L’orologio americano

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L'OROLOGIO AMERICANO

Commedia in due atti

Di ARTHUR MILLER

A cura di Gerardo Guerrieri

A Inge e Rebecca

Personaggi



Arthur Robertson

Clarence, lustrascarpe

Lee Baum

Moe Baum, padre di Lee

Rose Baum, madre di Lee

Frank, autista dei Baum

Fanny Margolies, sorella di Rose

Nonno, padre di Rose

Dottor Rosman, psicanalista

William Durant

Jesse Livermore                  finanzieri

Arthur Clayton

Tony, proprietario di uno speakeasy

Cameriere

Diana Morgan

Henry Taylor, agricoltore

Sidney Margolies, figlio di Fanny

Doris Gross, figlia della padrona di casa

Joe, amico d'infanzia di Lee

Ralph             studenti

Rudy

Isabel, prostituta

Ryan, supervisore di un ufficio assistenza del Governo federale

Matthew R. Bush

Grace

Kapush

Dugan                                      persone delll’ufficio assistenza

Irene

Toland

Lucy

Edie, scrittrice di fumetti

Lucilie, nipote di Rose

Stanislaus, marinaio

Isaac, proprietario di una rosticceria

Sceriffo


La compagnia della prima versione era composta di quindici attori, alcuni dei quali recitavano due o più personaggi.

La musica di scena era di Robert Dennis, la sceno­grafia di Karl Eigsti.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Il luogo è uno spazio adattabile per attori. I pochi mobili necessari saranno portati in scena a vista da­gli attori stessi. Sarà bene dare la sensazione di una grande vastità all'intorno, come se l'America intera fosse in realtà la scena, anche se si baderà a rendere intimi alcuni ambienti di interno. Lo sfondo potrà essere cielo, nuvole, lo spazio stesso, o una sintesi della geografia degli Stati Uniti. La luce si alza su Lee Baum che entra, e si mette di faccia al pubblico. È sulla cinquantina, i capelli brizzolati, indossa una giacca di tweed, e ha un aspetto vagamente ricercato: un giornalista.

Lee                                - Di catastrofi veramente nazionali l'America ne ha avute due sole. Non la Prima né la Secon­da Guerra Mondiale, e nemmeno il Vietnam né la Guerra d'Indipendenza del 1774. Solo la Guerra Civile e la Grande Crisi degli anni '30 hanno colpi­to quasi tutti gli americani dovunque vivessero e a qualunque classe sociale appartenessero. (Lieve pau­sa). Personalmente credo che dentro di noi abbiamo ancora paura, che improvvisamente, senza preavvi­so, tutto vada a catafascio un'altra volta. E che que­sta paura, in maniere delle quali non ci accorgiamo, sia ancora alla base di tutti i nostri...

È entrato Arthur Robertson. È sulla settantina, uo­mo d'affari che ha le mani in pasta in varie società. Ha un blazer blu, dolcevita bianca, scarpe bianche, e un bastone. Ha l'abitudine di sorridere ironica­mente.

Robertson                     - Mi dispiace ma non sono d'accordo: non credo che una catastrofe simile possa verificarsi an­cora. E non alludo solo a quella della Borsa. Parlo di quella emotiva. Intorno al 1929 si credeva general­mente che ogni americano dovesse inevitabilmente diventare ogni anno più ricco. La gente oggi la sa molto più lunga, lo sa che ci saranno alti e bassi, è molto più scettica...

Lee                                - E scetticismo, o una paura profonda, nata dalla Grande Crisi, che tutto il sistema possa improvvisa­mente crollare da un momento all'altro, e sfuggire a ogni controllo?

Robertson                     - Qualunque cosa sia te la puoi sempre ca­vare usando il cervello. Io non ho mai fatto tanti quattrini come durante la Crisi. Nel 1927, in pieno boom, lessi che la fabbrica aeronautica Wright sta­va costruendo l'aereo che avrebbe portato Lindberg attraverso l'Atlantico[1]. Comprai azioni Wright, che in una mattina salirono di sessantasette punti. Quel giorno smisi di credere che il boom sarebbe durato per sempre. Solo un miraggio può moltipli­carsi per sessantasette volte in tre ore, e cominciai a mollare la Borsa. Che due anni dopo, infatti, era a terra.

Appare Rose Baum, suona in sordina il piano, sof­fusa da una luce romantica.

Lee                                - (la vista di lei lo commuove) Ma c'era gente che non riusciva a mollare perché ci credeva. E con tut­to il cuore. Per loro l'orologio non avrebbe mai bat­tuto la mezzanotte, le danze e le musiche non sa­rebbero mai finite...

Robertson                     - (ricordando gravemente) Già, lo so - i Credenti. (Entra Clarence, uomo di colore, lustrascar­pe. Posa per terra la sua cassetta. Mentre Robertson gli si avvicina Lee  si avvia, in un' altra direzione, verso Rose). Come va, Clarence? (Mette le scarpe sulla cas­setta e togliendosi la parrucca grigia la getta fuori scena è sulla quarantina ora).

Rose                              - (a Lee ) Canta, caro.

Lee getta fuori scena la sua parrucca brizzolata e con un'aria da ragazzino canta il primo verso di For Iam just a vagabond lover... Buio su Rose e Lee.

Clarence                        - (tira fuori di tasca un biglietto da dieci dolla­ri) Signor Robertson, vorrei investire altri dieci dollari nelle General Electric. Può farlo per me? (Porge la banconota a Robertson).

Robertson                     - Quanti titoli possiedi oggi, Clarence?

Clarence                        - Beh, vediamo, con questi dieci dovrei ar­rivare a comprarmene per mille dollari[2], quindi adesso avrò più o meno, centomila dollari.

Robertson                     - In titoli. E in contanti quanto hai, a casa?

Clarence                        - Mah... quaranta, quarantacinque dollari,

Breve pausa.

Robertson                     - Sta' a sentire, Clarence: posso darti un consiglio? Ma mi devi promettere di non andare a dirlo a nessuno.

Clarence                        - Non sono mai andato a dirli a nessuno i suoi consigli, signor Robertson.

Robertson                     - Questo non è un consiglio, questo lo po­tresti chiamare piuttosto un anti-consiglio. Prendi tutti i titoli che hai e vendili.

Clarence                        - Venderli? Ma come? Stamattina, sul gior­nale, Andrew Mellon1 ha detto che la Borsa non può non continuare a salire.

Robertson                     - Rispetto molto Andrew Mellon[3], Claren­ce, ma lui è dentro fino al collo in questo gioco -che altro vuoi che dica? Vendi, Clarence, da' retta a me.

Clarence                        - (si raddrizza) A me non piace criticare i clienti, signor Robertson, ma una persona della sua posizione non si può mettere a fare discorsi simili... Su, prenda questi dieci dollari e li metta sulla Gene­ral Electric a nome di Clarence.

Robertson                     - Ti dico una cosa da ridere, Clarence.

Clarence                        - Ah si, e cioè?

Robertson                     - Non c'è un solo banchiere in America che non parli come parli tu.

Clarence                        - Vorrei vedere!

Robertson                     - Si, però... Beh! Ciao. (Esce).

Clarence se ne va con la sua cassetta da lustra­scarpe.La luce si accende lentamente su Rose al pianofor­te, è vestita da sera, sta per uscire. Suona Vagabond lover, in sordina.

Lee                                - (sbirciando Rose si toglie la giacca, si tira su i calzoni e se li rimbocca in modo da farli alla zuava. Ci sono due valige in mezzo alla scena) Lindberg aveva tra­svolato l'Atlantico perché ci credeva; Babe Ruth continuava a vincere le sue partite a baseball perché ci credeva; un pezzo di donna con certe spalle lar­ghe, che si chiamava Gertrude Ederle, attraversava la Manica a nuoto; e Charley Paddock, l'Essere più Veloce del Mondo, vinse una gara contro un cavallo da corsa; perché ci credeva - e un pomeriggio mia madre tornò a casa e s'era tagliati alla maschietta quei bellissimi capelli lunghi nei quali io avevo sem­pre creduto!

Rose canta il primo verso di Vagabond lover: «In search of a sweetheart it seems... »

Lee tenta di ac­compagnarsi a lei ma gli trema la voce. Rose si in­terrompe.

Rose                              - Che ti prende? (Lui riesce solo a scuotere la testa - «niente»). Ma andiamo! Nessuno ormai vuol star più a perdere tempo coi capelli lunghi, sempre a do­verli tirare su e giù...

Lee                                - Hai ragione! Ma non pensavo che sarebbe mai successo.

Rose                              - Ma perché non si può mai fare qualcosa di nuovo!

Lee                                - Ma perché non me l'hai detto !

Rose                              - Perché avresti fatto esattamente quello che stai facendo ora!... Mi tratti come fossi una... non-so-che-cosa! Adesso smettila di fare l'idiota e canta. (Lee riprende a cantare). Ma che fai, tesoro, stai boc­cheggiando?

Moe entra in smoking, portando un telefono.

Moe                               - Trafalgar cinque, sette-sette-uno-uno. (Si unisce a loro nel canto).

Frank, in uniforme d'autista, entra, applaudendo.

Rose                              - Rudy Vallee[4] sta diventando verde di rabbia.

Moe                               - (al telefono) Herb? Stavo pensando che forse farei bene a prendere altre cinquecento azioni della General Electric. Bravo (Riattacca).

Frank                             - L'auto è pronta, signor Baum.

Rose                              - (a Frank) Lei ora ci lascia al teatro, poi porta mio padre e mia sorella a Brooklyn, poi torna a prenderci alla fine dello spettacolo. Che non si per­da però, mi raccomando.

Frank                             - No, Brooklyn la conosco bene. (Esce con i ba­gagli).

Fanny, la sorella di Rose, entra con quattro bastoni da passeggio e due cappelliere.

Fanny                            - (apprensiva) Rose... senti... credo proprio che papà non se ne voglia andare da qui.

Moe si volta lentamente inarcando le sopracciglia; anche Rose è in allarme.

Rose                              - (a Fanny) Ma che sciocchezze! Sta qui già da sei mesi.

Fanny                            - (un pò ' impaurita, abbassa la voce) Te lo dico io... La cosa non gli va giù.

Moe                               - (sottolineando sonoramente l'ironia) Non gli va giù.

Fanny                            - (a Moe) Beh, lo sai che gli piace star largo, e quest'appartamento ne ha di spazio.

Moe                               - (a Lee) S'è comprato una tomba, capito? pro­prio nel viale centrale del cimitero, cosi avrà spazio a volontà per girarsi...

Rose                              - Oh, smettila!

Moe                               - … entrare e uscire come vuole.

Fanny                            - Da una tomba?

Rose                              - Ti sta prendendo in giro, per l'amor di Dio!

Fanny                            - Oh... (A Rose) Io dico che ha paura che casa mia sia troppo stretta. Sai, con le ragazze, e Sidney, e noi, e un solo bagno... Poi che fa da solo a Brook­lyn? Non gli è mai piaciuta la campagna...

Rose                              - Fanny, tesoro, - non ci pensare nemmeno -avendo te vicina gli piacerà.

Moe                               - Sai che facciamo Fanny? Andiamo a stare tutti da te cosi lui si tiene tutte le undici stanze e noi gli mandiamo la donna tutti i giorni per la biancheria...

Fanny                            - E là che si liscia i capelli, Rose, ma so che la cosa non gli va giù. Lo so cos'è: non si ritrova senza la mamma.

Moe                               - Ah, allora la cosa è seria - un uomo che alla sua età ha ancora bisogno della mamma...

Fanny                            - Non della sua, della nostra! (Ride, a Rose, in­dicando Moe) Credeva che papà avesse ancora biso­gno della mamma!

Rose                              - (impaziente) Andiamo! ti sta prendendo in giro.

Fanny                            - Oh, come sei! (Fa un verso di dispetto verso Moe).

Rose                              - (spingendo la porta) Forza! digli di sbrigarsi. Non voglio perdermi la prima scena di questo spet­tacolo, dicono che è bellissima!

Fanny                            - Cha ci vuoi fare? qui qualcosa succede sem­pre, ma a casa nostra è... troppo tranquillo per lui, capisci?

Moe                               - (al telefono) Trafalgar cinque, sette-sette-uno-uno.

Fanny                            - Capisci? le quotazioni in Borsa, gli affari... queste cose piacciono a papà!

Il Nonno compare. Vestito di tutto punto, bastone, soprabito sul braccio. Distinto, dignitoso, e si com­piange molto. Cammina un po' e poi si ferma, risen­tito.

Fanny                            - (deferente) Sei pronto, papà?

Moe                               - (al Nonno) Ci vediamo, Charley! (Al telefono) Herb... Forse farei bene a disfarmi delle mie Wor-thington Pump. Ah... Mille azioni? E ricordami, ti devo parlare dell'oro - D'accordo - Bene.

Nonno                           - (con immensa gravità a Moe) Che apri a fare un ufficio a Boston?

Moe                               - Si pensava che li gli affari potevano andar be­ne... Mah, staremo a vedere. Faremo tardi allo spettacolo, Charley.

Nonno                           - Non è andato mai bene niente, a Boston.

Rose                              - (gli tocca il gomito per farlo alzare) Papà, non ti dispiace, vero, se noi...

Nonno                           - Prima di andare in pensione... incontrai, co­me si chiama? Alexander... quello che dirigeva la... (A Rose) Come si chiama quella ditta, Rosie?

Fanny                            - Papà, caro, gli farai far tardi.

Nonno                           - (a Rose) Tardi a che?

Fanny                            - (con aria di scusa) A teatro, a Funny Face, uno spettacolo musicale.

Nonno                           - (sospirando, come a dire: che cosa è un musicala confronto di...) E disse che ci hanno rimesso un capitale per un ufficio a Boston, che è una città che pare chissà che cosa e invece non è proprio niente. Niente. (Guarda Moe aspettando una sua reazione).

Moe                               - (implacabile ma con sufficiente rispetto) Forza, Charley, l'autista ti accompagnerà in macchina.

Fanny                            - (con Rose aiuta il Nonno a infilarsi il cappot­to) Rose verrà a trovarti ogni tanto, papà.

Rose                              - Domani, vengo. Su. E che bella cravatta che hai! Domenica veniamo tutti quanti e stiamo tutto il giorno insieme.

Nonno                           - A Brooklyn non ci sono che pomodori.

Fanny                            - Una volta, devi vedere ora! Resterai sorpre­so. Hanno incominciato a costruire certi palazzoni adesso: ormai non è più campagna li. (E in tono feli­cemente rassicurante) In certe strade non c'è nemme­no un albero! (A Rose, notando il suo braccialetto di diamanti) Sto guardando quel braccialetto! E nuovo?

Rose                              - Me l'hanno regalato per il mio compleanno.

Fanny                            - Una meraviglia.

Rose                              - Ne ha regalato uno esattamente eguale anche a sua madre.

Fanny                            - Ne sarà stata più che contenta.

Rose                              - (con un sorriso tagliente diretto a Moe) Sfido, io!

Nonno                           - (a Moe) Mi verrà in mente il nome di quel ta­le, prima o poi... gli puoi telefonare e domandarglie­lo. Boston non è niente. (Scuote la testa con disap­provazione mentre si avvia fuori) Assolutamente zero!

Lee                                - Ciao, nonno!

Nonno                           - (va da Lee, gli porge la guancia: si fa baciare, e lo prende per il ganascino) Fa' il bravo, mi raccomando. (Passa davanti a Rose, le strappa stizzosamente di mano il cappello che lei gli sta tendendo ed esce).

Moe                               - Oh, ecco il pensionante che se ne va! Chi l'a­vrebbe mai detto!

Rose                              - (a Lee ) Vuoi venire in macchina con noi?

Lee                                - No, preferisco restare e lavorare alla mia radio.

Rose                              - Bravo, però va' a letto presto. Ti porto tutte le musiche dello spettacolo, e domani le cantiamo in­sieme. (Lo bacia) Buonanotte, tesoro. (Ha una stola di pelliccia sul braccio ed esce quasi volando).

Moe                               - (a Lee ) Quand'è che ti tagli i capelli?

Lee                                - Io li ho tagliati, si vede che mi sono ricresciuti.

Moe                               - (rendendosi conto di quanto Lee è cresciuto) Sa­rebbe ora che tu parlassi a tua madre su quale uni­versità hai intenzione di scegliere.

Lee                                - Oh, no. C'è tempo ancora un paio d'anni.

Moe                               - Ah. Allora va bene. (Ride ed esce, perfettamente in armonia col mondo).

Robertson appare e va verso un divano senza brac­cioli e ci si sdraia. Compare il dottor Rosman e si siede su una sedia dietro la testa di Robertson.

Robertson                     - Dov'era rimasto, ieri?

Dottor Rosman             - Sua madre aveva buttato l'acqua bollente addosso al gatto.

Pausa.

Robertson                     - C'è un'altra cosa, dottore. Ma ho un conflitto interno, se dirgliela o no...

Dottor Rosman             - Siamo qui per questo.

Robertson                     - Non nel senso che pensa lei. Questa vol­ta si tratta di denaro.

