L’olimpiade

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L'OLIMPIADE

L'OLIMPIADE

Pietro Metastasio

Dramma rappresentato con musica del Caldara, la prima volta nel giardino dell'imperial Favorita, alla presenza degli augusti regnanti, il dì 28 agosto 1733, per festeggiare il giorno di nascita dell'imperatrice Elisabetta, d'ordine dell'imperatore Carlo VI:

 Argomento

                Nacquero a Clistene, re di Sicione, due figliuoli gemelli, Filinto ed Aristea: ma, avvertito dall'oracolo di Delfo del pericolo ch'ei correrebbe d'esser ucciso dal proprio figlio, per consiglio del medesimo oracolo fece esporre il primo e conservò la seconda. Cresciuta questa in età ed in bellezza, fu amata da Megacle, nobile e valoroso giovane ateniese, più volte vincitore ne' giuochi olimpici. Questi, non potendo ottenerla dal padre, a cui era odioso il nome ateniese, va disperato in Creta. Quivi assalito, e quasi oppresso da masnadieri, è conservato in vita da Licida creduto figlio del re dell'isola; onde contrae tenera e indissolubile amistà col suo liberatore. Avea Licida lungamente amata Argene, nobil dama cretense, e promessale occultamente fede di sposo. Ma, scoperto il suo amore, il re, risoluto di non permettere queste nozze ineguali, perseguitò di tal sorte la sventurata Argene, che si vide costretta ad abbandonar la patria e fuggirsene sconosciuta nelle campagne d'Elide, dove sotto nome di Licori ed in abito di pastorella visse nascosta a' risentimenti de' suoi congiunti ed alle violenze del suo sovrano. Rimase Licida inconsolabile per la fuga della sua Argene; e dopo qualche tempo, per distrarsi dalla mestizia, risolse di portarsi in Elide e trovarsi presente alla solennità de' giuochi olimpici, ch'ivi, col concorso di tutta la Grecia, dopo ogni quarto anno si ripetevano. Andovvi lasciando Megacle in Creta, e trovò che il re Clistene, eletto a presiedere a' giuochi suddetti, e perciò condottosi da Sicione in Elide, proponeva la propria figlia Aristea in premio al vincitore. La vide Licida, l'ammirò, ed, obbliate le sventure de' suoi primi amori, ardentemente se n'invaghì; ma disperando di poter conquistarla, per non esser egli punto addestrato agli atletici esercizi, di cui dovea farsi pruova ne' detti giuochi, immaginò come supplire con l'artifizio al difetto dell'esperienza. Gli sovvenne che l'amico era stato più volte vincitore in somiglianti contese; e (nulla sapendo degli antichi amori di Megacle con Aristea) risolse di valersi di lui, facendolo combattere sotto il finto nome di Licida. Venne dunque anche Megacle in Elide alle violenti istanze dell'amico; ma fu così tardo il suo arrivo, che già l'impaziente Licida ne disperava. Da questo punto prende il suo principio la rappresentazione del presente drammatico componimento. Il termine o sia la principale azione di esso è il ritrovamento di quel Filinto, per le minacce degli oracoli fatto esporre bambino dal proprio padre Clistene; ed a questo termine insensibilmente conducono le amorose smanie di Aristea, l'eroica amicizia di Megacle, l'incostanza ed i furori di Licida e la generosa pietà della fedelissima Argene. HEROD. PAUS. NAT. COM. ec.

INTERLOCUTORI

CLISTENE, re di Sicione, padre d'Aristea.

ARISTEA, sua figlia, amante di Megacle.

ARGENE, dama cretense, in abito di pastorella sotto nome di Licori, amante di Licida.

LICIDA, creduto figlio del re di Creta, amante d'Aristea ed amico di Megacle.

MEGACLE, amante d'Aristea ed amico di Licida.

AMINTA, aio di Licida.

ALCANDRO, confidente di Clistene

La scena si finge nelle campagne d'Elide, vicino alla città d'Olimpia, alle sponde del fiume Alfeo.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Fondo selvoso di cupa ed angusta valle, adombrata dall'alto da grandi alberi, che giungono ad intrecciare i rami dall'uno all'altro colle, fra' quali è chiusa.

 LIC. Ho risoluto, Aminta;

più consiglio non vuo'.      

 AMI.                                    Licida, ascolta.

Deh modera una volta

questo tuo violento

spirito intollerante.             

 LIC.                      E in chi poss'io

fuor che in me più sperar? Megacle istesso,

Megacle m'abbandona

nel bisogno maggiore. Or va, riposa

su la fé d'un amico.           

 AMI.                                    Ancor non dèi

condannarlo però. Breve cammino

non è quel che divide

Elide, in cui noi siamo,

da Creta ov'ei restò. L'ali alle piante

non ha Megacle al fin. Forse il tuo servo

subito nol rinvenne. Il mar frapposto

forse ritarda il suo venir. T'accheta:

in tempo giungerà. Prescritta è l'ora

agli olimpici giuochi

oltre il meriggio, ed or non è l'aurora.

 LIC. Sai pur che ognun, che aspiri

all'olimpica palma, or sul mattino

dee presentarsi al tempio; il grado, il nome,

la patria palesar; di Giove all'ara

giurar di non valersi

di frode nel cimento.         

 AMI.                                    Il so.      

 LIC.                                                     T'è noto

ch'escluso è dalla pugna

chi quest'atto solenne

giunge tardi a compir? Vedi la schiera

de' concorrenti atleti? Odi il festivo

tumulto pastoral? Dunque che deggio

attender più, che più sperar?           

 AMI.                                                    Ma quale

sarebbe il tuo disegno?     

 LIC.                                      All'ara innanzi

presentarmi con gli altri.   

 AMI.                                    E poi?   

 LIC.                                                     Con gli altri

a suo tempo pugnar.         

 AMI.                                    Tu!        

 LIC.                                                     Sì. Non credi

in me valor che basti?       

 AMI.                                    Eh qui non giova,

prence, il saper come si tratti il brando.

Altra specie di guerra, altr'armi ed altri

studi son questi. Ignoti nomi a noi

cesto, disco, palestra, a' tuoi rivali

per lung'uso son tutti

familiari esercizi. Al primo incontro

del giovanile ardire

ti potresti pentir. 

 LIC.                      Se fosse a tempo

Megacle giunto a tai contese esperto,

pugnato avria per me: ma, s'ei non viene,

che far degg'io? Non si contrasta, Aminta,

oggi in Olimpia del selvaggio ulivo

la solita corona. Al vincitore

sarà premio Aristea, figlia reale

dell'invitto Clistene, onor primiero

delle greche sembianze; unica e bella

fiamma di questo cor, benché novella.

 AMI. Ed Argene?              

 LIC.                      Ed Argene

più riveder non spero. Amor non vive,

quando muor la speranza.              

 AMI.                                    E pur giurasti

tante volte...        

 LIC.                      T'intendo. In queste fole,

finché l'ora trascorra,

trattener mi vorresti. Addio.            

 AMI.                                                    Ma senti.

 LIC. No no.        

 AMI.                     Vedi che giunge...

 LIC. Chi?            

 AMI.                     Megacle.              

 LIC.                                      Dov'è?  

 AMI.                                                    Fra quelle piante

parmi... No... non è desso.

 LIC.                                      Ah mi deridi,

e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco,

che in Megacle sperai.

SCENA II

 MEG.                    Megacle è teco.

 LIC. Giusti dei!  

 MEG.    Prence.  

 LIC.                                      Amico.

Vieni, vieni al mio seno. Ecco risorta

la mia speme cadente.

 MEG.                    E sarà vero

che il Ciel m'offra una volta

la via d'esserti grato?         

 LIC.                                      E pace e vita

tu puoi darmi, se vuoi.

 MEG.                    Come?

 LIC.                                                     Pugnando

nell'olimpico agone

per me, col nome mio.

 MEG.                    Ma tu non sei

noto in Elide ancor?          

 LIC.                                      No.

 MEG.                                   Quale oggetto

ha questa trama?              

 LIC.                      Il mio riposo. Oh Dio!

non perdiamo i momenti. Appunto è l'ora

che de' rivali atleti

si raccolgono i nomi. Ah vola al tempio;

dì che Licida sei. La tua venuta

inutile sarà, se più soggiorni.

Vanne. Tutto saprai quando ritorni.

 MEG.   Superbo di me stesso

andrò portando in fronte

quel caro nome impresso,

come mi sta nel cor.

   Dirà la Grecia poi

che fur comuni a noi

l'opre, i pensier, gli affetti,

e al fine i nomi ancor.

SCENA III

 LIC. Oh generoso amico!

Oh Megacle fedel!

 AMI.                     Così di lui

non parlavi poc'anzi.

 LIC.                                      Eccomi al fine

possessor d'Aristea. Vanne, disponi

tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa,

prima che il sol tramonti,

voglio quindi partir.

 AMI.                     Più lento, o prence,

nel fingerti felice. Ancor vi resta

molto di che temer. Potria l'inganno

esser scoperto: al paragon potrebbe

Megacle soggiacer. So ch'altre volte

fu vincitor; ma un impensato evento

so che talor confonde il vile e 'l forte;

né sempre ha la virtù l'istessa sorte.

 LIC. Oh sei pure importuno

con questo tuo noioso

perpetuo dubitar. Vicino al porto

vuoi ch'io tema il naufragio? A' dubbi tuoi

chi presta fede intera,

non sa mai quando è l'alba o quando è sera.

   Quel destrier, che all'albergo è vicino,

più veloce s'affretta nel corso;

non l'arresta l'angustia del morso,

non la voce, che legge gli dà.

