Lo spirito di contraddizione

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LO SPIRITO DI CONTRADIZIONE di Carlo Goldoni

LO SPIRITO DI CONTRADDIZIONE

 di Carlo Goldoni

La presente Commedia di carattere, in cinque Atti in versi Martelliani, In per la prima volta rappresentata in Venezia nel Carnovale dell'Anno 1758.

AL NOBILE ED ORNATISSIMO CAVALIERE

IL SIGNOR

AGOSTINO PARADISI

PATRIZIO REGGIANO

È qualche tempo, Signor mio, e Padrone Veneratissimo, che io desiderava l'onore di conoscervi personalmente, dopo che conosciuto vi avea per riputazione, dopo che avea gustate le vostre amabili Poesie, e dopo le infinite cose che di Voi m'avea dette il nostro amabilissimo Signor Senatore Albergati. Nel mio viaggio in Francia passai espressamente per Reggio, ebbi la fortuna di trattenermi con Voi, e vidi la vostra gentilezza andar del pari col vostro sapere, e che i vostri ragionamenti sono tanto pregievoli quanto le opere della vostra mano. Ho messo bene a profitto il brieve tempo che ho potuto restar con Voi, vi ho lasciato con pena, e sono di là partito, pieno di stima per il vostro merito, e di ammirazione per il vostro talento. Oh sa ben egli il Signor Marchese Albergati scegliere gli Amici suoi! Voi siete legati insieme per merito, per virtù, per inclinazione, e vi siete uniti ambidue, per mia gloria, per onor mio, ad amarmi, a proteggermi, ad animarmi. Voi sapete la grazia che l'amico vostro si è degnato accordarmi; sapete ch'ei mi ha permesso di onorar le mie opere col suo nome; spero che Voi ad esempio suo me l'accorderete, e tanto lo spero con sicurezza, ch'io vi presento e vi dedico una mia Commedia, nell'atto medesimo che io vi supplico di accettarla.

Non badate alla qualità dell'offerta, ma all'animo e all'intenzione mia, che ve la afferisce. Vi parlerò schiettamente, con quella verità che è sempre stata, e sarà sempre indivisibile mia compagna. Non ho pensato a scegliere una Commedia per farmi onore con Voi, ma ho pensato soltanto a scegliere un Mecenate che onorasse le opere mie. Se avessi maturamente considerato il vostro grado, la Nobiltà vostra, e il sublime vostro talento, mi sarei lungamente fermato sulla scelta dell'opera, e avrei finito per non trovarne nessuna degna di quest'onore; ma siccome ho posto gli occhi soltanto al vostro carattere dolce, amoroso, gentile, la bontà di cuore (diss'io a me stesso) è disposta a tutto aggradire, ed i grandi uomini non guardano le miserie altrui per minuto.

Voi siete quello che fa onore alla nostra Italia, portando la Poesia principalmente a sì alto grado, che infiniti sono quelli che vi seguitano a dietro, pochi quelli clic vi camminano a fianco, ed è difficile ritrovare chi vi preceda. Le vostre immagini sono divine, robusti e soavissimi i vostri versi, terso ed elegante lo stile, felici gli argomenti, e la dizione chiarissima. Oltre a ciò, Voi avete il dono felicissimo della traduzione; Voi trasportate le opere straniere alla nostra lingua Italiana così giustamente, che nulla togliete loro del merito originale, ma gli accrescete le grazie e la perfezione. Ho letto con ammirazione alcune Tragedie da Voi tradotte, so che siete disposto ad arricchire con esse la litteratura Italiana, lo desidero con avidità, per mio proprio interesse, e per quello de' buoni amatori e conoscitori di cotal genere. Permettetemi che, prima di terminar questa lettera, vi parli di un'altra cosa, che moltissimo m'interessa e mi onora. Voi avete unito nella vostra illustre Città una Compagnia di Giovani dilettanti, che rappresentano delle Tragedie e delle Commedie; questa è una cosa ch'io lodo, e non cesserò mai di lodare, sendo le Teatrali rappresentazioni, castigate e prudenti, il più onesto, il più universale trattenimento; tanto più, se sieno queste da persone bene educate elegantemente eseguite; tanto meglio, se un uomo del vostro


talento ne presiede alla direzione. Quello però che maggiormente mi penetra, m'insuperbisce e mi onora si è, che abbiate dato principio ad un sì bell'esercizio con due delle mie Commedie: col Padre per amore e coll'Uomo di mondo. Oh vedete dunque, Signore mio amabilissimo, se con tali sicurezze dell'amor vostro per me, posso io diffidare della vostra bontà, della vostra generosa disposizione ad accettare la Commedia che ora umilmente vi dedico e vi raccomando. Parmi di essere nella mia fiducia tranquillo, e vi rendo anticipatamente le più umili rispettose grazie nell'atto di protestarmi ossequiosamente

Di Voi, Nobile ed onoratissimo Cavaliere

Umiliss. Devotiss. Obbligatiss. Servitore Carlo Goldoni


L'AUTORE A CHI LEGGE

Quando io ho composto questa Commedia, non conosceva per niente l'Esprit de Contradiction de Monsieur Dufresny, Autor Francese. Questa è une petite Pièce en un Acte, che ho veduto rappresentare a Parigi, che mi è piaciuta infinitamente, e nella quale varie cose ho ritrovato che s'incontrano colle mie, eppure io non l'aveva mai letta, e se la cosa fosse altrimenti, lo direi con quella stessa sincerità, con cui di altre opere mie ho parlato, allora quando di qualche forestiero principio mi sono valso. Credo anche, che la picciola Commedia di un Atto di Monsieur Dufresny sia meglio della mia in cinque Atti, poiché sono sessanta anni che si rappresenta, e piace sempre e diletta, ed è come se fosse nuova, applaudita, e la mia all'incontro è stata pochissimo fortunata in Venezia. Non ardirò di fare il confronto di questi eccellenti Attori coi nostri, ma so bene che qui a Parigi la valorosissima Attrice che sostiene il carattere dello Spirito di contradizione, anima la sua parte infinitamente, e si conosce che lo fa volentieri, senza arrossir della parte odiosa, e so che le nostre Attrici Italiane si vergognano di tai caratteri, e recitando languidamente la loro parte, fanno talvolta precipitar le Commedie.

Personaggi

FERRANTE vecchio cittadino. CAMILLA figliuola di Ferrante. RINALDO figliuolo di Ferrante. DOROTEA moglie di Rinaldo. FABRIZIO vecchio cittadino. ROBERTO di lui figliuolo. Il CONTE ALESSANDRO, amico comune. GAUDENZIO cittadino, amico comune. GASPERINA serva in casa di Ferrante. VOLPINO servo in casa di Ferrante. FOLIGNO servo in casa di Ferrante.

La Scena si rappresenta in casa del signor Ferrante.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera con tavolino e sedie.

Rinaldo, Ferrante, Fabrizio, Roberto, Gaudenzio, Foligno, Volpino

GAU.                Sia ringraziato il cielo. Giust'è ch'io mi consoli,

Per le nozze concluse, coi padri e coi figliuoli.

Alfin, signor Roberto, Camilla è vostra sposa:

Avrà il signor Fabrizio una nuora amorosa.

La figlia vostra alfine sarà contenta anch'ella. (a Ferrando)

Voi piacer sentirete del ben della sorella. (a Rinaldo)

Tutto, per grazia vostra, col mezzo mio si è fatto;

Basta sol che le parti soscrivano il contratto.

Il padre per la figlia prometta in chiare note;

Il fratello si firmi anch'egli per la dote.

Sottoscriva lo sposo a quel che ha già promesso,

E alla manutenzione il genitore anch'esso.

Voi, Volpin, voi, Foligno, servir di testimonio

Potrete alla scrittura del loro matrimonio.
RIN.                  Prima di sottoscrivere, parmi saria ben fatto

A Dorotea mia moglie far sentire il contratto.

Che dice il signor padre?
FER.                                                          Per dir la verità,

Farlo ci converrebbe almen per civiltà.

Ma il suo temperamento, che a tutto ognor si oppone,

Dubito non ci venga a porre in confusione.
ROB.                 Di grazia, tralasciamo per or codesto uffizio;

A tutti vostra moglie suol contradir per vizio.

Quel che con tanto stento siam giunti a terminare,

Non vorrei che da capo si avesse a principiare.
FAB.                 Quello ch'è fatto, è fatto: se vien quella testaccia,

L'opera di due mesi scommetto che ci straccia.
GAU.                Io che per amicizia tanto operai finora,

Dovrei essere esposto a disputare ancora?

Tanto non ho sudato in tempo di mia vita.

No, no, sottoscriviamo; facciamola finita.
RIN.                  Dite bene voi altri, che siete fuor d'intrico

Ma io che ci son dentro, so io quel che mi dico.

Se Dorotea lo penetra, se il foglio sottoscrivo

Senza ch'ella lo sappia, affé mi mangia vivo.

Se con piacer di tutti dee terminar l'affare,

Non fate che per questo io m'abbia ad inquietare.
FER.                  Penso anch'io veramente, che se dall'ira è invasa,

Avrem con questa donna il diavolo per casa.


Scacciato un servitore senza darlene avviso,

È stata quattro mesi senza guardarmi in viso.
RIN.                  Che con voi si riscaldi, sì facile non è;

Ma tutta la tempesta cadrà sopra di me.

Quando non la secondo, fa tutto per dispetto,

E per solito aspetta a tormentarmi in letto.
FER.                  Vediam, se fia possibile di far le nozze in pace.

RIN.                  Facciamola venire? (a Fabrizio)

FAB.                                                  Fate quel che vi piace.

GAU.                Se a quel che si è concluso la femmina si oppone?

FER.                  Di maritar mia figlia non sono io il padrone?

Avere non intendo da lei tal dipendenza;

Facciamola venire per mera convenienza.
RIN.                  Volpino.

VOL.                                 Mi comandi.

RIN.                                                        Avvisa la signora.

VOL.                 Subito. (Il matrimonio non si fa più per ora). (parte)

ROB.                 Compatite, signori, se dico un'altra cosa:

Perché in tale occasione non far venir la sposa?
FER.                  Sarebbe fuor di regola far venir la fanciulla;

Le figlie nel contratto non c'entrano per nulla.

Quando sarà firmato, si lascierà vedere.
RIN.                  Ecco qui Dorotea.

FER.                                              Datele da sedere. (al Servitore, che le prepara una sedia)

SCENA SECONDA

Dorotea ed i suddetti.

DOR.                Serva, signori miei. Di lor chi mi domanda?

RIN.                  Mio padre vi desidera.

DOR.                                                      Son qui. Che mi comarda?

FER.                  Nuora mia dilettissima, presso di me sedete;

Del mio amor di mia stima, un nuovo segno avrete.

Per la figliuola mia noto vi è già il trattato;

Ora par che l'affare sia bello e terminato.

Ma prima di concludere le nozze infra di noi,

Desidero che intesa ne siate ancora voi.
RIN.                  Ora per mio consiglio vi hanno perciò chiamato.

(Non vorrei che dicesse, che io non ci ho pensato). (da sé)
DOR.                È un onor ch'io non merito, la grazia che or ricevo.

Il suocero ringrazio per simili favori,

Ringrazio mio consorte, ringrazio lor signori;

E di cuor mi rallegro del ben di mia cognata,

Che può, per nozze tali chiamarsi fortunata.
FER.                  (Vedete, se fu bene farle un tal complimento?) (a Gaudenzio)

GAU.                (Finor per dir il vero, di lei non mi scontento).

FAB.                 Con voi se imparentarsi mio figlio avrà l'onore,

Vi sarà in ogni tempo cognato e servitore.


ROB.                 E con verace stima, e con sincero affetto,

Procurerò di darvi dei segni di rispetto.
RIN.                  Vi prego in sua presenza di leggere il contratto. (a Gaudenzio)

DOR.                È concluso l'affare?

GAU.                                                 Sì, è stabilito affatto.

DOR.                Bravissimi: vi lodo. Voi mi avete chiamata,

In tempo ch'è ogni cosa conclusa e terminata.

Per simile finezza vi ringrazio davvero,

Così non avrò briga di dire il mio pensiero.
RIN.                  Vi dolete non essere stata chiamata in prima?

DOR.                Oh no, signor consorte, conosco quanta stima

Fa di me questa casa. Comprendo che chiamarmi

Non ha voluto innanzi, per meno incomodarmi.

Che poteva una donna del mio discernimento

Suggerire a quattr'uomini di senno e di talento?

E poi di una consorte è inutile il consiglio,

Dove comanda il padre, dove dispone il figlio.

Con uomini di garbo a noi parlar non tocca

Femmine destinate al fuso ed alla rocca.
GAU.                (Sentite?) (a Ferrante)

FER.                                  Cara nuora, se io non vi stimassi,

Qual ragione obbligarmi potea ch'io vi chiamassi?

Ancor di queste nozze non è firmato il foglio,

E i vostri sentimenti pria di firmarlo io voglio.
DOR.                No, signor, vi ringrazio. (s'alza)

RIN.                                                          Datemi un tal contento.

DOR.                Bene, l'ascolterò per mio divertimento.

FER.                  Via, Gaudenzio, leggete.

GAU.                                                        Leggiamolo in buon'ora.

FAB.                 Quello ch'è fatto, è fatto. (a Roberto)

ROB.                                                         Ho dei timori ancora. (a Fabrizio)

GAU.                «Col presente chirografo, che per consentimento

Delle parti avrà forza di pubblico istrumento,

Che in faccia ai testimoni sarà corroborato

Di man di contraenti soscritto e confermato,

Promette l'illustrissimo signor Ferrante...»
DOR.                                                                                     Oh bello!

Proprio quell'illustrissimo vi è calzato a pennello.
GAU.                Vuole la convenienza, che in occasion simili

Si onorino le case degli uomini civili.
FER.                  Che vorreste voi dire con questa intemerata?

In casa di villani non siete maritata.
DOR.                Perdoni vossustrissima. Mai più non parlerò. (a Ferrante)

RIN.                  Dorotea, siete in collera?

DOR.                                                           Illustrissimo no.

GAU.                Quand'è così, signora, mi aspetto ad ogni articolo,

Che lo facciate apposta per mettermi in ridicolo.
FAB.                 Fin qui, per dir il vero, mi par che abbia ragione

Di mettere in ridicolo codesta affettazione.

I titoli a che servono? che val la vanità?

Son tutti pregiudizi cresciuti coll'età.


Signora Dorotea, vi lodo, e vi professo

Che trovomi con voi d'un sentimento istesso.