Dottor Rosman             - Cioè?

 

Robertson                     - II suo denaro.

Dottor Rosman             - (si volta verso Robertson allarma­to) Che c'è col mio denaro?

Robertson                     - (esita) Penso che lei dovrebbe cercare di tirarsi fuori dalla Borsa.

Dottor Rosman             - Fuori dalla Borsa?

Robertson                     - Vendere tutto. (Fa una pausa. Alza la te­sta per pensare, parla meditatamente).

Dottor Rosman             - Mi può dire su che base fonda que­st'idea? Quando è stata la prima volta che le si è presentata?

Robertson                     - Circa quattro mesi fa. Verso la metà di maggio.

Dottor Rosman             - Può ricordare l'occasione che gliel'ha suggerita?

Robertson                     - Una delle mie ditte produce utensili da cucina.

Dottor Rosman             - Quella che lei ha in Indiana?

Robertson                     - Si. A metà maggio tutte le nostre ordi­nazioni sono cessate.

Dottor Rosman             - Completamente?

Robertson                     - Zero totale. Ora siamo a fine agosto e non sono riprese.

Dottor Rosman             - Com'è possibile? Il titolo in Borsa continua a salire.

Robertson                     - Trenta punti in neanche due mesi... Cerco di dirglielo da un sacco di tempo, dottore... il mercato non rappresenta altro che uno stato d'ani­mo. (Alzandosi a sedere) D'altra parte devo ammet­tere l'ipotesi che questa non sia altro che una mia fantasia personale...

Dottor Rosman             - Si. Lei ha sempre avuto una fobia di catastrofi incombenti.

Robertson                     - Ma non ho avuto altro che riunioni alla Banca Morgan per tutta la settimana, ed è lo stesso in quasi tutte le industrie... i magazzini sono pieni zeppi, non riusciamo a fare uscire la merce: il fatto è certo.

Dottor Rosman             - Ne ha parlato con i suoi colleghi, di questo?

Robertson                     - Non mi danno retta. Forse perché non se lo possono permettere... Tutto il sistema è basato su un attivismo folle. Abbiamo trasformato il Paese in una bisca e ce lo stiamo giocando in una partita dove non dovrebbe esserci mai nessuno che perde! Comunque domani, appena si apre la Borsa, finisco di vendere tutto. Questo mi dà un senso di colpa, ma non vedo altra via d'uscita.

Dottor Rosman             - Perché vendere la fa sentire in colpa?

Robertson                     - Scaricare dodici milioni in titoli potreb­be provocare una valanga. Potrebbe mettere sul la­strico migliaia di vedove e di vecchi... Ho persino accarezzato l'idea di darne annuncio pubblico.

Dottor Rosman             - Ma non basterebbe questo a provo­care un crollo?

Robertson                     - Però metterebbe in guardia i pesci più piccoli...

Dottor Rosman             - (con ansia crescente) Ma... Lei po­trebbe essere responsabile di un eventuale terre­moto.

Robertson                     - Ma conoscendo quello che so, e non di­cendo niente, sono ugualmente responsabile, no?

Dottor Rosman             - Ma vendendo senza far chiasso, forse non creerebbe un tale scompiglio in Borsa. E potrebbe anche darsi il caso che si sbagli.

 

Robertson                     - Potrebbe essere... Già... Forse venderò e starò zitto. Lei ha ragione. Potrei sbagliarmi.

Dottor Rosman             - (sollevato) E probabile. A ogni buon conto venderò tutto.

Robertson                     - Bene, dottore. (Si alza) E un'altra cosa; questo le sembrerà assolutamente folle. Quando avrà i suoi dollari non se li tenga. Compri oro.

Dottor Rosman             - Non dirà sul serio.

Robertson                     - Lingotti d'oro, dottore. Il dollaro può andare a picco con tutto il resto. (Tende la mano) Allora, buona fortuna.

Dottor Rosman             - Le trema la mano.

Robertson                     - Lo credo. Se sentissero questi discorsi non troveremmo due grandi banchieri in America che non sarebbero d'accordo nel dire che Arthur A. Robertson è completamente impazzito. (Fa alcuni passi, si ferma) Lingotti d'oro, dottore. E non in banca. In cantina, li deve mettere. Si riguardi. (Robertson  esce e poi Rosman).

La luce si alza sullo speakeasy di Tony. Un'orchestra dietro le quinte suona l'ultimo motivo di successo; i camerieri preparano la tavola dove due imponenti signori in abito da sera si mettono a sedere, beven­do i loro brandy. Ora Lee entra osservando tutto questo. È di nuovo in parrucca grigia.

Lee                                - Ah, si. I Grandi Uomini.

Robertson entra. Anche lui ha i capelli grigi, ora.

Robertson                     - (ridacchiando beffardo) Ah, già... il leg­gendario Jesse Livermore, il genio dell'alta finanza; William Durant...

 

Lee                                - Quando penso a come abbiamo idolatrato quei santoni che non erano altro che borseggiatori in una folla di pellegrini...

Robertson                     - Si, ma anche loro credevano.

Lee                                - Già! credevano! In che cosa, credevano?

Robertson                     - Come? Credevano nella più importante di tutte le cose: che non c'è niente di reale. Che se era lunedì e tu volevi che fosse venerdì, e riuscivi a convincere abbastanza gente che era venerdì, allora era venerdì davvero!... In realtà, se si fossero com­portati veramente da cinici, sarebbe stato meglio sia per loro che per l'America... sia loro che l'America se la sarebbero cavata meglio!

Livermore                     - Tony?

Tony                              - (entrando) Si, signor Livermore? Un altro po' di cognac, signor Durant?

Livermore                     - Mi dica di Randolph Morgan. L'ha visto veramente mentre stava precipitando?

Tony                              - Come no. Era ancora quella luce azzurrognola, che c'è quando sta per far buio. Non so com'è suc­cesso, alzo gli occhi e vedo uno che vola come un'a­quila, ad ali spalancate, piombando giù attraverso l'aria. Stava proprio su di me, come un gigante! (Guarda ai suoi piedi) E guardo. Non potevo creder­ci. È Randolph!

Livermore                     - Pover'uomo!

Durant                           - Povero stupido.

Livermore                     - Non so... per me c'è una certa cavalle­ria... Quando perdi non solo il tuo denaro ma anche quello degli altri, non resta altra via d'uscita.

Durant                           - C'è sempre una via d'uscita. La porta.

Livermore                     - (alzando il bicchiere) A Randolph Mor­gan.

Durant alza il bicchiere.

Tony                              - Pace all'anima sua. E voglio aggiungere una cosa. Tutti dovrebbero mettersi in ginocchio da­vanti a John Rockefeller e ringraziarlo.

Livermore                     - Parole sante.

Tony                              - Dica la verità, signor Livermore: non le ha fat­to venire i brividi? Quest'uomo! La Borsa crolla da tutte le parti, va in frantumi, e lui se n'esce, tran­quillo e dice: «io e i miei figli compriamo sei milioni di dollari di titoli normali». Proprio un vero mata­dor.

Livermore                     - E prenderà il toro per le corna.

Tony                              - E gli farà fare dietrofront. Perché è un capita­lista, e sa come si fa a combattere. Vedrete, domat­tina la Borsa risalirà rapidamente su nel cielo come un razzo. (Entra un cameriere, dice qualcosa all'orec­chio di Tony. Tony reagisce) Certo, certo, falla acco­modare. (Il cameriere esce di corsa. Tony si volta verso i finanzieri) Santo cielo, è la sorella di Randolph... che non sa ancora niente. (Entra Diana Morgan). Come sta, signorina Morgan? si accomodi, si acco­modi. Qua ho un bel tavolo per lei.

Diana                            - ( la tipica bella donna esuberante del Sud) Gra­zie.

Tony                              - Che le porto? una bella bistecca? una cosetta da bere?

Diana                            - Vorrei aspettare il signor Robertson.

Tony                              - Come crede. Faccia come fosse a casa sua.

Diana                            - Lei è il... famoso Tony?

Tony                              - Esatto, signorina.

Diana                            - Sono davvero felice di conoscerla. Ho letto tutto su questo meraviglioso locale. (Si guarda intorno avidamente). Tutte queste persone sono del mon­do letterario?

Tony                              - Beh, non tutti, signorina Morgan.

Diana                            - Ma questo è lo speakeasy dove viene sempre Francis Scott Fitzgerald?

Tony                              - Oh si, ma questa è una serata un po' tranquil­la, sa, con quello che sta succedendo a Wall Street la gente non mette il naso fuori di casa da un paio di giorni.

Diana                            - Quel signore là è uno scrittore?

Tony                              - (sottovoce) No, signorina. Quello è Jake il Bar­biere, è nel commercio dei liquori.

Diana                            - E quelli? (Indica Durant e Livermore. Durant che ha sentito, si alza).

Tony                              - II signor Durant, la signorina Morgan. Il si­gnor Livermore, la signorina Morgan.

Diana                            - Non Jesse Livermore?

Livermore                     - Ho proprio paura di si.

Diana                            - Ma chi l'avrebbe detto!... e seduti li, come due milionari qualsiasi! Questa è certo una serata eccezionale per me! Lei dovrebbe conoscere Dur-ham molto bene!

Livermore                     - Durham? Ho l'impressione di non esser­ci mai stato.

Diana                            - Come? la sua grande fabbrica della Philip Morris non è a Durham? E ancora lei il proprietario della Philip Morris, no?

Livermore                     - Oh, si, ma per scommettere su un caval­lo non c'è bisogno di montarlo. Io non voglio aver niente a che fare con le fabbriche. A me interessano solo i titoli.

Diana                            - Ma ha del prodigioso, non le pare? Possedere un posto cosi senza averlo nemmeno visto! Mio fra­tello è nella Borsa... Randolph Morgan?

 

Livermore                     - Lo conosco Randolph, da quando com­prai il pacchetto di controllo dell'Ibm. Un vero si­gnore.

Diana                            - Ma non capisco perché debba passare la notte in ufficio. La Borsa chiude di notte, no?

Durant                           - Si, ma sta arrivando da tutta l'America una valanga di ordini di vendere, e tutti lavorano venti-quattr'ore su ventiquattro per far fronte alle richie­ste. La verità è che in questo momento niente ha più prezzo. Infatti, lo vede il signor Clayton, laggiù, in fondo al bar? sta aspettando le ultime quotazioni.

Diana                            - Ma sono sicura che qualcosa dovranno pur farla. (Ride) Sa che ci hanno tagliato il telefono?

Livermore                     - Come mai?

Diana                            - Non ne ho la minima idea; pare che mio pa­dre abbia vissuto di prestiti in questi ultimi mesi, e che ora non gli facciano più credito. (Ride) Mi sento come il personaggio di un sogno. Sono andata al va­gone ristorante, avevo una fame da lupo, e mi sono accorta di avere solo quaranta cents! Sopravvivo mangiando solo tavolette di cioccolata. (Usuo fasci­no disinvolto riesce appena a nascondere la sua ansia). Ma dov'è andato a finire tutto il denaro?

Livermore                     - Non si preoccupi, signorina Morgan, fra poco ce ne sarà molto, di denaro. Il denaro è come un uccellino pieno di paura, basta il minimo fruscio tra gli alberi e scappa a nascondersi. Ma il denaro non sopporta la solitudine a lungo, prima o poi deve venir fuori per trovare da mangiare. Ecco perché dobbiamo tutti parlare con ottimismo e mostrare fi­ducia. Con l'annuncio di Rockefeller di stamattina, la ripresa probabilmente è già cominciata.

 

Clayton appare nella periferia semibuia con il tele­fono all'orecchio.

Durant                           - Se fossi in lei, signorina, mi preparerei al peggio.

Livermore                     - Andiamo, Bill, ti sembra questo il modo di ragionare?

Durant                           - Signorina Morgan! io sto qui a parlare del più e del meno e intanto quel signore laggiù, che ha appena riattaccato il telefono, si sta facendo corag­gio per venire a dirmi che ho perduto il controllo della General Motors.

Diana                            - Cosa!

Arthur Clayton infatti ha messo giù il ricevitore, si è aggiustato la giacca e ora si sta dirigendo verso il loro tavolo.

Durant                           - (guardandolo mentre si avvicina) Se fossi in lei, chiamerei a raccolta tutte le mie forze, signorina Morgan. (Clayton si ferma a pochi passi da Durant). Si, Clayton?

Tony entra, poggia un bicchiere di vino davanti a Diana.

Clayton                         - Se potessimo parlare da soli, signore...

Tony dà un'occhiata a Clayton ed esce.

Durant                           - Sono finito?

Clayton                         - Se riuscisse a trovare un prestito per due o tre settimane...

Durant                           - Da chi?

 

Clayton                         - Io non lo so, signore.

Durant                           - (si alza) Buonanotte, signorina Morgan. (Lei leva gli occhi a guardarlo, stupita). Quanti anni ha?

Diana                            - Diciannove.

Durant                           - Spero che vorrà guardare le cose come stan­no, signorina. Stia alla larga dai titoli. I titoli sono come la peste. Buona fortuna a lei. (Si volta verso il fondo per uscire).

Livermore                     - Dobbiamo parlare, Bill...

Durant                           - Non c'è niente da dire, Jesse. Va' a dormi­re, vecchio mio, è passata mezzanotte da un pezzo. (Esce).

Livermore                     - (si volta verso Clayton, simulando un tono di sfida noncurante) Clayton... a quanto apriranno le Philip Morris, lo si sa già?

Clayton                         - Sotto i venti. Non di più. Ammesso che riusciamo a trovare dei compratori.

Livermore                     - (il suo sorriso se n 'è andato) Ma Rockef el-ler, Rockefeller...

Clayton                         - Sembra che non abbia fatto effetto. (Liver­more si alza. Pausa). Dovrei tornare in ufficio, se permette. (Livermore tace). Mi dispiace molto, si­gnor Livermore (Esce).

Diana nota l'espressione di sofferenza che ora è sul volto di Livermore e fa per alzarsi.

Diana                            - Signor Livermore?...

Entra Robertson, è sulla quarantina ora.

Robertson                     - Mi dispiace per il ritardo, Diana... Co­ni è stato il viaggio? (L'espressione di lei lo spinge a guardare Livermore. Va verso di lui). Va male, Jesse?

Livermore                     - M'hanno fatto fuori, Arthur.

Robertson                     - (cercando di indorare la pillola) Andiamo, su, Jesse, un uomo come te ha sempre una decina di milioni messi da parte.

Livermore                     - No, no. Ho sempre pensato che se uno non può avere denaro reale tanto vale non averne affatto. È vero quello che ho sentito dire? che hai fatto in tempo a vendere tutto?

Robertson                     - Sì, Jesse. T'ho detto che l'avrei fatto.

Livermore                     - (lieve pausa) Arthur, puoi prestarmi cin­quemila dollari?

Robertson                     - Certo. (Si siede. Si toglie una scarpa).

Livermore                     - Che diavolo fai? (Robertson tira fuori dal­la scarpa uno strato di banconote da cinquemila dolla­ri, ne tira fuori uno e lo dà a Livermore alzandosi. Li­vermore abbassa gli occhi a guardare le scarpe di Ro­bertson) Per Dio. Non credi proprio più a niente?

Robertson                     - A poco.

Livermore                     - Eh, già, questo lo capisco. (Piega la ban­conota) Ma non è che mi piace molto. (Intasca la banconota. Guarda di nuovo in basso, alle scarpe di Robertson, e scuote la testa) Beh, a questo punto tientela pure, la tua America! (Si volta come un cieco ed esce).

Robertson                     - Cinque settimane fa, sul mio yacht nella baia di Oyster, mi disse che aveva quattrocentot-tanta milioni di dollari in titoli ordinari.

Diana                            - ( si volta verso di lui dopo aver seguito Livermore con lo sguardo impaurito) Anche Randolph è rovi­nato?

Robertson                     - (le prende la mano) Diana... Randolph è morto. (Lei si porta entrambe le mani al volto). E... è caduto dalla finestra del suo ufficio. (Lei resta in pie­di impietrita, come se vedesse la scena. Tutto scompare, tranne Robertson che, illuminato da un riflettore, si rivolge al pubblico) Non molto tempo dopo, una mattina, il signor Livermore, fece un'ottima cola­zione al Sherry-Netherlands Hotel, chiese una bu­sta, la indirizzò ad Arthur Robertson, vi infilò un biglietto da cinquecento dollari, andò nel bagno e si sparò. (Esce. Luce su Lee         , al centro della scena mentre pedala su una bicicletta). Questo e altri eventi simili che effetto ti fecero, laggiù a Brooklyn? Scossero in qualche modo la tua fede nel sistema?

Lee                                - Oh, no, in quella fase nemmeno sapevo che esi­stesse un sistema. Pensavo che se un uomo era, di­ciamo, come mio padre, uno che lavorava sodo e produceva le merci giuste, per forza doveva star be­ne. Tutto qui. La vita era una questione d'indivi­dui, mi pare.

Rose                              - (chiama da dietro le quinte)Lee?

Robertson                     - Interessante. (Sparisce nel buio mentre appare Rose).