   Tal quest'alma, che piena è di speme,

nulla teme, consiglio non sente;

e si forma una gioia presente

del pensiero che lieta sarà.

SCENA IV

Vasta campagna alle falde d'un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d'alberi rozzamente commessi. Veduta della città d'Olimpia in lontano, interrotta da poche piante, che adornano la pianura, ma non l'ingombrano.

 CORO   Oh care selve, oh cara

felice libertà!

 ARG.   Qui se un piacer si gode,

parte non v'ha la frode

ma lo condisce a gara

amore e fedeltà.

 CORO   Oh care selve, oh cara

felice libertà!

 ARG.   Qui poco ognun possiede,

e ricco ognun si crede:

né, più bramando, impara

che cosa è povertà.

 CORO   Oh care selve, oh cara

felice libertà!

 ARG.   Senza custodi o mura

la pace è qui sicura,

che l'altrui voglia avara

onde allettar non ha.

 CORO   Oh care selve, oh cara

felice libertà!

 ARG.   Qui gl'innocenti amori

di ninfe... Ecco Aristea.     

 ARI.                                     Siegui, o Licori.

 ARG. Già il rozzo mio soggiorno

torni a render felice, o principessa?

 ARI. Ah fuggir da me stessa

potessi ancor, come dagli altri! Amica

tu non sai qual funesto

giorno per me sia questo. 

 ARG.                    E` questo un giorno

glorioso per te. Di tua bellezza

qual può l'età futura

prova aver più sicura? A conquistarti

nell'olimpico agone

tutto il fior della Grecia oggi s'espone.

 ARI. Ma chi bramo non v'è. Deh si proponga

men funesta materia

al nostro ragionar. Siedi, Licori:

gl'interrotti lavori

riprendi, e parla. Incominciasti un giorno

a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo

di proseguirli. Il mio dolor seduci;

raddolcisci, se puoi,

i miei tormenti in rammentando i tuoi.

 ARG. Se avran tanta virtù, senza mercede

non va la mia costanza. A te già dissi

che Argene è il nome mio; che in Creta io nacqui

d'illustre sangue, e che gli affetti miei

fur più nobili ancor de' miei natali.

 ARI. So fin qui. 

 ARG.                    De' miei mali

ecco il principio. Del cretense soglio

Licida il regio erede

fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo

prudenti un tempo il nostro amor; ma poi

l'amor s'accrebbe, e, come in tutti avviene,

la prudenza scemò. Comprese alcuno

il favellar de' nostri sguardi: ad altri

i sensi ne spiegò. Di voce in voce

tanto in breve si stese

il maligno romor, che 'l re l'intese:

se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui

vietò di più vedermi, e col divieto

glien'accrebbe il desio; che aggiunge il vento

fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume

fanno gli argini opposti. Ebro d'amore

freme Licida, e pensa

di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno

spiega in un foglio: a me l'invia. Tradisce

la fede il messo, e al re lo reca. E` chiuso

in custodito albergo

il mio povero amante. A me s'impone

che a straniero consorte

porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno

contro me si dichiara. Il re minaccia:

mi condannan gli amici: il padre mio

vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo

che la fuga o la morte

al mio caso non trovo. Il men funesto

credo il più saggio, e l'eseguisco. Ignota

in Elide pervenni. In queste selve

mi proposi abitar. Qui fra pastori

pastorella mi finsi, e or son Licori:

ma serbo al caro bene

fido in sen di Licori il cor d'Argene.

 ARI. In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga

non approvo però. Donzella e sola

cercar contrade ignote,

abbandonar...

 ARG.                    Dunque dovea la mano

a Megacle donar?

 ARI.                      Megacle? (Oh nome!)

Di qual Megacle parli?      

 ARG.                                    Era lo sposo

questi, che il re mi destinò. Dovea

dunque obbliar...

 ARI.                      Ne sai la patria? 

 ARG.                                                    Atene.

 ARI. Come in Creta pervenne?     

 ARG.                                                    Amor vel trasse,

com'ei stesso dicea, ramingo, afflitto.

Nel giungervi fu colto

da stuol di masnadieri; e oppresso ormai

la vita vi perdea. Licida a sorte

vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro

fidi amici fur sempre. Amico al figlio,

fu noto al padre; e dal reale impero

destinato mi fu, perché straniero.

 ARI. Ma ti ricordi ancora

le sue sembianze?              

 ARG.                    Io l'ho presente. Avea

bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri

vermigli sì, ma tumidetti, e forse

oltre il dover; gli sguardi

lenti e pietosi: un arrossir frequente,

un soave parlar... Ma... principessa,

tu cambi di color! Che avvenne?   

 ARI.                                                     Oh Dio!

Quel Megacle, che pingi, è l'idol mio.

 ARG. Che dici!  

 ARI.                      Il vero. A lui,

lunga stagion già mio segreto amante,

perché nato in Atene,

negommi il padre mio, né volle mai

conoscerlo, vederlo,

ascoltarlo una volta. Ei disperato

da me partì; più nol rividi: e in questo

punto da te so de' suoi casi il resto.

 ARG. In ver sembrano i nostri

favolosi accidenti.             

 ARI.                      Ah s'ei sapesse

ch'oggi per me qui si combatte!      

 ARG.                                                    In Creta

a lui voli un tuo servo; e tu procura

la pugna differir.

 ARI.                      Come?

 ARG.                                    Clistene

è pur tuo padre: ei qui presiede eletto

arbitro delle cose; ei può, se vuole...

 ARI. Ma non vorrà.         

 ARG.                                    Che nuoce,

principessa, il tentarlo?

 ARI.                                     E ben, Clistene

vadasi a ritrovar.

 ARG.                    Fermati: ei viene.

SCENA V

 CLIST. Figlia, tutto è compìto. I nomi accolti,

le vittime svenate, al gran cimento

l'ora è prescritta; e più la pugna ormai,

senza offesa de' numi,

della pubblica fé, dell'onor mio,

differir non si può.

 ARI.                      (Speranze, addio).

 CLIST. Ragion d'esser superba

io ti darei, se ti dicessi tutti

quei, che a pugnar per te vengono a gara.

V'è Olinto di Megara,

v'è Clearco di Sparta, Ati di Tebe,

Erilo di Corinto, e fin di Creta

Licida venne.      

 ARG.                    Chi?

 CLIST.                                 Licida, il figlio

del re cretense.

 ARI.                      Ei pur mi brama?               

 CLIST.                                                                Ei viene

con gli altri a prova.          

 ARG.                    (Ah si scordò d'Argene!)

 CLIST. Sieguimi, figlia.

 ARI.                                     Ah questa pugna, o padre,

si differisca.         

 CLIST.                 Un impossibil chiedi:

dissi perché. Ma la cagion non trovo

di tal richiesta.

 ARI.                      A divenir soggette

sempre v'è tempo. E` d'Imeneo per noi

pesante il giogo; e già senz'esso abbiamo

che soffrire abbastanza

nella nostra servil sorte infelice.

 CLIST. Dice ognuna così, ma il ver non dice.

   Del destin non vi lagnate

se vi rese a noi soggette;

siete serve, ma regnate

nella vostra servitù.

  Forti noi, voi belle siete,

e vincete in ogn'impresa,

quando vengono a contesa

la bellezza e la virtù.

SCENA VI

 ARG. Udisti, o principessa?

 ARI.                                     Amica, addio:

convien ch'io siegua il padre. Ah tu, che puoi,

del mio Megacle amato,

se pietosa pur sei, come sei bella,

cerca, recami, oh Dio, qualche novella.

   Tu di saper procura

dove il mio ben s'aggira,

se più di me si cura,

se parla più di me.

   Chiedi se mai sospira

quando il mio nome ascolta;

se il profferì talvolta

nel ragionar fra sé.

SCENA VII

 ARG. Dunque Licida ingrato

già di me si scordò! Povera Argene,

a che mai ti serbar le stelle irate!

Imparate, imparate,

inesperte donzelle. Ecco lo stile

de' lusinghieri amanti. Ognun vi chiama

suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno

giura che, a voi pensando,

vaneggia il dì, veglia le notti. Han l'arte

di lagrimar, d'impallidir. Tal volta

par che su gli occhi vostri

voglian morir fra gli amorosi affanni:

guardatevi da lor, son tutti inganni.

   Più non si trovano

fra mille amanti

sol due bell'anime,

che sian costanti

e tutti parlano

di fedeltà.

   E il reo costume

tanto s'avanza,

che la costanza

di chi ben ama

ormai si chiama

semplicità.

SCENA VIII

 MEG. Licida.

 LIC.                      Amico.  

 MEG.                    Eccomi a te.

 LIC.                                                                     Compisti...

 MEG. Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio

per te mi presentai. Per te fra poco

vado al cimento. Or, fin che il noto segno

della pugna si dia, spiegar mi puoi

la cagion della trama.

 LIC. Oh, se tu vinci,

non ha di me più fortunato amante

tutto il regno d'Amor.        

 MEG.                    Perché?

 LIC.                                                     Promessa

in premio al vincitore

è una real beltà. La vidi appena,

che n'arsi e la bramai. Ma poco esperto

negli atletici studi...

 MEG.                    Intendo. Io deggio

conquistarla per te.

 LIC.                                      Sì. Chiedi poi

la mia vita, il mio sangue, il regno mio;

tutto, o Megacle amato, io t'offro, e tutto

scarso premio sarà.

