatico, tanto per l'appunto è meritevole del nome d'amante, quanto di gentil uomo, poiché nell'uno ell'è materia solo da essere odiato da tutte le donne, nell'altro suggetto da esser lapidato da tutti i gentiluomini. Or non vede come quegli abiti tanto gli piangono intorno, quanto un'aera rusticità nel volto gli ride? Deponeteli in grazia e ad una tanta disgrazia s'aggiunghi la zappa e non più tra cavalieri per le piazze spaciando si veda, ma fra i campi con istormo di villani zappando si sudi.

orazio.

Buono, per mia fé.

fulgenzio.

O come dice bene.

prudenza.

Soggiungerò poi: levatevi di qui furfantone affamato, ché ben so che fate l'amore solo con la mia dote, poi che con quella vi vorreste spoverire e disfamare.

fulgenzio.

Signora, ella non può dir meglio.

orazio.

E di che sorte.

prudenza.

Or che dice, non l'ho al presente così consolata, come poco fa io l'aveva sconsolata? Avverta, che non voglio che me lo dica con un sì solo, ma con un gesto affettuosissimo e amoroso.

fulgenzio.

Così vuole? Eccolo.

prudenza.

Un altro maggiore.

fulgenzio.

Eccone uno maggiore.

orazio.

E io pure l'immito.

prudenza.

Orsù, più non si parli. Le piace di farmi una grazia? Chini il capo.

Oh, così bramo. O misero, questo balordo non s'avede che con Orazio parlo e a lui mi godo di far fare il mattacino.

Vorrei di più, poiché or ora l'ho pensato, che fra due ore ella facesse da me ritorno.

fulgenzio.

Signora io verrò.

prudenza.

Alzi la mano e mostri se vede, stando in istrada, il numero dell'ore che con le dita dalla finestra le addito.

orazio.

Ecco io l'inalzo.

fulgenzio.

Ecco signora due dita, che dico a due ore.

prudenza.

Per mia fé, vostra signorìa l'ha intesa. O caro amante, o accorto signore pigli, per vita sua, per far più dolce questa dipartenza amorosa, questo amoroso bacio, ch'io le getto.

orazio.

Oh com'è dolce.

fulgenzio.

Oh come l'ho caro, io lo ripongo nell'errario del mio cuore.

prudenza.

Pigli quest'altro.

orazio.

L'aspetto.

fulgenzio.

Precipiti or mai da quella bella mano.

prudenza.

Eccolo.

orazio.

O caro bacio.

fulgenzio.

In vero, questo passa bene, ogni bacio, che da bella bocca baciatrice e baciata baciatore fosse. Pigli ancor lei, mia vita, questo, quanto umile, tanto amoroso e alato.

orazio.

Il mio non il suo.

prudenza.

O caro bacio, ti bacio.

fulgenzio.

Questo in vero è bene un segnalato favore. Pigli quest'altro ancora.

orazio.

Questo, questo.

prudenza.

Questo lo ripongo nel seno.

fulgenzio.

O baci fortunati.

orazio.

O balordone.

prudenza.

Cuor mio li fo riverenza.

fulgenzio.

Io lo stesso.

orazio.

Io pure.

prudenza.

Addio mio signore.

fulgenzio.

Addio mia speme.

orazio.

Addio, addio.

fulgenzio.

O Fulgenzio, o Fulgenzio, che allegrezza è questa tua, che fortuna, quale stella benigna al tuo natale si dimostrò tanto lucente? Prudenza è la tua. Pàrtiti, fuggi, vola, e poi ritorna, correndo, volando, alle gioie, a i contenti, poiché tanti te ne dispensa oggi benignissimo Amore; ché in vero chi è talpa al suo bene, non si dee poi dolere s'alcuna volta divien Argo al suo male. Amor, tu movi il piede, tu meco sempre alle gioie assisti.

orazio.

Vattene pure, tanto Argo senz'occhi, quanto talpa priva di luce. Fuggi, vola, che ben da te fugge ancora ogni gioia, ogni contento, ch'è a te vicino. Or credi sagacissima amante, prudentissima Prudenza, che imprudentissimo giovinaccio così bene ha burlato. Ben so che Orazio solo è quegli, ch'è prudentemente da Prudenza amato; ad Orazio è serbato ogni gusto, ogni piacere, che benigno Amore, nel regno suo, dispensi a fortunato amante. Ohimè che quasi, dalla dolcezza, pare ch'io stesso in me medesmo capir non possa! Tu parti omai, tu consumate le due ore ritorna. E per ubidir poscia a colei, alla quale dolce sarebbe l'ubidir gl'istessi dei, l'ali t'impenna a gli omeri, a i piedi. Oh che solazzo è stato il mio, dolce in ramemorare sì, ma via più dolce a cari amici in palesare.

SCENA QUINTA

succiola, alberto, facchini

succiola.

Deh, di grazia, non mi date, messer Alberto, noia, non mi fate logorare il tempo col cicalar con voi, oh? Vo' non vedete quanti zanaioli ho meco carichi di polli, di vitella, d'agnelli, d'arista, di salciccia, di tordi, di fegatelli, di migliacci, di peducci, di bassotti, di colombacci, di starne, di fagiani, di lepri, di caprioli, di gelatina, di raviggioli, di marciolini, di gobbi, di seleni d'ulive, di pignoli, di mandorle pelate e di finocchio forte? non vedete qui gli aitti carichi di grechi, di verdee e del vin di Chianti? non vedete quegli altri pure carichi di pentole, pentolini, schidoni, capi fuochi, gratelle, padelle e caldaie? Di grazia, non mi date più mattana, ché meno un tantolino posso istare più con voi. Egli è otta di manucare, più cinguettar non posso, iscusatemi.

alberto.

E perché io vi ho veduta in questo giorno con tanto insolito apparecchio, mosso mi sono a farvi richiesta di che far vogliate di cotanta roba. Vedete, non vi è la maggior cortesia che con vecchi esser cortese, costume già da gli antichi molto osservato.

succiola.

Or sù, zanaioli, entratevene in quell'albergo, che testè sarò da voi.

alberto.

O che siate per mille volte ben bene detta Succiola cortese. Or ditemi: e che tanto apparecchio è questo? per chi lo fate?

succiola.

Per chi? O càzzica, la fortuna a cotesta otta m'è venuta in casa, e tutta cotesta robba me ne ha servito il pizzicagnolo, che serve la corte qui del duca.

alberto.

O Fortuna forfantissima, tanto è ch'io ti cerco, e tu sempre da me fuggi! Ma che fortuna è questa? come l'alloggi tu in casa?

succiola.

O vo' siete (e perdonatemi) il bel scimunito! Credete forse che la fortuna mi sia venuta a cotest'otta in casa? Voglio dire che avendo in casa un prencipe di gran laude, con molta corte, con molt'oro, ho trovata la fortuna, che dorme in casa mia.

O che avaraccio, adesso gli ho dato una stoccata.

alberto.

T'aveva pur troppo inteso, che ben so che sia Fortuna insieme e la volubiltà sua, tratta da quella ruota, ch'ella nella mano porta. Ma s'io la biasimai, s'io mi infinsi di non conoscerla, dissi solo per dimostrarti che giamai così cortese non la conversai, né così dispensatrice d'oro, poiché sempre verso me de' suoi tesori fu discortese e avara.

succiola.

Eh? Voi dovereste pur amarla, poiché s'ella è avara, è vostra prossimana.

alberto.

Or ne lasciamo questo; poiché 'l praticar troppo spesso con medesime persone, e il parlare troppo a lungo di medesime materie par che finalmente affastidisca.

succiola.

Oh? Cotesta corda sapevo io bene che non faceva per il vostro ceterino! Bisogna che io dica il vero, se ve n'andasse bene il fegato, i' non so andar dietro a quelle moine, come vanno cotesti moieri, ch'oggi dì imbrogliano il mondo, e s'io lo sapessi fare, crediatemi pure che a cotest'otta il mio varrebbe più di quattro giuli gigliati.

alberto.

Succiola certo, certo, che tu fa' bene a non essere imbrattata di cotesta pece; poiché è meglio con le cose vere offendere, che piacere lusingando. E certo che quelli che giornalmente lusingano sono uomini di pochissima fede, poiché amando non l'amico, ma più tosto la fortuna e la ricchezza dell'amico, spesse volte ad ultima rovina lo conducono; ed io per me quando fossi da necessità sospinto, vorrei più tosto abbattermi ne' corvi, che ne gli adulatori.

succiola.

Signor Alberto, s'ho detto per offenderla, mi venga la rabbia, mi poss'io sfondolare! Or per non la tenere a bada, sappia che dell'apparecchio, da quest'otta sino all'oscurare, ch'i' debbo far di vivere, ho avuto alla mano mille e cento scudi d'oro. Alla sfuggiasca intoppare in cotesta ventura, non è istato assai? non posso dire che di quadragesima io goda il Berlingaccio?

alberto.

Certo che tu hai la luna in quintadecima.

succiola.

E si favella di istare non a settimane, ma a mesi in casa mia. Or guatisi un poco che sguazzare ha da esser cotesto mio!

alberto.

Do', che sento? O perché non poss'io vestirmi da sguattaro e stare in quella osteria a mangiare per nulla e avanzare tutti questi pasti, non solo io, ma la mia famigliola ancora, poiché non potrebbe tanto poco portare a casa, che in una volta sola non si portasse la provisione di tutta una grossa settimana.

succiola.

Signor Alberto, vo' fate un gran cicalamento con esso voi. Volete voi alcuna cosa? Commandate, fate presto, poiché or ora io debbo andare dal calzolaio, dal fornaio, dal mugnaio, dal pecoraio, dal fornacciaio, dall'erbolaio, per iscarpe, per pane, per farina, per ricotta, per bicchieri e per erbaggi.

alberto.

Di grazia, ancora non vi partite. Sappiate che, da me ragionando, io stava in forse di chiedervi un favore.

succiola.

Oh? ch'indugiate? Comandatemi, ché vi sono ubrigata.

alberto.

Chieder vi voleva di quell'ossa di capponi, di pavoni, di vitella, allesse, arrosto, scorci di pasticci, e così altre cosette da nulla; poiché sei cani levrieri mi sono stati mandati a donare e per lo viaggio hanno patito molto e sono secchi, secchi, secchi; ma sopra il tutto, non gli spolpate troppo, acciò che ci sia qualche cosetta intorno da piluccare.

succiola.

O che avarone, di sicuro vuol cotestui manucarli! Sono cani da giugnere? Oh come gli vo' bene! Dell'ossa tante darognene, che le sacca gl'empieronne.

alberto.

O cortese Succiola vi ringrazio. E io mangierò la carne, e che forse non sarà buona? Dell'ossa de' polli, poi, farò de' flautini e de' quagliaruoli, e sottomano caveronne dinari. In somma, ogni poco remo spigne la barca, ogni poco aiuta e molti pochi fanno uno assai.

succiola.

Fa un gran cinguettamento cotesto gocciolone da sé.

alberto.

Oh s'io potessi con questo mezo farmi una buona pignatta di grasso, come buono sarebbe, per tutto questo anno; e che grasso e che elesirvite!

succiola.

Voglio stuccicarlo a cicalare.

O signor Alberto, non la sminucciolate po' tanto da voi, sapete? E che domine pensate vo' di fare?

alberto.

Io l'ho pensata ed è bellissima. Da me sono andato pensando d'esser grato a quella cortesia che far mi volete e voglio prestarvi perciò tutte le pentole, caldare, tegghie, piatti grandi e piatti piccioli, che di bisogno vi faranno nel cocinar a questo prencipe. Che ne dite, non è bene ad esser grato al benefizio ricevuto?

succiola.

E di che sorte! Accetto il tutto. Che ben d'una marra i' meriterei nella collottola, quanto coteste cose i' rifiutassi! Renderognene poi com'è partito il signore e 'l tutto polito come specchi, vedete, perché nella politezza non voglio ballate, e quante vi sono serve fiorentine si disfiorentinino pure, che appo di me non vagliano un fico, un lupino.

alberto.

O questo no, né mia figliola, né le fanti di casa così non l'intenderebbono. Mandate pure il tutto di pasto in pasto, e così sporco e unto, ché non importa.

succiola.

Così sudicio? Oh non mi state a dar mattana, ché cotesto non farò io giamai.

alberto.

Fermatevi, ché non sapete il tutto. Giuramento hanno le donne di casa di non mai dar da lavare i loro piatti ad alcuno, poi che stimano, queste sciocche, che altri non fosse bastante di renderli lavando sì belli, come elle stesse fanno. Così voglio; in somma, non dite altro.

succiola.

Vo' m'andate tanto sermonando nel capo, che per non vi parer perfidiosa e astiosa, i' mi contento.

alberto.

Vi darò di più i candellieri. E pur quelli potrete di volta in volta mandarli, e ben che vi fosse il sego di quattro dita alto, non importa; i candellieri non sono fatti per questo? Eh, madonna Succiola, bisogna far servizio alle genti e non aver l'avarizia ficcata nell'ossa.

succiola.

Or poi, ch'io la veggo tanto amorevole, non voglio tacervi quello che in casa cotesto principe mi disse. Sappia che vuole un palazzo ad affitto; or che ho pensato?

alberto.