Rose                              - (con in mano un sacchetto di carta) Dovresti far­mi una cortesia. Oh, che bella bicicletta!

Lee                                - E’ una Columbia da corsa! L'ho appena compra­ta da George Rosen per dodici dollari.

Rose                              - E dove li hai presi dodici dollari?

Lee                                - Ho vuotato il mio libretto di risparmio. Ma vale molto di più!...

Rose                              - Lo credo bene! Senti, tesoro, sai come arrivare alla Terza Avenue e alla Diciannovesima Strada, vero?

Lee                                - Certo, in dieci minuti.

Rose                              - (tira fuori dalla borsa un braccialetto) Questo è il mio braccialetto di diamanti. (Fruga nella borsa e tira fuori un biglietto da visita) E questo è il biglietto da visita del signor Sanders con il suo indirizzo. T'aspetta; tu daglielo, e lui ti consegnerà una rice­vuta.

Lee                                - Deve ripararlo?

Rose                              - No, tesoro. E un banco di pegni. Va'! Te lo spiegherò, un giorno.

Lee                                - Non posso averne un'idea? Cos'è un banco di pegni?

Rose                              - Dove lasci una cosa temporaneamente e su quella ti prestano del denaro, a interesse. Lo lascerò li tutto il resto del mese, finché la Borsa risale. Gliel'ho fatto vedere venerdì e ci presterà una bella somma.

Lee                                - E per riaverlo come fai?

Rose                              - Rimborsi il prestito più l'interesse. Ma le cose riprenderanno entro un mese o due. Va', tesoro, sii prudente! Sono cosi contenta che hai comprato quella bicicletta... è magnifica.

Lee                                - (salendo sulla bicicletta) Papà lo sa?

Rose                              - Si, caro. Papà lo sa...

Lei sta per uscire quando arriva di corsa Joey.

Joey                               - Salve, signora Baum!

Rose                              - Ciao Joey... sbaglio o sei dimagrito?

Joey                               - Io? (Si tocca la pancia come a smentire quello che ha detto Rose) No, sto bene. (Rivolto anche a Lee ti­ra fuori una foto 8xio da una busta) Visto che m'è arrivato?

Rose e Lee guardano la fotografia.

Rose                              - Dove l'hai presa?

Lee                                - E come hai fatto a farti mettere l'autografo?

Joey                               - Semplice. Ho scritto alla Casa Bianca.

 

Lee                                - (facendo scorrere il dito sulla firma) Caspita ra­gazzi! Ma guarda un po'... « Herbert Hoover »...

Rose                                        - E’ stato proprio un gesto umano, da parte sua. Che cosa gli hai scritto?

Joey                               - Gli ho augurato di vincere... di battere la Crisi.

Rose                              - Ma guarda un po' ! Finirai col diventare un uo­mo politico, Joey. (Torna a studiare la foto).

Joey                               - Chi lo sa... non mi dispiacerebbe...

Lee                                - Ma non volevi fare il dentista?

Joey                               - Beh: o l'uno o l'altro.

Rose                              - Ora va', tesoro! (Esce, già preoccupata dal vero problema).

Lee monta in bicicletta.

Lee                                - Facciamo una partita a pallacanestro, dopo?

Joey                               - Anche adesso.

Lee                                - (imbarazzato) No... Prima devo fare una cosa per mia madre... Ci vediamo fra un'ora, sul campo.

(Si avvia per uscire).

Joey                               - (lo ferma) Aspetta, vengo con te, mi fai salire in canna? (Sta per salire sulla canna).

Lee                                - Non posso, Joey.

Joey                               - (avverte che c'è qualcosa di misterioso e proibito, sorpreso) Oh!

Lee                                - Ci vediamo sul campo. (Esce pedalando).

Joey esamina l'autografo e con le labbra pronuncia silenziosamente... «Herbert Hoover». Scuote la te­sta orgogliosamente e se ne va... Frank appare, con berretto e soprabito d'autista e mima l'azione di spolverare una grande limousine con un panno cavato di tasca, soffiando su una mac­chia qua e là. Porta un plaid piegato sottobraccio.

Moe entra, vestito elegantemente con un cappotto col collo di pelliccia.

Frank                             - 'Giorno, signor Baum. Guardi come gliePho fatta bene la macchina, gliePho fatta riscaldare sta­mattina. E il plaid l'ho fatto lavare a secco in tinto­ria.

Moe                               - (porge a Frank una fattura) E questo che sareb­be, Frank?

Frank                             - Oh. Sembrerebbe il conto del garage.

Moe                               - Cosa dice delle gomme, li?

Frank                             - Ah, si, signore, è il conto delle nuove gomme della settimana scorsa.

Moe                               - E le gomme che abbiamo comprato sei settima­ne fa, che fine hanno fatto?

Frank                             - Non erano un gran che, si sono consumate subito, è vero. Sono io il primo ad ammetterlo.

Moe                               - Come? Venti dollari l'una e durano sei setti­mane? v

Frank                             - E proprio quello che le sto dicendo, signo­re... non valevano niente. Ma queste altre saranno molto migliori, però.

Moe                               - Sai una cosa, Frank...

Frank                             - Si, signore. Intendo dire: le do la mia garan­zia personale su questa fornitura, signor Baum.

Moe                               - Io finora non ci ho mai badato a queste cose, ma può darsi che tu abbia sentito che c'è stato un crollo in Borsa?... praticamente tutto è andato a carte quarantotto.

Frank                             - Oh, si, signore, l'ho sentito sf.

Moe                               - Tu l'hai sentito ma io l'ho provato! in prima persona! Infatti con tutto quello che ti sei guada­gnato vendendoti le mie gomme durante questi ul­timi dieci anni...

 

Frank                             - Ma cosa dice, signore? Signor Baum!

Moe                               - Frank, lo sai quante gomme hai cambiato in questi ultimi dieci anni? Io non ho mai sentito par­lare di cosi tante gomme in tutta la mia vita, fin da quando sono arrivato qui dall'Europa all'età di sei anni! Ma lo sai che sono tante, Frank? Sai che cosa facciamo? Te lo dico io, Frank, tu adesso metti in moto la macchina e la porti al salone dell'auto usata Pierce Arrow e la lasci li, poi vieni da me in ufficio e facciamo i conti.

Frank                             - E lei come farà ad andare in giro?

Moe                               - Col taxi, Frank, sono a posto.

Frank                             - Certo, mi dispiacerà molto lasciarvi, lei e la sua famiglia.

Moe                               - Tutto finisce, Frank. Finché è andata è stato bello. Senza rancore. (Stringe la mano a Frank) Sa­luti.

Frank                             - (tutta l'autorità d'uomo in uniforme è scompar­sa) Ma io... ma che faccio io adesso?

Moe                               - Non hai dei parenti, dei suoceri?...

Frank                             - Ce li ho, ma non siamo mai andati molto d'accordo.

Moe                               - Peccato. Dovevi pensarci. (Si affretta fuori, chiamando... ) Taxi !

Frank, col berretto in mano, comincia a camminare senza meta; appare Robertson, ora di nuovo sulla settantina, fissando in volto Frank mentre gli passa vicino ed esce.

Robertson                     - (gravemente) Se n'andavano cosi, verso il nulla, niente indennità di disoccupazione, niente previdenza sociale, solo aria fresca... Più o meno in quel periodo mi misi d'accordo con un negro che abitava nel mio stesso palazzo: ogni sera, intorno al­le sei, lui radunava settantacinque persone, le met­teva in fila e cosi incolonnate io le portavo al Penny Restaurant MacFadde, il cosiddetto ristorante da un soldo, dove per sette centesimi potevi avere un pasto decente. Ogni sera ce n'erano settantacinque nuovi. Sembrava diventata la Germania del 1922... e le banche mi preoccupavano. A volte andavo in giro con venticinque, trentamila dollari dentro le scarpe.

Lee è entrato spingendo una poltrona con su un ta­volino e un telefono che dispone.

Lee                                - La popolazione si moltiplicò in quell'isolato: fi­gli sposati che tornavano a vivere in famiglia, geni­tori che si rimettevano coi figli... bambini che stril­lavano là dove non c'era più stato un solo bambino davent'anni...

Robertson                     - Che t'ho detto? lo vedi? la Crisi fece tor­nare in auge la famiglia. Dalla catastrofe il pro­gresso!

Robertson e Lee escono in direzioni opposte men­tre il Nonno entra portando quattro o cinque basto­ni da passeggio. Arrivato a un certo punto li depone per terra. Porta anche due cappelliere reggendole per i lacci, le depone a terra e si siede con aria scon­trosa sulla sedia. Rose entra, portando un lenzuolo piegato, indossa una vestaglia, sta lavorando con energia.

 

Rose                              - (vede i bastoni per terra) Che stai facendo?

Nonno                           - (è una sentenza definitiva) Non c'è posto per questi nel mio armadio...

Rose                              - Per quattro bastoni}

Nonno                           - Già, e i miei cappelli? Non avresti dovuto comprare una casa cosi piccola, Rose.

Rose                              - (fa per andare) Torno giù subito. (A proposito dei bastoni). Li metterò nell'armadio in anticamera.

Nonno                           - No, non li voglio li, dove possono cadere, la gente poi ci cammina sopra. E i miei cappelli dove li metti?

Rose                              - (cerca di mantenersi calma) Papà, che vuoi da me? Si fa quel che si può!

Nonno                           - Un bagno solo per tanta gente proprio non va... avevi tre bagni nell'appartamento, e quando ti affacciavi alla finestra avevi davanti tutta New York. Qui... sentila quella strada là fuori... sembra un cimitero di Brooklyn. E questo barbiere qui... peggio di cosi... Guarda come m'ha ridotto. (Le mo­stra).

Rose                              - Perché? Te li ha fatti benissimo. (Gli ravvia i capelli) Sono solo un po' ineguali.

Nonno                           - (scostando la mano di lei) Io non capisco, Ro­se. Prima dichiara fallimento e poi ci ripensa e paga tutti i debiti. Perché?

Rose                              - Per salvare la reputazione.

Nonno                           - Reputazione! Finirà coli'avere una reputa­zione da fesso! Si dichiara fallimento appunto per non pagare i debiti.

Rose                              - (incerta lei stessa) Ci teneva al suo buon nome.

Nonno                           - Ma proprio li sta il bello, che non devi pagare nessuno. Perché non è venuto da me a chiederlo? Quando sono fallito io non ho pagato nessuno)

Rose                                        - (si decide) Devo dirti una cosa... papà.

Nonno                           - E poi tu gli devi proprio parlare a Lee ... tutta la notte si agita nel letto, mi sveglierà almeno dieci volte, e lascia i calzini per terra. (Alza il piede per fa­re un passo) ... devo scavalcarli tutte le volte.

Rose                              - Non vorrei che Moe stavolta perdesse la pa­zienza, papà. (L'avvertimento arriva a destinazione. Il Nonno le dà una rapida occhiata). Sta cercando di avviare un'altra attività e perciò è molto nervoso.

Nonno                           - Cos'ho detto di male?

Rose                              - Niente. (Con un pò ' di rimorso lui l'aiuta a pie­gare il lenzuolo. Lei improvvisamente l'abbraccia, poi dà un'occhiata ai bastoni) Forse potrò trovare un portaombrelli, da qualche parte.

Nonno                           - Stavo leggendo a proposito di questo Hit­ler...

Rose                              - Prima pensavo a mamma, quando stava davan­ti allo specchio, il suo volto era cosi bello, delicato, come una bambola di porcellana.

Nonno                           - ...sta ripulendo la Germania da tutti gli estremisti. Non sarebbe poi tanto male se non fosse contro gli ebrei. Non durerà sei mesi... mi ha fatto venire in mente quando tanti anni fa portavo mam­ma a Baden-Baden, in questa stagione...

Rose                              - Com'era bella.

Nonno                           - ... una volta stavamo seduti sul treno in par­tenza per Berlino, e improvvisamente un uomo ar­riva di corsa gridando il mio nome. «Eccomi, sono io», dico. E quello attraverso il finestrino mi porge il mio orologio d'oro con catena: «L'ha dimenticato in camera». Solo in Germania poteva succedere una cosa simile. Questo Hitler ha i giorni contati.

Rose                              - Per favore... (A proposito dei bastoni) Rimettili nel tuo armadio, d'accordo? (Fa per andarsene).

 

Nonno                           - Io non ho detto altro che, se sta dichiarando fallimento, allora...

Rose                              - Sta' attento, va a finire che perde la pazienza, papà! (Tagliando corto alla propria ribellione lo carica di bastoni e cappelliere).

Nonno                           - (brontola) Quest'uomo non sa neanche come si fa a fallire! (Esce).

Lee appare sulla sua bicicletta, ma ora è vestito in abiti invernali. Smonta, parcheggia la bicicletta proprio mentre Rose compare con un altro sacchet­to di carta.

Lee                                - Mamma, indovina!

Rose                              - Cosa?

Lee                                - Ti ricordi che ho vuotato il mio conto in banca per la bicicletta?

Rose                              - E con questo?

Lee                                - La banca è stata appena chiusa dal governo! E fallita! C'è una folla che urla: dove sono i nostri sol­di! C'è un sacco di polizia. Non c'è più denaro nella banca!

Rose                              - Sei un genio!

Lee                                - Pensa! avrei potuto perdere i miei dodici dolla­ri!... Ti rendi conto?

Rose                              - Fantastico. (Si toglie dal collo una collana di perle, e sta li seduta, fissandola).

Lee                                - Non ti piace Brooklyn, mamma? Perché non piantiamo un albero da frutta in cortile? Ti immagi­ni, uno esce e coglie, non so, una mela, o qualcosa. (Ora vede le perle. Commosso) Oh, mamma. Dav­vero?

Rose                              - Mi piange proprio il cuore a doverlo fare: era il regalo di nozze di papà...

 

Lee                                - Ma il lavoro di papà? Lui non potrebbe...

Rose                              - Ha investito tutto quello che aveva in Borsa, tesoro. Gli fruttava più li che nella sua fabbrica. E ora non c'è più niente. (Un ladro compare rapido, in­forca la bicicletta e se ne va). Ma tutto si aggiusterà. Sii prudente. Va'! Ti preparo un panino con la mar­mellata per quando torni. (Lee infila le perle nella ta­sca dei pantaloni avvicinandosi a dov'era la bicicletta; guarda in tutte le direzioni, si sente gelare le ossa. Lee corre su e giù e a destra e a sinistra, poi si ferma, senza fiato, con un'espressione d'orrore sul viso. Come se sentisse che qualcosa non va Rose lascia la sua poltro­na e va verso di lui) Dov'è la tua bicicletta? (Lui non riesce a parlare). Ti hanno rubato la bicicletta? (Lui è immobile). Che gli vada di traverso tutto quello che mangia la prossima volta! (Lo abbraccia) Oh, te­soro,, tesoro! che cosa orribile! (Lui singhiozza una volta, ma poi si trattiene. Lei lo tiene per le spalle, standogli di fronte, e cerca di sorridere). E adesso do­vrai andarci a piedi, al banco dei pegni, come tutti gli altri. (Lo fa ridere). Vieni, mangia il tuo panino con la marmellata.

Lee                                - No, voglio vedere se posso andarci di corsa, al­meno mi alleno per la gara d'atletica. A proposito, ho quasi deciso per l'università. Vado a Cornell, o a Brown.

Rose                              - (una vuota esclamazione di congratulazione) Ah!... però hai ancora un po' di mesi per decidere. (Si mette una mano sugli occhi, addolorata).

Robertson entra. Lee rimane con lo sguardo fisso davanti a sé.

 

Lee                                - Fu allora che mi resi conto, credo, che cos'era il sistema.

Robertson                     - In che senso, esattamente?

Lee                                - Tante cose che sembravano fisse, e come conge­late per sempre, si stavano sciogliendo, scivolando via. Un uomo solo cominciava a sembrare un'idea ridicola. (Canta un gallo. Lentamente emerge una fol­la di contadini che si fa sempre più fitta: vestono giac­che di lana scozzese, giubbotti da marinaio, maglioni, berretti a scacchi, copricapi di tela; si soffiano sulle mani, sbattono i tacchi degli stivali uno contro l'altro per riscaldarsi. Taylor è seduto per terra, da una parte). Quale immagine più conservatrice al mondo? Il contadino dello Iowa! Eppure eccoli li: rovesciano cisterne di latte, a migliaia di litri lungo le auto­strade.

Robertson                     - Questo era per creare scarsità e alzare i prezzi. Rientrava nei canoni più conservatori dell'e­conomia.

Lee                                - Mmm! Perché sembrò cosi rivoluzionario?

Robertson                     - Oh! Quello fu l'altro piccolo numero di spettacolo che cominciarono a fare. (Si scosta da un lato per osservare mentre Brewster si fa avanti).

Brewster                       - Tenete duro, ragazzi, fra pochi minuti si comincia.

I° contadino                  - Ragazzi, che carogna d'agosto è questo! Sembra che nevichi lassù.

II° contadino                - (ride) Nemmeno il tempo fun­ziona più.

Una risata sommessa nel gruppo.