 MEG.                    Di tanti, o prence,

stimoli non fa d'uopo

al grato servo, al fido amico. Io sono

memore assai de' doni tuoi: rammento

la vita che mi desti. Avrai la sposa;

speralo pur. Nella palestra elèa

non entro pellegrin. Bevve altre volte

i miei sudori: ed il silvestre ulivo

non è per la mia fronte

un insolito fregio. Io più sicuro

mai di vincer non fui. Desio d'onore,

stimoli d'amistà mi fan più forte.

Anelo, anzi mi sembra

d'esser già nell'agon. Gli emuli al fianco

mi sento già; già li precorro: e, asperso

dell'olimpica polve il crine, il volto,

del volgo spettator gli applausi ascolto.

 LIC. Oh dolce amico! Oh cara

sospirata Aristea!

 MEG.    Che!

 LIC.                                      Chiamo a nome

il mio tesoro.       

 MEG.    Ed Aristea si chiama?

 LIC. Appunto.

 MEG.    Altro ne sai?        

 LIC.                                                     Presso a Corinto

nacque in riva all'Asopo, al re Clistene

unica prole.         

 MEG.    (Aimè! Questa è il mio bene).

E per lei si combatte?

 LIC. Per lei.        

  MEG.   Questa degg'io

conquistarti pugnando?

 LIC. Questa.

 MEG.    Ed è tua speranza e tuo conforto

sola Aristea?       

 LIC.                      Sola Aristea.        

 MEG.                                   (Son morto).

 LIC. Non ti stupir. Quando vedrai quel volto,

forse mi scuserai. D'esserne amanti

non avrebbon rossore i numi istessi.

 MEG. (Ah così nol sapessi!)

 LIC.                                      Oh, se tu vinci,

chi più lieto di me! Megacle istesso

quanto mai ne godrà! Dì; non avrai

piacer del piacer mio?

 MEG.                    Grande.

 LIC.                                                     Il momento,

che ad Aristea m'annodi,

Megacle, dì, non ti parrà felice?

 MEG. Felicissimo. (Oh dei!)            

 LIC.                                                     Tu non vorrai

pronubo accompagnarmi

al talamo nuzial?               

 MEG.    (Che pena!)         

 LIC.                                                     Parla.

 MEG. Sì; come vuoi. (Qual nuova specie è questa

di martirio e d'inferno!)

 LIC.                                      Oh quanto il giorno

lungo è per me! Che l'aspettare uccida

nel caso, in cui mi vedo,

tu non credi, o non sai.

MEG.                                    Lo so, lo credo.

 LIC. Senti, amico. Io mi fingo

già l'avvenir: già col desio possiedo

la dolce sposa.

 MEG.    (Ah questo è troppo!)        

 LIC.                                                                     E parmi...

 MEG. Ma taci: assai dicesti. Amico io sono;

il mio dover comprendo;

ma poi...               

 LIC.      Perché ti sdegni? In che t'offendo?

 MEG. (Imprudente, che feci!) Il mio trasporto

è desio di servirti. Io stanco arrivo

da cammin lungo: ho da pugnar: mi resta

picciol tempo al riposo, e tu mel togli.

 LIC. E chi mai ti ritenne

di spiegarti fin ora?

 MEG.                    Il mio rispetto.

 LIC. Vuoi dunque riposar?

 MEG.                                   Sì.

 LIC.                                                                     Brami altrove

meco venir?

 MEG.    No.

 LIC.                                      Rimaner ti piace

qui fra quest'ombre?

 MEG.                    Sì.

 LIC.                                                     Restar degg'io?

 MEG. No.

 LIC.                      (Strana voglia!) E ben, riposa: addio.

   Mentre dormi, Amor fomenti

il piacer de' sonni tuoi

con l'idea del mio piacer.

   Abbia il rio passi più lenti;

e sospenda i moti suoi

ogni zeffiro leggier.

SCENA IX

 MEG. Che intesi, eterni dei! Quale improvviso

fulmine mi colpì! L'anima mia

dunque fia d'altri! E ho da condurla io stesso

in braccio al mio rival! Ma quel rivale

è il caro amico. Ah quali nomi unisce

per mio strazio la sorte! Eh che non sono

rigide a questo segno

le leggi d'amistà. Perdoni il prence,

ancor io sono amante. Il domandarmi

ch'io gli ceda Aristea non è diverso

dal chiedermi la vita. E questa vita

di Licida non è? Non fu suo dono?

Non respiro per lui? Megacle ingrato,

e dubitar potresti? Ah! se ti vede

con questa in volto infame macchia e rea,

ha ragion d'aborrirti anche Aristea.

No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto

obblighi d'amistà, pegni di fede,

gratitudine, onore. Altro non temo

che 'l volto del mio ben. Questo s'evìti

formidabile incontro. In faccia a lei,

misero, che farei! Palpito e sudo

solo in pensarlo, e parmi

istupidir, gelarmi,

confondermi, tremar... No, non potrei...

SCENA X

 ARI. Stranier.

 MEG.    Chi mi sorprende?

 ARI.                                                     (Oh stelle!)

 MEG.                                                                   (Oh dei!)

 ARI. Megacle! mia speranza!

Ah sei pur tu? Pur ti riveggo? Oh Dio!

di gioia io moro; ed il mio petto appena

può alternare i respiri. Oh caro! Oh tanto

e sospirato e pianto

e richiamato in vano! Udisti al fine

la povera Aristea. Tornasti: e come

opportuno tornasti! Oh Amor pietoso!

Oh felici martìri!

Oh ben sparsi fin or pianti e sospiri!

 MEG. (Che fiero caso è il mio!)

 ARI.                                                     Megacle amato,

e tu nulla rispondi?

E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto

cambiarti di color? Quel non mirarmi

che timido e confuso? E quelle a forza

lagrime trattenute? Ah! più non sono

forse la fiamma tua? Forse...

 MEG.                                   Che dici!

Sempre... Sappi... Son io...

Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)

 ARI. Ma tu mi fai gelar. Dimmi: non sai

che per me qui si pugna?  

 MEG.                                   Il so.

 ARI.                                                                     Non vieni

ad esporti per me?

 MEG.                    Sì.

 ARI.                                                     Perché mai

dunque sei così mesto?

 MEG. Perché... (Barbari dei, che inferno è questo!)

 ARI. Intendo: alcun ti fece

dubitar di mia fé. Se ciò t'affanna,

ingiusto sei. Da che partisti, o caro,

non son rea d'un pensier. Sempre m'intesi

la tua voce nell'alma: ho sempre avuto

il tuo nome fra' labbri,

il tuo volto nel cor. Mai d'altri accesa

non fui, non sono, e non sarò. Vorrei...

 MEG. Basta: lo so.

 ARI.                                     Vorrei morir più tosto

che mancarti di fede un sol momento.

 MEG. (Oh tormento maggior d'ogni tormento!)

 ARI. Ma guardami, ma parla,

ma dì... 

 MEG. Che posso dir?

 ALC.                                    Signor, t'affretta,

se a combatter venisti. Il segno è dato,

che al gran cimento i concorrenti invita.

 MEG. Assistetemi, o numi. Addio, mia vita.

 ARI. E mi lasci così? Va; ti perdono,

pur che torni mio sposo.

 MEG.                    Ah sì gran sorte

non è per me!

 ARI.                      Senti. Tu m'ami ancora?

 MEG. Quanto l'anima mia.

 ARI.                                     Fedel mi credi?

 MEG. Sì, come bella.

 ARI.                                     A conquistar mi vai?

 MEG. Lo bramo almeno.

 ARI.                                     Il tuo valor primiero

hai pur?

 MEG.    Lo credo.

 ARI.                                     E vincerai?          

 MEG.                                                   Lo spero.

 ARI. Dunque allor non son io,

caro, la sposa tua?

 MEG.                    Mia vita... Addio.

   Ne' giorni tuoi felici

ricordati di me.

 ARI.   Perché così mi dici,

anima mia, perché?

 MEG.   Taci, bell'idol mio.

 ARI. Parla, mio dolce amor.

 MEG.   Ah che parlando oh Dio!

 ARI. Ah che tacendo oh Dio!

A DUE  tu mi trafiggi il cor.

 ARI.   (Veggio languir chi adoro,

né intendo il suo languir).

 MEG.   (Di gelosia mi moro,

e non lo posso dir).

 A DUE   Chi mai provò di questo

affanno più funesto,

più barbaro dolor!

ATTO SECONDO

SCENA I

 ARG. Ed ancor della pugna

l'esito non si sa?

 ARI.                      No, bella Argene.

E` pur dura la legge, onde n'è tolto

d'esserne spettatrici!

 ARG.                    Ah! che sarebbe

forse pena maggior veder chi s'ama

in cimento sì grande, e non potergli

porger soccorso: esser presente...

 ARI.                                                                     Io sono

presente ancor lontana: anzi mi fingo

forse quel che non è. Se tu vedessi

come sta questo cor! Qui dentro, amica,

qui dentro si combatte; e più che altrove

qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi

Megacle, la palestra,

i giudici, i rivali. Io mi figuro

questi più forti e quei men giusti. Io provo

doppiamente nell'alma

ciò che or soffre il mio ben, gli urti, le scosse,

gl'insulti, le minacce. Ah! che presente

solo il ver temerei; ma il mio pensiero

fa ch'io tema lontana il falso e il vero.

 ARG. Né ancor si vede alcun.

 ARI.                                                     Né alcuno... Oh Dio!

 ARG. Che avvenne?

 ARI.                                    Oh come io tremo,

come palpito adesso!

 ARG.                                    E la cagione?

 ARI. E` deciso il mio fato:

vedi Alcandro, che arriva.