Dillo, di grazia.

succiola.

Che vostra signorìa gli dia il suo, che ve lo potrebbe tutto fornire e donarvi poi l'addobbamento e tutte le massarizie.

alberto.

Datemi la mano.

succiola.

Eccovi la mano.

alberto.

Io mi contento, ho poca famiglia, retorerommi in ogni piccolo cantoncino e così accomoderò questo signore. Oh che ventura inaspettata, oh che bel porre in avanzo! Dov'è? Battete, battete, battete! Chiamatelo, in grazia, madonna Succiola mia cara.

succiola.

O che cotennone!

Adesso io picchio, perché fa istare chiuse tutte le porte, vedete, per lo sospetto. O di casa ? o da l'osteria? I' son Succiola. Mi vedete voi, signore?

SCENA SESTA

rampino, alberto, succiola

rampino.

Madonna Succiola? Affé che avete mandata una bellissima robba.

succiola.

Fo riverenza a vostra signoria, signor maggior domo. Sono istata, vedete, per tutto, per aver del buono.

alberto.

Ah Succiola, chi è colui al quale hai fatto così profonda inchinata?

succiola.

E non mi state a stranare! Chi è cotesto, eh? È 'l maggior domo, il più caro, che abbia il signore.

alberto.

Or sì che bisogna ch'io rida.

succiola.

O vedi, che testè gli è tocco la fregola del ridere! Che domine, non vi chetate?

alberto.

Ch'io mi cheti eh? Bisogna veder se si può, eh, eh, eh.

succiola.

Domine, acchetisi cotesto arrovellato.

rampino.

O madonna Succiola, e di che ride quel vecchio fratello di Caronte? Ride forse perché vede in panni vili persona nobile? Lascia un poco ch'io li parli. O grimo, che canzonamento era quello che vostr'odene faceva con la taschiera?

alberto.

Non posso più, eh, eh, eh, ohimè, mi piscio addosso.

rampino.

Che tanto ridere? O Succiola, è un guasco costui, sì o no? Perché mi vien voglia di darli un pugno ne i merli, vedi!

succiola.

Gettate via questa lingua, signor maggior domo, perch'io non l'intendo punto, punto. E che forse m'uccellate voi ?

rampino.

Dico s'è gentiluomo.

succiola.

Così tutti, e 'l principale di cotesti terrazzani pesaresi.

rampino.

Sì? O lascia fare a me. Signore, ben che toccar dovrebbe al gentiluomo della città sempre ad essere il primo nell'usar termini cortesi verso il gentiluomo forestiero, nondimeno, il primo voglio essere io, e con ragione, perché veramente il vedermi in questi panni non ben corrisponde all'udir ch'io sia gentiluomo.

alberto.

Certo che all'abito io non l'aveva per tale. Ah? Succiola, non posso tenermi dalle risa! Scoppio, scoppio.

succiola.

Possiate voi scoppiare da dovero! O che spiritato.

alberto.

Ma in che linguaggio mi parlò prima vo' signorìa?

rampino.

In piccardo.

alberto.

Stia pur nel suo paese, perché mentre favellerà in questo linguaggio non sarà intesa al sicuro in queste parti.

rampino.

Mio signore, ho molte lingue, ond'ha che s'io sono in Francia, parlo in lingua francesca, se in Ispagna in ispagnola, e in Isvevia in tedesca. In somma se in Argo mi trovo sono argolico, se in Candia candito; se in Barberia punico sono; se in Pisaro pisaureo sembro; e se in Piccardia tutto piccardo mi si vede.

alberto.

In fine quel parlare piccardo è 'l più goloso di tutti.

rampino.

Ma che vorrebbe, vostra signorìa, forse qualche grazia dal nostro prencipe?

alberto.

Succiola, sai tu che grazia vorrei da questo suo prencipe? che comandasse a questo suo maggiordomo che quando parla meco tanto non mi s'avicinasse, poich'io temo che tutto m'impidocchi.

rampino.

Sù sù, chiedete! Non vi consigliate tanto con Succiola. Succiola ?

succiola.

Signore.

rampino.

Non vuol già cosa alcuna, eh?

succiola.

Maisì. Ditegnelo. O vo' siete il bello scotennato, non si sta così a mano spenzolate. Vo' mi fate infantastichire se dir ve la debbo. Vedete, ancor vi pensa! O cotestui è 'l bel buaccio, non vo' dir briccone. Lo vo' dir io. Signore, e' vi vorebbe dare per albergo il suo palazzo.

alberto.

Eh? Ch'io scherzava seco illustrissimo e stracciosissimo, dico e straillustrissimo, mio signore.

rampino.

Or sù, vedo ben io che quel gentiluomo sta in dubbio della mia nobiltà, e vi è più di quella dell'illustrissimo ed eccellentissimo mio prencipe. Dite, se siete uomo d'onore non m'avete voi per un guidone? Ditelo, che non m'addiro, ditelo, che l'ho per favore.

alberto.

Ma non voglio giamai per bugie andare a casa del diavolo. È pur troppo il vero, e ogni losco, mirandovi, tale vi stimerebbe.

rampino.

Ancora de gli altri sono di questo parere, ma aspettate.

succiola.

Che dite vo' voi, non siete ora un uccellaccio?

SCENA SETTIMA

nottola, grillo, doi paggi, rampino, alberto, succiola

nottola.

Olà, olà! a chi dich'io? canaglia, canaglia, venitemi a slacciare or ora le calce! presto, presto, ché mi si è mosso il corpo!

grillo.

Son qui, son qui, signore.

rampino.

Vedete, signore, questo, che in casa parla, è il principe tanto glorioso.

nottola.

Furfante, adesso se' venuto, eh?

grillo.

Vostra signorìa s'è cacato addosso, non è così, signore?

nottola.

Non lo senti? Piglia qua, ché ti dono questi calzoni.

rampino.

In somma signore, egli è il più liberale uomo del mondo.

alberto.

E che bei doni profumati.

nottola.

Da' qua quegli altri bragoni.

grillo.

Eccoli signore.

nottola.

E pure in questi cacai l'altro giorno ancora! To', non li voglio.

alberto.

Signor maggiordomo, dicami, in grazia, come s'addimanda questo prencipe? il prencipe cacone?

rampino.

Che cacone? Il suo nome non si può dire; bastivi ch'è detto Nottola. Oh, vedete che i paggi vengono, verrà anch'egli del sicuro.

alberto.

Oh che servitù, oh che paggi, oh che ridicolose cose, atte a far ridere Eraclito e a far dire ad Arpocrate: «Furfantoni andate alla galea».

grillo.

Ponete colà quella seggiola. State voi duo, uno di qua, uno di là, con quelle due ventaiole in mano. Cavatevi que' capelli e tutti siate riverenti, ché ben sapete che il signore di voi m'ha dichiarato il maggiore.

rampino.

Grillo?

grillo.

Mio signore, che commanda vostra signorìa?

alberto.

Si onorano fra di loro, questa canaglia, ch'è uno spasso.

rampino.

Vuole il signore venire al fresco?

grillo.

Sì signore, e io lo vado or ora a tôrre. E voi, galant'uomo, che domandate? Qui non ci stanno scrocchi, vedete?

alberto.

Sì, perché da voi soli volete occupare il luogo. O che furbetto.

grillo.

Che modo di parlare è questo, con gentiluomini?

rampino.

Fermati Grillo.

succiola.

Uh? una guanciata? Férmati, stàccati.

alberto.

Furbo, pugna nel ventre? morsiconi nelle mani?

grillo.

Furbaccio.

rampino.

Sta' fermo, cheti.

alberto.

Fermati, serpentello.

succiola.

Alberto, avertite, ché cotesta è una razza di nobiltà molto fantastica, vedete? Vi daranno delle busse e ve le terrete.

alberto.

Tu se' un fanciullo, e questo basta.

grillo.

Te ne darò un'altra frotta! Va', impara a conoscere figli di cavalieri.

succiola.

Che domine avete vo' nel gozzo? Mi fate venir voglia a me ancora di sgozzarvi, con un sorgozzo. Siete ben zotico daddovero.

rampino.

Cheti, cheti. Ecco il signore.

alberto.

Mo che foggia d'uomo è questa? Io sono confuso.

nottola.

Maggiordomo, olà?

rampino.

Mio prencipe.

nottola.

Chi è stato quello che ha fatto rumore?

rampino.

Grillo.

nottola.

Grillo? Vien qua. Tu, paggio, lèvelo un po' a cavallo.

alberto.

O questo è 'l pazzo umore.

nottola.

Paggio, tu pure gli disciogli le stringhe delle calze.

altro paggio.

Ecco signore.

grillo.

Signore, domando all'eccellenza vostra perdono, o, se almeno perdonar non mi vuole, non comporti che mi si levino le calze, poi ch'io ho un poco di rogna su le natiche.

nottola.

Furfante, né per questo perdonar ti voglio. Dislacciatelo pure. Oh? Ora che hai le calze su le calcagna, alzolo a cavallo.

grillo.

Uh, uh, uh.

alberto.

Eh? Perdonategliela, signore.

nottola.

E chi è costui che commanda a prìncipi? Bastonatelo.

alberto.

Mio signore, son servo suo anch'io, in grazia, non tanto male.

succiola.

In cervello, corpo di santanulla, allerta, signor Alberto, che vi so dire che testè vi siete accozzato bene.

alberto.

Incomincio aver paura di questa bestia, io.

nottola.

Or sù, perché vedo che pure a Succiola dispiace ch'io faccia staffilar Grillo, gli perdono.

succiola.

O che non possiate vo' meno morto fracidire, i' vi ringrazio, e la mano vi bascio.

nottola.

Datemi da sedere.

succiola.

Fatevi in là, bricconi, ch'io vo' esser quella. Fatti in là tu, pecorone, se non, con un sputo tutto ti schicchero.

nottola.

O Succiola galante.

alberto.

O con che gravità siede.

nottola.

Madonna Succiola, e che diavolo di puzzore è questo ch'è per questa contrada? Pigliate qua questo borsellino. Andate a comperar venti secchi d'acqua di cedro e venti altri d'acqua rosa, e due volte al giorno, con iscope di mortella fiorita e di gelsomini di Spagna, fate che tutta questa contrada sia spazzata.

alberto.

O che sento! Al sicuro debbe aver quella gobba non d'oro, ma di diamanti e di carbonchi.

nottola.

Maggiordomo, queste non sono ventaiole da pari nostri. Che si ponghino or ora quattro su le poste, con cento milla scudi per uno, perché voglio che si trovi la Fenice, quel bell'uccellino, che tanto si nomina, e, ritrovato, far di modo ch'io abbia le sue ale e con quelle mi si faccia vento. Anzi, i manichi di queste ventaiole voglio che siano di duo pezzi di grosissimo rubino, che ben molti honne nel mio tesoro.

succiola.

Or che dite? Adesso è 'l tempo di levarsi la zacchera alla veste? Oh sennuccio mio caro, o principuccio mio bello.

alberto.

Sta ferma pazzarella, tieni a te le mani! Se te l'ho da dire, mi paiono scherzi e novelle queste sue.

succiola.

Che canta favole? che studio vogliato? Anch'io lo credeva.

Eccellentissimo signore, tanto spiando andai, che il palazzo ritrovai alla fine.

nottola.

Sì?

succiola.

E cotesto messere n'è il padrone. Fatevi innanzi. Uh?

Che omaccio tondo, ci vogliono e' pungoli! o che sguaiato.

alberto.

È vero, signore, io ho il palazzo.

nottola.

Piano, non vi accostate tanto, fatevi indietro duo gran passi.

alberto.

Ecco, signore, uno e dua, a quest'altro passo a rivedersi in piazza.

succiola.

Saido, saido, Alberto.

nottola.

Mastro di casa?

rampino.

Signore?

nottola.

Cercategli un poco addosso.

rampino.

Ecco, lo fo, signore. State fermo, messere.

alberto.

E perché questo a me, signore?

nottola.

Piano, piano, non v'alterate! Abbiamo nemicizia e vogliamo a chi parla con noi sia guardato addosso.

rampino.

Non ha ferro micidiale alcuno, signore.

nottola.

Messere, io non tratterò con voi di prezzo, ma con doni e favori. Accostatevi, ché vi diamo l'auttorità.

alberto.

Eccomi avanti, ch'io m'avvicini più?

nottola.

Sì, più ancora. Ancora, ancora. Ora inginocchiatevi qui da me.

alberto.

Io voglio vederne il fine. Eccomi inginocchiato.

nottola.

Chinate il collo.

alberto.

Succiola ?

succiola.

Olà?

alberto.

Che questo non fosse il boia. Eccolo chino.

nottola.

Vi getto al collo questa catena di cinquecento scudi d'oro.

succiola.

Or che dite, non siete ora un baccellone? Bisogna ch'i' ve lo dica, son libera vedete.

alberto.

Signore, d'ogni considerazione cattiva, che tante state sono, che di vostra signorìa ho fatto, le ne chiedo umilissimo perdono.

nottola.

Orsù, che vediamo il palazzo. E pregate il Cielo che ne piaccia, perché lo potressimo volere in dono.

alberto.