Brewster                       - (dirigendosi verso Henry Taylor) Ti bec­cherai un raffreddore, seduto per terra cosi, Henry, non credi?

Taylor                            - Sono stanco morto. Non ho chiuso occhio tutta la notte. Non un momento.

La Signora Taylor appare incappottata e con un bricco di caffè. L'accompagna Harriet, sua figlia quindicenne: da ogni dito della sua mano pende una tazza da caffè.

Signora Taylor              - Dovrete arrangiarvi con le tazze, non ce n'è per tutti. Ma per lo meno è una cosa calda.

Brewster                       - Ah, che buon odore, lasci fare a me, Signora Taylor.

Lei passa il bricco del caffè a Brewster e va da Hen­ry, suo marito. Harriet distribuisce le tazze.

Signora Taylor              - (sottovoce, irritata: si vergogna per lui) Non stare seduto in terra cosi! alzati, su! Co­raggio! (Lo costringe a tirarsi in piedi. Lui si alza). È un'asta, chiunque ha diritto a venire a un'asta.

Henry                            - Ci saranno mille uomini lungo la strada... non m'avevano detto che ne portavano mille!

Signora Taylor              - Beh, si vede che è cosi che fanno.

Henry                            - Quei camion sono carichi di fucili!

Signora Taylor              - (spaventata anche lei) Beh, comun­que è troppo tardi per fermarli. Quindi tanto vale che ti muovi un po' e gli vai a parlare a questa gente che è venuta a darti una mano.

Charley                         - (si precipita dentro) Brewster! Dov'è Brew­ster!

Brewster si fa avanti dalla folla.

Brewster                       - Che succede, Charley?

Charley                         - (indica fuori) Il giudice Bradley! Sta scen­dendo dall'auto con il banditore.

Silenzio. Tutti guardano Brewster.

Brewster                       - Beh... Non vedo che cosa cambia questo. (Voltandosi verso gli altri) Faremo quello che siamo venuti a fare. Giusto?

La folla annuisce sommessamente - « Giusto » « Non mollare, Larry» «Siamo arrivati fin qui e facciamo dietro-front?» Entrano il giudice Bradley, sessant'anni, e Frank Howard, il banditore. A poco a poco si fa silenzio.

Giudice Bradley           - Buongiorno signori. (Si guarda in­tomo. Non c'è risposta). Voglio dirvi qualche parola prima che il signor Howard dichiari aperta l'asta. (Sale su un palco) Ho deciso di venire qui di perso­na, stamattina, per sottolineare la gravità della si­tuazione che si è creata in questo Stato. Siamo sul­l'orlo dell'anarchia nello Iowa, e questo non è bene per nessuno. Voi siete tutti proprietari di terre...

Brewster                       - Lo eravamo, giudice, una volta!

Giudice Bradley           - Brewster, non voglio sprecare pa­role; ci sono quaranta vice-sceriffi là fuori. (Leggera pausa). Tengo a precisare una cosa: io non ho emes­so sentenza di insufficienza su questa fattoria[5]. Il signor Taylor è debitore insolvente. Non ha pagato alla National Bank le rate scadute sul mutuo da lui contratto per l'acquisto di macchine agricole e be­stiame. I contratti sono sacri. La National Bank ha diritto di rientrare in possesso delle somme antici­pate. Quindi ora il signor Howard aprirà l'asta giu­diziaria. Ma ha il potere discrezionale di respingere qualsiasi offerta che egli riterrà irragionevole e co­me tale lesiva della dignità della legge. Ancora una volta vi chiedo di obbedire alla legge. Una volta che la legge e l'ordine affondano, non si salva nessuno, signor Howard!

Howard                         - (sale sul palco con una tavoletta porta-fogli) Oh, dunque, vediamo. Qui abbiamo un trattore e mietitrebbia John Deere, tre anni di vita, condizio­ni ottime... (Tre offerenti entrano insieme e la folla si volta a guardarli mentre i nuovi venuti si fermano). Chiedo offerte per il trattore e il mieti...

Brewster                       - Dieci cents!

Howard                         - Ho sentito dieci cents... ? (Fa passare il suo dito alzato da un uomo all'altro nella folla) Dieci cents... dieci cents... (Punta Udito verso gli offerenti ma questi si guardano intorno, verso la folla, impau­riti).

Giudice Bradley           - (chiama) Caldwell! Venga qua a proteggere questi uomini.

Caldwell, che porta una stella da vice-sceriffo, e al­tri quattro vice-sceriffi entrano e si fanno largo fra la folla disponendosi attorno ai tre offerenti. Le guardie hanno in mano i fucili.

Howard                         - Ho sentito cinquecento dollari? Ho sentito cinque...

Primo offerente             - Cinquecento dollari.

Disciplinati e rapidi, gli uomini di Charley scattano: i contadini afferrano le guardie e le disarmano; da un fucile parte un colpo che va a vuoto. Brewster piomba sul palco dove abbranca il giudice per le spalle mentre un altro uomo gli cala un cappio in­torno al collo.

Giudice Bradley           - Brewster... Gran Dio, che sta fa­cendo?

Brewster                       - (gridando verso gli altri vice-sceriffi fuori sce­na) Avvicinatevi d'un passo e l'impicchiamo! Tornatevene tutti indietro per quella strada, o al giudice gli tiriamo il collo! E adesso, a lei vorrei spiegare una cosa, giudice Bradley...

Henry                            - Lascialo andare, Brewster... non me ne im­porta più niente, che si portino via tutto...

Brewster                       - Tieni duro, Henry, nessuno ti porterà via niente. Abbiamo finito, signor giudice. Signor Ho­ward, tanto per risparmiar tempo, perché non accetta un'offerta su tutto in blocco? Me lo fa questo favore?

Howard                         - (si volta verso la folla, la sua voce trema) Io... accetto offerte su... tutto. Trattore e mietitrebbia, un paio di muli e carro coperto, ventisei vacche, ot­to giumente, attrezzi vari... e cosi via. Accetto of­ferte per...

Brewster                       - Un dollaro.

Howard                         - (rapidamente) Ho sentito un dollaro. Un dollaro, un dollaro?... (Si guarda intorno) Venduto per un dollaro.

Brewster                       - (gli porge un dollaro) Adesso mi firmi una ricevuta, per favore, e possiamo andare. (Howard scribacchia, gli porge una ricevuta. Brewster salta giù dal palco, va da Henry Taylor e gli porge la ricevuta) Henry? tu perché non te ne vai a mungere adesso? Andiamo, ragazzi. (Si leva, fa un gesto con la mano e la folla lo segue rapidamente fuori).

Bradley si sfila il cappio, scende dal palco e si avvi­cina a Henry Taylor, che sta guardando la ricevuta che ha in mano.

Giudice Bradley           - Henry Taylor? Lei non è altro che un ladro! (Taylor si fa piccolo sotto l'accusa. Il giudice indica la ricevuta) Quello è un crimine contro ogni legge divina e umana. E la cosa non finirà qui! (Si volta e si avvia fuori infuriato).

Harriet                           - Le dobbiamo mungere, papà?

Signora Taylor              - Certo che le mungiamo: sono no­stre. (Ma lei ha bisogno dell'assenso di Taylor\. Hen-ry?

Henry                            - (fissando la ricevuta) Questa fattoria mi sento come se l'avessi rubata. (Con le lacrime agli occhi, umiliato, Taylor          si avvia verso il buio con sua moglie. I contadini si disperdono).

Moe entra.

Moe                               - Dici che costa trecento dollari di tassa quell'u­niversità?... Lee !

Lee entra dal lato opposto della scena con cataloghi illustrativi di varie università.

Lee                                - ... quello è per la Columbia University. Ce ne sono di meno care.

Moe                               - Ma per i quattro anni.

Lee                                - Beh no, è per un anno solo.

Moe                               - Ah. (Si sprofonda su una poltrona, chiude gli oc­chi).

Lee                                - (sfoglia le pagine di un catalogo) L'università del Minnesota, qui, è centocinquanta, per esempio. E Ohio State è pivi o meno lo stesso. (Si volta verso Moe, aspetta una reazione) Papà? (Moe s'è addormen­tato. Lee chiude il catalogo e guarda davanti a sé) Gli veniva sempre sonno quando le notizie erano brut­te. (Si alza, scende verso la ribalta) E il mistero della casa contrassegnata cominciò. Vedevi il forestiero che scendeva giù per la strada - povero e stracciato - veniva avanti, passava una casa dopo l'altra, ma arrivato alla nostra strada privata svoltava decisa­mente e se n'andava dritto al nostro portico sul re­tro e chiedeva qualcosa da mangiare. Perché pro­prio noi? E tu cercavi se ci fosse un segnale segreto, sulla porta, sul muro, sul marciapiedi. Ma poi ti abi­tuavi a vederteli li seduti in cucina coi loro scarponi del Nebraska, quelle facce volpine e sbalordite delNorth Dakota... da tutte le parti venivano, come profughi... e il primo arrivò una domenica. (Taylor appare a un lato della scena. È in giacca di lana scoz­zese, scarponi, cappello a punta da cacciatore, un sac­chetto di carta sgualcito sotto il braccio. Visto di fron­te appare macilento, un pesce fuor d'acqua. Ora suona il campanello della porta. Non succede niente. Si fa coraggio, e suona di nuovo. Lee va alla porta) Si?

Taylor                            - (timidamente, è ancora un dilettante alle prime armi) Ah... mi spiace disturbare di domenica...

Rose entra, in vestaglia e grembiule, si sta asciugan­do le mani.

Rose                              - Tesoro, chi è? (Viene alla porta).

Lee                                - È mia madre.

Henry                            - Piacere, signora, mi chiamo Taylor, passavo di qua, e ho pensato che forse avete del lavoro per me...

Moe                               - (si sveglia di soprassalto) Ehi! Hanno suonato! (Vede il gruppo) Oh...

Rose                              - (ironicamente) Cerca lavoro!

Moe                               - (sospettoso) Un altro!

Henry                            - Potrei tinteggiare la casa, o riparare il tetto: so fare l'elettricista, l'idraulico, il muratore, il giar­diniere... Ho sempre avuto la mia fattoria e li face­vamo di tutto... Mi contento di poco...

Rose                              - Sa, non ci serve nessuno...

Moe                               - Ma da dove viene?

Henry                            - Dallo Stato dell'Iowa.

Lee                                - (per lui è la luna) DallTowa!

Henry                            - Mi basterebbe solo aver quel poco necessario per poter mangiare. Naturalmente dovreste provve­dere voi al materiale.

 

Moe                               - (comincia a localizzare Taylor nello spazio) Da che parte dell'Iowa?

Rose                                        - Il marito di mia sorella viene da Cleveland.

Moe                                         - Che c'entra Cleveland, Cleveland è nell'O­hio... (A Henry) In che paraggi?

Henry                            - Conosce Styles?

Moe                               - Conosco solo i grandi magazzini nelle città più importanti.

Henry                            - Però... non avrei mai pensato d'incontrare... (Ha un giramento di testa, si interrompe e cerca appog­gio. Lee gli regge il braccio e lui scende come un ascen­sore e resta seduto a terra).

Rose                              - Che succede?

Moe                               - Signore?

Lee                                - Vado a prendere un po' d'acqua! (Corre fuori).

Rose                              - Cos'è, il cuore?

Henry                            - Mi scusino... mi dispiace molto... (Si alza sul­le mani e sui piedi mentre Lee entra con un bicchiere d'acqua e glielo tende. Ne beve la metà, restituisce il bicchiere) Grazie, figliolo.

Rose                              - (cercando l'approvazione di Moe, indica l'inter­no) Farebbe meglio a sedersi dentro.

Moe                               - Vuol sedersi? (Henry lo guarda smarrito). Entri, si sieda.

Lee                                - e Moe lo aiutano ad andare verso una sedia. Si siede.

Rose                              - (si china per guardarlo meglio in faccia) Ha qual­che disturbo al cuore?

Taylor                            - (vergognandosi, ed ora un po' impaurito per sé) Potrebbe darmi qualcosa da mangiare?

I tre lo fissano, lui alza gli occhi a guardarli, stupiti e scandalizzati.

Rose                              - Lei ha fame?

Henry                            - Si, signora.

Lei guarda Moe: dobbiamo credergli o no?

Moe                               - (sollecitandola) E diamogli qualcosa.

Rose                              - (correndo fuori) O Dio del Cielo!

Moe                               - (con una punta dì sospetto, quasi in tono d'accu­sa) Ma che fa? Se ne va in giro, cosi...

Henry                            - Beh, no, veramente sono venuto qui dall'Est quando ho perduto la fattoria... dicevano che nel New Jersey assumevano gente: per raccogliere il se­dano. Ma ho avuto solo due giorni... sono stato al­l'Esercito della Salvezza quattro o cinque volte, ma m'hanno dato solo una ciambella e una tazza di caf­fè, ieri...

Lee                                - E da ieri non mangia?

Henry                            - ... beh, generalmente mi basta poco.

Rose                              - entra con un vassoio: una scodella di minestra e del pane.

Rose                              - La stavo facendo, non ci ho ancora messo le patate...

Henry                            - Cos'è? bietola?

Rose                              - E quello che si chiama bortsch.

Henry                            - (obbediente) Si signora. (Non perde tempo, in­goia a cucchiaiate. Tutti lo guardano, è il loro^primo «affamato»).

Moe                               - (scetticamente) Com'è successo che ha perso la fattoria?

Henry                            - Forse avrà letto delle rivolte contadine nel-l'Iowa un paio di mesi fa?

Lee                                - L'ho letto.

Moe                               - (a Lee ) Che rivolte?

Lee                                - Hanno quasi linciato un giudice perché vendeva all'asta le loro fattorie. (A Taylor, con rispetto e am­mirazione) C'era anche lei?

Henry                            - Beh, ormai tutto è finito, ma non credo che metteranno più all'asta fattorie, per un po'. È stato proprio terribile da quelle parti.

Rose                              - (scuotendo la testa) E io che credevo che fossero tutti repubblicani nelPlowa.

Henry                            - E infatti.

Lee                                - Vuol dire questo essere di sinistra?

Henry                            - Beh, sa come dicono: quelli dell'Iowa sono gente pratica. Sono disposti ad andare anche a sini­stra se gli sembra utile. Una volta che non serve più, addio sinistra[6].

Moe                               - Spero che l'avrete imparata la lezione, adesso, voialtri, eh!

Lee                                - Come? Gli stava portando via le loro case, quel giudice!

Moe                               - E tu vai in tribunale e lo linci?

Lee                                - Ma... ma, è tutta un'ingiustizia, papà!

Rose                              - Sccch! Non litigate...

Lee                                - (a Rose) Ma non la trovi un'ingiustizia tu, scusa: metti che vengano qua e ci buttino fuori dalla no­stra casa?

Rose                              - Non ci voglio neanche pensare. (A Taylor) E adesso dove dorme?

Moe                               - (rapido) Scusa. Non ci interessa dove lei dorme, signor... Come si chiama?

Henry                            - Taylor. Mi contento anche solo dei pasti, se potessi dormire nel sottoscala...

Moe                               - (a Taylor, ma rivolto per metà anche a Rosé) Non c'è proprio posto per un altro essere umano in que­sta casa, capito? neanche nel sottoscala. (Tira fuori due o tre banconote).

Henry                            - Io non chiedevo la carità.

Moe                               - Le presto un dollaro, e spero che possa rico­minciare una nuova vita daccapo. Tenga... (Porge a Taylor una banconota da un dollaro, scortandolo ver­so la porta) E si ricordi di restituirmelo, ma senza fretta. (Gli tende la mano) Piacere d'averla cono­sciuta, e buona fortuna.

Henry                            - Grazie per la minestra, signora...

Rose                              - Ha figli?

Henry                            - Uno di quindici anni e uno di nove. (Ripiega il dollaro soprappensiero).

Il Nonno entra mangiando una prugna.

Rose                              - Stia bene e scriva una lettera a sua moglie.

Henry                            - Si, lo farò. (Esce. A Moe) Arrivederla, si­gnor...

Moe                               - (con una smorfia che vuol essere un sorriso, ammo­nendolo col dito) Stia alla larga dalle corde e dai campi...

Henry                            - Per carità... (Esce).

Lee                                - (esce sulla scaletta del portico e gli grida dietro men­tre se ne va) Arrivederci, signor Taylor!

Henry                            - (si volta, fa un cenno con la mano) Ciao, fi­gliolo! (Se ne va. Lee lo guarda andar via, pensando a quel che ha visto).

Nonno                           - Chi era quello?

Moe                               - Un contadino dell'Iowa. Ha tentato di linciare un giudice, dopodiché

Rose                              - voleva farlo abitare in cantina.

Nonno                           - v E che ci fa un contadino a New York?

Rose                                        - E fallito, non gli è rimasto più niente.

Nonno                           - Dovrebbe chiedere un prestito.

Moe                               - (fa schioccare le dita. A Lee) Adesso gli corro dietro per dirglielo. M'ha fatto venire appetito. (A Rose) Scendo all'angolo a prendere un gelato al cioccolato, che ne dici, Lee?