 ARG.                                    Alcandro, ah corri:

consolane. Che rechi?

SCENA II

 ALC. Fortunate novelle. Il re m'invia

nunzio felice, o principessa. Ed io...

 ARI. La pugna terminò? 

 ALC.                                    Sì; ascolta. Intorno

già impazienti...  

 ARG.                    Il vincitor si chiede.

 ALC. Tutto dirò. Già impazienti intorno

le turbe spettatrici...

 ARI.                                    Eh ch'io non cerco

questo da te.

ALC.                      Ma in ordine distinto...

 ARI. Chi vinse dimmi sol.               

 ALC.                                    Licida ha vinto.

 ARI. Licida!

 ALC.                     Appunto.

 ARG.                                    Il principe di Creta!

 ALC. Sì, che giunse poc'anzi a queste arene.

 ARI. (Sventurata Aristea!)

 ARG.                                    (Povera Argene!)

 ALC. Oh te felice! Oh quale

sposo ti diè la sorte!

 ARI.                                     Alcandro, parti.

 ALC. T'attende il re.

 ARI.                                     Parti, verrò.

 ALC.                                                                    T'attende

nel gran tempio adunata...

 ARI. Né parti ancor?

 ALC.                                    (Che ricompensa ingrata!)

SCENA III

 ARG. Ah dimmi, o principessa,

v'è sotto il ciel chi possa dirsi, oh Dio!

più misera di me?

 ARI.                      Sì, vi son io.

 ARG. Ah non ti faccia amore

provar mai le mie pene! Ah tu non sai

qual perdita è la mia! Quanto mi costa

quel cor che tu m'involi!

 ARI.                                     E tu non senti,

non comprendi abbastanza i miei tormenti.

   Grandi, è ver, son le tue pene:

perdi, è ver, l'amato bene;

ma sei tua, ma piangi intanto,

ma domandi almen pietà.

   Io dal fato io sono oppressa:

perdo altrui, perdo me stessa;

né conservo almen del pianto

l'infelice libertà.

SCENA IV

 ARG. E trovar non poss'io

né pietà né soccorso?

 AMI.                                    Eterni dei!

parmi Argene colei.

 ARG.                    Vendetta almeno,

vendetta si procuri.

 AMI.                     Argene, e come

tu in Elide! Tu sola!

Tu in sì ruvide spoglie!

 ARG.                                    I neri inganni

a secondar del prence

dunque ancor tu venisti? A saggio in vero

regolator commise il re di Creta

di Licida la cura. Ecco i bei frutti

di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta,

d'andarne altier. Chi vuol sapere appieno

se fu attento il cultor, guardi il terreno.

 AMI. (Tutto già sa). Non da' consigli miei...

 ARG. Basta... Chi sa: nel Cielo

v'è giustizia per tutti; e si ritrova

talvolta anche nel mondo. Io chiederolla

agli uomini, agli dei. S'ei non ha fede,

ritegni io non avrò. Vuo' che Clistene,

vuo' che la Grecia, il mondo

sappia ch'è un traditore, acciò per tutto

questa infamia lo siegua; acciò che ognuno

l'abborrisca, l'evìti,

e con orrore, a chi nol sa, l'addìti.

 AMI. Non son questi pensieri

degni d'Argene. Un consigliero infido,

anche giusto, è lo sdegno. Io nel tuo caso

più dolci mezzi adoprerei. Procura

ch'ei ti rivegga: a lui favella: a lui

le promesse rammenta. E` sempre meglio

il racquistarlo amante

che opprimerlo nemico.    

 ARG.                                    E credi, Aminta,

ch'ei tornerebbe a me?

 AMI.                                    Lo spero. Al fine

fosti l'idolo suo. Per te languiva,

delirava per te. Non ti sovviene

che cento volte e cento...

 ARG. Tutto, per pena mia, tutto rammento.

   Che non mi disse un dì!

Quai numi non giurò!

E come, oh Dio! si può,

come si può così

mancar di fede?

   Tutto per lui perdei;

oggi lui perdo ancor.

Poveri affetti miei!

Questa mi rendi, Amor,

questa mercede?

SCENA V

 AMI. Insana gioventù! Qualora esposta

ti veggo tanto agl'impeti d'amore,

di mia vecchiezza io mi consolo e rido.

Dolce è il mirar dal lido

chi sta per naufragar; non che ne alletti

il danno altrui, ma sol perché l'aspetto

d'un mal, che non si soffre, è dolce oggetto.

Ma che! l'età canuta

non ha le sue tempeste? Ah che pur troppo

ha le sue proprie; e dal timor dell'altre

sciolta non è. Son le follie diverse,

ma folle è ognuno: e a suo piacer ne aggira

l'odio o l'amor, la cupidigia o l'ira.

   Siam navi all'onde algenti

lasciate in abbandono:

impetuosi venti

i nostri affetti sono:

ogni diletto è scoglio:

tutta la vita è mar.

   Ben, qual nocchiero, in noi

veglia ragion; ma poi

pur dall'ondoso orgoglio

si lascia trasportar.

SCENA VI

 CORO   Del forte Licida

nome maggiore

d'Alfeo sul margine

mai non sonò.

 PARTE DEL CORO   Sudor più nobile

del suo sudore

l'arena olimpica

mai non bagnò.

ALTRA PARTE.   L'arti ha di Pallade,

l'ali ha d'Amore:

d'Apollo e d'Ercole

l'ardir mostrò.

 CORO   No, tanto merito,

tanto valore

l'ombra de' secoli

coprir non può.

 CLIST. Giovane valoroso,

che in mezzo a tanta gloria umìl ti stai,

quell'onorata fronte

lascia ch'io baci e che ti stringa al seno.

Felice il re di Creta,

che un tal figlio sortì! Se avessi anch'io

serbato il mio Filinto,

chi sa, sarebbe tal. Rammenti, Alcandro,

con qual dolor tel consegnai? Ma pure...

 ALC. Tempo or non è di rammentar sventure.

 CLIST. (E` ver). Premio Aristea

sarà del tuo valor. S'altro donarti

Clistene può, chiedilo pur, che mai

quanto dar ti vorrei non chiederai.

 MEG. (Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio,

e di tenero padre. Ogni contento,

che con lui non divido,

è insipido per me. Di mie venture

pria d'ogni altro io vorrei

giungergli apportator: chieder l'assenso

per queste nozze; e, lui presente, in Creta

legarmi ad Aristea.

 CLIST.                                 Giusta è la brama.

 MEG. Partirò, se il concedi,

senz'altro indugio. In vece mia rimanga

questi, della mia sposa

servo, compagno e condottier.

 CLIST.                                                (Che volto

è questo mai! Nel rimirarlo il sangue

mi si riscuote in ogni vena). E questi

chi è? Come s'appella?

 MEG.                    Egisto ha nome,

Creta è sua patria. Egli deriva ancora

dalla stirpe real: ma più che 'l sangue,

l'amicizia ne stringe; e son fra noi

sì concordi i voleri,

comuni a segno e l'allegrezza e 'l duolo,

che Licida ed Egisto è un nome solo.

 LIC. (Ingegnosa amicizia!)            

 CLIST.                                                E ben, la cura

di condurti la sposa

Egisto avrà. Ma Licida non debbe

partir senza vederla.

 MEG.                    Ah no, sarebbe

pena maggior. Mi sentirei morire

nell'atto di lasciarla. Ancor da lunge

tanta pena io ne provo...


 CLIST.                                 Ecco che giunge.

 MEG. (Oh me infelice!)

SCENA VII

 ARI.                                     (All'odiose nozze

come vittima io vengo all'ara avanti).

 LIC. (Sarà mio quel bel volto in pochi istanti).

 CLIST. Avvicinati, o figlia; ecco il tuo sposo.

 MEG. (Ah! non è ver).     

 ARI.                                    Lo sposo mio!

 CLIST.                                                                Sì. Vedi

se giammai più bel nodo in Ciel si strinse.

 ARI. (Ma se Licida vinse,

come il mio bene?... Il genitor m'inganna?)

 LIC. (Crede Megacle sposo e se ne affanna).

 ARI. E questi, o padre, è il vincitor?             

 CLIST.                                                                Mel chiedi?

Non lo ravvisi al volto

di polve asperso? All'onorate stille,

che gli rigan la fronte? A quelle foglie,

che son di chi trionfa

l'ornamento primiero?

 ARI. Ma che dicesti, Alcandro?    

 ALC.                                                    Io dissi il vero.

 CLIST. Non più dubbiezze. Ecco il consorte, a cui

il Ciel t'accoppia: e nol potea più degno

ottener dagli dei l'amor paterno.

 ARI. (Che gioia!)

 MEG.                    (Che martìr!)

 LIC.                                                      (Che giorno eterno!)

 CLIST. E voi tacete? Onde il silenzio?         

 MEG.                                                   (Oh Dio!

come comincierò?)            

 ARI.                      Parlar vorrei,

ma...      

 CLIST. Intendo. Intempestiva

è la presenza mia. Severo ciglio,

rigida maestà, paterno impero

incomodi compagni

sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora

quanto increbbero a me. Restate. Io lodo

quel modesto rossor, che vi trattiene.

 MEG. (Sempre lo stato mio peggior diviene).

 CLIST.   So ch'è fanciullo Amore,

né conversar gli piace

con la canuta età.

   Di scherzi ei si compiace;

si stanca del rigore:

e stan di rado in pace

rispetto e libertà.

SCENA VIII

 MEG. (Fra l'amico e l'amante,

che farò sventurato!)        