Se avrò con queste nozze l'onor di praticarvi,

Non abbiate timore ch'io venga ad illustrarvi.

Mi piacciono le donne qual voi di buona pasta:

Buon giorno, vi saluto, vi riverisco, e basta.
DOR.                Signor, con buona grazia, chi credete ch'io sia?

Sempre dell'illustrissima mi han dato in casa mia.

Nobile è mio marito, del fior della Toscana;

Buon giorno, vi saluto, si dice a una villana.
FAB.                 Credea di compiacervi, signora, in mia coscienza.

DOR.                Oh, vi darò la mancia per sì gran compiacenza.

Seguitate, signore. (a Gaudenzio)
ROB.                                               (Ecco il stile ordinario.

Dite di sì o di no, risponde all'incontrario). (da sé)
GAU.                «La signora Camilla concedere in isposa

Al nobile signore Roberto Bellacosa,

Ed il signor Roberto l'accetta qui presente,

Ed il signor Fabrizio all'obbligo acconsente,

Coi patti e condizioni che appiè si leggeranno,

Per concluder le nozze nel termine d'un anno...»
DOR.                Come! un anno di tempo? Io non son persuasa

Che abbiasi per un anno tal seccatura in casa.

Vorrà venir lo sposo, e avrà la sua ragione;

Ma io, signori miei, non vuò tal soggezione.
GAU.                Ecco una novità.

ROB.                                             Signora, io vi prometto...

DOR.                In questo, compatitemi, parlovi tondo e schietto.

So di una sposa in casa la soggezion qual è.

Veggo che questo lotto ha da toccare a me.

O che si sposi subito, o fuor di queste porte

Io vado immantinente, unita a mio consorte.
FER.                  Cosa dici, Rinaldo?

RIN.                                                   Veggo, conosco anch'io...

DOR.                Senza tanti discorsi farete a modo mio. (a Rinaldo)

O il contratto si regoli con altre condizioni,

O fuor di questa casa senza ascoltar ragioni.
ROB.                 Stabilito il contratto, vi par, signor Ferrante,

Ch'io comparir non debba alla mia sposa innante?
FAB.                 Mio figlio è galantuomo, non merta un simil torto.

GAU.                (Il contratto va in fumo. Già me ne sono accorto).

FER.                  Nuora, le mie ragioni tutte vi farò note.

Si è preso tempo un anno per causa della dote.

Se questa fosse pronta, vorrei, per soddisfarvi,

Maritandola subito l'incomodo levarvi.
ROB.                 Signor, circa la dote, per me è la stessa cosa...

FAB.                 Taci tu, che non c'entri. Qua il danar, qua la sposa.

DOR.                Prima ch'io mi sposassi, pareva che qua drento

Vi fosse l'abbondanza dell'oro e dell'argento.

Ora, per quel ch'io vedo, siam belli e corbellati.

Quanto date alla figlia? centomila ducati?


FER.                  Le do la stessa dote, che voi portata avete.

DOR.                Diecimila ducati dunque non li averete?

FER.                  Li avrei, se non avessi pel vostro sposalizio

Mandata, si può dire, la casa in precipizio.

Basta, più non si parli, che a dirlo io mi vergogno.

Camilla è mia figliuola, dee avere il suo bisogno.

Vi preme che sen vada? Se ne anderà; facciamo

Un negozietto insieme, e quest'affar spicciamo.

Voi ci portaste in dote diecimila ducati;

Questi dal vostro padre ci furono girati,

E sussistono ancora nel pubblico deposito.

Cedendoli a Camilla...
DOR.                                                      Non fo questo sproposito.

S'ella coi miei danari aspetta a maritarsi

Può star fino che campa in casa a consumarsi.
FER.                  Sarà la vostra dote sui beni miei fondata.

DOR.                Voglio il mio capitale, col qual fui maritata.

GAU.                Dunque, signori miei, si può stracciare il foglio.

FER.                  Data ho la mia parola, e mantenerla io voglio.

DOR.                Mantenetela pure.

FAB.                                                Non voglio una disgrazia.

RIN.                  Ma via, cara consorte...

DOR.                                                      Tacete, malagrazia.

ROB.                 A costo d'ogni cosa, signor, chiedo perdono,

Voglio la mia Camilla. (a Fabrizio)
FAB.                                                       Taci, tuo padre io sono.

GAU.                Ora un pensier mi viene, comunicarlo io voglio;

Se questo non vi comoda, può lacerarsi il foglio.

Prendasi per la dote un anno di respiro,

E intanto la fanciulla si metta in un ritiro.
DOR.                Bravo, signor Gaudenzio, vada in un altro loco,

E aspettino anche un secolo, che me n'importa poco.
FER.                  Povera la mia figlia! perché andar rinserrata?

Ma via, pur che s'accomodi, che sia sagrificata.

Voi genero, soffrite l'incomodo di un anno.
ROB.                 Pazienza; sarò pronto a tollerar l'affanno.

FAB.                 Concludasi una volta.

GAU.                                                    Su via, sottoscrivete.

A voi, signor Ferrante: la dote promettete,

Ed il signor Rinaldo ne sia manutentore.
DOR.                Manutentor Rinaldo? V'ingannate, signore. (s'alza)

Rinaldo è mio marito. Fin che sua moglie vive,

Contratti, obbligazioni, affé non sottoscrive. (a Gaudenzio)

Andiam, venite meco, vi ho da parlar di cosa

Di questo bel contratto assai più premurosa. (a Rinaldo)

Con licenza, signori; senza di lui potete

Prometter, sottoscrivere, concluder se volete.

L'illustrissimo padre può dispor da sé solo,

Senza dell'illustrissimo Rinaldo suo figliuolo.

Presto, venite meco; la cosa è importantissima;

Non mi fate arrabbiare. Serva di vossustrissima. (a Ferrante, e parte; poi a suo


tempo ritorna)
RIN.                  Con permission... (in atto di partire)

FER.                                              Rinaldo, temi tu della moglie?

Non sei dopo di me padrone in queste soglie?
RIN.                  Differite anche un poco la mia sottoscrizione:

Sapete della bestia qual sia l'ostinazione.

Lo so che dall'impegno sottrarmi non conviene;

Lo farò quanto prima.
DOR.                                                    Si viene, o non si viene?

RIN.                  Vengo sì, non gridate. Servo di lor signori. (parte)

DOR.                Chi sente lui, son io la fonte dei rumori.

Eppur per questa casa non so che non farei,

Pel suocero e lo sposo il sangue spargerei.

Voglio bene a Camilla, come a una mia sorella,

Bramo che sia contenta la povera zitella.

Fare saprei con essa le veci di una madre,

Avrei cuor, se occorresse, di sollevare un padre.

E femmina qual sono, avrei bastante ingegno

Di far felicemente concludere l'impegno.

Ma far senza ch'io sappia, e all'ultimo chiamarmi

Lasciate ch'io lo dica, è un modo di burlarmi.

So le mie convenienze. L'ordine lo capisco.
FER.                  Via, con voi tratteremo.

DOR.                                                      No no, vi riverisco. (parte)

FER.                  Per dir la verità, lo so ch'è di buon cuore;

Ma si è messa in puntiglio. Pregovi di un favore

Soscrivere il contratto per ora sospendiamo,

E lei colla dolcezza di guadagnar proviamo.
FAB.                 No, no, liberamente vi dico i sensi miei:

S'è donna puntigliosa, lo sono al par di lei.

Se ha posto in soggezione il suocero e il marito,

Per me, ve lo protesto, l'affare è già finito.

Più fra noi non si parli di matrimonio, e tu

Fuori di questa casa, e non venir mai più.
ROB.                 Chetatevi, signore...

FAB.                                                  Via di qua immantinente.

ROB.                 Il mio cuor, la mia sposa...

FAB.                                                            Vattene, impertinente.

ROB.                 (Di perdere il mio bene, no, non poss'io soffrire.

Voglio la mia Camilla a costo di morire). (da sé, indi parte)
FAB.                 Schiavo, signori miei.

FER.                                                     Come, signor Fabrizio,

Mandar per così poco l'affare in precipizio?

E voi, signor Gaudenzio, mutolo siete fatto?
GAU.                Non voglio più saperne, e lacero il contratto.

Ho fatto assai finora a avermi trattenuto.

Compatite di grazia, amico, vi saluto. (parte)
FAB.                 Vergogna, che una donna giungavi a far paura.

FER.                  Eccomi. A suo dispetto...

FAB.                                                         Stracciata è la scrittura. (parte)

FER.                  Ma io nella muraglia mi batterei la testa.


Vuol comandar la nuora? che impertinenza è questa? E mio figlio medesimo cotanto è scimunito, Che una moglie insolente può renderlo avvilito? Eh cospetto di bacco, vuò far veder chi sono; Ma mi confondo anch'io, quando con lei ragiono. Pacifico fu sempre il mio temperamento. Colei che lo conosce, mi ha preso il sopravvento. Rinaldo ch'è mio figlio, anch'ei va colle buone, E dubito ch'egli abbia paura del bastone. Finora delle risse abbiam sfuggito il tedio, Ora che il male è fatto, difficile è il rimedio. Della bontà soverchia, eccolo qui il bel frutto: La femmina orgogliosa vuol contradire a tutto. Vorrei di queste donne averne un centinaio, E come la triaca pestarle in un mortaio. (parte)

SCENA TERZA Altra camera

Dorotea e Camilla

DOR.                Cognata, io non intendo con voi giustificarmi.

Vi amo, vi ho sempre amato, né mai saprò cangiarmi.

Se ho detto qualche cosa circa al vostro contratto,

Per me non solamente, ma anche per voi l'ho fatto.

Che razza di giustizia è questa che ci fanno?

Stupisco delle donne, che stolide ci stanno.

Un padre, a suo talento, promette per la figlia;

Un marito, obbligandosi, la moglie non consiglia.

Pretendono disporre con piena autorità,

Senza voler attendere la nostra volontà.

In quanto a me, certissimo, vuò dire il parer mio.

Se portano i calzoni, li so portare anch'io.
CAM.                In sostanza, cognata, per quello che mi dite,

Il contratto di nozze finito è in una lite.
DOR.                La ragion, la giustizia, dalla violenza è oppressa.

Cosa avereste fatto nel caso mio voi stessa?
CAM.                Col padre e col fratello il mio dover lo so.

S'essi di me dispongono, perché ho da dir di no?
DOR.                Vi par che sia ben fatto prendere tempo un anno?

CAM.                Se così han stabilito, sapran perché lo fanno.

DOR.                E vogliono in quest'anno cacciarvi in un ritiro.

CAM.                Vi andrò volontierissima, senza trarre un sospiro.

DOR.                Con questa vostra flemma voi mi fareste dire.

Far tutto quel che vogliono, senza mai contradire?

È segno che Roberto pochissimo vi piace.
CAM.                L'amo il signor Roberto, ma bramo la mia pace.

So che vi son d'incomodo, cognata mia, lo vedo;


L'incomodo maggiore per l'avvenir prevedo. Allor ch'io fossi sposa, a me, per quanto lice, Dovreste far le veci di madre e di tutrice. Se mi volete bene, vi supplico, cognata Fate che per quest'anno mi tengano serrata.

DOR.                Parlare in tal maniera è un torto che mi fate.

Meco restar dovete, infin che vi sposate. Voglio aver io l'onore, col mio debole ingegno, Del vostro sposalizio di assumere l'impegno. Stabilito il contratto, gli usati complimenti Da me riceveranno gli amici ed i parenti. Le visite alle dame faremo in compagnia, Conversazion la sera terremo in casa mia. Verrà da me lo sposo nelle mie stanze istesse; So l'attenzion ch'esigono le giovani promesse. All'anello, alle perle, al tocco della mano, Io farò di una madre l'uffizio veterano, E il dì della funzione, al solito convito Prenderò io l'impegno di regolar l'invito. Farò quel che conviene per voi, per la famiglia Con quell'amore istesso, qual se foste mia figlia.

CAM.                (Ad un parlar sì tenero chi mai non crederebbe?

Ma so che mille volte impazzir mi farebbe). (da sé) Al vostro cuor gentile davver sono obbligata, Ma avrei piacer quest'anno di viver ritirata.

DOR.                Questa vostra insistenza moltissimo mi offende;

Quando una cosa io bramo, ciascun me la contende; Tutti mi contradicono, e lo fan per dispetto.

CAM.                Ma via, non vi adirate. Star con voi vi prometto.

DOR.                Cara, tenete un bacio. Vuò far vedere al mondo,

Se voi mi compiaceste, che anch'io vi corrispondo. Roberto sarà vostro. Tutto sarà finito. Farò che la scrittura soscriva mio marito. Tutto sperar potete dal mio sincero amore. Chi mi vien colle buone, mi caverebbe il cuore.

CAM.                Ma il padre di Roberto so ch'è un uom pontiglioso.

Chi sa ch'ei non si mostri sofistico e sdegnoso? Io so che tante volte il nuzial contratto Per i di lui puntigli si è fatto e si è disfatto. Ora che nel concludere da voi si è contradetto, Ch'ei voglia vendicarsi, certissimo mi aspetto.

DOR.                Di far ch'ei si pacifichi difficile non è.

Lasciatemi operare, fidatevi di me. Io parlerò col padre, io parlerò col figlio: State di buona voglia; ma udite il mio consiglio. Se andar dovete in casa di un suocero sì strano, Non fate sulle prime ch'ei prendavi la mano. Nel soggettarvi a tutto, non siate così buona; Dite l'animo vostro, e fate da padrona. L'uomo per consueto tiranneggiar procura, E misere le donne che si fan far paura.


Quando la donna ha spirito, l'uom s'avvilisce e cangia;

Chi pecora si mostra, il lupo se la mangia.
CAM.                (Così le donne pazze fanno per ordinario;

Ma io, per viver bene, farò tutto il contrario). (da sé)
DOR.                Voi non mi rispondete. Vi par ch'io dica male?

CAM.                Anzi dite benissimo. Conosco quanto vale

Il provido consiglio, che vien dal vostro amore.

Cognata, vi son serva, amatemi di cuore.

(Se in casa dello sposo il ciel mi condurrà,

Userò, qual io soglio, rispetto ed umiltà). (parte)

SCENA QUARTA

Dorotea, poi Rinaldo

DOR.

Se un simile sistema non avess'io serbato,

Il suocero e il marito mi avriano calpestato.

Perché nei primi giorni mostrato ho un po' d'orgoglio,

Li ho posti in soggezione, e fan quello ch'io voglio.