Lee                                - Non ho voglia.

Moe                               - Non essere triste. La vita è dura, che vuoi far­ci? Certe volte lo è di più, a volte di meno: tutto li. Ma dura lo è sempre. Vieni a prendere un gelato.

Lee                                - Adesso no, papà, grazie. (Gli volta le spalle).

Moe                               - (si raddrizza, tacitamente respingendo ogni biasi­mo) Torno subito. (Traversa la scena con flemma, fischiando piano, senza tono. Esce).

Il Nonno, masticando, col nocciolo della prugna in mano, si guarda intorno in cerca di un posto dove buttarlo. Rose vede l'inevitabile e tende la mano...

Rose                              - (schifata) Oh, da' qua.

Il Nonno fa cadere il nocciolo nel palmo di lei, che esce con quello e la scodella della zuppa.

Lee                                - (sta ancora cercando di'accettare quello che ha vi­sto) Quell'uomo moriva di fame, nonno.

Nonno                           - Aveva fame ma non moriva.

Lee                                - Come? È quasi svenuto.

Nonno                           - No, quello non è morire di fame. In Europa muoiono di fame, non qui. Comunque, fra un paio di settimane il governo deciderà sul da farsi, e di questo non te ne ricorderai neanche più. Il Padre­terno fa una persona alla volta, figlio mio... tu pen­sa a te stesso.

Entra Robertson.

Robertson                     - Come hai reagito a quel consiglio?

Lee                                - Che cosa assurda! Come puoi pensare a te stesso quando c'era gente con la laurea a fare i raccattapal­le tutto il giorno.

Robertson                     - Beh, naturalmente i ricchi fanno più presto degli altri a ricorrere a risoluzioni estreme. C'erano troppe cose in gioco per loro, per restare semplicemente ad aspettare. Quindi l'associazione americana dei banchieri chiese immediatamente al­la nuova amministrazione di normalizzare le ban­che.

Lee                                - Cosa?

Robertson                     - Tutto sfuggiva al controllo. E lo sapeva­no. Tu lo sapevi?

Lee                                - Io sapevo solo che... (Raccoglie un catalogo, lo apre svogliatamente)... Fu un luglio molto strano. Avevo preso la maturità, ma in casa non se ne par­lava più dell'università. Era come doversi... inven­tare la vita... (Rose è entrata, si siede leggendo un li­bro. Lee indica nel catalogo) All'università di Cor­nell non si pagano tasse scolastiche se uno si iscrive al corso di batteriologia.

Rose                              - Niente, neanche un dollaro?

Lee                                - Cosi dice. Forse sono a corto di batteriologi.

Rose                              - Sarebbe magnifico! Ti piacerebbe?

Lee                                - (guarda nel vuoto, si vede batteriologo, sospira) Non lo so. Batteriologia?

Rose                              - (arriccia il naso) Dev'essere orribile. C'è nien-t'altro gratis?

Lee                                - E l'unico che ho visto... ragazzi, avrei dovuto studiare un po' di più a scuola. Chi sa che cosa ci so­no andato a fare.

Rose                              - Avevi preso una cotta per la tua mazza da ba­seball!

Lee                                - ... potevo avere una borsa di studio, qualcosa!

Rose                              - Io avevo una borsa di studio. Ma tuo Nonno non vedeva l'ora di darmi marito. (Scuote la testa) Due giorni prima della festa di fine anno, la ragazza che doveva recitare La ballata del vecchio marinaio si beccò un mal di gola, cosi ebbi quarantott'ore per imparare il Vecchio marinaio.

Lee                                - (scuote la testa) Accidenti!

Rose                              - E salii sul palco... senza neanche un errore. Ri­masero tutti a bocca aperta.

Lee                                - Beata te. Io non potrei mai imparare a memoria cosi.

Rose                              - Tu hai sempre la testa per aria. Ti sorprendi di tutto: ogni mattina il mondo per te nasce per la pri­ma volta.

Lee                                - (cupamente) Lo so. (Sfogliando un catalogo) A Syracuse c'è...

Rose                              - (accennando al libro) Devo finire questo prima di domani. Ho già quattordici cents di penalità per il ritardo. ,

Lee                                - Cos'è?

Rose                              - Coronet, di Manuel Komroff. È la storia di quella corona reale che viene rubata e perduta e ri­trovata e riperduta di nuovo per generazioni. Dico­no che è letteratura. Io non lo so, ma mi diverte. (Torna al suo libro).

Lee                                - (chiude tutti i cataloghi, la guarda) Mamma.

Rose                              - (sempre leggendo) Eh?

Lee                                - (rompendo gentilmente il ghiaccio) Credo che or­mai sia troppo tardi per la domanda d'iscrizione, quest'anno. Che ne dici?

Rose                              - (si volta verso di lui) Beh, per quest'anno, forse hai ragione, tesoro.

Lee                                - Va bene, mamma.

Rose                              - Mi fa cosi rabbia: in tutti questi anni abbiamo buttato via i soldi, e ora che ne hai bisogno...

Lee                                - (sollevato, ormai che sa) Non fa niente. Forse co­mincerò a cercarmi un posto. Ma non so sotto quale annuncio: se sotto «cercasi uomo» o «cercasi ra­gazzo».

Rose                              - Ragazzo. (I loro sguardi si incontrano. Lei vede la sua apprensione) Non aver paura tesoro... te la ca­verai benissimo. (Nasconde Usuo turbamento nel li­bro. Esce mentre cala la luce).

Lee                                - (piene al centro, rivolto al pubblico) Era come se tutti i venti avessero cessato di soffiare: tutto era immobile, il mondo sembrava morto, fulminato. (Luce su Sidney che prova un motivo al pianoforte). E se una cosa appena, appena si muoveva, sembrava rinascere la speranza. (Fanny, la madre di Sydney, entra, e si ferma a guardarlo colle mani sui fianchi). E niente si muoveva, come mia zia, Fanny Margolies, detta Due Fucili. (Esce).

Fanny                            - Sidney? (Sidney canta l'inizio della canzone: «Brother can you spare a dime»: «Say, don'tyou re-member that they calle me Al... ») Sidney? (Sidney canta il secondo verso della canzone, senza sentirla: «lt was Al ali the time, Say don't you remember, Vw yourpal...») Sidney? (Stavolta la sente ma continua a cantare: «Brother can you spare a dime?») Ti devo parlare, Sidney. (Lui suona in sordina, evasivamen­te). Piantala un momento!

Sidney                           - (smette di suonare) Mamma, senti... siamo so­lo in luglio. Se fossi alle medie sarei ancora in va­canza.

Fanny                            - E se io fossi la regina di Romania avrei la casa gratis. Sidney, ormai hai la licenza, e delle vacanze estive scordatene.

Sidney                           - Mamma, e che ci vado a fare alle agenzie di collocamento? C'è già tanta gente più grande di me, ingegneri, laureati, disposti ad accettare qualsiasi la­voro. Se riuscissi a scrivere una canzone di successo I come questa, una sola... saremmo a cavallo. Dammi tempo questo luglio, solo questo luglio; vediamo se ci riesco. Perché quel tizio diceva sul serio: è un buon amico del cameriere che lavora al ristorante dove mangia l'impresario di Bing Crosby. Bastereb­be che io scrivessi una canzone, lui gliela dà, Bing Crosby me la canta, una volta sola, e sono a posto.

Fanny                            - Io voglio parlarti di Doris.

Sidney                           - Doris chi?

Fanny                            - Doris! Doris del piano di sotto. Ho parlato con sua madre... le sei simpatico, Sidney!

Sidney                                     - A chi?

Fanny                            - A sua madre! Alla Gross. Ha un debole per

Sidney                           - (senza capire) Ah.

Fanny                            - Dice che Doris non fa altro che parlare di te.

Sidney                           - (preoccupato) E perché parla di me?

Fanny                            - Tutte cose carine. Le piaci.

Sidney                           - (divertito, ride incredulo) Doris? Ha tredici anni!

Fanny                            - Ne compie quattordici a dicembre. Adesso stammi a sentire.

Sidney                           - Cosa mamma?

Fanny                            - Dipende da te, Sidney. Sei tu che devi deci­dere. Papà non riuscirà ormai più a rimettersi in piedi, e una volta sposata Teresa, addio, non c'è più nemmeno il suo stipendio. La signora Gross dice... dato che è vedova, lo sai? e poi ha il gozzo, e questo e quell'altro, insomma...

Sidney                           - Che cosa?

Fanny                            - Se Doris ti piace - ma se ti piace veramente - e sei disposto a sposarla, quando avrà, che so, di­ciotto, o forse anche solo diciassett'anni... se t'im­pegni fin d'ora, potremmo avere quest'appartamen­to gratis. Cominciando dal prossimo mese.

Sidney                           - (colpito, anzi stupito) Per sempre?

Fanny                            - Certo. Tu saresti il marito, sarebbe casa tua. Te ne andresti ad abitare al piano di sotto, e avresti il tuo bel pianoforte a coda, e la doccia con tutte le piastrelle di ceramica... Io credo addirittura che se tu accettassi ci abbuonerebbero anche i tre mesi di affitto arretrato che le dobbiamo. E non mi stupi­rebbe ti desse anche la panetteria in gestione.

Sidney                           - La panetteria! Ma fammi il piacere, mamma, io sono un compositore!

Fanny                            - Adesso stammi a sentire...

Doris entra, si siede a distanza, e si mette a giocare con una cordicella a ripiglino.

Sidney                           - Mi metto a fare il panettiere adesso?

Fanny                            - Sidney, tesoro, ma l'hai almeno guardata una sola volta, quella ragazza?

Sidney                           - Che la guardo a fare?

Fanny                            - (lo prende per un braccio e lo costringe a guardare Doris) Perché è una bellezza. Altrimenti non te ne avrei parlato. Ma guardala. Guarda che nasino. E che mani. Le vedi quelle belle mani, piccole, bianche? Dove le trovi due manine cosi?

Sidney                           - Ma... senti, mamma, se tu mi lasci in pace solo questo mese di luglio, e mi lasci scrivere una canzone di successo... Sono certo che ci riesco, mamma!

Fanny                            - Va bene, Sidney, abbiamo centottanta dolla­ri di fitto arretrato. Il primo agosto ci ritroviamo sul lastrico. Scrivi il tuo successo tesoro... spero solo che fra quattro o cinque anni tu non incontri Doris Gross per caso e te ne innamori... quando saremo ormai tutti morti di freddo e di fame!

Sidney                           - Ma mamma, metti che accetto, e fra un anno o due conosco qualche altra ragazza che mi piace veramente?

Fanny                            - D'accordo, e metti che te la sposi, quella ra­gazza? e l'anno dopo ne conosci un'altra che ti piace di più, che fai? Ti sposi ogni anno?... Ma io volevo soltanto farti sapere come stanno le cose. Ti chiudo la porta, cosi te ne stai solo e tranquillo. Scrivi il tuo grande successo, Sidney. (Esce).

Rimasto solo, Sidney evita di guardare in direzione di Doris, è combattuto, va verso il pianoforte e toc­ca i tasti senza sedersi. Una pausa. Si volta verso Doris. Poi attraversa la scena e le si avvicina. Lei continua a giocare con la cordicella. Lentamente, Sidney si siede sui calcagni.

Sidney                           - Doris! Sei veramente brava!

Doris si solleva verso di lui; i due si guardano - per ragioni diverse - entrambi abbastanza disperatamente. Lui s'incammina, lei lo raggiunge; la mano di lui scivola attorno alla sua, mentre escono. Luci su Moe e Rose. Lei in vestaglia e pantofole. Lui in vestito da lavoro e col cappello; le sta dando un rapido bacio.

Rose                              - Ciao tesoro, oggi sarà una buona giornata... lo so, lo Sento.

Moe                               - (non molto convinto)^ Sarà. Ciao. (Cammina e poco alla volta si ferma. E molto incerto e teso mentre si volta a dare una rapida occhiata alla casa, poi abbas­sa gli occhi, pensando).

Lee entra e Rose gli dà un bacio di saluto. Lui porta un giaccone, e ha un libro sotto braccio.

Rose                              - (porgendogli il sacchetto della colazione) Non lo schiacciare, ci ho messo dentro dei biscotti... E sen­ti, questo non vuol dire che non potrai mai andare all'università.

Lee                                - Che m'importa? Poi a me piace stare in mezzo alle macchine. Meno male che ho trovato questo posto.

Rose                              - Per molti anni abbiamo avuto tanto e ora che hai bisogno...

Lee                                - (taglia corto) Ciao! (La lascia. Lei rientra. Lee cammina ed è sorpreso di vedere Moe piantato li) Cre­devo che te ne fossi già andato da tempo.

Moe                               - T'accompagno per un pezzo. (Non sta a dare spiegazioni; semplicemente cammina vicino a Lee, ma a un passo molto più lento di quello che aveva Lee pri­ma. Lee sente Vinsolita tensione del padre, ma può so­lo sbirciarlo con un senso crescente di apprensione e perplessità!) ... E buono il posto?

Lee                                - Discreto. Non me lo sarei mai aspettato che avrebbero scelto me.

Moe                               - (annuisce) Meno male. (Camminano di nuovo in silenzio facendo la spola da un punto all'altro della scena. La tensione cresce mentre Lee contìnua a sbir­ciare Moe che guarda continuamente a terra e avanti a sé mentre procedono. Ora finalmente Moe si ferma e sospira) Quanti soldi hai, Lee?

Lee                                - (colto di sorpresa) Quanti soldi ho?

Moe                               - (indica le tasche di Lee ) Adesso, in tasca.

Lee                                - Ma, avrò... (Tira fuori degli spiccioli) Trentacin­que cents, mi bastano.

Moe                               - Potrei avere un quarto di dollaro? Tanto per arrivare in città.

Lee                                - (un istante, sbalordito poi...) Oh, certo, papà!

Moe                               - La tua colazione tu ce l'hai, e cosi io più tardi mi prendo una salsiccia.

Lee                                - gli porge un quarto di dollaro.

Lee                                - Per me va bene. Nel mio cassetto ho un dollaro, vuoi che...? (Fa per tornare indietro).

Moe                               - No, non tornare. (Riprende a camminare) Non, mm... non andare a dirlo a...

Lee                                - Figurati!

Moe                               - (si è fermato) Se no si preoccupa.

Lee                                - Lo so. (Alpubblico mentre Moe esce) Prendem­mo la metropolitana insieme ed era difficile guar­darsi in viso. Perciò facemmo finta che niente fosse accaduto. Ma invece qualcosa era accaduto. Era co­me se avessi cominciato a mantenere mio padre! E non so perché, questo mi rendeva straordinaria­mente felice! E per tirarlo su cominciai a parlare, e prima che me n'accorgessi mi misi a inventare un  futuro meraviglioso! (Ride) Gli dissi che in non più di un anno, al massimo due, mi sarei iscritto all'uni­versità, che avrei messo la testa a partito e sarei di­ventato il primo della classe, e poi che non solo avrei avuto un posto in un giornale, ma che sarei di­ventato editorialista, vice-direttore, chi sa che!... Quando arrivammo alla Quarantaduesima Strada la Grande Crisi era praticamente finita. (Ride, musi­ca). E in uno strano modo lo era veramente... (Si tocca il petto) ... qua dentro, anche se sapevo che avevamo ancora molti tempi difficili davanti a noi. E cosi, come tanti altri, aspettai, con quel modo fol­le di aspettare che ti prende quando non c'è speran­za, aspettai che tornasse il sogno americano dalle lontane lande in cui s'era andato a nascondere. (Si volta e cammina, mettendosi il berretto, quando Robertson esce dal suo cerchio di luce: di nuovo un vec­chio dai capelli grigi e dal sorriso serio).

Robertson                     - Compivo ventiquattro anni e avevo un reddito annuo con sette cifre: feci il calcolo che a ventotto potevo ritirarmi dagli affari. Ho fatto un po' di tutto: il corrispondente di guerra, il pubblici­tario, l'ingegnere. Una grossa fetta della metropoli­tana della Sesta Avenue l'abbiamo costruita noi, tanto per dire. Ho lavorato in molti paesi, ma lo spettacolo più allucinante della mia vita l'ho visto, credo, dalle finestre del mio appartamento al River-side Drive a New York. Sembrava Calcutta: mi­gliaia di persone che vivevano in baracche di carto­ne, catapecchie di latta sulle rive dell'Hudson, pro-. prio sotto la strada.. di notte i fuochi dei loro bivac­chi tremolavano giù giù per tutta l'isola di Manhat­tan come fosse un accampamento militare. Certe notti scendevo e camminavo in mezzo a loro; era incredibile lo spirito che conservavano ancora, e nem­meno a farlo apposta la gente, più che al governo, dava la colpa a se stessa. Ma non è mai esistita una società che non abbia avuto un orologio per segnare il tempo, e uno non poteva fare a meno di chiedersi: fino a quando sopporteranno tutto questo? C'erano notti in cui ti sembrava quasi sentirlo nell'aria... (Schiocca la lingua come un orologio, fissando fuori e continua finché... )

 

ATTO SECONDO

Scopriamo Rose che cammina su e giù tutta agitata vicino al pianoforte. Si ferma, guarda nel vuoto, parla.

