LO SCRITTORE PER LA PACE
di
Renato Gabrielli
Già nell’amplesso decisivo di madre e padre, trentotto anni e quattro mesi or sono, la specifica vocazione di Leone Pilla era segnata. Se correttamente definiamo una vocazione come spasmodico ostinarsi della mediocrità, non ci sembrerà contraddittorio che quello scrittore modesto fosse accompagnato da una predestinazione grandiosa. Il senso di una qualche centralità della propria impacciata persona nel corso futuro della Storia si era manifestato al Pilla agli albori dell’adolescenza, per non abbandonarlo più.
Beninteso, la vita stessa lo aveva poi messo di fronte alla ristrettezza dei suoi mezzi espressivi, a un diffuso, garbato giudizio d’irrilevanza sulla sua opera, che aveva finito per condividere; eppure – per quanto la lunga sequenza di terzi posti in concorsi di poesia a pagamento e l’accumulo di volumi pubblicati in proprio nell’angusto tinello lo avesse disilluso sui meriti della sua produzione letteraria compulsiva – Leone teneva in serbo una risorsa certa di riscatto, strumento e promessa di gloria imperitura.
Egli difatti era involontariamente, inevitabilmente e ab aeterno uno scrittore per la pace.
In epoca post-moderna, com’è noto, anche le vocazioni sono frammentarie. Abbiamo così scrittori per la critica, scrittori per il pubblico, scrittori per il potere, contro il potere, per l’amore, contro l’amore, per il matrimonio, contro il matrimonio e così via per altre cerimonie, incidenti ed evenienze. La specializzazione nella pace è una delle più problematiche, soprattutto se per decenni non si ha una guerra a portata di mano e si è di natura sedentaria, come il nostro Pilla. Con pazienza eroicamente riservata, egli ha dunque atteso fino a oggi la sua grande occasione – scrivendo per vent’anni d’altro, principalmente contorcimenti autobiografici di gusto crepuscolare (fatta salva la parentesi avanguardistica di Vittime a cottimo).
Parsimoniosamente erodendo il piccolo patrimonio di famiglia, ha escluso dalla propria vita qualunque attività non artistica o legame amoroso, sfidando giorno dopo giorno l’insensatezza apparente della clausura in un dimesso appartamento alla periferia di Bergamo. Sì, per vie che ci sono oscure Leone Pilla sapeva, Leone Pilla presentiva l’incombere di una catastrofe sul nostro mondo tutto. Era solo questione di tempo. Leone Pilla ha saputo attendere, perché quel tempo fosse anche il suo.
Forse è il caso di spiegarci meglio: non stiamo parlando di un comune scrittore per la pace. Ce n’è stati molti, e grandi, che hanno parlato alto e invano. Scrittori infinitamente superiori al Pilla, eppure tragicamente accomunati dall’impotenza. Ciò che ci fa definire il Pilla lo scrittore per la pace è una sua potenzialità innata e senza precedenti, atta a dispiegarsi nel momento e solo nel momento esatto che prelude a un’implosione suicida del mondo.
E tale momento – non possiamo non vederlo, con ghiaccio sbigottimento – ci è qui di fronte.
L’instabile equilibrio tra bene e male è giunto al collasso, travolgendo ogni posizione intermedia. I signori del male uccidono ingiustamente e giustamente i signori del bene reagiscono, uccidendo: milioni di esseri umani ibridi, sulla linea di tiro, soccombono a fuoco ignoto. Nel valzer stretto di offesa e risposta, ogni memoria di un ordine si è dispersa; mimetizzati da buoni, i cattivi s’infiltrano in territorio nemico menando strage, e viceversa. È del resto evidente come ogni territorio sia, per certi aspetti, nemico. Ciascuno pranza e cena con la prospettiva cruenta di una propria morte. Il senso del tempo è dato soltanto dal crescere esponenziale della violenza. Lo spettacolo della violenza ingozza d’eccitazione e terrore le masse stordite. Il sommo signore del bene, astutamente insediato nel quartier generale maligno, carezza con un sorriso astratto il pulsante che attiverà l’arma finale. Il sommo signore del male, penetrato con i suoi scagnozzi nel cuore buono della civiltà, pregusta sul torbido palato l’ordine dell’ultimo attacco.
È questa l’ora di Leone Pilla.
Sanno infatti quei due signori che in qualche dove di provincia uno scrittore per la pace, finora sconosciuto e perciò vieppiù potente, si prepara a uscire allo scoperto, vanificando il loro sforzo di depurare i rispettivi ideali da ogni scoria di vita umana. Arma di tale scrittore sarà una frase, forse una parola soltanto, ma lungamente meditata e perfetta, perfettamente efficace e convincente, così convincente da debellare ogni istinto bellicoso nei due signori stessi, ammansendone le truppe feroci.