Il Cielo no'l voglia! Ohimè, questa catena mi tira giù il collo. Ma caro signore, perché andare così in abiti vili? Perdoni, se tanto si ricerca.

nottola.

Eh? Volete troppo. Vi darò delle pugnalate, io!

alberto.

Mi perdoni, signore, se troppo ho osato.

rampino.

Le sue grandi nemicizie non comportano che s'intendino cotai fatti. Non vedete com'è in collera?

succiola.

Signor Alberto, l'avete errata cotesta fiata. Che domine vi far andar cercando se per via di lardo o di cascio va il topo alla trappola?

nottola.

Or via, fatemi vedere il palazzo, ché m'è passata la collera.

alberto.

Sì signore è qui. Or ora gli lo fo vedere.

SCENA OTTAVA

prudenza, nottola, alberto, rampino, succiola grillo, paggio, paggi

prudenza.

E tanto, signor padre, ella sta a tornarsene a casa? Sa pure ch'io sono tanto paurosa che niente più!

succiola.

Poveruccia! Come vede un uomo, ella debbe aver paura che subito le cada addosso, non è così?

prudenza.

Sì, per certo, ma che fa con questi scrocchi? Entriamo in casa, ch'è vergogna. Uh? Che gentaglia!

alberto.

Cheta, cheta figliola.

prudenza.

Che credete (dico a voi) ch'oggi sia il dì de' morti?

alberto.

Cheta dico, in buon punto, quegli è un prencipe grandissimo.

prudenza.

O poveri prìncipi, a che passo sono condotti, passo di compassione invero.

nottola.

Meser Alberto?

alberto.

Vengo signore, adesso, adesso. Questi è principe, e hollo tolto a star in casa nostra.

prudenza.

In casa nostra? Signor padre, signor padre, si vuol far rider dietro, eh? che umore è questo suo?

Scrocconacci, andate alla mal'ora, m'intendete? con chi parlo?

alberto.

Taci, taci, taci, ohimè tu vuoi che m'amazzi al sicuro.

succiola.

O poveretta voi! Scrocchi a i prìncipi, eh? O cicaloncella de' cianciarolucci.

prudenza.

Eh? Di grazia, tendete a i fatti vostri, chiacchiarone sboccato.

nottola.

Giovinetta, vi scusiamo. Ma, affé da principe sconosciuto, che, se non foste così bella, vorrei che vi ricordaste di me.

prudenza.

Do' s'io mi cavo!

alberto.

Che fai? Chiudi quella bocca, o miserissima te.

succiola.

Uh? Scimunitaccia.

nottola.

Alberto, chi è questa giovinaccia, anzi questa Marfisa bizarra?

alberto.

È mia figlia, signore, e serva sua.

nottola.

Vostra figlia? Oh! Mi accosterò.

alberto.

Via, moviti, vallo ad incontrare, va' a farle inchino.

prudenza.

O questo non farò io giamai, levimisi più tosto la vita.

nottola.

Lasciate fare a me, ché tocca sempre al cavaliere a riverir la dama. Signora, vi fo riverenza e di più vi bacio.

prudenza.

Signor padre, e che dite? e che umore è questo? Affé, affé, che mi farete sdegnare da dovero.

alberto.

È umor di principe, cara figliola; che vuoi tu farci ?

prudenza.

Vi dico che andate a fare i fatti vostri. E tu in particolare, o gobbaccio poltrone.

nottola.

Signor Alberto, io sono di razza di francese, e ho il costume nell'ossa di baciar le femmine. Or pigliate questa catenuccia di diamanti, con questo gioiello di settanta libre, gettateglielo al collo.

prudenza.

Oh come traluce, caro signor padre, com'è bello, o come allegra sono!

Signore, con le ginocchia quasi a terra le chiedo perdono d'ogni atto, d'ogni parola, che offeso l'avesse.

nottola.

Sia perdonato. Maggiordomo, andate per tutto il nostro tesoro, e di quei primi argenti, ch'io vi mostrai, se ne faccia dono a questa signora.

rampino.

Succiola, e voi, tutti venite meco.

succiola.

Andatevene, ch'oggi mai per cotesta liberalità i' son fatta balorda e gli occhi io straluno.

nottola.

Signor Alberto, quanto ora far vogliamo è poco rispetto quello che pur far vorremo. E perché sappiate il tutto: le nemicizie, ch'io ho con Francia e con Ispagna, mi fanno andare così, godendomi di visitare i luoghi de' nemici, per saper poi che esercito, che alteglierìa dovrò movere contro queste città per isfondamentarle. Voglio però mutarmi d'abiti; ditemi, sonovi Ebrei in questa città di Pesaro?

alberto.

Molti ve ne sono, signore.

nottola.

Sì? Or fate che venghino cinquanta o sessanta Ebrei, con nobilissimi e superbissimi panni per me e per la mia famiglia: in somma robba da spendere per ora due centinara di migliaia di doble.

prudenza.

Signor padre, che sento?

rampino.

Signore, ecco qua il tesoro, in mille fardelli vilissimi sepolto, ed ecco l'argenteria, che nel primo fardello che si sciolse noi trovammo.

nottola.

Mettete colà a' piedi suoi tutto quello argento, o così. Signora Prudenza, tutto quello argento, che raccogliendo da terra potrete portare in casa, tutto è vostro, tutto io vi dono.

alberto.

Figlia, ingégnati di tôrlo tutto. Fatti larga d'avanti.

prudenza.

O come pesa, o quante belle cose! Ohimè, che non posso più tenere.

nottola.

Dite, signora, non vi duole in questa occasione di non aver cento braccia, per non lasciare quel rimanente d'argentaria in terra?

prudenza.

Certo sì, signore.

alberto.

Oh come averei caro, ch'ella fosse un Gige, un Briareo.

nottola.

Orsù, voi Alberto, in vece sua, pigliate il rimanente, ch'io ve lo dono.

succiola.

Corpo di sanpuccio, o cotesto è bene un caso da rescitare in iscena, per fare istuppire la brigata.

alberto.

Taccia pure, signore, chi più al mondo ebbe di generoso il nome, poi che pareggiare non si può la nobiltà del vostro sangue, né la liberalità della vostra mano.

nottola.

Bene bene, alfine, voi nasceste per esser solo di me lodatore e io per esser solo di voi guiderdonatore. Seguitatemi, paggi, caminate voi altri! Signori, datemi la mano in mano, ch'io come se ballassi un passo e mezo movo il passo.

prudenza.

Ecco la mano, e con la mano la fede d'esserle umilissima e fida serva.

nottola.

O come questo atto di umiliazione piace a noi altri prìncipi!

Avete la grazia nostra, entriamo.

alberto.

O me felice.

succiola.

Or che dire? Vi si potrà oggi più parlare? In somma Fortuna e' dormi. Sù, bricconcelli, entrate tutti meco.

grillo.

Eccoci, eccoci, entrate.

cicala.

Entrate pur, che vi seguitiamo, io che Cicala sono per assordarvi, e questo ch'è Grillo, per trovare il buco della cucina.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

orazio

orazio.

O come bene disse il saggio, quando in queste voci proruppe, cioè, che solo l'amante è quegli che meglio sa misurare i giorni e l'ore d'ogni altro vivente. E io lo provo, poiché non credo che tempo alcuno sia passato, ch'io co' miei sospiri prima non le abbia dato il moto; né ora, che prima non le abbia dato il colpo con il cuore. O felicissimo Orazio, servo fatto d'Amore, di quell'alato dio che sforza il tutto, che vince gli uomini e gli dei. Ben del tuo gran valore, o picciolo nume, segno manifesto ne danno le antiche carte e narrano come alle care fiamme delle tue facelle si rendessero ubbidienti Giove, Marte, Apollo, Mercurio, e la tua bellissima madre. E che altro vogliono dinotare l'ali tue, se non che in ogni parte tu voli, tu saetti, e tu mostri l'estranio valore delle pargolette sì, ma grandi, forze tue? Dolce fuoco, e possente, poiché nel profondo e salso mare e nelle dolci e limpide acque, le marine deitadi provano il caldo loro, o quanta allegrezza e dolcezza porgono i pesci all'acque amorosamente guizzando, quanta gioia i vaghi e dipinti augelletti, quando tra le verdi frondi, di ramo in ramo volando, riempiono l'aere d'amorosi accenti. Ecco in un olmo giocar baciandosi innamorate le semplici colombe e le caste tortorelle. Chi dir puote i cotanti beni, i cotanti vivaci effetti, che da te derivano? Chi vinto avrebbe il Toro, il Drago, Anteo, Cacco, i Centauri, Gerione, il leon Nemeo, l'Arpìe, l'erimanto Cinghiale, Acheloo, Diomede, Bussiti e altri mostri, se tu, trionfante dio, non avessi delle bellezze d'Alchemena acceso Giove, dal cui dolce congiungimento nacque il famoso e invitto Ercole, de' mostri domatore e vincitore. In somma, in questo gran mare per trovare il lido, concludi che quanto ha la terra, il mare, e quanto nel grembo porta di bello il cielo, opra è del bellissimo Amore. Non consumar più il tempo, o Orazio, in lodare questo arciero infallibile, benché altra cagione tu ne abbia. Serba, serba il profluvio delle grazie all'ora quando goduto avrai della tua bella Prudenza, della quale ben sai che è espressa voglia, consumate le due ore, a lei ritorni. Eccoti apunto soletto, come soletto esser debbe amante, ecco spopulate le contrade, l'ora essendo, che ogn'uomo co'l cibo nudrimento a sé medesmo porga. Vedi che vuole, che agevole le sarà il dirtelo, l'importelo, poiché tale ordine di parlarti dato non l'avrebbe se di non poterti parlare ella avesse saputo. O dalla casa?

SCENA SECONDA

prudenza, orazio, fulgenzio

prudenza.

Chi è là? chi batte?

orazio.

Orazio suo, mia signora, il suo servo.

prudenza.

O mio caro Orazio, o esempio di fedeltà inaudita! Sia per mille volte il ben venuto colui, per lo quale cara m'è quest'aria e questo cielo.

orazio.

O mia cara Prudenza, o vero seggio della beltade e d'amore! Pur ella sia per infinite volte la ben trovata, come per infinite volte per lei in istato di somma felicità Orazio si trova.

prudenza.

Taccia pur colui, che scrisse che la fede, il sonno e il vento cose fallaci erano, poi che la fede, che in Orazio è sempre stabile, fa chiaro conoscere che la fede in vero amatore fonda le radici, come robusta quercia in altissimo monte.

orazio.

Taccia pur per sempre colui che disse che soavissima e gioconda cosa era il guardare la donna bella, ma il toccarla pericolosissima, poiché Prudenza nel mirarla porge contento a gli occhi, ma provasi poi tutto il contento che nel regno d'Amore gustar si puote, se nel seno la stringi; come sper'io di fare in breve, se dalla sua pietà non mi verrà un tanto bene vietato.

prudenza.

Sarà di sicuro, e sarà in breve; poiché assai più caro mi fia che 'l mio Orazio mi cinga al seno delle sue braccia amoroso monile, che se quello cinto mi fosse dalle più lucide e preziose gemme dell'Oriente.

fulgenzio.

Ohimè, che veggio? Voglio qui in disparte farmi osservatore d'ogni parola, d'ogni atto.

orazio.

Certo mio bene, che debbo io fare, che m'impone, onde Prudenza rimanga ubbidita, servita, e quello sciocco di Fulgenzio burlato?

fulgenzio.

O traditrice, o traditore.

prudenza.

L'ordine è questo; e credami pure, che tale già io non istimava ch'esser dovesse.

orazio.

Perché non tale?

prudenza.

Perché dall'avere mio padre a caso ricettato un principe in casa, ho preso anch'io partito novo, di quanto intenderà.

fulgenzio.

Di' pur, ché sordo non sarò per isturbarti.

prudenza.

Impose questo principe che per vestir sé medesmo, e tutta la sua famiglia, si ritrovassero molti Ebrei, che carichi di belle vestimenta qui a casa venissero. Ora intendo che, per goder d'amore, ella non si sdegni di fingere uno di questi Ebrei; così ella se ne verrà in casa, e, mentre mio padre e questo principe e altri intenti saranno al vestirsi, e noi prontissimi allo spogliarsi (per dir così), in qualche parte sicura godremmo de' nostri amori, i quali tanto più saranno dolci e grati, quanto più erano disperati.

orazio.

Certo, che sola questa invenzione mi poteva far degno di ricevere così cari doni, poiché più è custodita questa sua entrata, che da Cerbero custodita non è la porta d'Averno; o vero le poma d'oro dall'esperido Dragone. Pur sa che più volte holla al padre suo fatta chiedere per mia signora e consorte, ma egli avendo più risguardo alla molta mia povertà, che alla molta nobiltà mia, sempre hammi fatto intendere che per falliti non è sua figlia.

fulgenzio.

Né sarà di sicuro.

prudenza.

Or sia ricco d'inganni Orazio tanto, quanto è povero di beni di fortuna e abbondantissimo di nobiltade. Ingannisi pur questo Mida, e quel ganimeduccio di Fulgenzio, cui credendo meco di parlare (goffo), non s'avedeva ch'amendue solazzar faceva, non a lui, ma a lei essendo tutti indirizzati i concetti del mio cuore, dell'anima mia.

fulgenzio.