RIN.

Eccomi qui da voi. Qual affar d'importanza

Fe' sì che mi faceste partir da quella stanza?

DOR.

Son due ore che aspetto.

RIN.

Due ore? cosa dite?

Non son dieci minuti.

DOR.

Sempre mi contradite.

Dopo che mi lasciaste, so io quant'è passato.

Si può sapere almeno dove che siete stato?

RIN.

Mi ha chiamato mio padre, e dissemi a drittura,

Che per vostra cagione stracciata è la scrittura.

DOR.

Vostro padre al suo solito vi ha detto una pazzia.

RIN.

La carta è lacerata.

DOR.

Ma non per causa mia.

RIN.

Se non foste venuta ad imbrogliar la cosa,

Camilla di Roberto fatta saria la sposa.

DOR.

Non è vero.

RIN.

Vorreste negar quel ch'è di fatto?

Non foste voi la causa, che tramontò il contratto?

DOR.

Signor no, non è vero, vel dico un'altra volta.

Ho sempre da combattere gente ostinata e stolta.

La mia difficoltà non fu di tal natura,

Onde stracciar dovessero sì presto una scrittura.

È pur la mala cosa trattar con tai persone.

RIN.

Basta, è sciolto il contratto...

DOR.

Ma non per mia cagione. (alterata)

RIN.

Via, non sarà per voi sarà perché la sorte

Vuol privar mia sorella di un ottimo consorte.

Nozze non si potevano sperar più fortunate.

DOR.

Io non le ho fatte sciogliere. (alterata)

RIN.

Ma no, non vi adirate.


DOR.                Anzi, perché si facciano, adoperarmi io voglio;

E voi, se si ripigliano, sottoscrivete il foglio.

Fate che da Gaudenzio sia nuovamente esteso...
RIN.                  Ma se il signor Fabrizio si è dichiarato offeso...

DOR.                Da chi?

RIN.                                Da tutti noi.

DOR.                                                    Pericolo non c'è,

Ch'ei possa dichiararsi offeso ancor da me.
RIN.                  Eppur... non vi sdegnate. Eppur, chi sente lui...

DOR.                Lo so che a me si appoggiano tutti i difetti altrui.

Bastano due parole a rendermi placata,

E il titolo mi danno di femmina ostinata.
RIN.                  Di ciò più non si parli. Da me cosa bramate?

DOR.                Voglio che queste nozze a ripigliare andate.

RIN.                  Come?

DOR.                            Che uom di garbo! che uomo di partiti!

Il modo di condurvi volete ch'io v'additi?

Fate così, signore; ite alla di lui casa,

Dite al signor Fabrizio: mia moglie è persuasa.

Se ha detto quel che ha detto alla presenza vostra,

Da noi mal informata, fu sol per colpa nostra.

Professa la signora per voi tutto il rispetto.
RIN.                  Deggio andar col pericolo?...

DOR.                                                                Al solito m'aspetto

Che opporvi al mio consiglio vogliate ancora in questo.
RIN.                  Prima sentir mio padre par conveniente e onesto.

DOR.                Sì, sentiamolo pure. Chi è di là?

SER.                                                                      Mia signora.

DOR.                Cerca il signor Ferrante. Senza frappor dimora,

Digli che venga subito, perché mi preme assai. (il Servitor parte)
RIN.                  Non so se mia sorella...

DOR.                                                      Già con essa parlai.

Di tutto quel ch'io faccio, la figlia è persuasa.
RIN.                  Anderà nel ritiro?

DOR.                                               No, dee restare in casa.

RIN.                  Consorte mia carissima, davver mi sorprendete.

DOR.                No Rinaldo, il mio cuore ancor non conoscete;

Mia cognata lo merita, e le farò da madre.
RIN.                  Sia ringraziato il cielo. Si approssima mio padre.

SCENA QUINTA Ferrante e detti.

FER.                  Ecco, signora mia, subito son venuto

Alla padrona nostra a rendere il tributo. (con ironia)

DOR.                Garbato il signor suocero! mi piace il stile ironico.

Queste parole vostre han pur del maccheronico.

RIN.                  No, signor padre, alfine al ben di tutti noi


Mia moglie è inclinatissima. Brama parlar con voi.
FER.                  Nuora mia, compatitemi, la rabbia e la passione

Fa gli uomini talvolta parlar senza ragione.

Che volete voi dirmi?
DOR.                                                    Vuò dir, con sua licenza,

Che usarmi si potrebbe un po' di convenienza.

Che non son la padrona, ma che pretendo anch'io

Essere rispettata, dove ho portato il mio.

Che non vuò che mi vengano a rendere tributi,

Ma i scherni a una mia pari, signor, non son dovuti.
FER.                  Scusatemi, ho scherzato.

RIN.                                                          Via, non più, Dorotea.

Spiegate al signor padre qual sia la vostra idea.
DOR.                Non voglio che in ridicolo si ponga un mio consiglio.

Se mi deride il padre, mi sfogherò col figlio. (parte)

SCENA SESTA

Ferrante e Rinaldo

FER.                  Mi ha chiamato per questo?

RIN.                                                               Non signor, l'ho trovata

A pro di mia sorella benissimo inclinata.

Ma della donna altiera vi è noto il naturale;

Venire a disprezzarla, signor, faceste male.
FER.                  Tu, balordo, fai male a secondarla in tutto;

Mira con tuo rossore della viltade il frutto.

Se avesse a far con me, non parleria sì altera. (con calore)
RIN.                  Signore, usar potete l'autoritade intera:

Siete mio padre alfine; fatevi rispettare.
FER.                  Pensaci tu; con essa non me ne vo' impacciare.

Se il ciel vuole ch'io giunga a maritar Camilla,

Il resto di mia vita vo a ritirarmi in villa.
RIN.                  E volete lasciarmi solo con lei?

FER.                                                                      Tuo danno.

Non l'hai voluta? godila. È moglie tua? buon anno. (parte)
RIN.                  Ah pur troppo ci sono, e starci a me conviene.

Non ho con questa donna, non ho un'ora di bene.

Se taccio, son balordo, se parlo, son ardito;

Quando grida cogli altri, si sfoga col marito.

Pensa e parla al contrario ognor dalle persone,

Spirito maladetto di contradizione. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA Ferrante ed il Conte Alessandro

FER.                  Caro conte Alessandro, vi son bene obbligato.

Vedo con quanto amore vi siete interessato.

Altri non vi voleva, a persuader Fabrizio,

Che un uomo, qual voi siete, di cuore e di giudizio.
CON.                Amico, vel confesso, poco non mi ha costato

A vincer colle buone quell'animo ostinato.

Ma l'amicizia nostra, la stima che ho di voi,

Anche il signor Gaudenzio con i consigli suoi,

Tutto fe' che all'impegno mi disponessi ardito,

E per mia buona sorte alfin ne son riuscito;

Dunque, com'io diceva, si stenderà il contratto

Nella stessa maniera, come da pria fu fatto.

Voi sottoscriverete, e vostro figlio ancora.
FER.                  Conte mio benedetto, cosa dirà mia nuora?

Sapete che in mia casa costei è un precipizio.

Se torna a imbestialire, cosa dirà Fabrizio?
CON.                Firmate la scrittura, non qui, ma in altro loco.

Celata alla signora tenetela per poco.

Poi, se vi contentate, lasciate che con lei

Possa mettere in pratica certi disegni miei.

Chi sa che non mi riesca cambiarla intieramente?
FER.                  No, con quella testaccia voi non farete niente.

CON.                Posso provar.

FER.                                         Provate.

CON.                                                      Ma non vorrei, che in petto

Avesse vostro figlio di me qualche sospetto.
FER.                  Mio figlio? poveraccio! è il miglior uom del mondo

Non so che non farebbe per vivere giocondo.

Buona cosa, per dirla, ch'ella in tutt'altro è pazza,

Ma in materia d'onore è un'ottima ragazza.

Per altro, in quanto a lui, se fosse in altro caso,

Da lei si lascierebbe condurre per il naso.

E poi voi siete il fiore degli uomini onorati;

Può con voi mio figliuolo star cogli occhi serrati.

Ma questa è nata apposta solo per contradire.

Voi perderete il tempo, e vi farà impazzire.
CON.                Le femmine conosco più assai che non credete.

So il debole di tutte, fidatevi, e vedrete.
FER.                  Eccolo lì il demonio. (osservando fra le scene)

CON.                                                    Ho ben piacer davvero.


FER.                  Amico, a rivederci: io parlovi sincero,

Con lei, meno ch'io posso, voglio trovarmi insieme.

Vo dal signor Fabrizio a far quel che più preme.

Voi potete restare, se di restar vi aggrada.

Per non aver che dire, meglio è ch'io me ne vada. (parte)

SCENA SECONDA Il Conte Alessandro, poi la Signora Dorotea

CON.                Per servire all'amico vuò mettermi al cimento;

Ma lo vo' fare ancora per mio divertimento.

Ad insegnar, se posso, vuò colla mia lezione

A vincer delle donne l'usata ostinazione.
DOR.                E bene, signor Conte, si è soddisfatto ancora

Il suocero indiscreto di dir mal della nuora?
CON.                Finora fra me stesso vi ho assai compassionata.

In verità, signora, siete sagrificata.
DOR.                Di me che vi diceva quel vecchio ignorantissimo?

CON.                Seco mi ha trattenuto a favellar moltissimo.

Lasciamo andar le cose, che non importan molto,

Ma in ciò, mi compatisca, è un operar da stolto.

Maritar la figliuola, lo dico e lo protesto,

Senza il consenso vostro è un torto manifesto.
DOR.                Siete male informato sopra di un tal proposito,

E per farmi la corte, voi dite uno sproposito.

Maritando la figlia non ho tal pretendenza,

Che venga il genitore a chiedermi licenza.
CON.                Non m'intendea di dire, che dipendesse affatto,

Ma rendervi doveva intesa del contratto:

Non chiamarvi al congresso a cose terminate.
DOR.                Conte, voi non sapete quello che vi diciate.

Mi han chiamato benissimo in tempo ch'io poteva

Dir voglio, e dir non voglio, e far quel ch'io voleva.
CON.                E voi prudentemente avete proibito

Il foglio sottoscrivere al docile marito;

E con ragione oppostavi al nuzial contratto,

Quel che da lor si fece, venne da voi disfatto.
DOR.                Facciano quel che vogliono, non contradico mai;

Ma, signor, questa volta me ne hanno fatto assai.
CON.                Cosa mai vi hanno fatto? ditelo in confidenza.

DOR.                È venuto mio suocero a dirmi un'insolenza.

CON.                Imprudente!

DOR.                                      Poc'anzi, senza rispetto, ardito,

Si è avanzato a deridermi.
CON.                                                           Oh vecchio rimbambito!

DOR.                In tempo che sollecita io mi prendea l'affanno

Per lui, per la sua figlia; si pentirà.
CON.                                                                         Suo danno.


DOR.                Chiamarmi per ischerzo col titol di padrona!

Una donna mia pari così non si canzona.

Un fallo d'ignoranza lo so anch'io perdonare;

Ma poi, quando m'insultano, so farmi rispettare.
CON.                Manchereste a voi stessa soffrendo i loro oltraggi.

Sareste condannata dagli uomini più saggi.
DOR.                Conte, ve lo protesto, non dico una parola.

Per lo più nel mio quarto sto ritirata e sola.

Lascio che tutti facciano quello che voglion fare;

E se una volta parlo, mi vengono a insultare.
CON.                E voi cangiate stile, parlate con impero;

Fate veder che siete padrona daddovero.
DOR.                Non ho un can che m'aiuti; son sola, ed essi in tre:

Padre, figlio, sorella, tutti contro di me.

Mi beffano ancor essi, se a' miei parenti il dico,

E nelle mie occorrenze non trovo un buon amico.
CON.                Conosco il mio demerito, per questo io non ardisco,

Ma se di ciò son degno, servirvi mi esibisco.
DOR.                Farete come gli altri, che dopo quattro dì

Mi han voltato le spalle.
CON.                                                         Io non farò così.

Sono colle signore costante e sofferente.
DOR.                Da me, quei che mi trattano, non hanno a soffrir niente.

Io sto dove mi mettono. Fatemi allesso, o arrosto,

Alla condiscendenza ho l'animo disposto.

Quando a parlar mi chiamano, dico la mia opinione,

Per altro facilmente mi arrendo alla ragione.
CON.                Più bel temperamento non ho veduto al mondo,

Lo star con voi sarebbe un vivere giocondo.

Se avessi di servirvi il sospirato onore,

Mi chiamerei felice, vi servirei di cuore.
DOR.                Ben, se la bontà vostra a favorirmi inclina

Meco potete a pranzo restar questa mattina.

Campo avrem da discorrere.
CON.                                                                Ma che dirà il marito?

DOR.                Da lui non vuò dipendere, se un commensale invito.

CON.                Quando così vi piace, a voi farò ritorno.

Ho un affar che mi preme, innanzi al mezzogiorno.
DOR.                Mezzogiorno è suonato.

CON.                                                         Perdonate, signora,

Alla campana solita vi manca più d'un'ora.
DOR.                Queste son quelle cose che mi fanno arrabbiare;

Prima che qua venissi, l'ho sentita a suonare.

Quando lo dico, è vero.
CON.                                                         Sì, è vero. O che balordo!

L'ho sentita suonare; anch'io me ne ricordo.
DOR.                (D'un cuore ragionevole in lui mi comprometto). (da sé)

CON.                (Questa è la via sicura per acquistar concetto). (da sé)


SCENA TERZA Rinaldo e i suddetti.

RIN.                  Conte, ho piacer grandissimo che siate ora con noi.

So che ci siete amico, mi raccomando a voi.

Ecco qui, mia consorte, io glielo dico in faccia,

La povera Camilla precipitar minaccia.

Vuole per un puntiglio tradir la sua fortuna,

E contro noi s'adira senza ragione alcuna.
DOR.                Senza ragion m'adiro?... (a Rinaldo)

CON.                                                      Favorite, signore;

Quant'è che non vedeste il vostro genitore?
RIN.                  Tre o quattr'ore saranno, ch'egli partì arrabbiato.

Dopo non l'ho veduto.
CON.                                                    (Dunque non è avvisato). (da sé)

DOR.                Senza ragion m'adiro? senza ragion m'impegno? (a Rinaldo)

Ditelo voi, che siete un cavalier sì degno. (al Conte)
CON.                (S'ei non sa il mio disegno, sono imbrogliato un poco). (da sé)

DOR.                Conte non crederei che vi prendeste gioco:

Che una cosa diceste a me per compiacenza,

E un'altra ne pensasse la vostra intelligenza.