Sono le cinque e quaranta del pomeriggio.
Mancano cinque minuti all’annientamento, o all’enorme sollievo del mondo.
Nell’ingombro tinello di casa sua, Leone si fa strada verso il personal computer. Lo accende. Non si è mai sentito così tranquillo, sicuro di sé. Si collega a Internet. Il mondo sa che il suo messaggio decisivo arriverà per e-mail. Tutto il mondo è collegato a Internet in attesa di quella frase, di una sua parola.
C’è un silenzio integrale sulla faccia della Terra.
Lo scrittore per la pace sta mentalmente limando gli avverbi. Nessuno sa quanto lui come uno sbaglio di scelta o collocazione degli avverbi possa squilibrare, storpiare, sfigurare la più elegante delle proposizioni. Gli avverbi sono la sua tortura. Deve ammettere che mai ne ha imbroccato uno. Ma questo non accadrà con la frase perfetta, per cui sta approntando avverbi a prova di bomba. Leone sente adesso una lieve euforia. Domare gli avverbi – una vita fin qui bagatellare valeva la pena di essere vissuta solo per questo. Si gode in pieno questo silenzio universale che attende lui e basta. Sorride, si stiracchia e per la prima volta percepisce che il suo corpo può essere felice. I suoi cinque sensi sono al livello più alto mai sperimentato di disponibilità al piacere. In particolare, l’olfatto lavora sodo, catturando dalla vicina, minuscola cucina un effluvio familiare e delizioso.
Posata a fianco del lavandino sprigiona, pure attraverso la carta stagnola che l’avvolge, il suo irresistibile richiamo la crostata della zia Gabriella.
Questo dolce sobrio e meditato, biologico ante litteram, genuino senza ostentazione, uguale a sé negli anni come una preghiera, risplende quale gemma perennemente incastonata nell’idea di merenda. L’impasto è poroso e croccante, in perfetto equilibrio con uno strato di marmellata la cui armoniosa discrezione testimonia l’italiana civiltà più d’ogni nostro abusato, violentato monumento. Ma ciò che veramente può portare alla follia chi si accosti impreparato alla crostata della zia Gabriella è il consustanziarsi di due dolci in uno. Una metà infatti è con marmellata di more; l’altra metà, con marmellata d’albicocche.
"Metà more, metà albicocche." pensa ora Leone "Metà albicocche, metà more."
Due gusti così divergenti e così profondamente complementari. Ciascuna metà della crostata dà il piacere intatto di una crostata intera, ma la combinazione (infinitamente variabile nel suo dispiegarsi) tra le due metà immerenda la vita senza scampo: calzoni corti, corse sul prato, sudare, sporcarsi, saltare, mentire alla mamma e alla fine chinotto e sì, oh sì, la crostata – proprio quella.
"Cosa sarà mai una fetta." si rassicura Leone.
Si è portato il dolce, con un coltello, vicino al computer. Sta per digitare la definitiva frase di pace, quando un dubbio delizioso l’assale.
"Una fetta alle more? O una fetta alle albicocche? O una fetta mista?"
Le distinte prospettive di godimento combattono tra loro una spietata battaglia nel cervello dello scrittore, il quale per porvi fine decide di consumare tutt’e tre le fette, in ordine tirato a sorte. Ma una terza fetta di quella crostata non si consuma impunemente, senza cioè soccombere all’idea compulsiva di tagliarne una quarta. E durante la quarta, c’è l’idea della quinta; durante la quinta, la sesta; sesta, settima; settima, ottava; ottava, eccetera – finché non ci si ritrova a testa china, proni a ispezionare con la lingua una carta stagnola ormai avara di briciole.
Mentre Leone pare obliare la sua vocazione nella spirale di un appetito regressivo, il mondo trema e si perplime. Com’è possibile che lo scrittore per la pace, a pochi secondi dall’apocalisse, non abbia ancora fatto sentire la sua voce? Ma nessuno è disorientato quanto i supremi signori della guerra. Scatenare l’attacco, senza aver letto e sfidato quella frase inconfutabile, non darebbe loro alcuna soddisfazione.
Nervosamente titillando il pulsantone color carminio, il grande capo dei buoni si rivolge al suo personal trainer, un dietologo che gli resta a fianco anche nelle missioni più rischiose:
"Non pensi che, date le circostanze di forte stress psicologico, potrei concedermi uno snack extra?".