Ben goffo da vero io fui, nol nego.

prudenza.

E forse che non istringeva que' baci al seno? e forse che i baci non ribaciava? Ma il pazzo stringeva il vento e l'aria baciava; poiché solo al cielo della sua bella bocca rapidamente con i baci colà volava la innamorata e baciatrice anima mia.

fulgenzio.

O fidati poi di donne.

orazio.

Mia vita, perché dar tempo al tempo non si dee, quando a fine trar si vuole cosa di grande affare, da lei partendomi, m'anderò a porre nell'abito ch'ella cotanto brama.

prudenza.

Parta, mio cuore, poiché 'l tempo ha per costume di non ritornare giamai, se una sol volta da noi fugge. Addio mio corpo, addio mio spirito, addio mio cuore, addio mia ala, addio.

orazio.

Pur, mio bene, baciandole quelle belle labra, che servono a me per duo rubini animati, per que' duo oli che sono il fondamento della vita mia, le dico partendo addio, ma però addio d'un breve addio.

fulgenzio.

Ah Prudenza imprudente, or t'avedrai, se così facile ti sarà il beffar il misero Fulgenzio! Tu, tu sarai la schernita, tu l'ingannata! E che stimi forse che non saprò io tanto ingannatore ingannare, quanto tu ingannatrice ingannasti? O fortuna, ben dir poss'io che se' come il mare, ch'ora in calma prometti gioie, or turbato ministri noie. Anzi, che per questa instabilità tua dir possiamo ch'a noi intervenga come al marinaro nel mare del vento, perché sì come ora l'ha secondo e ora del tutto contrario, così ancor tu a' pensieri umani or se' seconda, or tutta aversa. Però sì come quegli spiega la vela ove spira il buon vento, quello ricevendo or a pioggia, or ad orza e superando ogni duro incontro in porto si ricovra, così parimente, quando l'uomo ha la fortuna amica, pigliare la dee, e la vela concederle de i desiri suoi; ma se contraria spira, debbe raccôrre il lino, e con tal forza all'empito suo opporsi, e al suo furore, che quantunque ella lo combatta sempre, egli contro di lei si mostri fermo e costante, e cerchi mal suo grado andare al porto al quale ha già drizzato il suo pensiero. Animo, ardire e core, che colà molta lode s'acquista dove l'arditezza è molta! Io, io quegli sarò che, da ebreo vestito, quello rapirò che conceder volevi ad Orazio! Io già lo precorro, io già primo la soglia, già nelle braccia ti stringo, già di nemica ti fo amante! Duolmi d'usar questo termine, e vorrei certo sì chiederti al padre, ma so che se tu se' stata negata in consorte ad Orazio, per esser povero, ch'a me conceduta meno saresti, pur gentiluomo poverissimo anch'io essendo. Or sù.

Vincasi pur per forza, o per inganno / ché le vittorie gloriose fanno.

SCENA TERZA

schiavetto, e rondone

schiavetto.

O Rondone, Rondone, si suol dire che 'l rondone è uccello inestancabile, sempre per l'aria agitandosi; ma tu hai il nome di Rondone e il volo da poltrone, e stracco se', per così poco viaggio? Da Fano a Pesaro v'è pur molto poco.

rondone.

Tu vuoi la burla, pare a me. Ti dico che ho nome Rondone, ma non Rozzone, o cavalaccio da soma! Tu vuoi ch'io porti questo cofanetto de gl'imbonimenti su le spalle, e mi pesa; e quel camminar dietro alla marina per quella arena, oltre ch'io sono zoppo, m'ha segate le gambe. E poi non ho altro che questa camisioletta rossa su la carne, e il vento mi s'è ficcato così nelle coste, che ti so dire che per ismaltirlo ci vorranno molti sospiri selvatichi.

schiavetto.

Pur io sono vestito da schiavo, come te, ben che un poco più nobilmente, e tanto il vento non m'ha traffitto.

rondone.

Oh ? Sta' cheto, ch'io voglio questa sera toccar tanti dinari, che voglio che i fazzoletti, tirati e annodati, facciano parer l'aere ingombrato di neve, quando al verno ella cade dal cielo a lenzuola stracciate.

schiavetto.

O che Rondone astuto! E come vuoi fare?

rondone.

Io voglio avere un poco di polvere in un cartoccino e voglio dire (con i nostri giuramenti soliti) che quella bevuta fa tirar coreggie; e soggiongendo dirò: «Signori, voglio che l'esperienza parli!». Ciò detto, io la berrò. Ora, perch'io sono pregno di quel vento preso dietro alla marina, e che le coreggie nel (voi mi intendete) mi fanno come i fagioli nella pentola quando bollono, non così tosto, ch'io l'averò bevuta, comincieranno a voler uscire. Io allora darò loro licenza e, con riverenza, a tempo a tempo, e ad una ad una, e ora a dua a dua, e anche a tre a tre, darò a credere d'avere una mano di moschettieri nel culo.

schiavetto.

Affé, già sento che la polvere del moschetto puzza.

rondone.

Eh? Tu t'inganni! Voleva ben io scaricare, ma la canna non ha preso fuoco, è stato solo il polverino. Ma odi, di grazia: allora, dico, che gli ascoltanti sentiranno l'effetto e che testimonianza piena n'avranno da duo sensi principali, naso e orecchie, allora, dico, alcuno non sarà che crepando dalle risa non annodi il fazzoletto per comperarne.

schiavetto.

O caro Rondone, se tu con le tue molte facezie non mi apportassi qualche gusto, io sarei ormai per tanto disperarmi divenuto la disperazione istessa.

rondone.

Or non sai qual mezo senza di me è bastante a trar la disperazione da i cuori disperati? Tre braccia di fune attaccato ad un trave, legatoselo al collo e tirar tanto, che la disperazione, non potendo di sopra, di sotto se n'esca. E sai come io ti posso servire? Guarda questo staffile di canapo, è la vera triacca per ogni goloso; e io per amor tuo il boia con ogni maggior delicatezza ti prometto di fare.

schiavetto.

In vero, ch'altro che di carnefice tu non hai aspetto.

rondone.

Saper bisogna ancora che far torto non posso al mio parentado, nel quale discende per trentasei gradi questo ordine di boia, e per dirtela, mio padre era boia, e boia sono stati tutti i miei signori fratelli maggiori.

schiavetto.

Per vita mia, che s'io ti credesi tale, che in oltre il caricarti di villanìe, vorrei con questa freccia passarti da un canto all'altro.

rondone.

Dico che parlo su'l saldo, e aggiungo che più volte, per non mi domenticare l'ufficio, m'è saltato chiribizzo d'appiccarti! Oh polastrotto da essere empiuto, si vede bene che tu le tò su, come l'uomo te l'appresenta! Io burlo, io burlo, so che tu l'avevi creduto, eh?

schiavetto.

Piano, piano, parla con la lingua, e non mi toccar il volto con la mano.

rondone.

Uh? Salvaticotto senza pelo, e che, avete paura?

schiavetto.

Non ho paura, ma non istà bene.

rondone.

Lasciamo questo, poiché vuoi così; non tocchiamo, ma parliamo. Dimmi un poco, e quando ti vuoi risolvere di dormir meco? Sono tanto pauroso, ch'ogni topo mi sgomenta.

schiavetto.

O che sempliciotto! Ditemi, in grazia, e' vi pare, o 'l mio furfantone, ch'io debba dormir con voi?

rondone.

Ma caro signor gentiluomo senza giuppone, vi dirò: s'io parlo in questa guisa, lo fo solo perché, quando arriviamo tardi a gli alloggiamenti e che perciò sono piene le letta, o che uno per lo meno vòto si ritrova, subito dite: Rondone alla paglia! Vi arricordo che anch'io sono di carne tenerella, vedete.

schiavetto.

Rondone, me n'avvedo, questo è uno andare in infinito. Qui v'è una osteria, e dal di fuori mostra d'essere nel di dentro molto capace; qui senz'altro si averà un buon letto per uno, stattene allegro.

rondone.

Oh? Adesso discorete bene, mentre ne' riposi così mi chiamate, come nelle fatiche. O dall'osteria! olà, o dall'osteria, dico!

SCENA QUARTA

succiola, schiavetto, rondone

succiola.

Oh? che domine sarà cotesto sguaiato? Poss'io morire dalle formiche manucata, s'in quest'otta i' non fo dir di mene! Oh? che gente è cotesta?

schiavetto.

O questa è una bella massarotta! Mi piace, da quello ch'io sono.

succiola.

Saiviastrella col sale, cotesto è un bel colombaccio, non so se vada cercando la fava. Ohimène, come tutta mi ringalluzzo.

rondone.

Uh uh? La cavalaccia ha veduta la biada, non è così, monna Ghita dalle poppe sudice?

succiola.

Do', zoppo spiritato, che ti sia fritto il fegato! Che ha' tu detto? di', sù, scarpello da intagliare i piè di' bue.

rondone.

Meglio era dire, da intagliare i piè di vacca, che con i vostri mi davi occasione di farmi eterno.

schiavetto.

O bel contrasto.

succiola.

Sa' tu, che se non chiudi quella boccaccia fetida che ci cacherò dentro?

rondone.

Do', visaccio da venire a capo, che sì che sì, che ti do il taglio con le pugna?

schiavetto.

Or sù, non più, dich'io!

succiola.

Eh? Lasciate pur che m'uccelli. Vedete, egli l'ha errata a cotesta fiata. I' son da Firenze e ho la lingua arrotata di fresco, dica pure, i' so cicalare quanto lui.

rondone.

E io holla pure or ora arrotata e datole di più il filo con la pietra da olio.

succiola.

Or sù chetati, arrovelato! chetati, sudicio! chetati, baccelone! chetati, popon frasido! chetati, manico di pinco!

rondone.

Oh? Vedi, adesso non ti risponderò, perché non t'ho intesa.

schiavetto.

E madonna, non parlate seco, ch'è così burlevole, ma attendete a me.

succiola.

S'è treschevole fiasi per sé, che, per monna Sandra, se mi fa infantastichire e infreneticare, si sarano raccozzati in mal punto. E credami che averà trovato sonaglio per la sua gatta.

rondone.

O che scommunicati proverbi.

succiola.

Iscomunicato se' tu briccone, nato di becco.

rondone.

O ruffiana poltrona, una pianellata, eh?

succiola.

Che poltrona? To' cotest'altra.

schiavetto.

Ferma, ferma Rondone! Poni giù quella pianella.

succiola.

Lasciatelo pur fare, cotesto bue selvatico. Che non mi stia a stranare, perché del sicuro cotestui la perderae.

schiavetto.

Madonna, se voi lo conosceste, non v'adirereste seco, poi ch'egli è pazzo sperticato.

rondone.

È verissimo. E pazzo pure è un mio fratello. Or ditemi, non darebbe a voi l'animo di cavargli il pazzo dal capo ?

succiola.

Affé, ch'io t'ho per un pazzo vizioso e bene.

rondone.

Tu se' indovina, o furbetta, e che dite, non vi comincia a piacere questo mio umore? Crediate certo che a poco a poco v'entrerà, se vi slargate niente nel dovere.

succiola.

Or sù non piue, l'intendi tu?

schiavetto.

Madonna, crediate che farebbe rallegrar la mestizia istessa, ma mi piace che siete donna, che gli tiene (come si suol dire) il bacile alla barba.

succiola.

Così potess'io tenergli la margherita al guindo ancora.

rondone.

Do', landra sfazzonata, intendo bene il parlar latino, sì?

succiola.

Or sù, non andiamo dietro più a coteste frascherìe.

schiavetto.

Via via, datemi la mano, terminiamo questa lite, entriamo nell'osteria, ché vi prometto, madonna Succiola, che gusto avrete in alloggiare questi virtuosi.

rondone.

Or sù entriamo, entriamo, non si perda il tempo, in grazia io vi chiedo, anch'io rimetto ogni offesa.

succiola.

Or sue, per vostro amore entriamo.

rondone.

O che bello spasso! Per mia fé, ch'io non poteva desiderare il più felice! O ve', che la malinconia non affligerà più Schiavetto? Voglio andare studiando modo novo di onorare costei con nove villanìe.

SCENA QUINTA

fulgenzio

fulgenzio.

Amor mi ha fatto diventar ebreo. In vero colui che disse che l'uomo adirato era simile alla lucerna, la quale, per soverchia abbondanza d'olio, non luce, ma getta fuori delle fiamme, non errò punto; poich'è tanta la trabbocchevole ira, c'ho nel petto, che da gli occhi e dalla bocca quasi getto fiamme d'ardentissimo fuoco. Disprezzarmi? beffarmi e Orazio e Prudenza con tanto gusto di me ridersi? Tollerarla non posso, non che immaginarmela. Spentosi certo questo amore in me si sarebbe, perché alla fine un giusto sdegno ogni gran fuoco ammorza; ma il gusto che prender dovrò, ingannando chi ingannar altri godeva, fa che, stando con il piede in terra, tocchi con la mano il cielo. E fa in uno ch'io vesta questo abito da ebreo, intento solo (quando altro non sia) a viva forza di goder questa sprezzatrice di me, misero amante. Ma ecco uno ebreo. Sarebbe egli giamai Orazio? O non lo voglia benignissimo Amore! Voglio indisparte osservarlo.