In faccia a mio marito, se il ver detto mi avete,

Vi sfido a confermarlo, da cavalier qual siete.
RIN.                  Parli il conte Alessandro; sto alla sua decisione.

CON.                (Non vorrei arrischiare la mia riputazione). (da sé)

Signori miei, desidero mirar nel vostro tetto

La quiete, la concordia e il coniugale affetto.

La collera calmate; e poi da cavaliere,

Quando sarete in pace, dirovvi il mio parere.

Fin ch'è l'animo acceso da sdegno e da passione,

Male si può conoscere il torto e la ragione.

Tosto che in amicizia veggovi ritornati,

Svelerò i sentimenti che ho nel cuor mio celati.
DOR.                Per me, per acquietarmi, bastano due parole.

RIN.                  Parli, chieda, comandi, farò quel ch'ella vuole.

CON.                Le parlò vostro padre con qualche derisione;

Necessario è di darle la sua soddisfazione.

Onde il signor Ferrante, da cui venne il difetto.

Protesti per la nuora la stima ed il rispetto.
RIN.                  Sì, lo farà mio padre; per lui ve ne assicuro.

DOR.                Io da ciò lo dispenso; soddisfazion non curo.

Amante non mi credano del fasto e dell'orgoglio.
CON.                Per un atto d'amore.

DOR.                                                 No, signor, non lo voglio.

CON.                Lodo la virtù vostra alla bontà sol usa;

Dal figlio contentatevi ricevere una scusa.
RIN.                  Sì, moglie mia...

DOR.                                             No certo, tal cosa io non permetto.

RIN.                  Scusateci, vi prego...

DOR.                                                    Ecco, il fan per dispetto.


Sia nel ben, sia nel male, costumano così;

Basta ch'io dica un no, von sostenere un sì.
CON.                Ma via, signor Rinaldo, in ciò datevi pace,

Della disposizione s'appaga e si compiace.

La dama generosa si è di tutto scordato.

Vuol far vedere al mondo, che quel ch'è stato, è stato.

Se gli altri la rispettano, ella per tutti ha stima,

E ad abbracciare il suocero vuol essere la prima.
DOR.                Oh, questo no.

RIN.                                         Vedete il bel temperamento?

CON.                Mi par di rilevare qual sia il suo sentimento.

Teme il signor Ferrante austero e sostenuto.

Per questo non si fida di rendergli un tributo.
DOR.                Al suocero tributi? E chi è il signor Ferrante,

Ch'io m'abbia ad inchinare dinanzi alle sue piante?

È un principe? è un sovrano? di voi mi maraviglio.

Era indegno d'avermi per sposa di suo figlio.

Ho sofferto abbastanza in questa casa ingrata.

Son sazia, sono stanca, di essere calpestata.

Dopo un insulto simile, il suocero sgarbato

Doveva risarcirmi senz'essere spronato.

Ora più non mi curo d'altra soddisfazione;

È tardi, ed ho fissato la mia risoluzione,

E voi di vostro padre mai più non mi parlate. (a Rinaldo)
CON.                Udite una parola... (a Dorotea)

DOR.                                               E voi non mi seccate. (al Conte, e parte)

SCENA QUARTA

Il Conte Alessandro e Rinaldo

RIN.                  Conte, avete sentito? son di tal gioja indegno.

Mi vien la tentazione di adoperare un legno.
CON.                È ver, ciò non conviene. Ma in un simile stato,

Dubito che a quest'ora l'avrei adoperato.
RIN.                  Perdonatemi, amico, voi pur nell'occasione

Parmi che la trattiate con qualche adulazione.

Sperai che in sua presenza parlaste un po' più ardito.
CON.                Voi non sapete ancora quel che si è stabilito.

Andiam, vi dirò tutto. Oggi pranziamo insieme:

Il ben, la pace vostra, moltissimo mi preme.

Sendo voi all'oscuro di quel che far desio,

Ora non ho potuto parlare a modo mio.

Lasciatemi operare. Promettovi bel bello

Farle cambiar sistema, farle cambiar cervello.

Lo so che mi deridono per questo impegno mio,

Ma quelli che mi beffano, non san quel che so io. (parte)
RIN.                  Se trova la ricetta per risanarla appieno,

Lo stimo più sapiente d'Ippocrate e Galeno.


Ma credo che una donna perfida come questa, Possa guarir per tutto, fuori che nella testa. (parte)

SCENA QUINTA

Gasperina e Volpino

VOL.                 Il padron questa mane per tempo vuol pranzare.

Venite qui, aiutatemi la mensa a preparare.
GAS.                 Ben volentier, Volpino. Facciam quel che conviene.

VOL.                 Povera Gasperina, mi volete voi bene?

GAS.                 S'io non te ne volessi, sempre non cercherei

L'occasione, il pretesto, d'essere dove sei.
VOL.                 Senti, quel che ti ho detto, te lo confermo ancora:

Sarò tuo, se lo brami.
GAS.                                                    Per me, non vedo l'ora.

VOL.                 L'ho detto al padron vecchio, che mi vuol bene assai,

E a rendermi contento disposto io lo trovai.
GAS.                 Alle padrone ancora non dissi il mio pensiero;

Ma quando lo sapranno, saran contente, io spero.
VOL.                 La signora Camilla sarà condiscendente;

Quell'altra è che comanda: dirlo conviene a lei.
GAS.                 Contraria in questa cosa temerla io non dovrei.

Tutti di lei si lagnano; pare una donna inquieta;

10  con me la ritrovo affabile e discreta.

11 debole conosco, vuol esser secondata;

Ed io sin da principio quest'arte ho praticata.

Col ghiaccio e colla neve, nel verno ancor più crudo,

S'ella mi dice è caldo, rispondole ch'io sudo.

E allor che nell'estate arde la terra e il cielo,

S'ella sostien che è freddo, fingo sentire il gelo.

Così della signora l'animo ho guadagnato;

E ogni favor che ho chiesto, non mi fu mai negato.

Tante volte mi ha detto, che per ricompensarmi

Del mio fedel servigio pensava a collocarmi;

E che se un'occasione il ciel mi concedeva,

Una discreta dote ancor mi prometteva.
VOL.                 A lei quando lo dici?

GAS.                                                    Anche oggi, se vuoi.

VOL.                 Prepariamo la tavola, che parlerem dopoi. (vanno a pigliare una tavola ch'è

indietro, e la tirano innanzi)
GAS.                 Se mi dà cento scudi, parmi una cosa onesta.

VOL.                 Sono pochi per altro... Vado a pigliar la cesta. (entra per prendere l'occorrente)

GAS.                 Cento scudi in danari, e in mobili altri cento:

Sembrami che Volpino dovrebbe esser contento.

Alfine io son chi sono. Non sposa una canaglia.
VOL.                 Cento scudi son pochi. Mettiamo la tovaglia.

GAS.                 Ho della biancheria, degli abiti e dell'oro. (mettono le salviette)

Perché cinque salviette?


VOL.

Vi è un forestier con loro.

GAS.

E chi è?

VOL.

Il conte Alessandro.

GAS.

E poi, caro Volpino,

Per me voi non avete a spendere un quattrino.

VOL.

Se vengono figliuoli?

GAS.

Non moriran di fame.

Starà qui il signor Conte?

VOL.

No, in mezzo alle due dame.

GAS.

La posata del vecchio?

VOL.

Mettiamola di qua.

GAS.

Se verranno figliuoli, il ciel provederà.

VOL.

Vado a prendere il pane.

GAS.

No no, Volpino mio,

Voi mettete le sedie; il pan lo prendo io. (parte per il pane)

VOL.

È ver, tutti consola del ciel la providenza...

Ma vedo che tant'altri perduta han la pazienza... (portando le sedie)

Basta, le voglio bene... Se ho da far lo sproposito,

Meglio è farlo con lei, che è donna di proposito.

GAS.

Se verranno figliuoli, che vengano pur su;

Andrò a servir per balia, guadagnerò di più. (viene colla cesta del pane, e lo

distribuisce)

VOL.

Per balia? oh questo poi... Pan fresco?

GAS.

Non ce n'è.

VOL.

Se tu anderai per balia, non servirai per me.

GAS.

Discorrere potremo...

VOL.

Vado a cavare il vino.

GAS.

Vo' dire un'altra cosa; ascoltami, Volpino.

VOL.

So che ha fretta il padrone. Non vo' che si lamenti.

GAS.

Qualcosa mi daranno ancora i miei parenti.

E tu pur, maritandoti, procura che i padroni

Suppliscano alle spese almen delle funzioni.

VOL.

Lo faran volentieri; so che son di buon core.

GAS.

Via, facciamolo presto.

VOL.

Son pronto a tutte l'ore.

SCENA SESTA La Signora Dorotea e detti.

DOR.                Oh che prodigio è questo! che cosa inusitata?

La tavola per tempo stamane è preparata.
VOL.                 Oggi il padrone ha fretta.

DOR.                                                         Il padron? chi è il padrone?

VOL.                 Non è il signor Ferrante, che ordina e dispone?

DOR.                Ti avviso per tua regola, se non lo sai stordito,

Che ordina e dispone ancora mio marito.
VOL.                 Ed il signor Rinaldo col padre unitamente

Mi hanno sollecitato.


DOR.

Ed io non conto niente?

VOL.

San che per ordinario vossignoria si lagna,

Che sempre in questa casa tardissimo si magna;

Onde di contentarla si credono così.

DOR.

Vogliono desinare innanzi al mezzodì?

VOL.

È sonato, signora.

DOR.

Non è ver.

VOL.

L'ho sentito.

DOR.

Tu sei un temerario, un villanaccio ardito.

GAS.

Compatisca, signora, il povero ragazzo.

Gliel'ha detto il padrone.

DOR.

Il suo padrone è un pazzo.

Sparecchiate la tavola.

VOL.

Ma! già che è preparata...

DOR.

Voglio da questa camera la tavola levata.

GAS.

Leviamola, Volpino. Vuol essere obbedita.

VOL.

(Sempre, corpo del diavolo! si ha da far questa vita). (da sé)

DOR.

Cosa dici?

VOL.

Non parlo. (va levando le sedie)

DOR.

Ti spiace la fatica?

Imparerai a farlo, senza ch'io te lo dica.

GAS.

Ha ragion la padrona, non la volete intendere?

In ogni circostanza da lei si ha da dipendere. (prende la cesta per riponere il pane,

e Volpino leva le sedie)

DOR.

Così è, Gasperina, l'ho detto e lo ridico.

Padroni e servitori non mi stimano un fico.

GAS.

Signora, ei non mi sente; vi giuro e vi prometto,

Forse Volpino è quello che ha per voi più rispetto.

DOR.

Non è tristo ragazzo.

GAS.

Sa quel che gli conviene.

DOR.

Esser non può altrimenti, se tu ne dici bene.

Facile a contentarti degli altri io non ti vedo.

Tu pensi com'io penso, e anche perciò ti credo.

GAS.

Il pane alla credenza, Volpino, riportate. (gli dà la cesta del pane)

VOL.

Finiam di sparecchiare.

GAS.

Itene, e poi tornate.

VOL.

(Veggo che Gasperina nel comandar si addestra.

Non vorrei che imparasse sotto una tal maestra). (da sé, e parte per riporre il pane)

GAS.

Lo vedete, se è buono? subito mi ha obbedito.

DOR.

Così meco facesse Rinaldo mio marito!

Par ch'ei sia nato apposta per farmi delirare.

GAS.

Signora, di una grazia vi vorrei supplicare.

DOR.

Chiedi pur, Gasperina, per te che non farei?

GAS.

Vo, signora padrona, pensando ai casi miei.

Ogni anno passa un anno. Vorrei accompagnarmi,

E meglio di Volpino non so desiderarmi.

DOR.

Per me son contentissima. Sai che ti voglia bene?

GAS.

Poverino! mi adora.

DOR.

Sollecitar conviene.

GAS.

Eccolo ch'ei ritorna. Volete ch'io gliel dica?

DOR.

Diglielo, ti permetto.


GAS.

Il ciel vi benedica.

VOL.

Ma voi non fate niente.

GAS.

Finora ho fatto assai.

Alla nostra padrona la cosa io palesai.

Ella benigna al solito, al solito pietosa,

Lascia ch'io mi mariti, e che di te sia sposa.

VOL.

Davvero?

DOR.

Io non mi oppongo; anzi, in segno di affetto,

Qualche poco di dote ad ambidue prometto.

VOL.

Posso ben a ragione chiamarmi fortunato,

Se a tutta la famiglia tal matrimonio è grato.

Contento il padron vecchio, contento il figlio ancora,

Restavami l'assenso aver dalla signora.

DOR.

Il suocero e il mio sposo sono di ciò avvisati?

VOL.

Sì signora, con essi gli affari ho accomodati.

Ora tutto è compito, se voi me l'accordate.

DOR.

Di ciò ne parleremo. La mensa sparecchiate. (sostenuta)

VOL.

Non ne siete contenta?

DOR.

Prendo tempo a pensare.

La tavola frattanto seguite a sparecchiare.

VOL.

Gasperina...

GAS.

Signora... (a Dorotea, pateticamente)

DOR.

Voi mi parete ardita

Quando vi do un comando, voglio essere obbedita.

GAS.

Via, levate quei tondi. (a Volpino)

VOL.

(Veggovi dell'intrico). (leva i tondi e le posate, e rimette il

tutto nella cesta bel bello)

GAS.

Mi parete cangiata.

DOR.

Sì, mi cangiai, tel dico.

Costui che da mio suocero mostra tal dipendenza,

È sedotto a sposarti per farmi un'insolenza.

Veggon che mi sei cara, e studian la maniera

Di aver dal lor partito ancor la cameriera.

Sola veder mi vogliono, oppressa e disperata,

Ma questa volta, il giuro, non l'hanno indovinata.

Disponi della dote, consento a ogni partito,

Ma non sperar ch'io soffra Volpino a te marito.

VOL.

Ed io con sua licenza... (staccandosi dalla tavola)

DOR.

Non replicare, indegno.

VOL.

(Torna a sparecchiare)

GAS.

Voi mi avete promesso. (a Dorotea, con forza)

DOR.

Vuoi ti risponda un legno? (a Gasperina, sdegnata)

La tavola tu pure a sparecchiar ti affretta.

VOL.