Quello tace. Il leader, come ogni vero statista davanti a una grande scelta, fa di testa sua. Estrae da una tasca interna della giacca una specie di tortiglione marron grondante calorie. Uno strato di cioccolata. Uno strato di cocco. Uno strato di marzapane zuppo d’alcool. Frammenti di mandorla, nocciola, canditi. Coloranti e conservanti senza risparmio. In dieci centimetri di snack, tutto ciò che faceva la sua gioia di adolescente ozioso e onanista, per essere poi rimosso in omaggio alla politica dell’immagine. Una webcam nascosta tra gli anfratti del quartier generale cattura il dettaglio del suo primo morso godurioso, e lo sparpaglia nel tempo d’un pensiero sugl’increduli innumerevoli schermi del villaggio globale.
L’opinione pubblica internazionale viene profondamente impressionata dall’umanissimo gesto del capo dei buoni. L’immagine del leader nemico con un baffo di cioccolata sopra le labbra semina sconcerto e crisi di languore tra i malvagi. Negli occhi freddi dell’abietto massacratore che li guida balena l’animazione improvvisa di un attacco d’invidia. Tra tutti gli efferati strumenti di sterminio che si è procurato per l’ultima missione, non poteva certo trovar posto un dolce spuntino. Urlando in una lingua che ci è incomprensibile, rimbrotta aspramente e senza motivo i suoi torvi scagnozzi. Nella violenza dello sfogo, il suo idioma diventa così brutalmente e astrattamente orientale che nemmeno gli scagnozzi lo capiscono. Tuttavia, intuendo la necessità di una piena e immediata confessione di una cosa qualunque, svuotano i fetidi zaini portati da casa del loro ovvio contenuto di lame, pistole, bombe, virus e batteri, rivelando l’occulta presenza di piccoli, timidi involti ziescamente fragranti. La squisitezza esotica ed estrema dei dolci ivi amorosamente avviluppati dalle casalinghe in terra malvagia genera una baruffa tra gli scagnozzi, per appropriarsi ciascuno del pacchettino dell’altro. Ma è, questo, un festoso farsi del male. Tra i cattivi non c’è vera merenda, senza retrogusto di sangue.
Fatto sta che sulla Terra, per emulazione generale, al silenzio si è sostituito un sordo brusìo di saliva schioccante e mandibole al lavoro. Indifferenti al fuso orario, i popoli delle rivali civiltà sincronizzano la merenda in una fraterna gara di durata, concentrazione, devozione al piacere. A Bergamo sono le sei meno cinque del pomeriggio.
Leone Pilla è sazio e stravolto. Il suo sguardo, bianco sullo schermo bianco del computer. È chiaro che mai più gli tornerà alla mente la frase decisiva, quella per cui la sua stessa vita è stata concepita e, in fondo, tollerata dagli uomini e da Dio. Del resto, anche se gli sovvenisse, tutti hanno finito di aspettarla, e risulterebbe dunque brutta, inefficace, avverbialmente impacciata. Che posto c’è per uno scrittore per la pace, in un mondo salvato dalle zie?
Leone si sporge dalla finestra del suo tinello. La città, di sotto, sta riprendendo il suo ritmo di violenza ordinaria. Il traffico del ritorno dagli uffici, l’agitarsi quotidiano, la pulviscolare, cancerosa messinscena d’affetti familiari, di casa in casa: da tutto questo Leone si è escluso da un pezzo. E ormai non appartiene ad altro che al proprio fallimento. I signori della guerra, perduto per colpa sua l’appuntamento con la catastrofe, ripiegano sulla ben nota routine di morte. A merenda smaltita, la macchina del mondo torna a macinare orrore, nonsenso e attaccamento a se stessa con qualunque pretesto. Leone ripercorre la propria dilatoria esistenza in meno d’un minuto e conclude che non è degna di pensarci sopra un secondo in più. Non perché ne abbia voglia, ma per esclusione di ogni alternativa, decide di acquistare una cassetta porno. Ha un’attrice preferita bionda e un’attrice preferita bruna.
"La bruna o la bionda, la bionda o la bruna?"
si domanda oziosamente scendendo le scale. Ma, inghiottito ormai da un abissale disincanto, sente che l’ultimo residuo di vitalità guardona lo sta abbandonando. Sa che anche il conforto della mano sarebbe troppo amore. Perciò, mentre attraversa la strada in direzione del sexy shop "Basta Problemi", si arresta di colpo, scegliendo l’impatto dell’autobus 24b per consegnarsi all’opaco anonimato dell’eternità.