SCENA SESTA

scemoel, facchino, e fulgenzio

scemoel.

In effetto fino da fanciullo intese a dire che chi dorme non piglia pesce. Scimison, tu sai che se' stimato il più vituperoso giudeo che sia di qua e di là da i monti Caspi; e di più, dicesi che chi la fa a te, per la Torrà, convien che sia della tribù de' più fini, e come a lo Gohim ho giurato di fraccarla, scappi se può. Affé, che questo signor Alberto ha da passar per queste mani anch'esso, se vorrà spender i zevvin traboccanti; poi che la robba mia, per mirarla, farebbe aprir gli occhi ad un morto. Che di' tu, come pesa questo forziero?

facchino

Che diavolo vi avete dentro? sonovi forse tutte le lucerne delle sinagoghe? o tutti i coltelli della saggattaria? Fate presto, ch'io non posso più.

fulgenzio.

Questi non è Orazio.

scemoel.

O taci, taci, ché di qua vedo che se ne viene il maggior scellerato di tutto il giudaesmo.

SCENA SETTIMA

sensale, ebreo, facchino, scemoel, fulgenzio

sensale

In somma, gli uomini valenti nelle avversità, e non nelle felicità (come disse colui), si conoscono: perché ogn'uno par che giochi bene quando gli dice buono il dado. Io sono (ed è così) il più ruvinato Hiechodì che sia fra tutti li Hiechodì, onde essendomi mancate le facoltà, dato mi sono all'ofizio di Sensale. Vada come vuole, all'ultimo voglio fare un bel tiro, tôr molta roba e legare il paletto.

scemoel.

Oh costui è pure il fino furfante! Vedi come si strugge in pensar mille furberie.

sensale.

Cànchero venga a chi crede più di me a questa razza guidaica, a questi Rabini arrabbiati, pieni di mormorazzione, di falsità, e d'ignoranze (ché pure anch'io sopra la legge ho scartabellato qualche poco). Tutto il dì non conversar con cristiani? né io trovo la più cara conversazione, poiché se non fossero questi, come viveremmo? Non mangiar con cristiani? ne troviamo il maggior gusto. Questi balordi non vogliono sentire nominare la illustrissima carne del signor porco? e io colà corro dove nominar sento braciole, sanguinacci, salami, fegatelli e salciccie. Gli altri, mangiando carne, conviene che stiano un gran pezzo, se mangiar formaggio vogliono, la legge vietando che carne e formaggio insieme mangiar non si possa. E io gusto grandissimo prendo nel brodo di grasso manzo, di buona e tenera vitella, e di vecchi capponi, dove pur sia il grugnetto e il zampetto di porcello giovine, d'attuffare la spugna d'un fresco pane buffetto che fatto quasi Sione, assorba il brodo. E così gonfio di questa quinta essenza manzatica, vitellatica, capponatica e porcatica, far, di più, che sopra gli fiocchi il buon formaggio piacentino, sì che, coperto tutto, sembri un pane di formaggio grattato. Lo vuoi odoroso poi? Recipe polvere di pepe e di canella tantum quantum suffìcit e sarà fatto il becco alla papera di madonna Rosa! O sono bene un vituperoso, se mentre il nostro Rabì è in sinagoga a sbragliare, s'io gli porto sotto il naso e sotto gli occhi questo impiastro da stomaco, non mi fo seguitare fino in piazza. Fummo sempre golosi, noi altri manigoldi, e bene lo narrano le carte antiche. In somma i' mi voglio disgiudeare certo, certo, poiché il vederne così lebbrosi, così fetenti, con così brutti visi, così odiati, così privi di casa, di vitto, di religione, di reame, mi dà a credere che poco, anzi nulla, chi si debbe arricordar di tutti, di noi s'arricordi. Oh? Questa è disciplina de' peccati vostri. Canzoni, è proprio del Cielo aver misericordia e perdonare, come pur veggiamo che ogn'altro nostro enorme peccato ne fu punito sì, ma poi perdonato, e giamai non perdemmo le nostre dignità maggiori, ancor che peccando. Ma ora, che diavolo di peccato è questo, che ne priva di non aver giamai perdono e che di tutte le grandezze ne dispoglia? e poi chi le possede? chi séguita le bibie nostre? i nostri auttori più preclari? Il cristiano. Tal che possumus dicere che se quello ch'è in grazia del principe gode del prencipe i favori, e colui che n'è in disgrazia, de' favori vien privato, da tutta la corte, da tutta la città odiato, anzi dallo Stato sbandito, che così il Cielo, al cristiano, ch'è in grazia, comparta i favori (come pur tanti si vede, che ne gode) e al giudeo, come quello ch'è in disgrazia, i favori levi, facendolo odiar da tutto il mondo. Ma ecco qui miser Scemoel. Chi causa facit miser Simon?

scemoel.

Oh oh? L'è qui sto ganan firsur.

sensale.

Sempre miser Scemoel me becemit, ma pacienza. Voglio pur anch'io vedere di ganavar qual cosa a questo prencipe. Ma ecco miser Leon, che vien con del mamon.

SCENA OTTAVA

leon, scemoel, sensale, facchini

leon

Dica chi vuole. Questa mattina mi sono levato con buona ventura, per avere, a pena vestito, inteso come un principe, ch'è in casa del signor Alberto, vuol comperare delli beghadim, da vestire e lui e la sua corte; ond'io n'ho portato carico questo saballo prima che altri di noi gli venda cosa alcuna, poiché non v'è razza al mondo più invidiosa della giudaica. Ma che vedo? Ecco qui tutta la sinagoga! O che siate maledetti più di quello che siete, razza scomunicata, dannata, indiavolata!

sensale.

Alla fé, messer Leon e, che si' stat molt charif.

scemoel.

Baruchabà miser Leon.

leon.

E voi siate il ben trovato: a non se darne zech fra noi.

scemoel.

Io non son qua, per dar danno ad alcuno; sono anch'io qui per far bene, ma dov'è questo Sensale ci arriva la mala fortuna o arur abà.

sensale.

Sempre, sempre miser Leon, me perseguitite, chi causa ve hai fat io?

leon.

Io burlo, io burlo. Po' non si può infine scherzar teco. Orsù, andiamo dal signor Alberto prima che altri vengo a sturbarci. O venga il canchero a Caìn! Vedete che di qua viene, con quattro facchini carichi di robba.

scemoel.

Dov'è dov'è?

sensale.

Vedilo bacan, che vien.

leon.

Per la Torrà, che costui ne darà nezech.

scemoel.

Il Ciel ne dia buon mazàl a giom.

SCENA NONA

caino, con quattro facchini, scemoel, leon, sensale, fulgenzio, e duo altri fachini

caino.

Affé, che questo giorno il topo dovrà correre al lardo! Dica chi vuole, ogn'uno dice: «Siete avaro miser Caino, giamai non volete vender le cose vostre, se non vi sono strapagate, e ciò v'interviene perché avete la sacca di buone piastre, da mantenervi su questo proposito; ma un giorno, un giorno la robba vi si marcirà in bottega!». Ma dirò come dice quello: in tuchal dice la quaglia. O vediamo un poco se la robba s'è marcita in bottega! Ho toccato poco fa dinari freschi, e ora ne toccherò de gli altri. Uh, uh? L'è qui questi mischadin che non han mammon tov, seno chinochem.

leon.

Bondì a vostra manalà! Siamo qui ancora noi, per far bene, se la ne potrà aiutare ne farà favore, poich'ella tanto bisogno non ha, come noi; però ne favorisca che prima gli mostriamo le nostre robbe.

caino.

Io mi contento figlioli, fate bene, ch'io vi do campofranco.

fulgenzio.

Adesso è tempo ch'io mi cacci fra la turba; ma non sapendo parlare ebraico fingerò il mutolo.

Ba, ba ba, ba?

leon.

Questo è muto e ne saluta, per quanto ne dimostra il gesto cortese; e di più convien che sia forestiero, non l'avendo qui giamai in Pesaro veduto.

sensale.

Lasciate, ch'io l'intenderò, c'ho lingua muta, e in quel linguaggio parlo molto bene.

caino.

Tu mi vuoi far ridere; che lingua muta?

sensale.

Che lingua muta? O state a sentire. Be, be, be, be? Vedete voi, costui, co'l suo ba ba ba ba, n'ha detto buon dì a tutti e io, co'l mio be, be, be, be, gli ho detto che tutti noi gli rendiamo il buon giorno.

scemoel.

Bene, per la Torrà, séguita, séguita, io stupisco di simil cosa.

leon.

E io.

fulgenzio.

Barau, babbù; gnaù, gnargnaù, gnaù gnaù?

sensale.

Oh? Vedete, questa è mo lingua gattesina, con la mutosina mescolata.

caino.

E come gli risponderai? Eh, eh, eh.

sensale.

Non ridete, perché la cosa va così.

leon.

Ma come risponderai?

sensale.

O vi dirò: a questa lingua gattesina, risponderò con lingua sorzolina. Ma sapete voi quello che gattesinescamente, e mutescamente, ha detto? Vuoi che lo dica, muto? Bene, non intende questo linguaggio, e vedete che non s'è mosso, né ha risposto. Aspettate, che gle lo dirò. Barabam, barabam, bi, be, ba?

fulgenzio.

Fi, fe, fo, fu.

sensale.

Dice di sì, che ve lo dica.

fulgenzio.

Qua qui, quara, qui, qua, que qui?

sensale.

Di più, dice che vorrebbe vendere anch'egli, poiché se, per fare il mercante, ha perduto in man di Turchi la lingua, vuole anche, mercantando, perder la vita.

caino.

Tu mi fa stuppire, né so chi t'abbia insegnata questa lingua.

sensale.

Chi me l'ha insegnata? Un muto, che teneva scuola in questa lingua.

leon.

Or sù, muto, si contentiamo che tu facci bene. Ma a che dimena il capo?

sensale.

Se vi dissi che non intende, se non il mio linguaggio?

O questa è bella, io non so che mi dica, e costui m'intende.

Lasciate fare a me. Nebi, nebe, be, be? Vedete, che china il capo?

O cànchero, questa è bella! Non volendo io parlo muto.

Or sù: stipin, bipin, ripin? Ho detto che stia cheto.

fulgenzio.

Rispin, rispin.

sensale.

Sentite? Dice che tacerà. Or che dite, non sono un gran valent'uomo?

caino.

Tu n'hai fatto tutti stupire, e vogliosi di questa lingua mutesina, gattesina e sorzolina.

SCENA DECIMA

orazio, sensale, caino, leon, scemoel, fulgenzio, sei facchini

orazio.

Eccoti Orazio formato in ebreo.O corpo del mondo, è qui tutta la turba israelittica.

caino.

Ma chi è costui?

orazio.

Bisogna far buon cuore. Ma se mi parlano in ebraico sono spedito. Farò il muto. Ba, be, bi, bo, bu?

sensale.

Biribi, be, be.

fulgenzio.

Ba, be, bu.

orazio.

Ba be, ba be.

sensale.

Bif, bif, bif.

caino.

Uh, uh? Finiamola, se un terzo tra voi s'appiccia, mai più non si finisce. O di casa? Signor Alberto, gli Ebrei, gli Ebrei, con bellissime cose.

sensale.

Lasciate, chè 'l nuovo muto vuol battere a casa.

scemoel.

Batti, batti.

orazio.

Nacà, nacà, nacà.

sensale.

Vedete, nacà nacà vuol dire: o dalla casa? Ma ecco gente. Or sù, questo è 'l signore, guarda che umore, ed è così ricco e nobile.

SCENA UNDECIMA

nottola, rampino, paggio, paggi, orazio, fulgenzio, sensale, leon, scemoel, caino, e sei fachini

nottola.

Olà, Rampino, domanda chi sono costoro, e poni colà quello scagno, ch'io voglio sedere per dar loro udienza; in ogni modo questa contrada è molto remota e tutti appunto su quest'ora intenti al desinare sono.

rampino.

Siete voi quegli Ebrei venuti per vestire il mio signore?

caino.

Signor sì.

rampino.

Aspettate. Signore, questi sono gli Ebrei venuti per conto suo.

nottola.

Sì? Fatti innanzi tu.

leon.

Eccomi signore, che con ogni riverenza le m'inchino.

nottola.

Com'è 'l tuo nome?

leon.

Leone.

nottola.

Re delle bestie, non è così?

leon.

Eh, so che vostra eccellenza burla.

nottola.

Che robba è questa, mostra un poco. Apri la cassa e getta qui ogni cosa.

leon.

Oh signore, vuole ch'io imbratti la robba?

nottola.

Do', furfante.

leon.

O signore, un mustaccione! Che vi feci?

nottola.

Ti farò ammazzare, ve' furfante, se tu non mi ubidisce. Getta lì quella robba.

rampino.

Fa' presto, mastino, ché ti amazzo con le pugna, ve'? Fa' presto, presto, presto.

leon.