Rose                              - Ma questo piano non esce da questa casa. I gioielli, si, ma questo caro tesoro di piano nessuno me lo porta via per impegnarlo. (Suona cantando il primo verso di «I can 't give you anything but love, ba­by»). Ma dimmi tu se la gente è matta. Il signor Warsaw nel nostro isolato, per fare quattrini ha im­piantato in cucina una pista per le corse: le fa con gli scarafaggi. Li tiene in scatole di fiammiferi con su il nome «Alvin», «Murray», «Irving»... (Prende un foglio di musica) Che bello spettacolo, era, quel Funny Facel (Canta) «He loves and she loves and they love... » Gli anni passano e non si riesce più a vedere uno spettacolo. Chi ci va più a Broadway? Brooklyn va sempre più alla deriva nell'Atlantico. Manhattan sembra un paese straniero, e può passa­re un anno senza che uno ci metta piede. (Canta) «So why can't you love and I love too. Birds love and bees... » Dovunque guardi non vedi che concor­si a premio: Kellogg, Post Toasties, gente che vince cinquemila, diecimila dollari. Forse dovrei provare anch'io, ma chi sa perché vince sempre qualcuno del Missouri o dell'Alabama... Io prego solo Dio che ci mantenga la salute, perché basta che tu abbia bisogno del dentista una volta sola e addio le nuove guarnizioni del frigorifero. Meglio cantare. (Canta) «Oh, do-do-do what you done-done-done before baby». Bisogna che vada in biblioteca e ricominci a prendere qualche buon libro in prestito; devo smet­tere di rincretinirmi cosi. Non vedo mai niente, sento solo parlare di soldi, soldi, soldi!... (Suona Schumann. Voi smette, presa dalla frustrazione e dallo sconforto, e si avvia verso il buio).

Lee emerge illuminato da un riflettore con tre com­pagni d'università che portano il tocco e la toga dei laureandi. Lee indossa un maglione. Insieme forma­no un quartetto che canta Down by the old Mill Stream. Lee si fa avanti mentre gli altri mugolano il controcanto.

Lee                                - L'unico posto dove ti salvavi era la scuola. Due paia di calze, una camiciaccia, una camicia buona, un giaccone a quadri, un lavoro di mezza giornata retribuito, in biblioteca magari... e potevi vivere co­me un re anche senza un soldo in tasca. (Si unisce al quartetto perfinire il canto).

Robertson                     - Non sarà per questa ragione che la socie­tà è riuscita a restare in piedi. La gente vide che po­teva campare con poco, e forse questo diede loro una felicità nuova.

Lee                                - Le lamette del rasoio, per esempio. Potevi farti la barba con la stessa lametta per sei mesi affilando­la sull'orlo di un bicchiere. Finivi col farci amicizia, con quella lametta.

Robertson                     - E naturalmente a quel tempo si presen­tavano occasioni per affari favolosi. Le banche precludevano ipoteche su proprietà di prim' ordine che potevi avere per quattro soldi.

Lee                                - si riunisce al quartetto per finire la canzone.

Quartetto                      - «... the old mill streammmm».

Lee                                - Speriamo che le matricole dell'anno prossimo sappiano cantare! (Abbraccia il suo vecchio amico Joey) E possibile Joe?

Joe                                 - Cosa?

Lee                                - Tu, dentista!

Ralph                            - ( tendendo la mano) M'ha fatto piacere cono­scerti,

Lee                                - .

Robertson                     - esce, sorridendo.

Lee                                - (stringendogli la mano) Hai deciso che fare?

Ralph                            - Pare che sia rimasta una piccola fabbrica di aeroplani a Louisville che ancora lavora...

Lee                                - E tu, però, proprio in eliche dovevi andare a specializzarti!

Ralph                            - Oh, gli aeroplani riprenderanno a fabbricarli, non ti preoccupare, se scoppia una guerra, vedrai.

Lee                                - E come può esserci un'altra guerra?

Joe                                 - Finché dura il capitalismo, caro mio.

Ralph                            - Ci saranno sempre guerre, lo sai, è scritto nel­la Bibbia. Se no, mi farò prete.

Lee                                - Non sapevo che avevi la vocazione.

Ralph                            - Si, un po', a modo mio. Hai un buono stipen­dio, hai la casa e l'indennità vestiario.

Joe                                 - (si fa avanti, mano tesa) Non dimenticare di leg­gerti Marx, Lee! E se mai capiti da queste parti col mal di denti passa da me e te lo cavo gratis. Atten­to, sai, voglio leggere la tua firma sui giornali.

Lee                                - Un posto in un giornale? Non ci spero proprio più, ormai stanno chiudendo tutti. Mandami il tuo biglietto da visita se metti su lo studio.

Joe                                 - Lo metterò giù, nel sottoscala del padre della mia ragazza, probabilmente. Ha promesso di far scavare il pavimento un metro più sotto di modo che si riesca a stare in piedi.

Lee                                - E l'attrezzatura?

Joe                                 - Se tutto va bene, ancora due, tre anni e potrò aprire, appena ho i soldi per dare la prima rata per un trapano usato. Fatti vedere, cosi ti rimetto quei denti che la squadra dell'Ohio ti ha fatto saltare di bocca.

Lee                                - Certo che mi vedi, prima o poi! Addio, Rudy!

Rudy                             - Oh, può darsi che mi avrai fra i piedi per altri sei mesi.

Lee                                - Continuerai a vivere al campus?

Rudy                             - Forse, per il bene dei miei canali dentari. C'è un gruppo di fisici che ha occupato una di quelle ca­se abbandonate della Lawrence Avenue - è un po' buia con tutte quelle finestre sbarrate con assi, ma è gratis, e basta che io mi iscriva a un solo corso al­l'università per avere diritto all'assistenza medica - cosi potrei avere i miei canali sistemati.

Lee                                - Vuoi dire che esiste un corso a Lettere che non hai ancora fatto?

Rudy                             - Si, l'ho scoperto adesso. «Strumenti d'orche­stra dell'antica Roma».

Joe                                 - (ride) Stai scherzando!

Rudy                             - No, a Lettere classiche. « Strumenti d'orche­stra dell'antica Roma». (Si tira indietro la ganascia col dito per farsi vedere in bocca). Ho ancora questi tre molari da fare da questo lato. (Ride) E poi guar­diamoci in faccia: dove vado? Chicago è piena d'antropologi. Qui l'università è come una madre per me: ho la casa gratis, lavo i piatti in cambio dei pa­sti, mi curano i denti, e chi sa che una mattina capi­ta che apro il giornale e ci trovo un'inserzione «Cercasi laureato, bella presenza, dentatura sana esperto in strumenti d'orchestra dell'antica Roma».

Risata.

Ralph                            - Su, andiamo, si fa tardi! Speriamo che le cose vadano meglio quando ti laurei tu, Lee. Guarda che la tua firma sui giornali la voglio vedere.

Lee                                - Ne dubito; credo che cercherò d'imbarcarmi su un battello a ruota del Mississippi.

Rudy                             - Esistono ancora?

Lee                                - Qualcuno è rimasto. Mi piacerebbe ripercorrere i viaggi che fece Mark Twain.

Rudy                             - Se ti capita d'incontrare Huckleberry Finn...

Lee                                - Te lo saluto da parte tua.

Ridendo, Ralph e Rudy escono.

Ralph                            - E riempili di botte, ragazzo, quelli dell'Ohio State!

Joe                                 - (rimasto solo con Lee lo saluta col pugno chiuso) In gamba, Lee .

Lee                                - (gli restituisce il saluto) In gamba, Joe. (Se ne sono andati. Rimasto solo, Lee mima il gesto di tirare la maniglia della sirena di un vapore. E piano, a se stes­so... Tuuu, tuuu... Buio, musica. Le luci esaltano la carta geografica sul fondo mettendo in evidenza tutta VAmerica nella sua ampiezza. Luci puntate su Lee . E sporco di grasso, a torso nudo, si asciuga il sudore dal viso) Cara mamma, caro papà. Non è un vero e proprio impiego perché non mi pagano, ma mi lasciano mangiare in cambusa e dormire sul ponte. Il Missis­sippi è cosi bello, ma a volte fa paura. Ieri ci siamo fermati in un villaggio dove distribuivano fagioli e carne agli affamati. La carne era piena di vermi. Quando il macellaio affondava il coltello dentro ve­devi tutto un formicolio. Improvvisamente un uo­mo ha tirato fuori un fucile e l'ha puntato contro il macellaio obbligandolo a distribuire la carne buona per la quale era stato pagato dal governo e che lui s'era tenuta per rivenderla ai clienti paganti. Cerco, senza riuscirci, d'immaginare come Mark Twain l'avrebbe descritta una scena del genere. Non capi­sco come la gente riesca a campare: moltissime ban­che hanno le porte sbarrate con travi. E non piove da mesi: anche il cielo s'è asciugato. Ogni città è piena di uomini seduti sui marciapiedi con la schie­na appoggiata alle vetrine vuote. Ti guardano o dor­mono. Sembra un sortilegio. Cerco di trovare le fal­le del marxismo ma non ci riesco. Ho appena letto in un articolo che dodici dirigenti nell'industria del tabacco guadagnavano più di trentamila coltivatori di tabacco messi insieme. Ecco perché è successo tutto questo: i lavoratori non hanno mai guadagna­to abbastanza da potersi ricomprare quello che pro­ducevano. Il boom degli anni '20 è stato una truffa colossale. I ricchi non hanno fatto altro che rapina­re la gente. E il presidente Hoover sa solo dire: ab­biate fiducia! Sono passato lungo campi di grantur­co lasciato li a marcire sui gambi senza essere ven­duto, con gli sceriffi a fare la guardia mentre la gen­te casca per la fame. Ci sarà una rivoluzione, mam­ma... (Esce).

Luce su Rose che entra; sta leggendo da una lettera.

Rose                              - «... lo fiuti nell'aria. E io darò certo una ma­no». Ma come farà mai a diventare un giornalista sportivo se è comunista?

Tre uomini entrano, abbassano la parte superiore del pianoforte. Rose esita, poi raccoglie la sua mu­sica e chiude lentamente il coperchio della tastiera. Gli uomini portano fuori il pianoforte e lo sgabello. Lei resta immobile, il viso stanco. Si avvia verso l'o­scurità. Luce su Joe. Porta un grande cesto di fiori.

Joe                                 - (rivolto al pubblico) Caro Lee: formidabile il Mississippi, da quanto mi racconti! Quasi come qui. Ti sto scrivendo da un bordello. Vengo qui per ritrovare il mio equilibrio mentale. Per quello che è. Ho deciso di darmi ancora un anno. Dopo di che sarò troppo nervoso per poter prendere in mano il trapano. Ho paura d'esserlo troppo già ora. Spero di sbagliarmi, ma vedo che più la gente sta nei guai meno contesta il sistema. Sui marciapiedi della me­tropolitana la gente parla continuamente da sola: sono talmente scombussolati che perdono anche i treni. E la follia. E incredibile quanti americani mi vengono dietro per cercare di tastarmi il sedere. Ie­ri, per un nonnulla, un gobbetto si mette a gridarmi in faccia « Tu non troverai una sola parola sulla de­mocrazia nella costituzione! Questa è una repubbli­ca cristiana! » Il bello è che nessuno ha riso. La sva­stica nazista imperversa su tutti i manifesti del den­tifricio. Io tengo il naso dentro il mio cesto di fiori ma la metropolitana puzza di fascismo. All'angolo della Quarantanovesima Avenue con l'Ottava puoi comprare due buone salsicce per sette cents. Che vuoi che ci tiri fuori quello, a due salsicce per sette cents? Qui qualche bella mattina mi aspetto di ve­dere improvvisamente milioni di persone riversarsi per strada uscendo dai palazzi e... non so come an­drà a finire, si ammazzeranno fra loro? O ammazze­ranno soltanto gli ebrei? O si siederanno tutti in mezzo alla strada a piangere? (Viene spinto avanti un letto ed entra Isabel. Joe si sta infilando un secondo paio di pantaloni sul primo).

Isabel                            - Ma non ti senti un po' scomodo? Due paia di pantaloni uno sull'altro?

Joe                                 - Fa un freddo boia sui marciapiedi della metro­politana, a star li tutto il giorno. C'è un vento che sembra il deserto di Gobi, L'unico problema è quando devi andare a fare pipi: ci impieghi il dop­pio del tempo.

Isabel                            - Vendi anche libri?

Joe                                 - Questo lo leggo io. La sera tornando a casa dopo il lavoro cerco di non dimenticare la lingua inglese. Tutto il giorno non sento altro che merda, fottere, e pisciare.

Isabel                            - (sfogliando il libro) Che, parla di famiglie?

Joe                                 - Non esattamente. È di Engels: L'origine della fa­miglia, della proprietà privata e dello Stato.

Isabel                            - (molto impressionata volta una pagina) Mmm!

Joe                                 - (pensiero improvviso) Eh, perché non provi a leg­gerlo anche tu? Mi piacerebbe davvero la tua opi­nione. Capisci? È marxismo: dice che tutti i nostri rapporti sono fondamentalmente regolati dal de­naro.

Isabel                            - (annuisce, per lei è ovvio) Ah, beh, certo.

Joe                                 - ... no, non alludevo esattamente a quello. (Si cor­regge) Per quanto, però...

Isabel                            - Tutto il libro parla solo di questo?

Joe                                 - Beh, lui cerca di cambiare questa situazione. Ca­pisci? Col socialismo le ragazze avrebbero tutte un lavoro e non sarebbero costrette a fare questo.

Isabel                            - Ma i maschi come farebbero?

Joe                                 - (un po' sconcertato) Beh... non avrebbero che da... per esempio, se avessi i soldi per poter aprire uno studio, probabilmente mi sposerei molto pre­sto.

Isabel                            - Ma da me vengono anche uomini sposati. (Con brio) E ho due dentisti che mi hai portato tu... Bernie e Allan?... e loro ce l'hanno lo studio.

Joe                                 - (turbato) Non capisci. Lui mostra che sotto i no­stri ideali, eccetera, fra la gente c'è solo un rapporto economico. E non dovrebbe essere cosi.

Isabel                            - E che dovrebbe essere, come... l'amore?

Joe                                 - Ah... beh, si, in un certo senso...

Isabel                            - Ah! Carina, come idea, eh? (Apre di nuovo il libro) Mi piacerebbe leggerlo, questo!

Joe                                 - Ma non t'aspettare una storia d'amore: sostan­zialmente si tratta di antropologia teorica.

Isabel                            - (allarmata) Ah. Tanto non avrei nemmeno il tempo. (Imbarazzata gli porge il libro) Senti, vo­levo dirti... conosco un usuraio che è una brava persona, forse potrebbe farti un prestito lui per il trapano.

Joe                                 - Ho già troppi debiti. To', prendi un garofano.

Isabel                            - Oh... grazie, che gentile... ma forse è meglio che tu lo tenga per venderlo.

Joe                                 - Andiamo, su, tienilo. Ci vuole un po' d'illusione nella vita. Eccoti il tuo dollaro. (Le dà un dollaro, s'infila il cappuccio di lana) Alla prossima settimana, eh?

Isabel                            - Cerca di venire un po' più tardi. La mattina presto sono ancora stanca.

Joe                                 - Devo acchiappare al volo le segretarie che vanno in ufficio. A loro piace avere un fiore sulla scrivania e tu mi piaci di mattina presto: hai l'aria fresca. Mi illudo. T'ha terminato l'otturazione Bernie?

Isabel                            - (aprendo la bocca) Si, l'ha rifinita ieri.

Joe                                 - (guardando dentro la bocca) E bravo Bernie. Te l'ho detto, eravamo in classe insieme. Portagli i miei saluti se lo rivedi.

Isabel                            - Ha detto che forse verrà oggi dopo le cinque. Ti manda tanti saluti.

Joe                                 - Tanti saluti anche da parte mia.

Isabel                            - Non avevo avuto mai tanti dentisti prima di te.

Robertson                     - Mi sorprendo a sentirmi compiaciuto dell'incredibile numero di campagne politiche che imperversarono in quegli anni con gran fracasso e che finirono tutte in una bolla di sapone. Esaltati che volevano mettere a morte ora i sindacati, ora gli ebrei, ora i negri, ora gli stranieri, con discorsi fero­ci e violenti. A volte l'atmosfera politica puzzava d'odio. E, peggio di tutto, dopo un paio d'anni o giù di li, ti accorgevi che non c'era assolutamente nessuno che sapesse risolvere questa Crisi. Che mordeva sempre più vicino all'osso.

La luce si alza su Lee. In calzoni di tela grezza, se­duto a un bancone, sta mangiando una fetta di co­comero. Isaac, il proprietario negro, sta passando lo straccio sul bancone che ha appena spinto dentro.

Isaac                              - È molto che lavorate giù al fiume? Non mi sembra d'avervi mai visto.

Lee                                - No, è la prima volta che vengo sul Mississippi. Sono di New York City. Sono qui per dare un'oc­chiata in giro, e parlare con la gente.