(Questa me l'aspettavo). (levando i tondi)

GAS.

(Fortuna maladetta!) (levando i tondi)

DOR.

Trovati un altro sposo, vedrai se la padrona

Ha per te dell'amore.

GAS.

Neanche un re di corona. (sparecchiando)

DOR.

Se ti verrà più intorno quel finto, quel briccone,

Averà che far meco.

VOL.

Comanda il mio padrone. (sparecchiando)


DOR.                Se la mia cameriera mi farà un insolenza,

Io saprò castigarla.
GAS.                                                Mi dia la mia licenza. (sparecchiando)

DOR.                Temeraria, hai coraggio di favellar così?

VOL.                 S'ha a parecchiar la mensa tre o quattro volte al dì?

DOR.                La licenza mi chiedi? (a Gasperina)

GAS.                                                    Pieghiamo la tovaglia.

DOR.                Parla. (a Gasperina)

VOL.                            Leviam la tavola. Non le badar. (a Gasperina, portando la tavola dov'era

prima)
DOR.                                                                                Canaglia.

GAS.                 La ringrazio, signora, del titol che mi ha dato. (parte)

VOL.                 Son povero figliuolo, ma giovine onorato. (parte)

DOR.                Tutti son miei nemici, tutti contro di me.

Anche la serva ingrata; ma so ben io il perché.

L'esempio dei padroni rese quel labbro ardito.

Sì, di tutti i disordini è causa mio marito.

Egli seconda il padre per i disegni sui;

Voglio ch'ei me la paghi; mi sfogherò con lui. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA La Signora Dorotea ed il Conte Alessandro

DOR.                Tant'è, conte Alessandro; finor fui sofferente,

Finora in questa casa trattai placidamente.

Ma la dolcezza è inutile, e chiaramente io veggio

Che il simular i torti con questa gente è peggio.

Infin i servitori mi perdono il rispetto;

Quando di me si tratta, fan tutto per dispetto.

E se al signor Ferrante le mie doglianze io porto,

Darà ragione ai servi, e mi dirà che ho torto.
CON.                Chi è mai quell'insensato, chi è mai quell'uom da niente

Che a voi non dia ragione, sì saggia e sì prudente?

Seppi l'impertinenza che i servidori han fatto,

Non devonsi i ribaldi soffrire a verun patto.

Io dal signor Ferrante immantinente andai;

Una soddisfazione gli chiesi, e l'impetrai.

L'audace Gasperina, Volpino impertinente,

Saran da questa casa scacciati immantinente.
DOR.                Come? la cameriera scacciar dal mio servizio

Senza ch'io lo consenta. Nascerà un precipizio.

Lo so che di levarmela tentan per ogni strada.

Gasperina mi serve, non vuò che se ne vada.

E se di allontanarla alcun sarà sì ardito,

Me ne renderà conto il suocero e il marito.
CON.                Non sapea che per essa aveste tal passione.

Se vi serve, tenetela anch'io vi do ragione.

Basta per soddisfarvi del ricevuto oltraggio,

Che di qua sia scacciato il servitor malvaggio.

Subito, innanzi sera...
DOR.                                                      No, no, questi signori

Non vo' che possan dire, che io scaccio i servitori.

Cercano ogni pretesto per screditarmi al mondo;

Conosco a sufficienza della malizia il fondo.

Diran che mi predomina la collera e l'orgoglio.

Han da restare in casa; io dico, e così voglio.
CON.                Sempre più, mia signora, prendo di voi concetto

Veggo che possedete un lucido intelletto.

Io non era arrivato a quel che voi pensate.

Veggo che la giustizia e la ragion amate.
DOR.                Mi scaldo in sul momento, poi generosa io sono.

CON.                Ben, che vengano i servi a chiedervi perdono.

DOR.                No no, saran capaci fingere un pentimento,


Ed occultar nell'animo il perfido talento.
CON.                Regolatevi a norma del lucido pensiero.

(Questa è bene una testa original davvero). (da sé)
DOR.                Conte, a pranzo con noi stamane io v'invitai;

Ma qui di dare in tavola non la finiscon mai.
CON.                So che il comando aspettano solo da voi, signora.

DOR.                Perché aspettar ch'io il dica, se trapassata è l'ora?

È pur la mala cosa trattar con simil gente.

Vonno far i dottori, e non intendon niente.

Prima che voi veniste, avevan preparato.

Perché non dare in tavola, or che siete arrivato?
CON.                Perché sono ignoranti.

DOR.                                                    No, perché in questo tetto

Tutto quello che fanno, lo fanno per dispetto.

Chi è di là?

SCENA SECONDA

Foligno e detti.

FOL.                                    Mi comandi.

DOR.                                                         Non si desina ancora?

Che si fa questa mane?
FOL.                                                       Subito, sì signora.

Venite a preparare. (verso la scena)
DOR.                                                 Parti buona creanza?

Va a preparar, villano, la mensa in altra stanza.
FOL.                 Dove comanda?

DOR.                                          In sala.

FOL.                                                       Cosa dirà il padrone?

Sa che l'aria per solito gli accresce la flussione.
DOR.                Senza il signor padrone si mangierà da noi.

E non abbiam che fare con i cancari suoi.
FOL.                 La camera vicina dall'aria è più coperta.

DOR.                Voglio mangiare in sala colla finestra aperta.

FOL.                 Con il freddo che corre?

DOR.                                                         Ne dici una di vera?

Sembrati che sia freddo? Se par di primavera!

Conte, non è egli vero?
CON.                                                      Oggi, per verità,

Non è il solito freddo né men per la metà.

Il barometro mio per tempo ho visitato:

Veduto ho dal mercurio segnare il temperato.

A camminar si suda, e nel salir le scale

Mi ho sentito venire un caldo universale.

Andiamo all'aria fresca a respirare un poco.
DOR.                Portami uno scaldino con un tantin di foco. (a Foligno)

FOL.                 Subito, sì signora. (Il caldo l'è passato.

S'ha da dire al contrario. Basta così, ho imparato). (da sé, e parte)


SCENA TERZA La Signora Dorotea ed il Conte Alessandro

CON.                (Me l'ha detto l'amico, che mi farà impazzire.

Pur non dispero ancora. Ancor vuò proseguire). (da sé)

DOR.                (Non ho trovato al mondo un uom più compiacente

Ch'egli davver mi stima, conosco apertamente). (da sé)

CON.                (La via di guadagnarla ancor non ho trovata).

DOR.                (Alla sua gentilezza non voglio esser ingrata).

Conte, non dite nulla? Che fate voi sospeso?

CON.                Signora mia, il protesto, sono da voi sorpreso.

Più che vi tratto, io scopro in voi nuovi talenti; La rarità mi piace dei vostri sentimenti, E quel nobile misto di virtuoso sdegno E di dolcezza amabile mi piace al maggior segno. Io, vi confesso il vero, stando con voi, mi trovo Fuor del comun sistema, quasi in un mondo nuovo. Un uom può ritrovarsi di cento donne appresso, Poco più, poco meno, sente ogni dì lo stesso. Vantano tutte l'altre certe virtù comuni, Che dai soliti vizi non ponno andar immuni; Voi, con mia maraviglia, avete una virtù Che praticando il mondo non osservai mai più: Una mente prontissima, un intelletto aperto, Di onore e di prudenza un nobile concerto. La vostra intelligenza sorpassa ogni confine, Di qualunque intrapresa voi prevedete il fine. Esser sapete a un tempo e risentita, e umana. Ah, chi può non accendersi d'una virtù sì strana?

DOR.                Caro Conte, possibile che oggi da me venuto,

Abbiate quel ch'io sono sì presto conosciuto? Tanti che ho praticato, da che son maritata, Nel fondo, come voi, nessun mi ha ravvisata; Avvezzi colle donne deboli per natura, Suol loro una virtude sembrar caricatura. Quell'onorato sdegno che risentire io soglio, Credono che dipenda dall'ira e dall'orgoglio. Ed il cambiar ch'io faccio in umiltà lo sdegno,

I sciocchi non comprendono, che di buon cuore è un segno.
CON.                Grand'ignoranza invero! io sol per mia fortuna

Scorgo quanta bellezza nel vostro cuor si aduna. Non vi conosce il mondo, e con mia maraviglia Siete mal conosciuta perfin dalla famiglia.

II suocero, il marito, mi perdonino anch'essi,
Sono nel ravvisarvi dall'ignoranza oppressi.
Dovrebbero d'accordo ringraziar la sorte
D'aver sì degna nuora, sì amabile consorte.


DOR.                Anzi son essi i primi a disprezzarmi ingrati

Con titoli ingiuriosi, da me non meritati.

CON.                Voglio, signora mia, voglio, se il ciel m'aiuta,

Rendervi per giustizia da tutti conosciuta. Sopra di me l'impegno mi prendo arditamente, Se il vostro cor l'approva, se l'umiltà il consente.

DOR.                Conte, gli sforzi vostri temo che riescan vani.

Malagevole impresa è il persuader gl'insani.

CON.                Fidatevi di me; s'io vi conosco appieno,

D'illuminare i ciechi non mi negate almeno

S'io penso al caso vostro, sentomi venir caldo.

Vuò illuminar Ferrante, vuò illuminar Rinaldo,

E Fabrizio, e Roberto, e Gaudenzio istesso,

E i parenti, e gli amici dell'uno e l'altro sesso;

Per tutta la città voglio essere una tromba,

Non vuò che il vostro merito a un tal destin soccomba.

Voglio farvi risplendere in fatti ed in parole,

Come di mezzogiorno splendono i rai del sole.

DOR.                (Il credito del Conte mi può servir d'aiuto.

D'un fortissimo appoggio il ciel mi ha proveduto). (da sé)

SCENA QUARTA Foligno e detti.

FOL.                 Ecco, se lo comanda, il caldanin col foco.

DOR.                Portalo via, la testa ho riscaldata un poco.

CON.                Non vel dissi, signora, che l'aria è riscaldata?

DOR.                No, non è ver. Poc'anzi sentivami gelata.

Ma riscaldarmi io sento, amabil cavaliere, Dalle vostre parole dolcissime, sincere. Portalo via, ti dico.

FOL.                                                (Si scalda molto presto).

Vuole che diano in tavola? Il desinare è lesto.

DOR.                Il suocero ove mangia?

FOL.                                                       In camera soletto.

DOR.                Conte, cosa ne dite? Fa tutto per dispetto.

È possibile mai, s'io dico una parola Che soddisfar mi vogliano neanche una volta sola? Anch'io tant'altre cose per compiacer sopporto: Per desinare in sala credo non saria morto. Conte, voi per mia parte dite al suocero mio, Che s'ei non viene in sala, sto nel mio quarto anch'io. Son buona, son discreta fino ad un certo segno, Ma se mi fanno un torto, colla ragion mi sdegno. Voi che mi conoscete, ditegli a aperta ciera, Ch'io son, come mi vogliono, e docile, ed altiera; E che se i lor dispetti mi fan venir la rabbia, Dirò anch'io: chi la pace non vuol, la guerra s'abbia. (parte)


FOL.                 (Che tu sia benedetta!)

CON.                                                      (Non mi credeva mai

Di faticar cotanto; ma ho guadagnato assai.

Finora ai miei disegni sol per metà si è arresa.

Spirito non mi manca per terminar l'impresa). (parte)
FOL.                 (Io starei giorno e notte ad ascoltarla attento:

Che giovane di garbo! che bel temperamento!

Crediam che ve ne siano dell'altre come lei?

Io credo che ogni sette, se ne ritrovin sei). (parte)

SCENA QUINTA

Sala con tavola preparata.

Camilla e Rinaldo

CAM.                Dunque, signor fratello, per esser maritata

Deggio aspettar l'assenso aver da mia cognata?

E s'ella per il solito suo contradir si oppone.

Non troverò nessuno che facciami ragione?

Noto vi è il mio costume: sapete ch'io non soglio,

Quando gli altri dispongono, dir voglio, e dir non voglio.

A Dorotea medesima per obbligo ed affetto

Mostrato ho all'occasione la stima ed il rispetto.

E se di madre il carico per cortesia si piglia,

Vivere può sicura, ch'io le sarò qual figlia.

Ma se cangiar si vede senza ragione alcuna,

Perdere non intendo per lei la mia fortuna.

L'ho detto al genitore, lo dico a un mio germano,

Ricorrerò a chi spetta, se mi querelo invano.
RIN.                  A ragion vi dolete, lo vedo e lo confesso.

Lo confessa e lo vede il genitore istesso.

Ora il conte Alessandro posto si è nell'impegno

Della femmina altera di moderar lo sdegno.

Fabrizio si è calmato, Roberto vi sospira.

Ciascun, cara Camilla, a consolarvi aspira.

Soffrite ancora un poco, vediam se Dorotea

Placida corrisponde alla comune idea;

Ma quando poi si ostini...
CAM.                                                          Via, che farete allora?

RIN.                  Farò quel che conviene.

CAM.                                                      Voi tremerete ancora.

Giovine più di voi son di molt'anni, il veggio.

Poco conosco il mondo, e consigliar non deggio;

Ma dall'amor fraterno spinta a parlar sincera,

Voi mi perdonerete, s'io vi favello altera.

Vergogna è che un par vostro, padrone in queste soglie,

Si lasci il piè sul collo mettere dalla moglie.

Se mi toccasse in sorte un uom sì poco esperto,


Non seguirei l'esempio di mia cognata al certo, Ma quanto compiacermi saprei di sua bontà, Sarebbemi altrettanto odiosa la viltà. Amatela la moglie con il più forte impegno, Siate condescendente, ma fino a un certo segno. Con voi se la consorte indocile si mostra, Se vuol suppeditarvi, la colpa è tutta vostra; E quasi è compatibile il suo costume ardito, Se in pace lo sopporta il semplice marito.

RIN.                  Piano, che non vi senta. (guardando d'intorno)

CAM.                                                      Povero mio germano,

Temete ch'ella venga con il bastone in mano?

RIN.                  È ver ch'è una testaccia, ma non è poi sì stolta.

CAM.                Se verrà col bastone, sarà la prima volta?

RIN.                  Orsù, parliamo d'altro.

CAM.                                                      Sì sì, d'altro parliamo.

Oggi con questo freddo intirizzir dobbiamo? Per lei s'ha da mangiare in un salone aperto? Povero genitore, ei non ci viene al certo.

RIN.                  Eccolo con il Conte.

CAM.                                                 Scommetto ch'egli ancora

Viene a sagrificarsi per contentar la nuora.