Adesso, signore?

caino.

O siamo intricati.

nottola.

Eh? Questa è robba da buon mercato, lasciela così in terra.

leon.

Ve la lascio signore.

nottola.

Tu come ti chiami?

scemoel.

Scemoel, Scemoel.

nottola.

Che?

scemoel.

Simon.

nottola.

Do', razza di becco, e non sapevi così dirmi alla prima, senza in Scemescionarmela? Vien qui; getta la tua robba qui ancor tu, e ve' non replicar parola, ché ti farò dar delle staffilate a cul nudo da cavaliere.

scemoel.

No no, signore, non voglio staffilate, così il Rabì nostro non commanda.

nottola.

O vedi Lione, questo è galantuomo.

rampino.

Oh? Questo non è ebreo tanto ostinato. Ancor fra questi panni v'è poco di buono, lascia qui ancor tu.

nottola.

E tu che nome hai?

caino.

Ho nome Caino, e il signor Alberto hammi da sua eccellenza illustrissima mandato poiché quello sono, che serve la sua casa; e questi quattro facchini sono carichi tutti di mia robba; ma perché ell'è robba di molto rispetto, supplicola con le ginocchia a terra a non la far gettar per terra, ma farmi grazia di vederla in casa.

nottola.

Leva su, bacia questa mano, bacia quest'altra. Oh? Retìrati sei passi a dietro. Vedete, canaglia, così si procede. Caino ?

caino.

Mio signore.

nottola.

Entra meco, con i tuoi facchini, in casa. E voi, paggi, e tu Rampino, per l'affronto che questa canaglia m'ha fatto in portar robba sì vile, per vestir prìncipi e corte così nobile, abbotinate, ché tutto vi dono, e dalla finestra vado a vedere il tutto.

paggio.

A Ebrei traditori! Addosso, compagni.

scemoel.

Fermatevi! A questa foggia?

rampino.

Sta' indietro furfante.

sensale.

Ah traditori.

grillo.

Giudeo ladro, sta' indietro.

leon.

Lasciate questa robba.

sensale.

Aiuto, aiuto, aiuto.

paggio.

To' questi pugni.

sensale.

Tu questi.

rampino.

Tu questi.

scemoel.

Tu pur questi.

nottola.

O bella scaramuccia! Ah valent'uomini, così, così! menate delle mani, o così, o così! corri, corri, dalli, dalli, poltrone! o robba saccheggiata, come tutti se la stracciano dalle mani! In casa, in casa, in casa.

rampino.

Vittoria, vittoria, vittoria! Sù, tutti cridate: vittoria, vittoria, vittoria!

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

alberto

alberto.

O com'è vero il detto del savio, quando disse che quanto più l'uomo dalla felicità si crede lontano, allora con passo improviso si vede entrato in quella. E io ho pur veduto che molte navi, scorrendo felicemente per l'alto mare, ruppero poi e abissarono nell'entrare di sicuro porto, e altre, sdrucite e agitate dall'onde, sicure alla fine al porto si condussero. Che più? Faggio, pino, cipresso, percosso dal folgore, quasi incenerito ne rimase, e pure in breve si ritornò a rivestire de' suoi frondosi onori. Alfine concludo che intervengono più presto le cose disperate che le sperate. E di qui vedi ancor tu, o Alberto, come ti s'è offerta la ventura di questo prencipe incognito, il quale non solo t'ha da far del bene per istarte in casa, ma perché, forse forse, tu potresti pettargli alle spalle Prudenza per moglie. Oh lo volesse il Cielo! Allora sì, che tutti saluterebbero, e meco parlando, ad ogni ora e tenendo il cappello in mano, ci caccierebbero l'illustrissimo signor sì e l'illustrissimo signor no, per far più sonora la musica. Altra volta fu detto che la vera nobiltà da virtù dipendeva, e l'altre cose tutte dalla fortuna; altra volta si disse che la nobiltà non debbe esser considerata dal sangue, ma da i costumi, e che la vera nobiltà non da l'altrui splendore si riceve, ma con la propria fatica virtuosa, mentre operando s'acquista. Ma ogni età ha 'l suo costume; adesso non è così: chi ha più quattrini, quello è più nobile. Ed è pur vero, ché alcuna fiata i' sento ad un tale ignorante dar dell'illustrissimo perché ha quattro quattrinnucci, che mi fa crepar dalle risa, ricordandomi che l'altro giorno lo vidi andar mendicando il solo messere. Orsù Alberto, segui il costume del mondo immondo! Appìgliati pure al quattrino, poi che, per dire il vero, rallegra più uno scrittoio di doble mal tondate, che la più bella libreria del mondo. Riprèndanmi pur questi sciocchi dicendo: «Alberto, marita la figliola! Che vuoi tu fare? Stai troppo!». O goffi, guardino un poco; questo è il colpo, che per sé tiene ogni buono schermitore: maritarla senza dote era il mio disegno, ed ecco che vicino sono a far che la cosa riuscisca. Rimane solo ch'io disponga la figliola, la quale mi credo che in rimirare il suo bene non sarà cieca talpa.

SCENA SECONDA

prudenza, alberto, caino

prudenza.

Appunto, signor padre, io la desiderava. E che vuol dire che tanto sta a far ritorno a casa? Pur sa che sono fanciulla, e pur non gli è celato che, in oltre, questo principe ha tanta ciurma da galea in casa ancora. Consola la presenza del padre il figliolo in quella guisa, che consola il mondo il sole, quando, la caligine fugando, luminoso appare. Se dunque non brama di veder sempre la sua figlia tra mille orrori di strane congetture sommersa, torni spesse volte a rallegrarla con la luminosa sua paterna fronte.

alberto.

Se rallegra la fronte del padre il figliolo, in quella guisa che 'l sole il mondo consola, quando avviene che fra densa caligene involto ei sia; consola parimente la vista del figliolo l'occhio del padre, in quella guisa che il lume in non lontano porto rallegrar suole nocchiero, che naufrago vada portato dall'onde, or dal feretro al sepolcro, né io senza te contento vivo. Ma le gravi occupazioni, nelle quali hammi posto questo principe, hanno cagionato che prima non ho potuto da te far ritorno. Ma dimmi, non venne Caino, nostro ebreo? non ha egli portato (come m'è stato detto) cose bellissime?

prudenza.

Venne signor sì. Ma già non venne il mio caro Orazio. Ma di più seco venne, eziandio, una gran turba d'altri Ebrei, chi con delle sacca piene di robba, e chi con delle casse. Ecco appunto Caino ch'esce di casa, con quattro facchini.

caino.

Che dite voi galant'uomini, o non è la stessa cortesia, questo principe?

facchino.

Egli è amorevolissimo, e ben ve lo narra quel gran borsone di doble, che avete fatto traboccante.

alberto.

Messer Caino? Alfine, è bene avere amici. Se voi non eravate amico d'Alberto, non empievate del più nobile metallo quel bel borsellone, o come pesa!

caino.

Per voi, signor Alberto, ho questo bene per voi. Mirate qua, coteste quattro sacca piene piene si sono convertite in questo borsellotto solo!

alberto.

Così fanno i buoni distillatori, da un fascio di robba ne traggono una sola stilla preziosa. Or sù, andate alle faccende, Caino.

caino.

Vostro, signor Alberto; voglio andare or ora a cercar tra certe mie belle cosette, per fare un regalo alla vostra signora figliola.

alberto.

D'un arbore feconda, caro è altrui di godere la fronda, il fiore, il frutto; sì che porti Caino o poco, o assai, che dalla sua mano venendo non potrà se non esser gratissimo, anzi che appresso di noi convertirassi la fronda in fiore, il ramo in frutto.

caino.

Di questa lode godo più che di questo borsone d'oro.

FACHINO

È bene un porco, chi te lo crede.

caino.

Addio.

alberto.

Andate felice e siate di presto ritorno, né già questo dico perché avaro io sia, e se pure avaro, avaro di rivedervi. Appunto, amata figliola, solo spirito di questo cuore, solo cuore di questo petto, e solo occhio di questa fronte, io bramava lontano da ogni altro orecchio raggionarti. Dimmi, non ti par egli tempo oggi mai d'essere fatta la sposa?

prudenza.

Certo, signor padre.

alberto.

No no, non parlare co 'l dimenarti, ma con la lingua; non lo tacere, ché il tutto al medico e al padre dir si debbe, non l'averesti caro?

prudenza.

Signor sì io.

alberto.

E in particolare poi, quando io t'avessi proveduto d'un ricco signore, non è così?

prudenza.

Oh cuore, che mi predici di male? Certo, che vuol egli parlarmi di questo principe.

alberto.

No no, non parlar da te, parla pur meco; dillo a chi più d'ogn'altro al tuo bene aspira.

prudenza.

Dirolli, padre e mio signore. Quando pur maritar mi dovessi, tôrrei più tosto un giovine dotto, e con poca robba, che un ricco molto di dinari, e povero di sapere.

Affé, s'egli parla del prencipe, e io parlerò di Orazio.

alberto.

Piacemi questa grave risposta in non grave età, da quella iscorgendosi che tu leggendo hai immitato nelle virtù tuo padre. Ma sappi, amata figliola, che interogato Simonide poeta che cosa egli volesse più tosto, ricchezza o sapienza, rispose: «Io non lo so certamente, ma veggio i savi sempre appo le porte de' ricchi».

prudenza.

Non so io. Anacreonte pure, avendo avuto in dono da Olicrate cinque talenti, ed essendo stato senza dormire due notti cogitabondo di che far ne dovesse, riportò i cinque talenti, dicendo: «Prendi, signore, ché non sono questi dinari di così gran pregio, ch'io debba essere per colpa d'essi molestato nella mente e ne gli occhi». E se i virtuosi stanno alle porte de' ricchi, non istanno per entrare, ma per uscire, poi che Diogine disse la virtù non potere abitare in case ricche.

alberto.

Figliola, chètati. I danari tra' mortali sono sangue e anima; e chi non ne ha, morto tra i vivi camina. Odi Euripide, quando parlando con suo padre dice: «Deh, per Dio, non mi parlate di nobiltà, perché certo cotesta è posta nelle ricchezze, lasciatemi l'oro in casa, e di servo incontanente diverrò nobile».

prudenza.

Signor padre, crediatemi, che la vita del ricco è misera, e le troppe ricchezze sono come i timoni delle gran navi poste alle picciole barche, i quali non le possono governare; sì che le ricchezze più tosto ruvinano, che aiutino. Guardi una pianta che, per esser troppo carica e ricca di frutti, per la troppa fertilità piegando i rami a terra tutta s'incurva, e spezza.

alberto.

Or sù, terminiamoli. Io non so come la ricchezza ruvini, pare a me che un ruvinato sollevi; e che i dinari trovino amici infiniti, e sedie appresso gl'istessi regi. Né più qui facciamo il buon pedagogo e tu la buona discepola.

prudenza.

Di grazia, dunque, veniamo alla cagione principale, che ci ha fatto movere questo ragionamento. Qual'è? E a che fine fu detto di sposo meco?

alberto.

Già ti dissi, che era per maritarti; e perché più facilmente ti disponessi a giovare a te stessa e a me dar gusto, ti lodai la ricchezza, per dirti poi che 'l tuo consorte è 'l più ricco che sia in questa città. E sai chi è?

prudenza.

Certo no signore.

Lassa, ben lo indovina il cuore.

alberto.

Questi è quel principe, ch'è in casa nostra. Or non ti pare che la fortuna ti sia favorevole?

prudenza.

Certo sì signore, ma allora si debbe temer la fortuna, ch'ella ci mostra giocondo il volto.

alberto.

Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce, disse colui, e fortunatissima chi sua fortuna conosce.

prudenza.

S'arricordi, o caro padre, che quel savio Apelle, pittore ateniese, essendo interrogato per qual cagione aveva dipinta la fortuna in piedi, che egli rispose: «Perché ella non sa sedere». Non si fidi della fortuna e credami che perde il cervello chi troppo è dalla fortuna accarezzato; e più saper conviene ch'ella è detta rea, superba, temeraria e audace.

alberto.

Tutto bene, per uno che voglia dir male della fortuna. Ma Curzio istorico, che ne vuol dir bene, disse: «Chi rifiuta la sua fortuna è degno d'ogni male». Sì che acquètati, né parlar più, ché dove tu cerchi di dimostrarti virtuosa, tu non fossi reputata baldanzosa; e sappi che la natura due orecchie ne dette e una sola lingua, perché più dovessimo udire che parlare.

prudenza.

Padre, m'acqueto.

alberto.

Ma ecco appunto i paggi, e altri superbamente vestiti. A questi abbagliamenti d'oro, o come tutto mi consolo.

SCENA TERZA

grillo, cicala, corte, alberto, prudenza

grillo.

Signore Alberto? signora Prudenza? Slargatevi, ché 'l signore vuole pigliare un poco d'aria. Cicala, fa' porre qui la seggiola.

cicala.

Ecco qua la carriega del signore. È spazata e lucente?

grillo.

Oh? Così sta bene. Sù, che si vada a tôrne un'altra per la signora.

prudenza.

E che, non occorre, bel paggetto.

alberto.