 LIC.                                      All'idol mio

è tempo ch'io mi scopra.  

 MEG.                    (Aspetta). Oh Dio!

 ARI. Sposo, alla tua consorte

non celar che t'affligge.

 MEGACLE                         (Oh pena! Oh morte!)

 LIC. L'amor mio, caro amico,

non soffre indugio.            

 ARI.                      Il tuo silenzio, o caro,

mi cruccia, mi dispera.      

 MEG.                    (Ardir mio core:

finiamo di morir). Per pochi istanti

allontanati, o prence.        

 LIC.                                      E qual ragione?...

 MEG. Va: fidati di me. Tutto conviene

ch'io spieghi ad Aristea.

 LIC.                                      Ma non poss'io

esser presente?    

 MEG.    No: più che non credi

delicato è l'impegno.         

 LIC.                                      E ben, tu 'l vuoi,

io lo farò. Poco mi scosto: un cenno

basterà perch'io torni. Ah! pensa, amico,

di che parli, e per chi. Se nulla mai

feci per te, se mi sei grato e m'ami,

mostralo adesso. Alla tua fida aìta

la mia pace io commetto e la mia vita.

SCENA IX

 MEG. (Oh ricordi crudeli!)

 ARI.                                                     Al fin siam soli:

potrò senza ritegni

il mio contento esagerar; chiamarti

mia speme, mio diletto,

luce degli occhi miei...       

 MEG.                    No, principessa,

questi soavi nomi

non son per me. Serbali pure ad altro

più fortunato amante.      

 ARI.                                     E il tempo è questo

di parlarmi così? Giunto è quel giorno...

Ma semplice ch'io son: tu scherzi, o caro,

ed io stolta m'affanno.

 MEG.                    Ah! non t'affanni

senza ragion.       

 ARI.                      Spiegati dunque.

 MEG.                                   Ascolta:

ma coraggio, Aristea. L'alma prepara

a dar di tua virtù la prova estrema.

 ARI. Parla. Aimè! che vuoi dirmi? Il cor mi trema.

 MEG. Odi. In me non dicesti

mille volte d'amar, più che 'l sembiante,

il grato cor, l'alma sincera, e quella,

che m'ardea nel pensier, fiamma d'onore?

 ARI. Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale

ti conosco, t'adoro.            

 MEG.    E se diverso

fosse Megacle un dì da quel che dici;

se infedele agli amici,

se spergiuro agli dei, se, fatto ingrato

al suo benefattor, morte rendesse

per la vita che n'ebbe; avresti ancora

amor per lui? Lo soffriresti amante?

L'accetteresti sposo?         

 ARI.                      E come vuoi

ch'io figurar mi possa

Megacle mio sì scellerato?

 MEG.                                   Or sappi

che per legge fatale,

se tuo sposo divien, Megacle è tale.

 ARI. Come!

 MEG.    Tutto l'arcano

ecco ti svelo. Il principe di Creta

langue per te d'amor. Pietà mi chiede,

e la vita mi diede. Ah principessa,

se negarla poss'io, dillo tu stessa.

 ARI. E pugnasti...

 MEG.                    Per lui.

 ARI.                                                     Perder mi vuoi...

 MEG. Sì, per serbarmi sempre

degno di te.

 ARI.                      Dunque io dovrò...

 MEG.                                                   Tu dèi

coronar l'opra mia. Sì, generosa,

adorata Aristea, seconda i moti

d'un grato cor. Sia, qual io fui fin ora,

Licida in avvenire. Amalo. E` degno

di sì gran sorte il caro amico. Anch'io

vivo di lui nel seno;

e s'ei t'acquista, io non ti perdo appieno.

 ARI. Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle

precipito agli abissi. Eh no: si cerchi

miglior compenso. Ah! senza te la vita

per me vita non è.

 MEG.    Bella Aristea,

non congiurar tu ancora

contro la mia virtù. Mi costa assai

il prepararmi a sì gran passo. Un solo

di quei teneri sensi

quant'opera distrugge!

 ARI.                                     E di lasciarmi...

 MEG. Ho risoluto.

 ARI.                      Hai risoluto? E quando?

 MEG. Questo (morir mi sento)

questo è l'ultimo addio.    

 ARI.                                     L'ultimo! Ingrato...

Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla:

freddo sudor mi bagna il volto; e parmi

ch'una gelida man m'opprima il core!

 MEG. Sento che il mio valore

mancando va. Più che a partir dimoro,

meno ne son capace.

Ardir. Vado, Aristea: rimanti in pace.

 ARI. Come! Già m'abbandoni?    

 MEG.                                   E` forza, o cara,

separarsi una volta.           

 ARI.                      E parti...

 MEG.                    E parto

per non tornar più mai.

 ARI. Senti. Ah no... Dove vai?

 MEG. A spirar, mio tesoro,

lungi dagli occhi tuoi.        

 ARI.                                     Soccorso... Io... moro.

 MEG. Misero me, che veggo!

Ah l'oppresse il dolor! Cara mia speme,

bella Aristea, non avvilirti; ascolta:

Megacle è qui. Non partirò. Sarai...

Che parlo? Ella non m'ode. Avete, o stelle,

più sventure per me? No, questa sola

mi restava a provar. Chi mi consiglia?

Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe

crudeltà, tirannia. Restar? che giova?

forse ad esserle sposo? E 'l re ingannato,

e l'amico tradito, e la mia fede,

e l'onor mio lo soffrirebbe? Almeno

partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo

a quest'orrido passo! Ora è pietade

l'esser crudele. Addio, mia vita: addio,

mia perduta speranza. Il Ciel ti renda

più felice di me. Deh, conservate

questa bell'opra vostra, eterni dei;

e i dì, ch'io perderò, donate a lei.

Licida... Dov'è mai? Licida.

SCENA X

 LIC.                                                     Intese

tutto Aristea?      

 MEG.    Tutto. T'affretta, o prence;

soccorri la tua sposa.        

 LIC.                                      Aimè, che miro!

Che fu?

 MEG.    Doglia improvvisa

le oppresse i sensi.

 LIC.                      E tu mi lasci?

 MEG.                                   Io vado...

Deh pensa ad Aristea. (Che dirà mai

quando in sé tornerà? Tutte ho presenti

tutte le smanie sue). Licida, ah senti.

   Se cerca, se dice:

“L'amico dov'è?”.

“L'amico infelice”,

rispondi, “morì”.

   Ah no! sì gran duolo

non darle per me:

rispondi ma solo:

“Piangendo partì”.

   Che abisso di pene

lasciare il suo bene,

lasciarlo per sempre,

lasciarlo così!

SCENA XI

 LIC. Che laberinto è questo! Io non l'intendo.

Semiviva Aristea... Megacle afflitto...

 ARI. Oh Dio!      

 LIC.                      Ma già quell'alma

torna agli usati uffizi. Apri i bei lumi,

principessa, ben mio.        

 ARI.                                     Sposo infedele!

 LIC. Ah! non dirmi così. Di mia costanza

ecco in pegno la destra.    

 ARI.                                     Almeno... Oh stelle!

Megacle ov'è?     

 LIC.                      Partì.

 ARI.                                     Partì l'ingrato?

Ebbe cor di lasciarmi in questo stato?

 LIC. Il tuo sposo restò.    

 ARI.                                     Dunque è perduta

l'umanità, la fede,

l'amore, la pietà! Se questi iniqui

incenerir non sanno,

numi, i fulmini vostri in ciel che fanno?

 LIC. Son fuor di me. Dì, che t'offese, o cara?

Parla; brami vendetta? Ecco il tuo sposo,

ecco Licida...       

 ARI.                      Oh dei!

Tu quel Licida sei! Fuggi, t'invola,

nasconditi da me. Per tua cagione,

perfido, mi ritrovo a questo passo.

 LIC. E qual colpa ho commessa? Io son di sasso.

 ARI.   Tu me da me dividi;

barbaro, tu m'uccidi:

tutto il dolor, ch'io sento,

tutto mi vien da te.

   No, non sperar mai pace.

Odio quel cor fallace:

oggetto di spavento

sempre sarai per me.

SCENA XII

 LIC. A me “barbaro”! Oh numi!

“Perfido” a me! Voglio seguirla; e voglio

sapere almen che strano enigma è questo.

 ARG. Fermati, traditor.    

 LIC.                                      Sogno o son desto!

 ARG. Non sogni no: son io

l'abbandonata Argene. Anima ingrata,

riconosci quel volto,

che fu gran tempo il tuo piacer; se pure

in sorte sì funesta

delle antiche sembianze orma vi resta.

 LIC. (Donde viene; in qual punto

mi sorprende costei! Se più mi fermo,

Aristea non raggiungo). Io non intendo

bella ninfa, i tuoi detti. Un'altra volta

potrai meglio spiegarti.

 ARG.                                    Indegno, ascolta.

 LIC. (Misero me!)             

 ARG.                    Tu non m'intendi? Intendo

ben io la tua perfidia. I nuovi amori,

le frodi tue tutte riseppi; e tutto

saprà da me Clistene

per tua vergogna.               

 LIC.                      Ah no! Sentimi, Argene.

Non sdegnarti: perdona,

se tardi ti ravviso. Io mi rammento

gli antichi affetti; e, se tacer saprai,

forse... chi sa.      

 ARG.                    Si può soffrir di questa

ingiuria più crudel! “Chi sa”, mi dici?

In vero io son la rea. Picciole prove

di tua bontà non sono

le vie che m'offri a meritar perdono.

 LIC. Ascolta. Io volli dir...

 ARG.                                    Lasciami, ingrato:

non ti voglio ascoltar.       