SCENA SESTA Il Signor Ferrante, il Conte Alessandro ed i suddetti.

FER.                  Conte, non so che dire. Soffrir mi converrà.

Ma s'io prendo un malanno, chi mi risanerà?
CAM.                No, caro signor padre, espor non vi consiglio

La preziosa salute a un prossimo periglio.
FER.                  Che volete ch'io faccia? Vuol così la mia sorte.

Sian ben serrate almeno le finestre e le porte.
CAM.                Per qual necessitade patir vi contentate?

CON.                Signora, per il padre sì timida non siate.

Non distruggete un'opra, che bene ho principiata.

Siate condescendente voi pur colla cognata.

Fidatevi di me per questa volta sola.

Ne vedrete il buon esito. Vi do la mia parola.
RIN.                  Il Conte è un uom di spirito, è un amico sincero.

CAM.                Del suo buon cor non dubito; ma non per questo io spero.

FER.                  Se ho da patir il freddo, che si mangiasse almeno;

Col bere e col mangiare il gel si sente meno.

È avvisata mia nuora?
CON.                                                      Eccola ch'ella viene.

FER.                  Subito la minestra; ma che sia calda, e bene. (ad un Servitore che parte)


SCENA SETTIMA La Signora Dorotea e detti.

DOR.                Serva di lor signori; pregoli di scusare,

Se oggi un po' più del solito mi son fatta aspettare.

Come sta il signor suocero?
FER.                                                               Da vecchio, figlia mia.

DOR.                Vecchio il signor Ferrante? non dica una bugia.

FER.                  Pur troppo sulle spalle sento il peso degli anni.

DOR.                Quanti ne avrà?

FER.                                            Settanta.

DOR.                                                         Dubito che s'inganni.

FER.                  Anzi, credo che siano settanta uno.

DOR.                                                                         Oibò.

Ella sbaglia di molto.
FER.                                                     Il conto ora vi fo.

Sono venuto al mondo nell'anno ottantasei.

Siam del cinquantasette.
DOR.                                                         Or mi riscalderei.

Se una bugia mi dicono, io presto vado giù.

Voi non potete avere che sessant'anni al più.

Conte, che dite voi?
CON.                                                 Di più non averà.

FER.                  (Vuol contradir perfino sulla mia stessa età).

DOR.                Sì, v'intendo, signore, lo so perché volete

Farvi in questa occasione più vecchio che non siete.

Un rimprovero è questo alla mia indiscretezza

Che senza aver riguardo di un uomo alla vecchiezza,

Voglia in sala vederlo dal freddo intirizzire.
FER.                  Oh no, figliuola mia, non mi par di patire. (tremando)

SCENA OTTAVA

Foligno e due altri Servitori con i piatti caldi, e detti.

FOL.                 (Mette in tavola i tre piatti)

DOR.                Tre piatti in una volta? (a Foligno)

FOL.                                                       Creduto ho di dovere

Di servir in tre piatti, per via del forastiere.
DOR.                Bella foresteria che al cavalier voi fate!

Dargli per cerimonia vivande raffreddate!

Venga un piatto alla volta. Conte, che ve ne pare?
CON.                Certo, un piatto alla volta. Questo è il vero mangiare.

FER.                  Anch'io così l'intendo. Pria la minestra, e poi...

DOR.                No, la minestra in fine. Conte, che dite voi?

CON.                Dico che va benissimo. La Francia a noi maestra,

Ora accostuma all'ultimo la zuppa o la minestra.
FER.                  Ma non è ben dapprima lo stomaco scaldarci?


DOR.

Non signore; alla moda dobbiamo uniformarci.

Lascia il salame in tavola. Porta il resto in cucina. (Foligno leva due piatti, e li dà

ai Servitori)

FER.

(Povero me! pazienza).

CAM.

(Che cara cognatina!)

RIN.

Via sediamo, signori.

DOR.

Come! in questa mattina

Non vengono a servire Volpino e Gasperina?

FER.

Non vuò che quei bricconi, che vi han perso il rispetto

Ardiscano venire dinanzi al mio cospetto.

So il mio dovere in questo, e li saprò punire.

DOR.

Chiamateli. Che vengano in tavola a servire. (ad un Servitore che parte)

FER.

Ma perché li volete?...

DOR.

Le mie ragioni ho pronte.

Se a voi note non sono, ve le può dire il Conte.

CON.

Pensa ben la signora, opera da sua pari;

Saprà col suo talento punir quei temerari.

Voi non la conoscete. Dirò per istruirvi...

DOR.

Basta così, sediamo. (siede)

CON.

Eccomi ad obbedirvi. (vuol sedere)

RIN.

Questo è il loco del Conte.

DOR.

No, no, sedete qui.

RIN.

Quello è l'ultimo loco.

DOR.

Si pratica così.

CAM.

(È una cosa, per dirla, ridicola all'eccesso). (da sé)

FER.

Io dunque...

DOR.

Voi, signore, venitemi dappresso.

FER.

Ma perché non volete quel povero infelice? (accennando Rinaldo)

DOR.

Ecco, tosto ch'io parlo, ciascun mi contradice.

Che dite voi del suocero? non può veder la nuora. (al Conte)

FER.

No, Dorotea carissima, il suocero vi adora.

Eccomi a voi vicino; basta che voi parliate,

Tutto a eseguir son pronto; di ciò non dubitate.

DOR.

Conte, gli posso credere?

CON.

Voi avete una mente,

Che da sé può discernere assai felicemente.

DOR.

Eccovi del salame. (a Ferrante)

FER.

Non fo per rifiutarlo,

Ma non ho denti in bocca bastanti a masticarlo.

Bisogno ho di scaldarmi con un po' di minestra.

DOR.

Foligno.

FOL.

Mia signora.

DOR.

Apri quella finestra.

FER.

No, per amor del cielo.

DOR.

Eccolo a contrariarmi.

In sì picciola cosa nemmen vuol soddisfarmi?

CON.

Caro signor Ferrante, voi avete un gran torto.

FER.

Mi dia un colpo alla prima, se mi vuol veder morto.

È ver, lo torno a dire: ho settant'anni addosso,

Ma vuò partir dal mondo quanto più tardi io posso. (parte)

DOR.

La vecchiaia è la madre della malinconia;


Che ne dite, cognata?
CAM.                                                   Dico, signora mia,

Che l'aria dell'inverno sul collo non mi piace.

Se il freddo vi diletta, godetevelo in pace. (parte)
DOR.                Conte, che bella grazia!

CON.                                                         Per dir la verità,

Quest'è ver la cognata mancar di civiltà.
RIN.                  Di grazia, compatitela; Camilla fu avvezzata

A vivere dall'aria difesa, e ritirata.

Anch'io, per dire il vero, l'aria soffrir non soglio

Ma sto qui, non mi parto.
DOR.                                                         Andate; io non vi voglio.

RIN.                  Ma perché?

DOR.                                   Con il padre ite, e colla sorella.

RIN.                  Ditemi la ragione...

CON.                                                 Itene. Oh questa è bella.

La signora non parla senza la sua ragione,

E un torto a lei commette chi al suo voler si oppone.

Un marito discreto, che peni a disgustarla,

Si alza immediatamente, se ne va via, e non parla.
DOR.                Bravo, Conte, davvero.

RIN.                                                        (Del Conte io so l'impegno;

So che per questa via conduce il suo disegno). (da sé)
DOR.                Udiste il suo consiglio? Provate a secondarlo. (a Rinaldo)

RIN.                  Mi alzo immediatamente, me ne vo via, e non parlo. (parte)

DOR.                Ora mi ha dato gusto. (si alza)

CON.                                                    Credetemi, signora, (si alza)

Che gli altri in poco tempo si cangieranno ancora.

Veggo che il mio sistema inutile non è.

Lasciatemi operare, fidatevi di me.
DOR.                Della vostra prudenza assicurata io sono.

A voi cogli occhi chiusi mi arrendo e mi abbandono.

Se gli altri mi diranno che il sole è risplendente,

Credere che sia tale saprò difficilmente.

Ma quando a voi piacesse dirmi che il bianco è nero,

Conte, vi ho tanta fede, che mi parrebbe il vero.
CON.                (Voglio darle la prova se parlami sincera). (da sé)

Signora, ecco Volpino, ecco la cameriera.
DOR.                Che ho da far di costoro?

CON.                                                           Se sono rei, punirli;

E se sono innocenti, tenerli e compatirli.
DOR.                Andiam nella mia camera a finir di pranzare. (al Conte)

(Questo freddo, per dirla, non si può sopportare). (da sé)

SCENA NONA
Volpino, Gasperina e detti.
GAS.                 Signor, mi raccomando. (al Conte)


CON.                                                         Avanzatevi pure.

DOR.                Basta così; ho capito senz'altre seccature.

Siete due temerari, ma compiacente io sono,

Ed in grazia del Conte, vi assolvo e vi perdono. (parte)
VOL.                 Ringrazio vossustrissima.

GAS.                                                           Grazie alla sua bontà.

CON.                (Ora della grand'opra son giunto alla metà.

S'ella di me si fida, la donna è guadagnata.

O non son io chi sono, o la vedrem cangiata). (da sé)
VOL.                 Parmi ancora impossibile, che quel cervel sì strano

Del cavaliere in grazia sia divenuto umano.
GAS.                 Non ti maravigliare, le donne son così;

Di no dicono a cento, a un sol dicon di sì.

Il suocero, il marito, con lei non fanno niente;

Quel che può dominarla, è il cavalier servente. (parte)
VOL.                 Non so se Gasperina abbia intenzione anch'essa

Di seguire la regola della padrona istessa.

Ma se di comandarla io non sarò padrone,

Lascierò che la domini il cavalier bastone. (parte)


ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Camera

La Signora Dorotea ed il Conte Alessandro

DOR.                Conte, non so che dire; se favellare io v'odo,

Sentomi violentata far tutto a vostro modo.

Di perdonare ai servi mi avete insinuato;

Senza aspettar le scuse, io loro ho perdonato.

Col suocero e il consorte voi mi volete amica?

Quello ch'è stato, è stato. Il ciel li benedica.

Piace a voi di Camilla che seguano i sponsali?

Seguano pure; io stessa farò i cerimoniali.

Siete contento ancora? ho da far più? chiedete.

Conosco il vostro merito voi comandar potete.
CON.                Questa bontà di cuore autentica ancor più

La vostra impareggiabile dolcissima virtù;

Non è merito mio sì docile talento,

Ma frutto generoso di un bel temperamento.
DOR.                Eppure irragionevole il mondo mi suppone;

Voi che mi conoscete, voi fatemi ragione.

Ed io che qualche volta posso ancora ingannarmi,

Protesto, in ogni tempo, a voi di riportarmi.
CON.                (Questo è quel che mi basta, ma ancor non ne son certo). (da sé)

Voi avete, signora, un intelletto aperto.

La veritade, il merito distinguere sapete;

Veggo che per modestia dipendere volete.

Ed io corrispondendo a un simile pensiero

Senza riguardo alcuno vi parlerò sincero.
DOR.                (Coll'aiuto del Conte farò valere il voglio). (da sé)

CON.                (S'ella di me si fida, abbasserà l'orgoglio). (da sé)

Permettete, signora, che al suocero e al marito

Mandisi immantinente un cordïale invito.

Vengano assicurati, che voi per secondarli...
DOR.                No, Conte, andate voi piuttosto a ritrovarli.

CON.                Se li facciam venire, la cosa è più decente.

DOR.                Ora non vuò che vengano; ho un'altra cosa in mente.

CON.                Ma voi, signora mia, credo che mi adulate.

Mostrate di rimettervi, e poi mi contrastate?
DOR.                Di grazia, compatitemi per questa volta sola;

Dipenderò in tutt'altro, vi do la mia parola.

Anzi con quel ch'io medito nel mio pensier, vi giuro

Che l'intenzione vostra di soddisfar procuro.


L'opera a far compita il mio cervel lavora.
CON.                Posso saper il modo?

DOR.                                                    Non lo vuò dir per ora.

CON.                Fatemi la finezza.

DOR.                                               No, Conte, dispensatemi.

Per questa volta sola in libertà lasciatemi.
CON.                Bene: vuò soddisfarvi. Attenderò l'effetto

Del vostro meditato recondito progetto.

Vo a ritrovar gli amici, vo a consolarli tutti,

Della bontade vostra vo ad esibire i frutti.

Verranno qui fra poco Fabrizio e il di lui figlio;

Tutti a voi con affetto rivolgeranno il ciglio.

Camilla sarà lieta; conoscerà da voi

L'esito fortunato ai desideri suoi.
DOR.                Vorrei avere il merito io sol con mia cognata

D'averla a suo piacere servita e consolata.

Farlo non si potrebbe senz'altra dipendenza?
CON.                Devesi in questo caso serbar la convenienza.

L'han da sapere i padri, si han da trovar presenti;

Dee chiudersi il contratto fra amici e fra parenti.

E poi non vi è bisogno che a voi si suggerisca:

Donna non evvi al mondo, che più di voi capisca.

Vado a recar sollecito l'annunzio altrui felice.

Addio, di cuori afflitti bella consolatrice. (parte)

SCENA SECONDA La Signora Dorotea sola, poi Foligno

DOR.                Me degli afflitti cuori consolatrice appella?

E aggiungevi cortese il titolo di bella? Caro conte Alessandro, sarò, per quanto lice A femmina onorata, la tua consolatrice. Fra quanti in questo mondo uomini ho praticato, Un cavalier più saggio di lui non ho trovato. Anzi nell'avvenire, per meglio assicurarmi, In ogni congiuntura con lui vuò consigliarmi. Questa volta per altro, il Conte mi perdoni, Se a modo suo non faccio, ho anche io le mie ragioni. E sono sicurissima che quando ei lo saprà Il nobile disegno anch'egli approverà. Se si fan queste nozze de' genitori in vista, La mia condescendenza qual merito si acquista? Se in mezzo a tanta gente consento alla scrittura, Sembrami dover fare pochissima figura; E se per mia cagione l'affar si è differito, Da me per mio decoro dev'essere compito. Chi è di là?

FOL.                                    Mia signora.


DOR.                                                         Dov'è Volpino?

FOL.                                                                                    Ei pranza

DOR.                Digli che lasci tutto, ch'ei venga alla mia stanza.

FOL.                 Obbedirò.

DOR.                                 Mio suocero che fa?

FOL.                                                                   Di là mi aspetta

Ch'io vada a rivestirlo, perché d'uscire ha fretta.
DOR.                (Vuole uscire sì tosto? ora capace egli è

D'andar per le botteghe a mormorar di me.