Lascia che faccino tutto quello che vogliono, così debbe esser espresso volere del loro principe.

grillo.

Il signor Alberto l'intende; so ben io quello che n'ha imposto il signore sotto pena di sferzate e della disgrazia sua. Càppari, signor Alberto, è bella questa vostra figliola.

alberto.

Ti piace?

grillo.

Se mi piace? Sono un furfante, se Grillo non si contentasse cantando di morirle su 'l buco.

prudenza.

Oh? Signor padre, sentite, sentite, che cosaccie dice questo furbetto.

grillo.

Perdonatemi, signora, perché sono così allegruccio di natura; e ho detto così per farla ridere, vedendola stare tanto di malavoglia.

SCENA QUARTA

rampino, grillo, paggio, paggi, alberto, prudenza

rampino.

Ti colsi eh? To' questo.

grillo.

Ohimè, che scopelotto, ohimè ch'io sono balordo.

alberto.

Povero Grillo, io ti tengo, io ti tengo.

rampino.

Furfante, furfante, e così si serve il signore? E forse, che non l'ha fatto maggiore sopra gli altri paggi?

grillo.

V'è passata la collera ancora, signore?

alberto.

Sì sì, gli è passata; sta allegro.

rampino.

M'è passata; ma stupisco come t'ho fatto tanto male, se non sono state queste grosse anella d'oro, che più del solito m'abbiano fatto la mano pesante.

grillo.

O siete pur buono signor maggiordomo, se vi credete di farla a Grillo. Venghi pur uno e me pisci nel buco, per vedere s'io sono nella tana, ché per questo non darò fuora. Credete voi di avermi fatto male? Signor no, ma perch'io stimava che con voi aveste un pezzo di legno e doppo lo scopelottare mi voleste anche bastonare, ho fatto quella finta per movervi a pietade. O che gle l'ho fraccata! Dalli, dalli, dalli!

alberto.

Che tristerello! Or sù, signor maggiordomo, questa è facezia e se li può comportare, anzi che per quella dee molto Grillo meritare.

rampino.

Per amore del signor Alberto, accetto la furberia per galanteria, e vi perdono.

grillo.

Ha fatto bene a perdonarmi, perché s'ella non mi perdonava, da me perdonar mi voleva. O ecco l'altra carriega. Da' qui, ponla qui. Oh? Qui voi, visetto di rosa, dovrete sentare.

rampino.

Che dite signor Alberto?

alberto.

Mi piace, ch'egli è tutto spiritoso.

grillo.

A signora, m'è stato detto che avete le labbra di mèle. Voi sapete che i putti delle cose dolci sono golosi, mi volete far grazia, ch'io le dia due leccatelle?

alberto.

O buono, o buono, o buono! Ridi, Prudenza, non vedi se per far rider te farebbe ridere la mestizia istessa?

prudenza.

Signor padre, queste cose punto punto non mi ponno movere a riso, ma a collera.

rampino.

Cheti. Signora ecco la corte, viene il principe, del sicuro.

SCENA QUINTA

nottola, cicala, corte, rampino, grillo, alberto, prudenza

nottola.

Paggi, immaginatevi ch'io sia un cielo, nel cielo vi è il sole, ch'è giallo, e la luna, ch'è bianca. Dal cielo nè il sole nè la luna giamai si partono, similmente voi altri da me non v'allontanate giamai, ma l'uno alla destra, l'altro alla sinistra mi stia, con queste due sottocoppe grandi, larghe e pesanti. L'un sarà il tondo del sole, e sarà questa dove sono gli scudi d'oro, l'altra sarà il tondo della luna, e sarà questa con tanta moneta d'argento.

alberto.

All'eccellenza sua umilmente a terra si china Alberto, suo devotissimo servo.

nottola.

O miser Alberto nostro, vi vogliamo fare una grazia.

alberto.

E che, signore?

nottola.

Che mi veniate a dar da sedere. Via, presto, camminate.

alberto.

Eccomi signore. Sua eccellenza lasci ch'io la stropicci un poco.

nottola.

Basta, basta, che in ogni modo noi portiamo un vestimento se non un giorno solo. Rampino?

rampino.

Eccomi umile e riverente, signore.

nottola.

Da' da sedere alla signora Prudenza, che voglio che mi stia appresso.

alberto.

Tanto alto luogo non merita, o mio signore (e mi perdoni) così bassa serva.

nottola.

Vogliamo così perché possiamo, possiamo perché vogliamo, e il volere e il potere è al piacere congiunto; sì che vogliamo perché ne diletta e piace.

alberto.

Sù, dunque, fa' una bella riverenza e siedi.

nottola.

Sedete sedete, signora Prudenza, non abbiate rispetto; sù, cavatevi il guanto, datemi la mano in mano. O signor Alberto, che modo di procedere è questo? che muso storto mi fa la vostra figliola? non si vuol cavare il guanto? Al cospettaccio della mia generosità, ch'io le fo tagliar quella mano! Potta, rinego, al cospetto, se me la fa attaccare.

alberto.

Càvati quel guanto! Oh mio signore, le rimembri ch'è verginella ancora e solo avezza ad ubbidire i commandi paterni.

nottola.

Prudenza, ditemi: non vi dispiace già di sedermi appresso, non è così?

prudenza.

Signor no.

nottola.

Eh? Un eccellentissimo avanti quel signor no, non averebbe detto male; ché quel signor no così solo è un poco languido, ma con quell'eccellentissimo signor no, oh come diceva buono.

prudenza.

Eccellentissimo signor no.

nottola.

Oh? Adesso avete cervello. O pigliate, ché per levarvi da quelle tenebre d'errori, che vi fece errare, vi dono un gran pugno di luce, ch'ora dal mio sole io levo.

alberto.

Se gli errori di mia figlia debbono esser corretti con questi flagelli, poss'ella sempre errare.

nottola.

Sì? Ma voi non l'intendete; come più di due fiate uno dei miei erra, io li fo tagliar la testa. Vedete, signora, io sono il più dolce pastone che con zucchero e mèle fosse giamai impastato, ma quando m'incollero poi, divento una serpe. Baciatemi questa mano.

prudenza.

Ecco, signore.

nottola.

Un'altra volta; un'altra volta pigliate queste due brancate di luna, pigliate pure questo piccicotto di sole.

alberto.

O me contentissimo, potrò ben dire, signor principe, che per sempre dovrò godere eterno giorno, se di tanti raggi, e di luna e di sole, sua eccellenza illumina le tenebre della povertà mia.

nottola.

Signora. Volete voi che appieno vi faccia signora e della mia luna e del mio sole?

prudenza.

Ohimè. Che a tanta luce confusa io non rimanga poi, mio signore; pure porga la mano, quello che alla mano offre il generoso suo core.

nottola.

Chiudete gli occhi, o così.

alberto.

Signore?

prudenza.

Olà, un bacio?

nottola.

Dirolle. Per fare che il sole e la luna abbiano sempre da stare con eterna pace con voi, gli ho per sicurtà posto questo bacio di mezo.

alberto.

Oh figliola, ha fatto molto bene.

prudenza.

S'è così, sole e luna, m'acqueto.

nottola.

Or prendete e la luna e il sole.

prudenza.

Caro signor padre, non ho grembo per tanto lucido tesoro.

nottola.

Or sù. Oggi intendiamo, per far che il giorno sii solenne, di conceder grazie; però s'alcuno v'è di quelle voglioso, sia, parli, chieda. Fate vento canaglia, che vi fo scorticar vivi, vivi, e così scorticati vorrò che per penitenza mi facciate vento con le vostre pelli, vedete. Ma che vuol dire, signor Alberto, che a questo suono di chieder grazie tutto bullicate? Volete forse alcuna cosa? Volete forse ch'io vi faccia far vento con le mie ventaiole? Andate là, presto, servitelo.

alberto.

No no signore, fermatevi paggi, non voglio vento.

nottola.

Fate vento a me. Che volete? Dite presto, ché mi vien sonno. Dite pure, ché ben che si riposiamo sopra questa mano, vi sentiremo però.

alberto.

O caro signor maggiordomo, debbe io tacere o parlare? Mi pare che gli occhi abbia agravati di sonno.

prudenza.

Uh? Signor padre, sentite come sornacchia forte, mi fa paura. Caro signore?

alberto.

Sta' cheta, ché si desta.

nottola.

Seguitate signor Alberto, da gentiluomo, ch'io ho sonno. E voi, canaglia, mentre parla il signor Alberto, non isputate meno, acciò ch'io possa ascoltarlo bene. Dite signor Alberto, che non dormo no, ben ch'io m'appoggi alquanto alla sedia; questo è costume di tutte le persone grandi, doppo che hanno desinato, di star così stravaccate.

alberto.

Questa sera sua eccellenza starà meglio, e quello che madonna Succiola doveva far per desinare, servirà per la cena, poi che l'ora è tarda e l'eccellenza sua s'è compiaciuta solo d'una poca di colazioncella da me fattale. Ora signore... Ma mi par che dorma al sicuro, s'io pur non erro.

rampino.

Eh? Non dorme no, sente bene sì, parlate pure.

alberto.

Non sente, vostra signorìa, che gli è tornato il sornacchio? Aiuto, aiuto, cade!

nottola.

O poverino me, o servitori infedeli, a seguaci traditori, a cotesta foggia lasciar cader la nobiltà? Ohimè questo fianco! Ohimè, ohimè! A Rampino, così eh? così mi custodisci?

rampino.

Mi scusi, e m'interceda il perdono l'aver sua eccellenza detto che non dormiva.

nottola.

È così, signora Prudenza? Hollo detto?

prudenza.

Sì signore.

nottola.

Sia perdonato a tutti. Or torno a sedere, né più ho sonno, poiché la caduta giù della seggiola hammi cavato il sonno dal capo. Che volete signor Alberto? Vedete, in quattro parole chiedetelo, se non, m'addormento.

alberto.

Vorrei.

nottola.

Una.

alberto.

Prudenza.

nottola.

Due.

alberto.

Sua.

nottola.

Tre.

alberto.

Sposa.

nottola.

E quattro. Io mi contento, ecco le tocco la mano; e le fo contradote di tre milioni d'oro, d'un sacco di perle, e d'uno staio di diamanti. Andiamo a consumare il matrimonio.

prudenza.

Signor padre, signor padre, aiuto, aiuto.

alberto.

Signor gennero, e che fa?

nottola.

Che padre, che genero? Ora m'è venuto voglia di matrimoniare e voglio matrimoniare, al sicuro.

alberto.

Eh, caro signore, per amor del vulgo, in grazia, prima si vada al palazzo, e poi al letto.

nottola.

Da vero sposo, e da illustrissimo cavaliere, che avete ragione. Or sù, mi si scusi, andiamo al palazzo.

prudenza.

O me misera, o Orazio mio.

nottola.

Vi accettiamo per nostro amato suocero; e più non vi si chiami con quel nome umile d'Alberto schietto, ma del signor conte Alberto, e noi vi doniamo la contea, la quale ora è in potere del Gran Turco, ma gle la piglieremo bene fra poco.

alberto.

Pur troppo sono signore essendo servo di sua eccellenza e la mia figlia è serva e sposa.

nottola.

Fatevi in qua; lasciate ch'io vi cinga questa spada. O così, cacciate la mano, ponetela dentro, slacciatela da voi, baciate il pomolo, inginocchiatevi, dàtemela, siete creato conte. Gridisi viva Alberto conte.

rampino.

Sù tutti cridate: viva Alberto conte! viva Alberto conte!

nottola.

Levatevi in piè, fate una riverenza in giro, copritevi. Oh? Ora siete ordinato conte.

SCENA SESTA

succiola, nottola, cicala, grillo, corte, rampino, alberto, prudenza

succiola.

O corpo di santanulla, or vedi se amore ha ritrovata la via di fare uscire la lucertola fuora della fessura? Vedi, vedi dico, come m'ha fatto incapriccire e imbestialire di quel bello schiavottolo. Ho a cotestui promesso di far aver licenza di salire in banco, e voglio farlo, per esser quella io, che lava e' panni sudici quasi di tutta la Corte.

nottola.

Dove, dove così in fretta, madonna Succiola?

succiola.

Oh? I' vado con cotesto panerino d'acque nanfe, di pallottole da lavar le mani e di moscardini, al signor governatore, per dargnelo in dono, acciò che si contenti di dar licenza a' duo schiavi, c'ho in casa, di salire in banco; e l'otterrò di sicuro, a cotesto signore facendo il bucato, né altro avendo che Succiola, per bucataia.

nottola.

Accòstati; lascia vedere il presentino.

succiola.

È ben buona robba. Fiuti, e rifiuti pure, ché non ha fieto alcuno.

nottola.

Oibò, che cosa fetente! e quest'altra? peggio. Questa? questa? infine, tutte sono lo stesso.

succiola.

O signore, e che vuole, che cotestoro mi diano delle busse? Sono poverini, e 'l Cielo sa, se hanno altretanti quattrini come quelli che hanno ispeso in far coteste galanterie, che sua eccellenza gettando a terra ha rotte.

nottola.

Che parlare è questo? che ho ruvinato? O to' questa cestellata, corpo del corpo della mia nobilissima madre se non fosse.

succiola.