 LIC.                                      (Son disperato).

 ARG.   No, la speranza

più non m'alletta:

voglio vendetta,

non chiedo amor.
   Pur che non goda

quel cor spergiuro,

nulla mi curo

del mio dolor.

SCENA XIII

 LIC. In angustia più fiera

io non mi vidi mai. Tutto è in ruina,

se parla Argene. E` forza

raggiungerla, placarla... E chi trattiene

la principessa intanto? Il solo amico

potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno

e consiglio e conforto

Megacle mi darà.               

 AMI.                     Megacle è morto!

 LIC. Che dici, Aminta!    

 AMI.                                    Io dico

pur troppo il ver. 

 LIC.                      Come! Perché? Qual empio

sì bei giorni troncò? Trovisi: io voglio

ch'esempio di vendetta altrui ne resti.

 AMI. Principe, nol cercar: tu l'uccidesti.

 LIC. Io! Deliri?  

 AMI.                     Volesse

il Ciel ch'io delirassi. Odimi. In traccia

mentre or di te venìa, fra quelle piante

un gemito improvviso

sento: mi fermo: al suon mi volgo; e miro

uom, che sul nudo acciaro

prono già s'abbandona. Accorro. Al petto

fo d'una man sostegno;

con l'altra il ferro svio. Ma, quando al volto

Megacle ravvisai,

pensa com'ei restò, com'io restai!

Dopo un breve stupore: “Ah qual follia

bramar ti fa la morte!”,

io volea dirgli. Ei mi prevenne: “Aminta,

ho vissuto abbastanza”,

sospirando mi disse

dal profondo del cor. “Senz'Aristea

non so viver, né voglio. Ah! son due lustri

che non vivo che in lei. Licida, oh Dio!

m'uccide, e non lo sa; ma non m'offende:

suo dono è questa vita; ei la riprende”.

 LIC. Oh amico! E poi?    

 AMI.                                    Fugge da me, ciò detto,

come partico stral. Vedi quel sasso,

signor, colà, che il sottoposto Alfeo

signoreggia ed adombra? Egli v'ascende

in men che non balena. In mezzo al fiume

si scaglia: io grido in van. L'onda percossa

balzò, s'aperse; in frettolosi giri

si riunì; l'ascose. Il colpo, i gridi

replicaron le sponde; e più nol vidi.

 LIC. Ah qual orrida scena

or si scopre al mio sguardo!             

 AMI.                                                    Almen la spoglia,

che albergò sì bell'alma,

vadasi a ricercar. Da' mesti amici

questi a lui son dovuti ultimi uffici.

SCENA XIV

 LIC. Dove son! Che m'avvenne! Ah dunque il Cielo

tutte sopra il mio capo

rovesciò l'ire sue! Megacle, oh Dio!

Megacle, dove sei? Che fo nel mondo

senza di te! Rendetemi l'amico,

ingiustissimi dei! Voi mel toglieste,

lo rivoglio da voi. Se lo negate,

barbari, a' voti miei, dovunque ei sia

a viva forza il rapirò. Non temo

tutti i fulmini vostri: ho cor che basta

a ricalcar su l'orme

d'Ercole e di Tesèo le vie di morte.

 ALC. Olà!           

 LIC.                      Del guado estremo...         

 ALC.                                                                    Olà!

 LIC.                                                                                     Chi sei

tu, che audace interrompi

le smanie mie?    

 ALC.                     Regio ministro io sono.

 LIC. Che vuole il re?        

 ALC.                                    Che in vergognoso esiglio

quindi lungi tu vada. Il sol cadente

se in Elide ti lascia,

sei reo di morte.  

 LIC.                      A me tal cenno? 

 ALC.                                                    Impara

a mentir nome, a violar la fede,

a deludere i re.    

 LIC.                      Come! Ed ardisci,

temerario...          

 ALC.                     Non più. Principe, è questo

mio dover; l'ho adempito: adempi il resto.

SCENA XV

 LIC. Con questo ferro, indegno,

il sen ti passerò... Folle, che dico?

che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io,

io son lo scellerato. In queste vene

con più ragion l'immergerò. Sì, mori,

Licida sventurato... Ah perché tremi,

timida man? Chi ti ritiene? Ah questa

è ben miseria estrema! Odio la vita:

m'atterrisce la morte; e sento intanto

stracciarmi a brano a brano

in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,

tenerezza, amicizia,

pentimento, pietà, vergogna, amore

mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide

anima lacerata

da tanti affetti e sì contrari! Io stesso

non so come si possa

minacciando tremare, arder gelando,

piangere in mezzo all'ire,

bramar la morte, e non saper morire.

   Gemo in un punto e fremo:

fosco mi sembra il giorno:

ho cento larve intorno;

ho mille furie in sen.

   Con la sanguigna face

m'arde Megera il petto;

m'empie ogni vena Aletto

del freddo suo velen.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Bipartita, che si forma dalle rovine di un antico ippodromo, già ricoperte in gran parte d'edera, di spini e d'altre piante selvagge.

MEGACLE, trattenuto da AMINTA per una parte, e dopo ARISTEA, trattenuta da  ARGENE per l'altra: ma quelli non veggono queste.

 MEG. Lasciami. In van t'opponi.  

 AMI.                                                    Ah torna, amico,

una volta in te stesso. In tuo soccorso

pronta sempre la mano

del pescator, ch'or ti salvò dall'onde,

credimi, non avrai. Si stanca il Cielo

d'assister chi l'insulta.        

 MEG.                                   Empio soccorso,

inumana pietà! negar la morte

a chi vive morendo. Aminta, oh Dio!

lasciami.              

 AMI.     Non fia ver.         

 ARI.                                     Lasciami, Argene.

 ARG. Non lo sperar.         

 MEG.                    Senz'Aristea non posso,

non deggio viver più.         

 ARI.                                     Morir vogl'io

dove Megacle è morto.     

 AMI.                                    Attendi.

 ARG.                                                    Ascolta.

 MEG. Che attender?        

 ARI.                                     Che ascoltar?      

 MEG.                                                   Non si ritrova

più conforto per me.         

 ARI.                                     Per me nel mondo

non v'è più che sperar.      

 MEG.                    Serbarmi in vita...

 ARI. Impedirmi la morte...

 MEG. Indarno tu pretendi.             

 ARI.                                                     In van presumi.

 AMI. Ferma.      

 ARG.                    Senti, infelice.     

 ARI.                                                     Oh stelle!              

 MEG.                                                   Oh numi!

 ARI. Megacle!   

 MEG.    Principessa!         

 ARI.                                                     Ingrato! E tanto

m'odii dunque e mi fuggi,

che, per esserti unita

s'io m'affretto a morir, tu torni in vita?

 MEG. Vedi a qual segno è giunta,

adorata Aristea, la mia sventura;

io non posso morir: trovo impedite

tutte le vie, per cui si passa a Dite.

 ARI. Ma qual pietosa mano...

SCENA II

 ALC. Oh sacrilego! Oh insano!

Oh scellerato ardir!            

 ARI.                                     Vi sono ancora

nuovi disastri, Alcandro? 

 ALC.                                                    In questo istante

rinasce il padre tuo.           

 ARI.                                     Come!  

 ALC.                                                    Che orrore,

che ruina, che lutto,

se 'l Ciel non difendea, n'avrebbe involti!

 ARI. Perché?

 ALC.                     Già sai che per costume antico

questo festivo dì con un solenne

sacrifizio si chiude. Or mentre al tempio

venìa fra' suoi custodi

la sacra pompa a celebrar Clistene,

perché non so, né da qual parte uscito,

Licida impetuoso

ci attraversa il cammin. Non vidi mai

più terribile aspetto. Armato il braccio,

nuda la fronte avea, lacero il manto,

scomposto il crin. Dalle pupille accese

uscia torbido il guardo; e per le gote,

d'inaridite lagrime segnate,

traspirava il furore. Urta, rovescia

i sorpresi custodi; al re s'avventa:

“Mori”, grida fremendo, e gli alza in fronte

il sacrilego ferro. 

 ARI.                                     Oh Dio! 

 ALC.                                                    Non cangia

il re sito o color. Severo il guardo

gli ferma in faccia; e in grave suon gli dice:

“Temerario, che fai?”. (Vedi se il Cielo

veglia in cura de' re!) Gela a que' detti

il giovane feroce. Il braccio in alto

sospende a mezzo il colpo. Il regio aspetto

attonito rimira: impallidisce;

incomincia a tremar: gli cade il ferro;

e dal ciglio, che tanto

minaccioso parea, prorompe il pianto.

 ARI. Respiro.     

 ARG.                    Oh folle!               

 AMI.                                    Oh sconsigliato!  

 ARI.                                                                     Ed ora

il genitor che fa? 

 ALC.                     Di lacci avvolto

ha il colpevole innanzi.

 AMI.                                    (Ah! si procuri

di salvar l'infelice).

 MEG. E Licida che dice? 

 ALC.                                    Alle richieste

nulla risponde. E` reo di morte, e pare

che nol sappia, o nol curi. Ognor piangendo

il suo Megacle chiama: a tutti il chiede,

lo vuol da tutti; e fra' suoi labbri, come

altro non sappia dir, sempre ha quel nome.

 MEG. Più resister non posso. Al caro amico

per pietà chi mi guida?     

 ARI.                                     Incauto! E quale

sarebbe il tuo disegno? Il genitore

sa che tu l'ingannasti;

sa che Megacle sei; perdi te stesso

presentandoti al re; non salvi altrui.