Isaac                              - A che vi serve dare un'occhiata in giro?

Lee                                - A niente, cerco solo di capire che sta succeden­do. Conoscete Mark Twain?

Isaac                              - Abita qui?

Lee                                - Una volta si. Scriveva racconti.

Isaac                              - Mmm. Non l'ho mai visto da queste parti. Avete provato a chiedere alla posta?

Lee                                - Sentite, è cosi alto il prezzo di una fetta di coco­mero da queste parti? quindici cents?

Isaac                              - Ohh... i bianchi vanno matti per il cocomero. Lassù, al Nord, come vanno le cose? male come qua?

Lee                                - Forse non cosi tanto. Io non vorrei trovarmi al vostro posto qua... specie con questa Crisi.

Isaac                              - Caro signore, a dirvi la sacrosanta verità, era ora che la conoscessero anche i bianchi questa Crisi. Noi negri non abbiamo avuto mai nient'altro. (Guarda fuori scena) Ahi... sta arrivando il pezzo grosso.

Lee                                - Porta rogne?

Isaac                              - Secondo come gli gira, signore... È lo sceriffo.

Entra lo sceriffo. Fondina e pistola, stivaloni, di­stintivo, cappello a larghe falde, e con un involto sotto il braccio. Fissa in silenzio Lee.

Lee                                - (nervoso, quasi scusandosi) Io sto giù alla nave. (Indica fuori).

Sceriffo                         - Non mi disturbare, ragazzo. Mettiti pure comodo. (Si siede al bancone, mette giù il pacco e si volta con aria seria a Isaac. Lee si fa più piccolo per non farsi notare e osserva in silenzio). Isaac?

Isaac                              - Signorsì?

Sceriffo                         - (dopo un momento) ... siediti!

Isaac                              - Signorsì. (Si siede su un altro sgabello: è molto curioso di sapere la ragione della visita dello Sceriffo ma non è spaventato. Dal momento che è lo Sceriffo che sembra avere difficoltà ad avviare la conversazio­ne...) Sembra abbia voglia di piovere.

Sceriffo                         - (preoccupato) Mmmm... Difficile saperlo.

Isaac                              - Eh, già... come tutte le cose qui in Louisia­na... In che posso servirla, sceriffo?

Sceriffo                         - Hai letto i giornali oggi?

Isaac                              - Non saprei leggere il mio nome nemmeno se un aeroplano me lo scrivesse in cielo. Sceriffo, or­mai dovreste saperlo.

Sceriffo                         - Hai presente il mio secondo cugino, Allan? Il senatore dello Stato?

Isaac                              - (affermativamente, nasalmente) Mmmm-mmm!

Sceriffo                         - II governatore lo ha appena nominato assi­stente capo della polizia della Louisiana.

Isaac                              - Ah-ah?

Sceriffo                         - Deve venire a cena da me venerdì. Con la moglie e due figlie. Vorrei cercare di parlare ad Al­lan per vedere se può farmi avere un posto nella po­lizia dello Stato. Perché la polizia viene ancora pa­gata, capisci.

Isaac                              - Ah-ah. Certo che sarebbe un bel colpo, no?

Sceriffo                         - Isaac, dovresti cucinarmi un po' di quel pollo fritto davvero eccezionale per le sei di vener­dì. D'accordo? Va bene? Passerò io a prenderlo.

Isaac                              - (senza compromettersi) Mmmm-mmm.

 

Sceriffo                         - Sarebbe per... fammi un po' vedere. (Con­ta sulle dita) ... otto persone. Viene anche mio fra­tello con la moglie, perché ho intenzione di fargli fare una bella mangiata, ad Allan, cosi poi quello si sbottona per bene.

Isaac                              - Mmm-mmm.

Sceriffo                         - (una pausa d'imbarazzo) Quanto mi viene a costare per otto persone, Isaac?

Isaac                              - (immediatamente) Dieci dollari.

Sceriffo                         - Dieci.

Isaac                              - (con un po' di commiserazione) Proprio cosi, sceriffo.

Sceriffo                         - (breve pausa. Comincia a disfare l'involto da cui esce una radio) Qui ho qualcosa che vorrei far­ti vedere, Isaac. La mia radio, vedi?

Isaac                              - Mmmm. (Accarezza la radio con la mano) Fun­ziona?

Sceriffo                         - Certo, e come funziona! L'ho pagata ven­tinove e novantacinque due anni fa.

Isaac                              - (guarda dietro la radio) L'attacco?

Sceriffo                         - Attaccala pure. Te lo sei dipinto proprio bene questo localino, proprio come un vero risto­rante. Dovresti ringraziare Dio, Isaac.

Isaac                              - (tira fuori la spina e la inserisce nella presa di cor­rente) Dio e il pollo fritto.

Sceriffo                         - Sai che il governo federale non paga nessu­no da tre mesi ormai.

Isaac                              - Si, lo so. Dove s'accende?

Sceriffo                         - Basta girare la manopola. Ecco fatto. (L'accende) La polizia dello Stato la pagano ancora invece, capito? E penso che se riesco a convincere Allan a farmi assumere...

Musica alla radio, molto fioca.

Isaac                              - Non si sente quasi niente.

Sceriffo                         - (irritato) Diavolo, Isaac, se non tiri fuori l'antenna! (Srotolando il filo da dietro la radio) Tu mi dai otto porzioni di pollo fritto e io ti lascio questa in garanzia, d'accordo? Adesso senti se non funzio­na. (Fa un passo indietro tenendo teso il filo dell'an­tenna e improvvisamente si sente forte la voce di Roos­evelt. Lo Sceriffo non si muove tenendo il filo solleva­to. Lee è tutto preso).

Roosevelt                      - Nuvole di sospetto, maree di malvolere e d'intolleranza si addensano oscure in molti luoghi. In questa nostra America noi godiamo, certo, di una pienezza di vita...

Sceriffo                         - E grassi, i polli, mi raccomando: non mi ri­filare vecchi gallinacci rachitici.

Isaac                              - (a Lee) Chi sta parlando?

Roosevelt                      - ... maggiore di quella di molte nazioni. Ma il correre febbrile della civiltà moderna ha fatto sorgere per noi nuove difficoltà...

Sceriffo                         - Parla come uno del Nord.

Isaac                              - Shhh! (A Lee) Ehi, quello è Roosevelt, no?

Lee                                - Si.

Isaac                              - Certo... È il Presidente.

Sceriffo                         - Allora? Affare fatto?

Isaac ha la testa inchiodata alla radio, rapito. Lee si avvicina, si china per ascoltare meglio.

Roosevelt                      - ... nuovi problemi che devono essere ri­solti se vogliamo conservare agli Stati Uniti la liber­ta politica e economica che Washington e Jefferson sognarono e per la quale si sono battuti. Noi vogliamo che il governo sia non solo un congegno meccani­co, ma intendiamo anche dargli un vibrante caratte­re personale che ne faccia l'incarnazione della carità umana. Saremmo davvero poveri se il nostro Paese non potesse permettersi di fugare da ogni recesso della vita americana l'oscuro terrore dei disoccupati di sentirsi non necessari nel mondo. Non possiamo permetterci il lusso di lasciare che si ammassi un si­mile deficit nei libri dell'umana solidarietà...

Mentre anche lo Sceriffo è tutto preso dal discorso, il volume della radio lentamente si affievolisce. La luce comincia a calare mentre Isaac ascolta con loSceriffo che tiene ancora il filo dell'antenna. Duran­te l'azione descritta, Lee si è allontanato da Isaac e dallo sceriffo, mentre si fa avanti una folla di disoc­cupati. Si fermano uno alla volta davanti a un im­piegato dell'ufficio assistenza che assegna a ciascu­no uno scontrino numerato, e poi escono. Lee si guarda ansiosamente intorno in un vasto spazio vuoto. Ora appare Moe e lo raggiunge. E profonda­mente ansioso.

Lee                                - Oh, papà. Sono contento che tu sia potuto venir qua.

Moe                               - Aspetta un minuto solo,

Lee                                - , prima che entria­mo là dentro...

Lee                                - Senti, papà, se non vuoi, se ti senti a disagio...

Moe                               - Sei proprio sicuro che sai quello che stai per fa­re?... Perché era scritto chiaro sul giornale che chiunque abbia voglia di lavorare può rivolgersi di­rettamente alla Wpa[7] e li gli trovano un posto.

 

Lee                                - Prima era cosi. Adesso è cambiato. Ora puoi avere un posto alla Wpa solo se sei nelle liste del­l'assistenza pubblica.

Moe                               - Questo non lo capisco...

Lee                                - Beh, ci sono sedici milioni di disoccupati. Non hanno posti di lavoro per tutti.

Moe                               - E allora Roosevelt   che diavolo andava di­cendo?

Lee                                - Forse pensava che le cose sarebbero migliorate, ma siccome non sono migliorate, ora devi avere la tessera di povertà per avere diritto agli aiuti della Wpa.

Moe                               - (indicando la gente in coda) Dunque questa non è la Wpa?

Lee                                - Te l'ho detto, papà, è l'ufficio assistenza pub­blica.

Moe                               - Vorrai dire ufficio risorse.

Un vecchio negro pressoché in stracci passa e va nella zona buia. Moe lo segue con gli occhi.

Lee                                - Papà, vedo che la cosa ti riesce molto difficile...

Moe                               - Senti, insomma, se si deve fare si fa. Ritornia­moci sopra ancora una volta. Io che cosa devo dire?

Lee                                - Tu dici che non mi vuoi in casa tua... che non andiamo d'accordo.

Moe                               - Per quale ragione non potresti vivere in casa mia?

Lee                                - Se vivo in casa tua non ho bisogno di assistenza. Questa è la regola.

Moe                               - Bene. Cosi io non posso sopportare di vederti.

Lee                                - Esatto.

Moe                               - E allora tu te ne sei andato con un amico in una camera ammobiliata.

Lee                                - Giusto.

Moe                               - ... e pensi che la berranno?

Lee                                - Perché no? Ci ho portato anche dei miei vestiti.

Moe                               - Tutta questa manfrina per ventidue dollari alla settimana?

Lee                                - (andando in collera) Che altro vuoi che faccia? Perfino giornalisti affermati sono senza lavoro, ca­pisci, se riesco a entrare nel Progetto scrittori della Wpa, almeno mi faccio un po' d'esperienza in atte­sa che venga fuori un posto. Te l'ho spiegato una decina di volte, papà, non mi sembra poi cosi com­plicato.

Moe                               - (insoddisfatto) Sto cercando solo di entrare in quest'ordine d'idee. Su, andiamo! (Si abbracciano. Poi) Ma dobbiamo stare attenti a non far vedere che siamo in buoni rapporti.

Lee                                - (ride) Hai capito l'antifona.

Moe                               - Io non ti posso soffrire e tu non sopporti d'a­vermi fra i piedi.

Lee                                - Proprio cosi. (Ride).

Moe                               - (al cielo, con finta indignazione) C'è poco da ri­dere!

La folla dei disoccupati entra mentre una fila di lampadine fioche, da ripostiglio, cala sulla scena, e una tavola e una sedia vengono portate al centro. Ryan, l'assistente sociale, entra con le cartelle dei vari casi. La gente sta intorno come in un improvvi­sato ufficio assistenza. Neri e bianchi, vecchi e gio­vani. Moe si guarda intorno.

 

Robertson                     - Facevo chilometri a piedi in quei giorni. I contrasti erano allucinanti. Lungo la riva ovest di Manhattan si potevano vedere attraccati otto o die­ci fra i più grandi transatlantici del mondo. Mi ri­cordo la S. S. Manhattan, il Berengaria, la United Sta­tes... molti poi non avrebbero mai più navigato. Ma al tempo stesso stavano costruendo l'Empire State Building, il più alto grattacielo del mondo. Ma chi avrebbe mai preso in affitto dello spazio là dentro quando c'erano intere strade di negozi vuoti? Per me era incredibile, la Crisi non sembrava finire più. Non avrei mai, mai creduto che ci sarebbe voluto tanto a riprenderci. Anni interi passavano, un'inte­ra generazione appassiva nei migliori anni della vita...

La luce su di lui si spegne lentamente.

Moe                               - (continua) Però! C'è anche gente distinta.

Lee                                - Come no.

Ryan                             - (il supervisore, a un tavolo) Matthew R. Bush!

Un uomo dall'aspetto molto dignitoso, sui quaran­tacinque anni, si alza, si fa avanti e segue Ryan fuori.

Moe                               - Sembra un maggiordomo, di gente molto ricca.

Lee                                - Forse una volta lo era.

Moe                               - (scuote la testa con aria lugubre) Mmmmm! (Un neonato in braccio a Grace, giovane donna nel fondo, piange. Moe si volta e guarda, poi toma a guardare da­vanti a sé) Lee, se ti danno un lavoro da manovale che fai?

Lee                                - Ci vado.

Moe                               - A scavare buche per strada?

Lee                                - Non mi vergogno mica, papà.

Kapush                          - (sessantina passata, tipo slavo, baffoni, frustra­zione feroce) Che c'è da aspettarsi da un paese che manda un salsicciotto alla Corte Suprema? Felix Frankfurter[8], Felice il Salsicciotto. Vallo a trovare.

Dugan                           - (da un'altra parte della stanza) Tornatene nel tuo orologio a cucù!

Kapush                          - (si volta con tutto il corpo con rabbia feroce per vedere chi ha parlato, urtando una donna di colore, Irene, seduta vicino a lui) Chi ce l'ha con me?

Irene                              - (donna nera di mezza età) Oh, la vuoi piantare?

Dugan                           - Digli quello che si merita!

Ryan entra di corsa venendo da sinistra. E pallido: ha la giacca stracolma di penne e matite: ha un fa­scio di carte in mano. Un uomo stanco.

Ryan                             - Che succede qua? litighiamo un'altra volta? Signor Kapush, sono tre giorni che glielo dico; lei è del Bronx, deve andare all'ufficio nel Bronx.

Kapush                          - Non fa niente, aspetto.

Ryan                             - (passando vicino a Dugan) Lasciatelo stare, gli manca qualche rotella.

Dugan                           - E un fascista. L'ho visto in Union Square un sacco di volte.

Irene picchia sul tavolo col suo bastone da passeg­gio.

Ryan                             - Oh Cristo... ricominciamo.

Irene                              - Fra poco sono le dieci, signor Ryan.

Ryan                             - Ho fatto del mio meglio, Irene...

Irene                              - Cosi disse il Padreterno quando creò lo scia­callo, poi ci riprovò per vedere se gli riusciva me­glio. C'è gente che è stata buttata per strada con materassi, pentole e tegami, e tutto quello che ave­vano. Proprio sulla Centotrentottesima Strada. O tornano nei loro appartamenti oggi stesso o noi sol­leviamo un casino tale...

Ryan                             - Per te non ho più fondi fino al mese prossimo, e levatelo dalla testa, Irene.

Irene                              - Per me, signor Ryan? Non sono mica io, qui è la Sezione Locale Quarantacinque dell'Alleanza Operaia, e voi sapete che significa.

Dugan                           - (ride) Partito Comunista.

Irene                              - Giusto, signore, e quelli non scherzano. Per­ciò, perché non vi attaccate al telefono e non chia­mate Washington. E con l'occasione ricordate al si­gnor

Roosevelt                      - che io gli ho fatto la propaganda per tutta la Centotrentanovesima Strada durante le ul­time elezioni, e se vuole che gliela faccia vincere di nuovo si dia una regolata.

Ryan                             - Oh, Cristo... (Si affretta a uscire ma Lee cerca di trattenerlo).

Lee                                - Mi avevano detto di portare qui mio padre.

Ryan                             - Cosa?

Lee                                - Ieri. Lei mi ha detto di...

Ryan                             - Mi lasci in pace, per favore. (Esce precipitosa­mente).

Dugan                           - In questo paese ci ritroveremo tutti in cima agli alberi a tirarci noci di cocco uno contro l'altro.

Moe                               - (con calma, a Lee) Speriamo che sia finita per leundici questa faccenda, ho un appuntamento con un compratore.

Toland                           - (col «Daily News» aperto in mano. È accanto a Moe) Questa si che è buona: Helen Hayesx deve mettere su trenta chili per fare la parte della regina Vittoria.

Moe                               - E chi è?

Toland                           - La regina d'Inghilterra.

Moe                               - Era cosi grassa?

Toland                           - Vittoria? Una botte. L'ho portata una volta, Helen Hayes[9], quando avevo il mio taxi. Piccolina. Anche Adolphe Menjou una volta... anche lui, un ometto piccolo. E mi capitò anche Al Smith[10] prima che diventasse governatore, molto, molto prima. Quello si poi che era piccolo.

Moe                               - Ma che aveva lei? un'utilitaria?

Toland                           - Che c'entra. Avevo una bella Ford.

Moe                               - E che fine ha fatto?

Toland                           - Come si fa? Col taxi non ci si campa più. Ormai la gente va a piedi. Cinquecento dollari, la pagai, una Ford nuova di zecca, completa di paraur­ti e ruota di scorta. Grazie a Dio, almeno sono riu­scito a farmi assegnare una casa popolare. Sono ca­rine e non si paga tanto.