Resti in casa per oggi). (da sé) Subito immantinente

Trova il signor Roberto; di' lui segretamente,

Che da me favorisca udire una parola;

Ch'io bramo di parlargli fra noi da solo a sola.
FOL.                 Ma se il padron mi aspetta.

DOR.                                                             Facciamola finita.

Quando che ti comando, voglio essere obbedita.
FOL.                 Subito, sì signora. (Spiacemi del padrone:

Ma questa signorina non vuol sentir ragione). (da sé, e parte)

SCENA TERZA La Signora Dorotea, poi la Signora Camilla.

DOR.                Se tanto questo giovane di Camilla è invaghito,

Crederà, s'io gli parlo, toccare il ciel col dito. Ma prima ch'egli arrivi, voglio, per farmi grata, Disporre ad accettarlo il cuor di mia cognata. Manderò ad invitarla... Eccola appunto sola. Ehi, signora Camilla, sentite una parola.

CAM.                Cosa mi comandate?

DOR.                                                    Vi compatisco invero,

Se voi mi giudicate volubil di pensiero. Ma son le circostanze quelle che fan cambiare, Per voi son la medesima, lo torno a protestare. E perché voi veggiate s'io parlovi sincera, Desidero vedervi sposata innanzi sera.

CAM.                Mio padre e mio fratello ponno di me disporre.

DOR.                Quel che si può aver subito, il differir che occorre?

Essi prendono tempo un anno al matrimonio, La dote a voi promessa mancando al patrimonio; Io posso coi miei beni la dote anticipare, E il vostro sposalizio poss'io sollecitare.

CAM.                Ditelo al genitore, ditelo a mio germano.

DOR.                Altrui, quand'io lo dico, parteciparlo è vano.

Voglio aver io l'onore di dire alla brigata: Signori, consolatevi, Camilla è maritata.

CAM.                Grazie, cognata mia, grazie di un sì gran bene;

Spiacemi che accettarlo per or non mi conviene. A quel del genitore ho il mio voler soggetto,


Né posso onestamente mancare al mio rispetto.
DOR.                Chiaro manifestate, nel ricusar l'impegno,

Che l'ira vi consiglia, che vi anima lo sdegno;

Dell'odio pertinace or si conosce il frutto,

Ricusando lo sposo per contradirmi in tutto.

Non mi credeva mai trovar nel vostro cuore

Sotto un aspetto docile sì perfido il livore.

Onde a dispetto anch'io dell'intenzion sincera,

Studierò in avvenire di comparir severa.
CAM.                Ma se un pensier sì buono per me nutrite in cuore,

Perché comunicarlo negate al genitore?

Perché al consorte vostro nasconderlo volete?
DOR.                Senza il perché non opero, ma voi non lo saprete.

CAM.                Né io, senza saperlo, l'esibizione accetto.

DOR.                Né io cura mi prendo di chi opera a dispetto.

CAM.                La grazia generosa fate compitamente.

DOR.                Voi favellate invano; o com'io voglio, o niente.

CAM.                Cognata, compatitemi, il ver lo voglio dire,

Par che voi lo facciate alfin di contradire.
DOR.                Già son pagata al solito con i disprezzi e l'onte.

Se fosse qui presente, cosa direbbe il Conte?

Egli che mi conosce, egli che sa il mio cuore,

Formalizzar potrebbesi del mio soverchio amore.
CAM.                Anzi mi persuado che un cavalier onesto,

Il mio dover sapendo, mi loderebbe in questo.
DOR.                Egli de' miei consigli si gloria e si compiace.

CAM.                L'offenderei di questo credendolo capace.

SCENA QUARTA

Il Signor Roberto e le suddette.

ROB.                 Eccomi ai cenni vostri. (a Dorotea)

CAM.                                                      Voi qui, signor Roberto?

DOR.                Ella fra queste soglie non vi aspettava al certo.

Se voi vi lusingate ch'ella d'amor sospiri,

Sono, ve lo protesto, inutili deliri.

E senza più dipendere da un'anima sì ingrata,

Scegliere vi consiglio un'altra innamorata.
ROB.                 Possibile, Camilla?...

CAM.                                                   Vi amo, non dubitate.

ROB.                 Signora Dorotea, perché mi tormentate?

DOR.                Può darsi ch'io m'inganni, se a torto io vi tormento;

S'ella fedel vi adora, facciam l'esperimento.

Eccomi, vi esibisco sposarvi immantinente;

Mi obbligo a dar io stessa la dote sufficiente.

Pronti due testimoni all'occorrenza abbiamo.

Se siete innamorati, l'affar sollecitiamo.
ROB.                 Voi cosa dite? (a Camilla)


CAM.                                       Io dico, caro Roberto amato,

Che senza i genitori sposarci è a noi vietato.
ROB.                 Per verità, ha ragione. (a Dorotea)

DOR.                                                    Avria ragion qualora

Non fossero contenti i genitori ancora.

Ma nozze contrattate da loro unitamente,

Si pon senza di loro concludere al presente.

Noi non facciam che rendere la cosa più sollecita.
ROB.                 Questa proposizione non mi rassembra illecita. (a Camilla)

CAM.                Ben, se la cosa è onesta, chiamisi la famiglia.

ROB.                 Non dice mal. (a Dorotea)

DOR.                                        Malissimo vi parla e vi consiglia.

I vostri genitori son due temperamenti

Che litigar vorranno per cose inconcludenti,

E prima che si tornino ad accordarsi, io dubito

Che vi vorran degli anni.
ROB.                                                         Dunque facciamlo subito. (a Camilla)

CAM.                L'onor mio nol consente.

DOR.                                                         Ecco, non ve l'ho detto?

La stimola per voi pochissimo l'affetto,

E simular volendo il gel del proprio cuore,

Mettere sa con arte in campo il genitore.
ROB.                 Ah, dubito sia vero.

CAM.                                                 Voi dubitate invano.

DOR.                Creder non lo potete, se negavi la mano. (a Roberto)

ROB.                 Adorata Camilla, s'è ver che voi mi amate,

In faccia alla cognata la man non mi negate.

Alfin se il genitore vorrà rimproverarvi,

La nuora, che s'impegna, potrà giustificarvi.

Questa è l'unica volta che l'amor mio vi prega.

Mio non è il vostro cuore, se un tal favor mi niega.

Tremo nel rammentarmi le mie vicende andate;

Consolandomi, o cara, vedrò se voi mi amate.
CAM.                Ah, l'amor mio è sì grande, che in simile cimento

Quello che mi chiedete negar più non consento.

Se l'impazienza vostra mi stimola a tal segno,

Scordomi di me stessa, vi offro la mano in pegno.
ROB.                 Felice me!

DOR.                                   (La sciocca ceder doveva, il so

Io, quanto più mi pregano, tanto più dico no). (da sé)

Via, concludasi dunque. Facciam le cose pronte.

I testimon si chiamino... Ecco opportuno il Conte.

SCENA QUINTA

Il Conte Alessandro e detti.

CON.                Come, signor Roberto! voi qui? chi vi ha condutto.

Vostro padre, gli amici, vi cercano per tutto.


Per concluder le nozze siete di là aspettati. (a Roberto e a Camilla)
CAM.                Andiam.

DOR.                                 Non anderete senz'essere sposati.

CON.                Sposati?

DOR.                               Eccovi, o Conte, svelato il mio disegno.

Di unirli in matrimonio preso da me ho l'impegno.

Vuò far vedere al mondo chi sono, e chi non sono:

Che facile mi sdegno, che facile perdono.

E voglio in mia presenza che porgansi la mano,

Senza de' genitori, senza di suo germano.

Conte mio, son certissima che voi mi loderete.
CON.                Libero, quel ch'io sento, dirò, se il permettete.

Veggo assai chiaramente quanto dalla passione

Ad essere offuscata soggetta è la ragione,

E che la mente umana, quantunque illuminata,

Talor ne' suoi consigli suol essere ingannata.

Come! legar volete di due persone i cuori

Senza il figlial rispetto dovuto ai genitori?

L'autorità paterna violare a voi non spetta.

Amor non vi consiglia. Vi sprona una vendetta.

E di acquistare in vece lode, rispetto e stima

Gli animi voi rendete più torbidi di prima.

Io della bontà vostra, io son garante al mondo,

Ma in simile sconcerto mi perdo e mi confondo.

Una donna s'è saggia, alle grand'opre avvezza,

Come mai può cadere in tanta debolezza?

Come mai una mente sì nobile e sovrana

Discendere ha potuto ad un'azion villana?

Ah, pur troppo egli è vero, tutti siamo in periglio,

Tutti bisogno abbiamo d'aiuto e di consiglio.

Cento ragion non bastano a autenticare un torto,

In voi un'ingiustizia non lodo, e non sopporto.

Tutte le ragion vostre difendere m'impegno,

Ma non difendo un atto del vostro cuore indegno.

Soffrite ch'io vi parli da cavalier qual sono,

O in balia degl'insulti vi lascio, e vi abbandono.
ROB.                 (A un simile discorso rimane ammutolita). (da sé)

CAM.                (Non vi volea di meno per renderla avvilita). (da sé)

DOR.                (Fremo dentro me stessa). (da sé)

CON.                                                           (Or convien raddolcirla;

Fra il dolce e fra l'amaro speranza ho di guarirla). (da sé)

Perdonate signora, se con soverchia ardenza

Vi ha parlato il mio labbro.
DOR.                                                             Codesta è un'insolenza.

CON.                È ver, ma alle occasioni gli amici di buon core

Si lascian trasportare dal zelo e dall'amore.

Sull'onor mio vel giuro, parlai per vostro bene.
DOR.                In presenza degli altri farmi arrossir conviene?

Fansi da solo a sola le correzion discrete.
CON.                È ver, chiedo perdono. Voi che udito mi avete

Parlar sì caldamente con lei degna di stima,


Non intendo per questo che il merito si opprima. Questa è un'illustre donna, che ha sentimenti onesti, Che di beneficare sol medita i pretesti: Donna di mente eccelsa, di cuor schietto e sincero, E se l'incolpa il mondo, il mondo è menzognero. Solo per vostro bene con provido consiglio Si espose incautamente di critiche al periglio. E allor che l'intenzione provien da fondo buono, È degno anche un inganno di scusa e di perdono.

10 della sua virtude ho un ottimo concetto.
Stimatela voi pure, portatele rispetto.

Ite dove vi aspettano entrambi unitamente;
Di quanto è qui seguito, altrui non dite niente.
Noi pur verrem fra poco; vi do la mia parola,
Ella farà cogli altri quel che volea far sola.
E far che si vergognino saprà quei maldicenti,
Che di lei non conoscono il merito e i talenti.
CAM.                Per me son persuasissima della di lei bontà.

11 Conte, a quel ch'io vedo, è un uom di abilità. (da sé e parte)
ROB.                Tutto saprò scordarmi, appena uscito fuore;

Per ora altro non penso, che a consolarmi il cuore. (parte)

SCENA SESTA La Signora Dorotea e il Conte Alessandro

DOR.                Non mi credeva mai di sofferir dal Conte,

Dopo le sue promesse, tanti dispregi ed onte.
CON.                Come! io disprezzarvi? Io, che per l'onor vostro

Con il maggiore impegno sollecito mi mostro?
DOR.                Bella sollecitudine per l'onor mio, signore,

Farmi coprire il volto di un livido rossore?
CON.                Arrossiste a' miei detti?

DOR.                                                      Pur troppo io mel rammento.

CON.                Permettete da questo ch'io formi un argomento:

Donna saggia qual siete, che la ragion capisce,

Quando conosce il torto, si pente ed arrossisce.

Peggio per voi, se ai colpi della mia lingua ardente

Aveste riserbato l'orecchio indifferente.

Se i giusti miei rimproveri a voi recaron duolo,

Se punger vi sentite, con voi me ne consolo.

Segno egli è manifesto di nobile virtù,

Che vuol perfezionarsi nel bene ancora più.

Ed io che vi conosco, che vi amo e vi rispetto,

Desidero che siate senz'ombra di difetto.
DOR.                Ho dei difetti adunque.

CON.                                                      Parmi ne abbiate uno. (con rispetto)

DOR.                Qual sarà?

CON.                                   La credenza di non averne alcuno. (come sopra)


DOR.                Conte, ve lo protesto, se altri ciò mi dicesse,

Vorrei che un'altra volta a dirlo non giungesse. Ma voi mi avete vinto lo spirito in tal modo, Che credere mi è forza, se ragionare io v'odo. Ecco ch'io vi ho voluto svelar la verità, Per prova manifesta di mia sincerità: Certa che generoso, che amabile qual siete, Di mia condescendenza giammai vi abuserete; Fidandomi di voi, sperando all'occasione Che abbiate a sostenere voi pur la mia ragione.

CON.                Sì certo, vi protesto che in me ritroverete

Alla ragion lo scudo, quando ragione avrete. E poiché ragionevole vi spero a tutte l'ore, Sarò dei dritti vostri perpetuo difensore.

SCENA SETTIMA Volpino e detti.

VOL.                 Signora, è supplicata dai due padroni insieme

Andar nel camerone per un affar che preme.
DOR.                Di' lor che mi perdonino, ora di qui non parto.

Se hanno da comandarmi, che vengan nel mio quarto.

Conte, poss'io rispondere con maggior civiltà?
CON.                Signora, tal risposta di cortesia non sa.

Scusatemi di grazia, se il suocero vi aspetta,

Negar d'incomodarvi è un po' di superbietta.
DOR.                Io non lo fo per questo, ma in simile stagione

Non vuò a morir di freddo andar nel camerone.
CON.                Freddo?

DOR.                               Non lo sentite?

CON.                                                         Avete pur sofferto

Di pranzar questa mane col finestrone aperto.

Andiam, signora mia.
DOR.                                                    Che firmino il contratto;

Io verrò a consolarmi, allor che l'avran fatto.
CON.                Per poscia lamentarvi, come faceste in prima,

Che mancan di rispetto, che mancano di stima.
DOR.                Se mandano a invitarmi, hanno al dover supplito.

CON.                E voi mancar volete nel ricusar l'invito?

DOR.                Posso d'intervenirvi lasciar per umiltà.

CON.                Signora, in confidenza, questa è un'inciviltà.

DOR.                Voi così favellate? così mi difendete?

CON.                Il difensore io sono, quando ragione avete.