 MEG. Col mio principe insieme

almen mi perderò.             

 ARI.                      Senti. E non stimi

consiglio assai miglior, che il padre offeso

vada a placare io stessa?

 MEG.                    Ah! che di tanto

lusingarmi non so.

 ARI.                      Sì, questo ancora

per te si faccia.

 MEG.    Oh generosa, oh grande,

oh pietosa Aristea! Facciano i numi

quell'alma bella in questa bella spoglia

lungamente albergar. Ben lo diss'io,

quando pria ti mirai, che tu non eri

cosa mortal. Va, mio conforto...

 ARI.                                                     Ah basta;

non fa d'uopo di tanto.

Un sol de' guardi tuoi

mi costringe a voler ciò che tu vuoi.

   Caro, son tua così,

che per virtù d'amor

i moti del tuo cor

risento anch'io.

   Mi dolgo al tuo dolor;

gioisco al tuo gioir;

ed ogni tuo desir

diventa il mio.

SCENA III

 MEG. Deh secondate, o numi,

la pietà d'Aristea. Chi sa se il padre

però si placherà. Troppa ragione

ha di punirlo, è ver; ma della figlia

lo vincerà l'amore. E se nol vince?

Oh Dio! Potessi almeno

veder come l'ascolta. Argene, io voglio

seguitarla da lungi.            

 ARG.                                    Ah tanta cura

non prender di costui. Vedi che 'l Cielo

è stanco di soffrirlo. Al suo destino

lascialo in abbandono.

 MEG. Lasciar l'amico! Ah così vil non sono.

   Lo seguitai felice

quand'era il ciel sereno,

alle tempeste in seno

voglio seguirlo ancor.

   Come dell'oro il fuoco

scopre le masse impure,

scoprono le sventure

de' falsi amici il cor.

SCENA IV

 ARG. E pure a mio dispetto

sento pietade anch'io. Tento sdegnarmi,

ne ho ragion, lo vorrei; ma in mezzo all'ira,

mentre il labbro minaccia, il cor sospira.

Sarai debole, Argene,

dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato!

non sarà ver. Detesto

la mia pietà. Mai più mirar non voglio

quel volto ingannator. L'odio: mi piace

di vederlo punir. Trafitto a morte

se mi cadesse accanto,

non verserei per lui stilla di pianto.

 AMI. Misero dove fuggo? Oh dì funesto!

Oh Licida infelice!             

 ARG.                                    E` forse estinto

quel traditor?      

 AMI.                     No, ma il sarà fra poco.

 ARG. Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi

molti compagni; onde giammai non sono

poveri di soccorso.             

 AMI.                                    Or ti lusinghi:

non v'è più che sperar. Contro di lui

gridan le leggi, il popolo congiura,

fremono i sacerdoti. Un sangue chiede

l'offesa maestà. De' sagrifizi,

che una colpa interrompe, è il delinquente

vittima necessaria. Ha già deciso

il pubblico consenso. Egli svenato

fia su l'ara di Giove. Esser vi deve

l'offeso re presente; e al sacerdote

porgere il sacro acciaro.    

 ARG.                                    E non potrebbe

rivocarsi il decreto?

 AMI.                                    E come? Il reo

già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori

io coronar gli vidi; e 'l vidi, oh Dio!

incamminarsi al tempio. Ah! fors'è giunto:

ah! forse adesso, Argene,

la bipenne fatal gli apre le vene.

 ARG. Ah no, povero prence!

 AMI. Che giova il pianto?              

 ARG.                                                    Ed Aristea non giunse?

 AMI. Giunse; ma nulla ottenne. Il re non vuole,

o non può compiacerla.

 ARG. E Megacle?             

 AMI.                                    Il meschino

ne' custodi s'avvenne,

che ne andavano in traccia. Or l'ascoltai

chieder fra le catene

di morir per l'amico: e, se non fosse

ancor ei delinquente,

ottenuto l'avria. Ma un reo per l'altro

morir non può.    

 ARG.                    L'ha procurato almeno.

Oh forte! Oh generoso! Ed io l'ascolto

senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi

l'amistà che l'amore? Ah quali io sento

d'un'emula virtù stimoli al fianco!

Sì, rendiamoci illustri. In fin che dura,

parli il mondo di noi. Faccia il mio caso

meraviglia e pietà: né si ritrovi

nell'universo tutto

chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.

   Fiamma ignota nell'alma mi scende:

sento il nume; m'inspira, m'accende,

di me stessa mi rende maggior.

   Ferri, bende, bipenni, ritorte,

pallid'ombre, compagne di morte,

già vi guardo, ma senza terror.

SCENA V

 AMI. Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde

tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh Dio!

senza Licida io vado? Io l'educai

con sì lungo sudore: a regie fasce

io l'innalzai da sconosciuta cuna;

ed or potrei senz'esso

partir così? No. Si ritorni al tempio:

si vada incontro all'ira

dell'oltraggiato re. Licida involva

me ancor ne falli sui:

si mora di dolor, ma accanto a lui.

   Son qual per mare ignoto

naufrago passeggiero,

già con la morte a nuoto

ridotto a contrastar.

   Ora un sostegno ed ora

perde una stella; al fine

perde la speme ancora

e s'abbandona al mar.

SCENA VI

Aspetto esteriore del gran tempio di Giove Olimpico, dal quale si scende per lunga e magnifica scala divisa in vari piani. Piazza innanzi al medesimo con ara ardente nel mezzo. Bosco all'intorno de' sacri ulivi silvestri, donde formavansi le corone per gli atleti vincitori.

 CORO I tuoi strali terror de' mortali

ah! sospendi, gran padre de' numi,

ah! deponi, gran nume de' re.

 PARTE DEL CORO Fumi il tempio del sangue d'un empio,

che oltraggiò con insano furore,

sommo Giove, un'immago di te.

 CORO I tuoi strali terror de' mortali

ah! sospendi, gran padre de' numi,

ah! deponi, gran nume de' re.

 PARTE DEL CORO L'onde chete del pallido Lete

l'empio varchi; ma il nostro timore

ma il suo fallo portando con sé.

 CORO I tuoi strali terror de' mortali

ah! sospendi, gran padre de' numi,

ah! deponi, gran nume de' re.

 CLIST. Giovane sventurato, ecco vicino

de' tuoi miseri dì l'ultimo istante.

Tanta pietade (e mi punisca Giove

se adombro il ver) tanta pietà mi fai,

che non oso mirarti. Il Ciel volesse

che potess'io dissimular l'errore:

ma non lo posso, o figlio. Io son custode

della ragion del trono. Al braccio mio

illesa altri la diede;

e renderla degg'io

illesa o vendicata a chi succede.

Obbligo di chi regna

necessario è così, come penoso,

il dover con misura esser pietoso.

Pur se nulla ti resta

a desiar, fuor che la vita, esponi

libero il tuo desire. Esserne io giuro

fedele esecutor. Quanto ti piace,

figlio, prescrivi; e chiudi i lumi in pace.

 LIC. Padre, che ben di padre,

non di giudice e re, que' detti sono,

non merito perdono,

non lo spero, nol chiedo, e nol vorrei.

Afflisse i giorni miei

di tal modo la sorte,

ch'io la vita pavento, e non la morte.

L'unico de' miei voti

è il riveder l'amico

pria di spirar. Già ch'ei rimase in vita,

l'ultima grazia imploro

d'abbracciarlo una volta, e lieto io moro.

 CLIST. T'appagherò. Custodi,

Megacle a me.    

 ALC.                     Signor, tu piangi! E quale

eccessiva pietà l'alma t'ingombra?

 CLIST. Alcandro, lo confesso,

stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,

la voce di costui nel cor mi desta

un palpito improvviso,

che lo risente in ogni fibra il sangue.

Fra tutti i miei pensieri

la cagion ne ricerco, e non la trovo.

Che sarà, giusti dei, questo ch'io provo?

   Non so donde viene

quel tenero affetto

quel moto, che ignoto

mi nasce nel petto;

quel gel, che le vene

scorrendo mi va.

   Nel seno a destarmi

sì fieri contrasti

non parmi che basti

la sola pietà.

SCENA VII

 LIC. Ah! vieni, illustre esempio

di verace amistà: Megacle amato,

caro Megacle, vieni.          

 MEG.                    Ah qual ti trovo,

povero prence!   

 LIC.                      Il rivederti in vita

mi fa dolce la morte.         

 MEG.                    E che mi giova

una vita, che in vano

voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,

Licida, non andrai. Noi passeremo

ombre amiche indivise il guado estremo.

 LIC. O delle gioie mie, de' miei martiri,

finché piacque al destin, dolce compagno,

separarci convien. Poiché siam giunti

agli ultimi momenti,

quella destra fedel porgimi, e senti.

Sia preghiera, o comando

vivi; io bramo così. Pietoso amico

chiudimi tu di propria mano i lumi;

ricordati di me. Ritorna in Creta

al padre mio... Povero padre! a questo

preparato non sei colpo crudele.

Deh tu l'istoria amara

raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto

reggi, assisti, consola;

lo raccomando a te. Se piange, il pianto

tu gli asciuga sul ciglio;

e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio.

 MEG. Taci: mi fai morir. 

 CLIST.                                 Non posso, Alcandro,

resister più. Guarda que' volti: osserva

que' replicati amplessi,

que' teneri sospiri e que' confusi

fra le lagrime alterne ultimi baci.

Povera umanità!

 ALC.                     Signor, trascorre

l'ora permessa al sacrifizio.             

 CLIST.                                                E` vero.