Fui iscema, lo confesso, perdonatemi. Or sue, non lo dirò piue, ho errato, confessolo, perdonisi.

nottola.

Chiama questi schiavi. Sù presto, moviti, se non, che ti fo bastonare con cento verghe d'oro.

succiola.

Ecco, i' volo, i' chiamo. Schiavetto, Schiavetto, Rondone, Rondone! Schiavetto, fuora, fuora! Presto, presto, presto!

nottola.

E come, uno di costoro ha nome Rondone? O che ridicoloso nome! Certo, certo costui ne farà ridere tanto, tanto, tanto; già incominciò. Eh, eh, eh, o che ridere, ohimè, ohimè, dite che non mi faccia più ridere, ohimè, ohimè, ohimè!

succiola.

Vuole che si chiami?

nottola.

Sì dico, presto, ché lo voglio vedere, presto, ché mi torna la ridaruola.

succiola.

O Rondone, non senti eh? Dove domine se' tu ficcato, ne' buchi de' campanili? Voglio entrare e farlo uscire.

nottola.

Fa' che venga or ora. Ohimè, un'ora mi pare un anno, che costui venga, tanto ho voglia di vederlo.

SCENA SETTIMA

rondone, succiola, nottola, cicala, grillo, corte, rampino, alberto, prudenza

rondone.

Uh uh? E che dischene sarà con questo Rondone? che vuoi? chi mi vuole?

nottola.

E questo è Rondone? Da gentiluomo, che mi piace! O che bello e ridicoloso Rondone, eh, eh, eh.

rondone.

E che diavolo ha costui?

succiola.

Chètati, chètati, cotesto è un principe, vedi.

nottola.

Oh? Non mi era di più accorto: Rondone è zoppo ancora.

E che, t'hanno voluto cogliere al laccio, che se' storpiato?

rondone.

Eh messere, gli uccellatori solo a gli uccelli grossi uccellano con il laccio, e non a i piccoli.

nottola.

O che becco cornuto! Questa viene a me del sicuro, buono, buono, buono.

rondone.

Do', gobbo boia, tu non fa' altro che riderti di me? e che hai nella gola?

rampino.

Che l'ammazzi signore.

rondone.

Che ammazzare? Son io una pecora, razza di becchi?

nottola.

Lasciatelo stare, ch'è il mio spasso. O come m'ha piaciuto quel dirmi razza di becco!

rondone.

O piàcciati, o non piàcciati, non ho paura d'esser da costui ammazzato.

nottola.

E perché?

rondone.

Che giorno è oggi?

nottola.

Che proposito, bisogna ben tanto ridere, eh, eh, eh, eh.

alberto.

E sua eccellenza non va in collera di coteste parole vituperose?

nottola.

Si vede bene che non sapete che siano persone grandi: questo è 'l nostro gusto, in farci così dir villanìa, perché sì come non può essere quello che costoro dicono, così ne ridiamo. E più cresce in noi il riso in veggendo che quanto più le villanìe a noi si disconvenghino, ch'uno poi sia tanto sciocco, che non lo conoscendo dica cose tanto allo stato sproporzionate, sì che stimandolo pazzo (come pazzo sarebbe chi dicesse, per far onta al sole, ch'egli sia oscuro) per questa cagione ne fa ridere, e straridere.

rampino.

In effetto i grandi sono grandi per più capi: grandi perché nascono grandi per nobiltà, per tesoro e per sapere. Che risposta è stata quella, eh?

rondone.

Tanto che vi piace esser caricato di villanìa?

nottola.

Sì, da' pari tuoi.

rondone.

Eh? Io vuo' anche, per uomo tanto ridicoloso, che per ridere tollerereste che vi fosse ancora detto villanìa da un commune di villani.

nottola.

O questo no, da gentiluomo.

rondone.

Eh, non bestemmiate! Voi gentiluomo? Di tali gentiluomini abbonda l'ospitale ancor de gli Incurabili.

nottola.

O che furfante, eh, eh, eh, ohimè, mi scoppia la vescica! Un orinale, presto, presto, presto! Non farete a tempo. Or sù, con licenza, piscierò qui io a questo muro.

alberto.

O che signore ridicoloso.

rondone.

Di' pur vituperoso, ché dirai meglio. Non ho veduto mai il più porco io.

nottola.

Che cosa ha detto? Rampino, dillo.

rampino.

Il signor Alberto ha detto che sua eccellenza è un signor ridicoloso.

nottola.

E che ha detto Rondone a quel ridicoloso?

rampino.

Che sua eccellenza è un signor vituperoso, e che non ha giamai veduto il maggior porco.

nottola.

Porco? Tu sta' meco. Voglio ora accoppiare il porco e l'asino in una sola stalla.

rondone.

Durerete fatica.

nottola.

Perché?

rondone.

Sono un asino spiritato, tiro calci a tutti.

alberto.

Ferma.

rampino.

Non fare.

nottola.

O buono.

grillo.

Ohimè.

nottola.

Va' dietro.

cicala.

O traditore.

nottola.

Eh, eh, eh.

rondone.

To' questi tu, gobbo porco.

nottola.

Non fare, ferma ferma.

rampino.

Ferma, che fai?

rondone.

Che fo, e che diavolo, sète guerci, non avete veduto? Ho dato quattro piedi nel culo al mio compagno signor porco.

nottola.

Or sù, questo vestimento è tuo, poiché con i piedi l'hai tutto sporcato.

rondone.

Spogliati, sù.

alberto.

Ferma là, furfante.

nottola.

Lasciatelo fare, in ogni modo sono di sotto vestito pur nobilmente.

rondone.

O quanti, che ho isporcati con i piedi, ho spogliati con le mani! Era boia io, signore, e per questo la fortuna ha voluto ch'io vi ponga le mani intorno, per farvi conoscere che ancor voi siete carne da carnefice e da corbi. Or sù, ora che v'ho spogliato, entro a vestirmi, e vengo or ora, più d'oro carico, che giamai fosse, o lo scotto o 'l fortunato. E con un trattenimentino poi d'un giovinotto di sedici anni in circa da rallegrare ogni svogliato. Così si fa, poltronacci, non bisogna sempre essere intento a vestire il signore, e a serrare i suoi tesori sotto mille chiavi. Imparate da me a spogliarli e a rubargli; in ogni modo sono così galanti, che non vi fanno altro, o vero che per farvi paura vi fanno una sol volta appiccare.

alberto.

O signore, qual meccenate fu giamai più di sua eccellenza glorioso?

nottola.

Rampino, portami una di quelle cimarre da camera di quelle sessantaquattro ch'io ho comperate.

rampino.

Vado, signore, e or ora ritorno.

alberto.

O poeti, o istorici, se bramate fatti gloriosi, per li quali farvi eterni possiate, pigliate la penna, che con poca pena direte che vana fu questa voce di liberalità ne' tempi trascorsi, e che realmente allora si ritrovò quando nacque il liberalissimo principe Nottola, esempio di gloria a i prìncipi presenti, e di scorno a prìncipi passati. Dichino pure ch'uomo al mondo più potente non è quanto il liberale, poiché donando viene a conservare gli amici, viene a confondere gl'inimici, e farsi immortalare. Dichino che uomo più simile al Sommo Fabro non è quanto il liberale, in altro quel sommo amore non dilettandosi che nell'amare e che nel giovar donando. E che forse non ne dona egli la luce del sole, con la quale dalle tenebre alzando la fronte ne rallegra? non egli (tutte le cose liberali bramando) che la terra doppo aver dimostrato la ruvidezza sua, la sua rustichezza, con lo stare infeconda e pigra, tra mille nevi coperta, che in larga copia doni a ciascun che vive alimenti vitali? Il mare anch'egli, deposto il natìo furore, non ti porge quello che nel seno chiude, con mano tranquilla, che pria con piede ondoso fuggendo si ti negò? Ma se lungo esser volessi, non trovarei, che stella non è, ch'elemento non ispira, ch'arbore non frondeggia, che serpe non istriscia, che animale non corre, che uccello non vola, che tutto intento al giovare, liberale fatto non sia? Adunque il liberale è senza, è uccello che vola, animale che corre, serpe che striscia, arbore che frondeggia, elemento che spira, stella che ruota, mare che è in calma, terra feconda, Giove che giova. E per lo contrario, chi liberale non è, non è Giove, non è terra, non è stella, non è elemento, non è arbore, non è serpe, non è animale, non è uccello, alfin terminiamola: non è nulla. Voi dunque, o signore, il tutto siete, poiché di tanta liberalità andate adorno.

rampino.

Ecco la sopraveste, signore.

nottola.

Oh? Questa è buona. O Rampino, se tu fussi istato qui, averesti sentito il mio signor Alberto che ha fatto una bella infilzata di Giovi, di soli, di terre, di mare, di stelle, d'elementi, d'arbori, di serpi, d'animali, d'uccelli, di tarantole, di ragni, di scarpioni, di grilli, cose tutte da star grassi. Or sù, Alberto, vi facciamo nostro secretario.

alberto.

E questa è somma grazia ancora.

nottola.

Oh? Cheti, cheti, ecco Rondone ben vestito, ecco il compagno e Succiola. O come è ridicoloso, eh, eh, eh. Ma che rumore di sonatori? Una bella armonia è questa, per certo.

SCENA OTTAVA

rondone, schiavetto, succiola, sonatori da pastori vestiti, nottola, grillo, cicala, alberto, prudenza, corte, rampino

rondone.

Signore, questi sono sonatori della città, così da pastore vestiti, e vogliamo, Schiavetto, Succiola e io, farli un villan di spagna concertato poco fa in casa.

nottola.

Or sù via, incominciate, ch'io in tanto apparecchio il borsone da premiarvi.

rondone.

Sonatori, via, date principio, o buono! O che bel suono. Signore, state intento e tacete.

nottola.

O che belle riverenze, che dite meser Alberto?

alberto.

Bellissime.

nottola.

O come Rondone sgambetta bene, e Succiola? Càppari, so ch'ella è su 'l menare daddovero! Figlioli, vi siete portati molto bene, ora sta a me di portarmi bene con voi altri, razza di grilli e di cavalette, poiché così bene ballando saltavate. Rampino?

rampino.

Signore.

nottola.

Donagli diece scudi d'oro per uno e di quelli pesati.

succiola.

Casasego! Oh? A cotesta foggia si potrem salvare.

schiavetto.

Rondone, questo è un liberal signore, questa è la nostra ventura.

rondone.

Holla conosciuta, ch'è la mia buona fortuna, e però l'ho incominciata a pelare. Ma signor principe, non volete un poco sentire ancor cantare?

nottola.

Certo sì, e chi canta?

rondone.

Chi canta? Io, e Schiavetto.

nottola.

Canta un poco.

rondone.

Fa, la, la, la.

nottola.

O questo fa la la la lela, lo so cantare anch'io, non v'è altro che te, che canti?

rondone.

Eh? Che v'è Schiavetto, che non si può sentir meglio.

succiola.

E mene, dove lasciate? Suona, Schiavetto. Udite un poco. Suona la calata.

Un tordo cotto con la saivia, e l'olio

val più che con il sal cento lupini;

o come d'Arno i dolci pesciolini

vaglion più che del Po que' gran storioni.

nottola.

O che Succiola valente, càntene un'altra tu pure, ché per ora non voglio guastarmi con altri canti il gusto.

succiola.

Or sù, i' mi contento, ma ad ogni duo versi, per ripresa, fatemi la sfessaina, ch'io ballandola brevemente arrecherò gusto all'occhio danzando, gusto all'orecchio cantando.

nottola.

Succiola, tu vali un milion d'oro, ma non bisognerebbe che la Succiola avesse spine.

succiola.

Crediatemi signore, che ve ne sono molte poche, ché ogni quindisci giorni, io me le abbruscio. Or sù sonate.

Io son donne quel Nencio pescatore,

che fu figliolo di Fruca e di Giucca;

che per pescar con voi non ha quattr'ore

ch'io giunsi a Siena e partimmi da Lucca.

E fu tanta la fretta e 'l mio furore

che mi dimenticai pigliar la zucca,

il bussatoio no, perc'ho giurato

di mai non istaccarmelo da lato.

nottola.

Tu ha' ballato e cantato molto bene; or entrane con Rondone e Schiavetto, che teco hanno ballato così bella bergamasca; e come torno dal giardino fa' che apparecchino alcuna cosa bella da fare, ch'io pure anderò pensando modo d'esser loro grati.

succiola.

Signore, se forse e' non sa, i' voglio ire a rasciugarmi, ché sono più molle che s'avessi fatto diesce miggia. Stia sicuro, di buona voggia, ché fra Rondone e Schiavetto, e' sarà fatto ogni cosa.

rondone.

Signore, addio.

nottola.

Addio figlioli. Entrate, sonatori. State qui, voi. Oh? Di grazia, signor Alberto, la seggetta che avete in casa. Rampino, valla a tôrre.

rampino.

Vado signore, e or ora son da lei.

alberto.

Sono bene stato sciocco da vero a non la fare arrecar prima.

nottola.

Signor Alberto, mandate in casa la figliola vostra, e mia signora consorte. Anzi, lasciate che fino alla porta io l'accompagni. Date

FINE