DOR.                Leviamoci la maschera. Dunque ragion non è,

Se hanno di me bisogno, che vengano da me?
CON.                In ciò dite benissimo; se han bisogno di voi,

Vengano rispettosi a fare i dover suoi.

Ma il punto sta, signora, per dir la verità,


Che nol fanno per obbligo, ma sol per civiltà.
DOR.                Per obbligo nol fanno? Conte, codesta è buona.

Chi son io in questa casa?
CON.                                                           Voi pur siete padrona.

A voi dalla famiglia si devono gli onori,

Voi comandar potete ai vostri servitori.

Tutti han da rispettarvi. Ma a dirla in confidenza,

Il suocero non ha da voi tal dipendenza.

Impugnerei la spada contro chi vi offendesse,

Vorrei che tutto il mondo giustizia vi facesse.

Difendervi procuro, procuro di esaltarvi,

Ma quando avete il torto, io non posso adularvi.
DOR.                Negar non mi potrete, che cerchino al presente

Tutti di contradirmi.
CON.                                                 Vel nego apertamente.

DOR.                Il suocero mi sprezza.

CON.                                                    Il suocero vi onora.

DOR.                E il marito?

CON.                                      E il marito vi venera e vi adora.

DOR.                Dunque io sono una pazza, se falso è quel ch'io dico.

CON.                Conosco i miei doveri, a voi non contradico.

DOR.                Che favellare è il vostro?

CON.                                                           È un favellar sincero.

DOR.                Stolta son io?

CON.                                        Voi stolta? Chi il dice, è un menzognero.

Lo dissi e lo ridico, di voi più bella mente

Non evvi in tutto il mondo nel secolo presente.

Un lucido sublime nell'intelletto avete;

Nel cameron vi aspetto a sostener chi siete.

Colà smentir faremo chi a torto vi condanna;

Chi forma un rio concetto, vedrà quanto s'inganna.

Io vi sarò mai sempre d'aiuto e di conforto;

Ma, Dorotea carissima, deh non mi fate un torto.

Se poco ragionevole vi crede il mondo intero,

Deh, voi non mi obbligate a confessar che è vero. (parte)
DOR.                Misera! lo confesso, non so dove mi sia.

Che misto artificioso di lode e villania?

Io soffrirò gl'insulti? Ma pur soffrir conviene,

Fra tanti che m'insultano, chi dice un po' di bene.

Peggio per me, se il Conte mi sprezza e non m'aiuta:

Senz'un che mi sostenga, lo veggo, io son perduta.

Andiam. Se il labbro mio di contradir non cessa,

Vuò provar questa volta di contradir me stessa. (parte)


ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Camerone

Il Signor Ferrante, il Signor Fabrizio, il Signor Roberto, il Signor Rinaldo, il Signor

Gaudenzio, la Signora Camilla

FER.                  Caro signor Fabrizio, vi son tanto obbligato,

Che siatevi del tutto il dispiacer scordato:

E ritornar vi siate degnato in casa mia,

Per amoroso affetto di vostra cortesia.

E voi, signor Gaudenzio, amico di buon core,

Tornate a favorirci col solito fervore.

Eccoci tutti uniti, son pronto al mio dovere,

Pronto sarà mio figlio. Vi supplico sedere. (tutti siedono)
FAB.                 Diedi al conte Alessandro parola di venire;

Ed eccomi venuto l'impegno ad adempire.

Ma se mai vostra nuora a comparire io vedo,

Mi alzo, e immediatamente mi prendo il mio congedo.
FER.                  S'ella però tornasse con altri sentimenti...

FAB.                 A perderle il rispetto non vuò che mi cimenti.

Subito ch'io la veda spuntar da quella porta,

Fuggo da questa casa, che il diavolo mi porta.
GAU.                Ed io ve lo protesto, se avvicinar la sento,

Senz'altre cerimonie vi lascio in sul momento.

Me ne ricordo ancora. Le sue contradizioni

Mi han fatto per la bile destar le convulsioni.
RIN.                  Ella ha dato parola di rassegnarsi in tutto.

Spera il conte Alessandro delle sue cure il frutto.

L'esito dell'impresa sperimentar si può.
FAB.                 Un tale esperimento attendere non vuò.

O termine al contratto si dia senza di lei,

O vado immantinente a fare i fatti miei.
GAU.                Ecco il foglio, signori; o sia da voi firmato,

O torno per la strada, per cui son qui arrivato.
FER.                  Figlio mio, che ti pare? (a Rinaldo)

RIN.                                                        Voi, signor, cosa dite?

FAB.                 Ecco un nuovo sconcerto.

RIN.                                                            Ecco una nuova lite.

FAB.                 Orsù, signori miei, s'ella vi fa paura,

È meglio ogni contratto di sciogliere a drittura.

Non vuò impazzir coi pazzi.
GAU.                                                               So che sperar non lice...

ROB.                 Ecco il conte Alessandro.


CAM.                                                          Sentiam quel ch'egli dice.

SCENA SECONDA

Il Conte Alessandro e detti.

CON.                Buone nuove, signori. Le cose anderan bene.

FAB.                 Anderanno benissimo, se Dorotea non viene.

CON.                Anzi con noi fra poco l'avremo in compagnia.

FAB.                 Godetevela pure. Roberto, andiamo via.

CON.                No, Fabrizio carissimo, partir voi non dovete.

Fidatevi di me. Chi son, voi lo sapete.

Capace non sarei di esporvi ad un periglio.

Pregovi, quanti siete, rasserenare il ciglio.

Della femmina strana lo spirito è calmato;

L'indocile talento non poco è moderato.

Fatto ho l'esperimento. Piegata a me si mostra;

Ora a voi si conviene di far la parte vostra.

Eccola ch'ella viene: a ogni proposizione

Ciascun le contraponga la sua contradizione.

Veggendosi da tutti in tutto contrariata,

Si vederà la donna oppressa e disperata:

Seguendo l'aforismo dei medici preclari,

Che i contrari per solito si curan coi contrari.
FER.                  Rinaldo, siamo in tanti, che mal ci può venire?

RIN.                  Nasca quel che sa nascere, anch'io vuò contradire.

FER.                  Muoio di volontà di disperarla un poco.

CAM.                Procurerò cogli altri di seguitare il gioco.

SCENA ULTIMA

La Signora Dorotea e detti.

DOR.                Perdonate, signori, se un poco ho ritardato.

FER.                  Vi par poco tre ore?

DOR.                                                 Tre ore?

RIN.                                                                 Si è mandato

A chiamarvi, signora, che son più di tre ore.
DOR.                Chi è venuto a chiamarmi?

CAM.                                                             Volpino il servitore.

DOR.                Prima di un quarto d'ora, certo da me non fu.

FER.                  Egli è da voi venuto, sono tre ore e più.

DOR.                Conte, puol esser tanto, che voi veniste qui?

CON.                Quando lo dicon tutti, dev'essere così.

DOR.                Orsù, non vuò impazzire per cosa che non preme;

Eccomi qui venuta con lor signori insieme.

Ma mi stupisco bene, che stiano in questo loco


Cogli usci spalancati, e senza un po' di foco.
FAB.                 Sembrami di aver caldo, eppur sono avanzato.

GAU.                Credetemi, signora, ch'io son mezzo sudato.

DOR.                Voi che patite il freddo, vi par che abbian ragione? (a Ferrante)

FER.                  Volpino.

VOL.                                 Mi comandi.

FER.                                                       Apri quel finestrone.

VOL.                 Subito. (va ad aprire la finestra)

FER.                             (Mi contento anch'io d'intirizzire). (da sé)

DOR.                Che dite? (al Conte)

CON.                                 A quel ch'è vero, non si può contradire.

DOR.                Signor, per quel ch'io vedo, di me prendete gioco;

Dell'amicizia vostra posso fidarmi poco.
CON.                Questo che voi mi fate, è un torto manifesto.

In faccia a tutto il mondo lo dico e lo protesto:

Vi venero, vi apprezzo, e l'occasione aspetto

Di far valer per voi la stima ed il rispetto.

Signori, perdonatemi, parlo con quanti siete,

La sua virtù, il suo merito, ancor non conoscete,

Ed io che ho qualche pratica del cuor delle persone,

Pretendo in faccia vostra di renderle ragione.
DOR.                Il Conte non è stolido; egli può dir chi sono,

Può dir con fondamento qual penso e qual ragiono.

Mia cognata medesima può dir se nel mio petto

Per lei, per la famiglia, nutrisco un vero affetto
CAM.                Servirvi io non intendo di falso testimonio.

DOR.                Conte, a voi è palese dell'amor mio la prova.

CON.                L'opera mal diretta a meritar non giova.

DOR.                Conte, in faccia del mondo così mi difendete?

CON.                Difendervi prometto, quando ragione avrete.

DOR.                Dunque ho torto finora.

FER.                                                       Finor, nuora carissima,

Foste dalla ragione lontana, lontanissima.
FAB.                 Non si può pensar peggio di quel che voi pensate.

RIN.                  Lontan le mille miglia dalla ragione andate.

GAU.                Sono le vostre pari degli uomini il tormento.

ROB.                 Sempre del ver nemica.

CAM.                                                        Contraria ogni momento.

DOR.                Misera me! da tutti son vilipesa e oppressa.

CON.                Fatevi in tale incontro coraggio da voi stessa.

Veggano il disinganno, conoscano chi siete;

Sol che voi lo vogliate, farli smentir potete.

A chi vi crede ingrata, svelate il vostro cuore.

Ecco il tempo opportuno di meritar l'amore.
DOR.                Come! son fuor del mondo; non so dove mi sia.

Un giorno più terribile non ebbi in vita mia.

Non so di chi fidarmi; confusa, instupidita,

A mio rossor lo dico, ritrovomi avvilita.
CON.                Su via, signori miei, l'affar sollecitate.

Il contratto di nozze ciascun di voi firmate.

Questa, che voi credeste nemica della pace,


Affabile, cortese ne gode, e si compiace.

Accorda del marito non sol la soscrizione,

Accorda della dote non sol la promissione;

Ma perché si solleciti l'affar senza ritardo,

I propri capitali darà senza riguardo,

Contenta che dal suocero le siano assicurati

Sui beni della casa, uniti o separati.

Ella della cognata pronuba si dichiara,

A lei veracemente questa famiglia è cara,

E chi di contradire ardisce a quel ch'io dico,

Mi averà, lo protesto, acerrimo nemico.

Ella è una saggia donna, cui sol virtude aggrada,

Io l'onor suo difendo col labbro e colla spada.
DOR.                Capisco, e non capisco. Sono confusa affatto.

GAU.                Animo, miei signori, soscrivano il contratto.

FER.                  A voi, signor Fabrizio.

FAB.                                                       A voi, signor Ferrante.

CON.                Fermatevi, signori, vuole il dover che innante

Prometta e sottoscriva la nuora e la cognata;

Ed io non vuò permettere che sia pregiudicata.

Favorite, signora, la penna a voi tributo:

Scrivete, e a voi dettando, vi servirò d'aiuto.

«Io Dorotea Falconi dei beni estradotali

Assegno a mia cognata tanti miei capitali,

Che arrivino a formare diecimila ducati,

Quai dal signor Ferrante mi sono assicurati». (egli detta, e Dorotea scrive)

Atto sì generoso chi è che lodar non vuole?
DOR.                (Non so quel ch'io mi faccia, perdute ho le parole) (da sé)

CON.                A voi, signor Rinaldo, di vostra man firmate,

E l'atto della moglie voi pure autenticate.
RIN.                  Eccomi pronto anch'io.

CON.                                                      Soscrivino all'istante

Prima il signor Fabrizio, poscia il signor Ferrante.

Ecco fatto, ecco fatto. Signor Gaudenzio ed io

Siamo i due testimoni; eccovi il nome mio.

Mi consolo, signora, che alfin siete la sposa,

Della cognata in grazia, affabile, amorosa. (a Camilla)

Se i padri si contentano, porgetevi la mano (a Roberto e Camilla)
FER.                  Io mi contento.

FAB.                                           Io pure.

ROB.                                                         Ecco la destra

CON.                                                                                Piano.

Questa benefattrice, che la ragione intende,

Del torto che le fate, moltissimo si offende.

Ella che ha tanto fatto, desidera ancor questo:

Brama colle sue mani formar sì bell'innesto.

Signora Dorotea, gradite il dolce invito:

Presentate voi stessa la sposa al suo marito.

Dal magnanimo cuore l'opera alfin compiuta,

Fate la virtù vostra palese e conosciuta.
DOR.                Conte, non so che dire, trovomi in tale stato,


Ch'io non so ben s'io vegli, o se ho finor sognato, Tanto fuor di me stessa, tanto stordita io sono, Che in tal mia confusione mi perdo e mi abbandono.

CON.                Permettete, signora, che or più che mai sincero,

Labbro di vero amico vi rappresenti il vero. Voi sognaste finora, sperando un miglior frutto Dall'uso pertinace di contradire a tutto. Presso di tutto il mondo, e fin nel vostro tetto, L'odio vi concitava un simile difetto. Ora che l'arte nostra vi ha l'animo colpito, Che il vostro mal dai segni ci par che sia guarito, Tutti quanti vedete, tutti amici vi sono, Vi amano, vi rispettano, e a voi chiedon perdono.

FER.                  Sì, nuora mia diletta, vi amo di tutto cuore.

RIN.                  Compatite, vi priego, l'industria dell'amore.

FAB.                 Mi avete edificato.

GAU.                                               Sono di voi contento.

CAM.                Supplico mia cognata del suo compatimento.

DOR.                Sì, conosco me stessa, sia sempre ringraziato

Il Conte, che con arte alfin mi ha illuminato. Troppa condescendenza mi fe' soverchio ardita, Or le contradizioni m'han punta ed avvilita. Sentendomi da tutti con negative oppressa, Parvemi in uno specchio di ravvisar me stessa. E il duol che mi recava ciascun coi detti sui, Mi fe' capire il duolo ch'io procacciava altrui. Godo del mal sofferto, per riportarne un bene. Quel che per voi ho fatto, è quel che mi conviene. Fate che per mia mano sia l'opera compita: Eccovi al vostro sposo da me medesma unita. Suocero, non temete, Conte, amici, consorte, Mai più contradizioni, mai più sino alla morte. E voglia il ciel che possa con questa mia lezione Guarir qualche altro Spirito di contradizione. Signori miei, se alcuno ne aveste per l'idea Potete l'istoriella narrar di Dorotea. Ma di tali caratteri tutta la terra è piena, E il loro cambiamento è favola da scena.

Fine della Commedia.