Olà, sacri ministri,

la vittima prendete. E voi, custodi,

dall'amico infelice

dividete colui.     

 MEG.                    Barbari! Ah voi

avete dal mio sen svelto il cor mio!

 LIC. Ah dolce amico!      

 MEG.                    Ah caro prence!  

 LIC., MEG.                                                        Addio!

 CORO I tuoi strali terror de' mortali

ah! sospendi, gran padre de' numi

ah! deponi, gran nume de' re.

(Nel tempo che si canta il coro, Licida va ad inginocchiarsi a piè dell'ara appresso al sacerdote. Il re prende la sacra scure, che gli vien presentata sopra un bacile da un de' ministri del tempio; e, nel porgerla al sacerdote canta i seguenti versi, accompagnati da grave sinfonia)

 CLIST. O degli uomini padre e degli dei,

onnipotente Giove,

al cui cenno si move

il mar, la terra, il ciel; di cui ripieno

è l'universo, e dalla man di cui

pende d'ogni cagione e d'ogni evento

la connessa catena;

questa, che a te si svena,

sacra vittima accogli. Essa i funesti,

che ti splendono in man, folgori arresti.

SCENA VIII

 ARG. Fermati, o re. Fermate,

sacri ministri.       

 CLIST.                 Oh insano ardir! Non sai,

ninfa, qual opra turbi?      

 ARG.                                    Anzi più grata

vengo a renderla a Giove. Una io vi reco

vittima volontaria ed innocente,

che ha valor, che ha desio

di morir per quel reo.         

 CLIST.                                 Qual è? 

 ARG.                                                    Son io.

 MEG. (Oh bella fede!)     

 LIC.                                      (Oh mio rossor!) 

 CLIST.                                                                Dovresti

saper che al debil sesso

pel più forte morir non è permesso.

 ARG. Ma il morir non si vieta

per lo sposo a una sposa. In questa guisa

so che al tessalo Admeto

serbò la vita Alceste; e so che poi

l'esempio suo divenne legge a noi.

 CLIST. Che perciò? Sei tu forse

di Licida consorte?            

 ARG.                                    Ei me ne diede

in pegno la sua destra e la sua fede.

 CLIST. Licori, io, che t'ascolto,

son più folle di te. D'un regio erede

una vil pastorella

dunque...              

 ARG.                    Né vil son io,

né son Licori. Argene ho nome: in Creta

chiara è del sangue mio la gloria antica:

e, se giurommi fé, Licida il dica.

 CLIST. Licida, parla.

 LIC.                                      (E` l'esser menzognero

questa volta pietà). No, non è vero.

 ARG. Come! E negar lo puoi? Volgiti, ingrato;

riconosci i tuoi doni,

se me non vuoi. L'aureo monile è questo,

che nel punto funesto

di giurarmi tua sposa

ebbi da te. Ti risovvenga almeno

che di tua man me ne adornasti il seno.

 LIC. (Pur troppo è ver).   

 ARG.                                    Guardalo, o re.    

 CLIST.                                                                Dinanzi

mi si tolga costei.

 ARG.                    Popoli, amici,

sacri ministri, eterni dei, se pure

n'è alcun presente al sacrifizio ingiusto,

protesto innanzi a voi; giuro ch'io sono

sposa a Licida, e voglio

morir per lui: né... Principessa, ah! vieni;

soccorrimi: non vuole

udirmi il padre tuo.

SCENA IX

 ARI.                                     Credimi, o padre,

è degna di pietà. 

 CLIST.                 Dunque volete

ch'io mi riduca a delirar con voi?

Parla; ma siano brevi i detti tuoi.

 ARG. Parlino queste gemme,

io tacerò. Van di tai fregi adorne

in Elide le ninfe? 

 CLIST.                 Aimè, che miro!

Alcandro riconosci

questo monil?     

 ALC.                     Se il riconosco? E` quello

che al collo avea, quando l'esposi all'onde,

il tuo figlio bambin.           

 CLIST.                                 Licida (oh Dio!

tremo da capo a piè). Licida, sorgi,

guarda: è ver che costei

l'ebbe in dono da te?         

 LIC.                      Però non debbe

morir per me. Fu la promessa occulta,

non ebbe effetto; e col solenne rito

l'imeneo non si strinse.

 CLIST.                                 Io chiedo solo

se il dono è tuo.  

 LIC.                      Sì.

 CLIST.                                 Da qual man ti venne?

 LIC. A me donollo Aminta.           

 CLIST.                                                E questo Aminta

chi è?    

 LIC.      Quello a cui diede

il genitor degli anni miei la cura.

 CLIST. Dove sta?             

 LIC.                                      Meco venne;

meco in Elide è giunto.

 CLIST. Questo Aminta si cerchi.   

 ARG.                                                                   Eccolo appunto.

SCENA X

 AMI. Ah, Licida...             

 CLIST.                                 T'accheta.

Rispondi, e non mentir. Questo monile

donde avesti?

 AMI.                     Signor, da mano ignota,

già scorse il quinto lustro

ch'io l'ebbi in don.              

 CLIST. Dov'eri allor?

 AMI.                                                    Là, dove

in mar presso a Corinto

sbocca il torbido Asopo.   

 ALC.                                    (Ah! ch'io rinvengo

delle note sembianze

qualche traccia in quel volto. Io non m'inganno:

certo egli è desso). Ah! d'un antico errore

mio re, son reo. Deh mel perdona: io tutto

fedelmente dirò. 

 CLIST. Sorgi, favella.

 ALC. Al mar, come imponesti,

non esposi il bambin: pietà mi vinse.

Costui straniero, ignoto

mi venne innanzi, e gliel donai, sperando

che in rimote contrade

tratto l'avrebbe.  

 CLIST.                 E quel fanciullo, Aminta,

dov'è? Che ne facesti?

 AMI.                                    Io... (Quale arcano

ho da scoprir!)    

 CLIST. Tu impallidisci! Parla,

empio; dì, che ne fu? Tacendo aggiungi

all'antico delitto error novello.

 AMI. L'hai presente, o signor: Licida è quello.

 CLIST. Come! non è di Creta

Licida il prence? 

 AMI.                     Il vero prence in fasce

finì la vita. Io, ritornato appunto

con lui bambino in Creta, al re dolente

l'offersi in dono: ei dell'estinto in vece

al trono l'educò per mio consiglio.

 CLIST. Oh numi! ecco Filinto, ecco il mio figlio.

 ARI. Stelle!         

 LIC.                      Io tuo figlio?       

 CLIST.                                                Sì. Tu mi nascesti

gemello ad Aristea. Delfo m'impose

d'esporti al mar bambino, un parricida

minacciandomi in te.        

 LIC.                                      Comprendo adesso

l'orror che mi gelò, quando la mano

sollevai per ferirti.

 CLIST.                                 Adesso intendo

l'eccessiva pietà, che nel mirarti

mi sentivo nel cor.

 AMI.                                    Felice padre!

 ALC. Oggi molti in un punto

puoi render lieti.  

 CLIST.                 E lo desio. D'Argene

Filinto il figlio mio,

Megacle d'Aristea vorrei consorte;

ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.

 MEG. Non è più reo, quando è tuo figlio.    

 CLIST.                                                                                E` forse

la libertà de' falli

permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro

valore a dimostrar, l'unico esempio

esser degg'io di debolezza? Ah questo

di me non oda il mondo. Olà, ministri,

risvegliate su l'ara il sacro fuoco.

Va, figlio, e mori. Anch'io morrò fra poco.

 AMI. Che giustizia inumana!

 ALC. Che barbara virtù! 

 MEG.                                   Signor, t'arresta.

Tu non puoi condannarlo. In Sicione

sei re, non in Olimpia. E` scorso il giorno,

a cui tu presiedesti. Il reo dipende

dal pubblico giudizio.        

 CLIST.                                 E ben s'ascolti

dunque il pubblico voto. A prò del reo

non prego, non comando, e non consiglio.

CORO DI SACERDOTI E POPOLO

   Viva il figlio delinquente,

perché in lui non sia punito

l'innocente genitor.

   Né funesti il dì presente,

né disturbi il sacro rito

un'idea di tanto orror.

LICENZA

Ah no, l'augusto sguardo

non rivolgere altrove, eccelsa Elisa.

Ubbidirò. Tu ascolterai, se m'odi,

(dura legge a compir!) voti e non lodi.

Veggano ancor ben cento volte e cento

i numerosi tuoi sudditi regni

tornar sempre più chiaro

questo giorno per te: per te, che sei

la lor felicità, che nel tuo seno

le più belle virtù, come in lor trono,

l'una all'altra congiunte... Aimè! Perdono.

Voti in mente io formai; ma dal mio labbro

escon (per qual magia dir non saprei)

trasformati in tua lode i voti miei.

Errai: ma il mondo intero

ho complice nel fallo; e (non sdegnarti)

mi par bello l'error. L'anime grandi

a vantaggio di tutti il Ciel produce.

Nasconderne la luce

perché, se agli altri il buon cammino insegna?

Le lodi di chi regna

sono scuola a chi serve. Il grande esempio

innamora, corregge,

persuade, ammaestra. Appresso al fonte

tutti non sono: è ben ragion che alcuno

disseti anche i lontani. Ah, non è reo

chi, celebrando i pregi

dell'anime reali,

ubbidisce agli dei, giova a' mortali.

Nube così profonda

non può formarsi mai,

che le tue glorie asconda,

che ne trattenga il vol.

Saria difficil meno

torre alle stelle i rai,

a' fulmini il baleno,

la chiara luce al sol.

FINE