Moe                               - Quanto?

Toland                           - Diciannove e cinquanta al mese. Può sem­brar molto ma abbiamo tre belle stanze. Ammesso che riesca ad avere un po' d'aiuti qui. E lei che me­stiere fa?

 

Moe                               - Adesso come adesso faccio il piazzista. Una volta avevo la mia azienda.

Toland                           - Una volta. Con chiunque parli tutti dicono «una volta». Se qui non fanno qualche cosa fra po­co diventa l'America del «c'era una volta».

Kapush                          - (esplode) Ignoranti! Ignoranti! Nessuno co­nosce i fatti. Qui esiste il più grande complesso di biblioteche pubbliche del mondo, e nessuno ci va tranne gli ebrei.

Moe                               - (gli lancia un'occhiata di traverso) Ah, ah!

Lee                                - Perché lei che è, un pellerossa?

Dugan                           - E un fascista. L'ho visto che teneva comizi in Union Square.

Irene                              - Solidarietà gente! Neri e bianchi, uniti, tutti assieme, è cosi che dobbiamo essere. Iscrivetevi al­l'Alleanza Operaia, dieci cents al mese e avrete un po' di solidarietà.

Kapush                          - Io sfido chiunque a trovare la parola demo­crazia nella costituzione. Questa è una repubblica! Demos in greco significa marmaglia.

Dugan                           - (imita l'uccello) Cucù!

Kapush                          - Vado a prendere i miei soldi e trovo la ban­ca chiusa! Quattromila dollari su per la cappa del camino. Tredici anni a sgobbare in quel negozio di ferramenta, soldi risparmiati mettendoli via setti­mana per settimana.

Dugan                           - Diarrea mentale.

Kapush                          - Marmagliocrazia. Da' qua, da' qua, da' qua, non sanno altro.

Dugan                           - E tu,perché ci sei venuto?

Kapush                          - Roosevelt quando è diventato presidente ha fatto il suo giuramento su una Bibbia olandese. Lo sapeva, questo, qualcuno di voi? (A Irene) Scom­metto che tu non lo sapevi! Ignoranti!

 

dugan                            - Cucù!

Kapush                          - Leggete i Corinzi: «A voi non resta che la fede, la speranza, la carità» queste tre. Ma la più grande di tutti è la carità. Questa sola ci rimane. La

carità!

Irene                              - Mi fate venire il mal di testa, signor...

Kapush                          - Non ce l'ho con la gente di colore. Non è la gente di colore che m'ha portato via il negozio. Ecco qui il mio libretto di banca, lo vedete? «Tank of the United States». Lo vedete? Quattromila seicen­to dieci dollari e trentun cents, esatto? dov'è anda­to a finire questo denaro? Tutti i miei risparmi di tredici anni, messi da parte settimana dopo settima­na. Dov'è andato a finire il mio denaro? (Si è alzato in piedi. La sua ira non trova più parole).

Entra Matthew Bush da sinistra, barcollando. En­tra Ryan.

Ryan                             - Arthur Clayton!

Clayton va verso Ryan e indica Matthew Bush.

Clayton                         - Quello li mi sembra non stia bene.

Bush crolla a terra. Per un momento nessuno si muove. Irene gli si avvicina e si china su lui.

Irene                              - Ehi, signore, signore!

Lee                                - l'aiuta ad alzarsi e a sedersi sulla sedia.

Ryan                             - (chiama verso sinistra) Myrna, chiama l'ambu­lanza!

Irene dà degli schiaffetti sulle guance di Bush.

Lee                                          - Come sta?

Ryan                             - (guardandosi attorno) Clayton?

Clayton                         - Sono io Clayton.

Ryan                                       - Lei non è idoneo per l'assistenza: lei possiede mobili e cose di valore, vero?

Clayton                         - Ma non posso ricavarne niente.

Ryan                             - Perché no? E questo il suo indirizzo? Gramercy Park South?[11].

Clayton                         - (imbarazzato) Questo non vuol dir niente. La verità è che non mangio da giorni.

Ryan                             - Come fa a pagare un affitto cosi alto?

Clayton                         - Non pago l'affitto da più di otto mesi.

Ryan                             - (si avvia per andarsene) Senta, se lo scordi. Lei possiede cose di valore e mobili: lei non può...

Clayton                         - Io so fare molto bene i conti... sono stato agente di cambio... pensavo che se potessi avere un posto qualsiasi che richiedesse... non so, statisti­che...

Irene                              - Quest'uomo sta morendo di fame, signor Ryan.

Ryan                             - Che, sei diventata dottoressa adesso, Irene? Ho chiamato l'ambulanza! Non vorrai farne un af­fare di stato? (Torna al suo tavolo).

Clayton resta li, interdetto.

Irene                              - Grace? T'è rimasto ancora qualcosa in quella bottiglia?

Grace                            - (la donna in ultima fila, col bambino in braccio, mostra il biberon che ha un dito di latte sul fondo) non è che ce ne sia ancora tanto...

 

Irene                              - (le passano il biberon e lei tira via la tettarel­la) Per ora basta. Su, apra la bocca, signore! (Bush inghiotte il latte). Ecco! Guardatelo! questo sta mo­rendo di fame.

Moe                               - (spazientito si alza, mette una mano in tasca) ... ecco qua, prendete... ma sant'Iddio! (Tira fuori degli spiccioli e prende dieci centi) Mandate giù qual­cuno a comprargli una bottiglia di latte!

Irene                              - (chiama verso il fondo) Lucy!

Lucy                              - (una ragazzina si fa avanti) Eccomi, Irene...

Irene                              - Scendi giù all'angolo e prendi un litro di latte. (Moe dà i dieci cents a Lucy che esce di corsa, a de­stra). E un paio di cannucce, tesoro. Siete ridotto male, caro signore... perché avete aspettato tanto prima di venire all'ufficio assistenza?

Bush                              - Non è che l'idea mi piaccia molto.

Irene                              - Eh già, tutti cosi voi borghesi. Adesso stia a sentire.

Bush                              - Io sono un chimico.

Irene                              - E ci credo, anche... voi gente di cultura vi fate ammazzare piuttosto che dire «fratello». Adesso state a sentire gente. (Si rivolge alla folla) È venuto il momento di dire «fratello». Mio marito muore e mi lascia con tre bambini piccoli. Senza un soldo, senza lavoro: stavo quasi per mettere la testa nel forno di cucina. Arriva l'ufficiale giudiziario, mi porta via il comò, il letto, il tavolo e mi lascia in mezzo alla stanza seduta su una vecchia cassetta d'arance. E davvero non ci ho visto più. Cattiva so­no diventata, ma cattiva sul serio. Scendo giù per strada e urlo, sbraito, come una vera donna cattiva. Arriva gente, circondano il camion dell'ufficiale giudiziario e in un attimo quello fa dietrofront e se ne torna in centro a mani vuote. È li che ho impara­to che cosa vuol dire solidarietà. E mi sono messa a predicarla dovunque andavo. Per questo mi sono presa un bastone, e quando comincio a batterlo per terra segnando il tempo, un sacco di gente si mette a marciare con me battendo il tempo. Non ci fare­mo sfrattare, non ci lasceremo in nessun modo mo­lestare. Certi giorni vado in tribunale con questa cartella e faccio passare un brutto quarto d'ora an­che ai giudici. Ogni volta che mi vedono arrivare con questo borsone i poliziotti si mettono a urlare: «Eccola, arriva la vecchia azzeccagarbugli! » Ma vo­lete sapere che ci ho qua dentro? Un po' di carta straccia e un sacchetto di pepe di Caienna. Caso mai a qualche poliziotto salti il grillo di mettermi le mani addosso... è pepe forte questo, pepe forte di Caienna. E se per caso il giudice è un cattolico ho il mio rosario di riserva qua dentro, e lo tengo in mo­do che il crocifisso penzoli fuori, cosi credono che sono cattolica anch'io...

Lucy entra col latte.

Lucy                              - Irene!

Irene                              - Da' qua, Lucy. Bevete, adesso, piano, signore mio, piano, piano...

Bush beve a sorsate. La gente ora torna ai propri pensieri: leggono il giornale, fissano il vuoto.

Ryan                             - Lee Baum!

Lee corre verso Moe.

Lee                                - Ecco! Forza, papà, tocca a noi.

Lee e Moe vanno verso il tavolo di Ryan.

Ryan                             - È questo tuo padre?

Moe                               - Si.

Ryan                             - (a Moe) Dove vive adesso il ragazzo?

Lee                                - Non vivo a casa perché...

Ryan                             - Lascia che parli lui! Dove vive signor Baum?

Moe                               - Beh... ha una stanza in affitto, non so dove.

Ryan                             - E lei viene qui a farmi credere che non lo vuo­le a casa sua?

Moe                               - (con gran difficoltà) No, non lo voglio in casa, no!

Ryan                             - Mi faccia capire: lei intende dire d'essere uno di quei padri che, se suo figlio suona il campanello, apre, lo vede, e non lo fa entrare?

Moe                               - Dipende, se lui vuole entrare in casa solo per...

Lee                                - Io non ci voglio vivere li...

Ryan                             - Non me ne frega niente di quello che vuoi tu. (A Moe) Lei d'ora in avanti se lo dovrà tenere in ca­sa sua, capito?

Moe                               - (irrigidendosi) ... non sopporto di vedermelo at­torno.

Ryan                             - Come? vi ho visti che vi state parlando affabil­mente da più di due ore.

Moe                               - Parlando?... Vorrà dire bisticciando, liti­gando...

Ryan                             - Litigando? E per cosa?

Moe                               - (malgrado la sua indignazione aumenti) E come posso ricordarmelo? Litigavamo! Stiamo sempre a litigare noi due!

Ryan                             - Senta, signor Baum... lei è impiegato, no?

Moe                               - Impiegato? Sa che impiego ho io? eccolo qua! (Mostra il «New York Times» piegato) Guardi. Leg­ga. Grandi Magazzini Macy, giusto? «Sottoveste per signora, pura seta giapponese, ricamata a mano, con merletto e guarnizioni, due dollari e novantotto». Su ogni pezzo il mio principale guadagna quat­tro cents, e io un decimo di centesimo. Ecco l'im­piego che ho.

Ryan                                       - Lei dovrà tenerselo in casa! (Fa per allonta­narsi).

Moe                               - (scoppia) No! In casa mia non mette piede. No! È uno di quelli che... Non crede a niente!

Lee                                - e Ryan guardano Moe sorpresi, e Moe stesso sembra sopraffatto dal suo sfogo. Esce. Ryan dà un'occhiata a Lee, timbra un modulo e glielo porge, convinto.

Lee                                - Grazie. (Si volta verso il pubblico. I personaggi dell'ufficio assistenza escono, la fila di lampadine vola via, resta solo il tavolo. Si accende la luce su Lee). Tutte le ragazze che avevano un appartamento era­no belle. Questa qui guadagnava trentasei dollari la settimana. Scriveva i dialoghi dei fumetti di Super­man. Edie, posso dormire qui?

Edie                              - Oh, salve, Lee... come no, certo. Aspetta che finisco e ti metto un lenzuolo sul divano. Se hai del­la biancheria da lavare buttala nel lavandino. Dopo faccio il bucato. (Lui resta in piedi dietro a lei mentre lei lavora). Questa striscia sarà favolosa.

Lee                                - Non capisco proprio come fai a metterci tanta passione.

Edie                              - Come! Superman è un mezzo magnifico per in­segnare la coscienza di classe.

Lee                                - Ma va'!

Edie                              - Naturale. Personifica la giustizia. La giustizia esiste sotto il capitalismo, quindi vedi quante dedu­zioni se ne possono trarre.

Lee                                - Sei proprio bella quando parli di politica, lo sai? Dal tuo viso emana come una luce.

Edie                              - (sorride) Non fare lo stronzo borghese.

Lee                                - Edie, posso dormire con te stanotte?

Edie                              - Ma che ti salta in testa?

Lee                                - Mi sento solo.

Edie                              - Perché non ti iscrivi al Partito, santo cielo?

Lee                                - Tu non ti senti sola?

Edie                              - (arrossendo) lo non ho bisogno di andare a letto con questo e con quest'altro per sentirmi legata al genere umano.

Lee                                - Non far caso a quello che ho detto, d'accordo? Me ne vergogno.

Edie                              - Io non capisco come uno che sa di marxismo quanto te, possa stare lontano dalla lotta. Tu ti sen­ti solo perché non vuoi essere parte della storia. Perché non t'iscrivi al Partito?

Lee                                - Non so, non vorrei mettermi i bastoni fra le ruote. Io voglio diventare giornalista sportivo.

Edie                              - Perché non scrivi per la pagina sportiva del «Worker»?

Lee                                - La pagina sportiva del « Daily Worker »? Fa ri­dere.

Edie                              - Allora prova a migliorarla tu.

Lee                                - Sii sincera. Tu ci credi veramente che questo paese possa diventare socialista?

Edie                              - Ma in che parte del mondo stavi? Siamo nel bel mezzo del più grande balzo in avanti della coscienza di classe mai accaduto prima d'ora. Centinaia di persone si iscrivono al Partito ogni settimana! Per­ché sei cosi maledettamente disfattista?

Lee                                          - Io stavo a Flint, nel Michigan, quando sono co­minciati gli scioperi sit-down[12]. Mi venne in mente di farne un servizio da vendere a qualche giornale. È stata un'esperienza sconvolgente. La solidarietà era cosi tanta da far venire le lacrime agli occhi. Ma poi dopo ne ho intervistati una trentina. Io ti vorrei far parlare con loro.

Edie                              - Si, sono ancora un po' indietro. Me ne rendo conto.

Lee                                - Non sono indietro, è gente più che normale. Normalissimi razzisti, antisemiti, antinegri e anti­sovietici. Stanno fondando sindacati, e questo va bene, ma la loro testa è piena zeppa di fascismo.

Edie                              - Come fai a dire questo?

Lee                                - Ho parlato con trenta di quegli operai,

Edie                              - , e ce ne sarà stato uno che sapeva qualcosa del sociali­smo. A Detroit c'è un'organizzazione che si dichia­ra fascista. I Cavalieri della Camelia Bianca...

Edie                              - Lo so.

Lee                                - È piena di operai che lavorano nelle fabbriche d'auto... Io intendo dire questo... ho paura che or­mai sia tardi per salvare questo paese... capito? Non hai questa paura anche tu? O mi sbaglio?

Edie                              - Vuoi davvero che ti risponda?

Lee                                - Certamente.

Edie                              - Domani picchettiamo il Consolato italiano. Mussolini sta inviando truppe alla guerra civile di Spagna. Vieni, fa' qualcosa. A te che piace tanto Hemingway, leggi che ha scritto l'altro giorno! «Un uomo solo non vale un cazzo»[13]. Per quanto deca­dente sia, anche lui sta imparando. Se vuoi servire a qualcosa devi credere. Questo è veramente il con­flitto finale, come dice l'Internazionale. In Spagna si sta combattendo la battaglia decisiva e vinceran­no di sicuro. Gli operai tedeschi da un giorno all'al­tro si ribelleranno e butteranno giù il nazismo...

Lee                                - Diventi cosi bella quando...

Edie                              - Chiunque è bello se quello in cui crede è bello. Io credo nei miei compagni. Credo nell'Unione So­vietica. Credo nella vittoria della classe operaia qui e in ogni parte del mondo, e credo nella pace che regnerà nel mondo quando il popolo prenderà il po­tere.

Lee                                - ... allora... ma adesso, Edie?

Edie                              - Ora non conta. E il futuro che conta... (Scioglie la sua mano da quella ài lui e torna zoppicando al suo lavoro) Devo finire questa striscia. Ti farò il letto sul divano fra due minuti.

Lee                                - Sei una ragazza meravigliosa, Edie. Ora che prendo il sussidio ti porto a cena fuori... Pago io, naturalmente.

Edie                              - Che tipo sei! Perché devi pagare per me? Solo perché sono una donna?

Lee                                - Hai ragione. Me l'ero dimenticato. (È in piedi. Lei lavora. Lui gironzola dietro a lei e guarda Usuo la­voro) Perché qualche volta non lo fai scopare, il tuo Superman? oppure lo fai sposare.

Edie                              - E’ troppo occupato. (Ridepiano mentre lavora e lui si china improvvisamente a baciarla voltandole il viso verso di sé. Lei sta per cedere per un momento, poi respinge la sua mano) Ma che ti prende? (Lui si china a guardarla, sorpreso. Lei sembra sul punto di piangere, arrabbiata e sconvolta) Ti credevo una persona seria! (Si alza).

Lee                                - Tutt'a un tratto t'ho vista cosi bella...

Edie                              - Ma non t'importa niente di me! Perché devi rendere tutto volgare? Non hai fede in nulla, pro­prio?

Lee                                - Scusa, devo essere assolutamente d'accordo con te in tutto, prima di poter...

Edie                              - Si! E tutt'uno! L'uno è legato all'altro! Lo stes­so cinismo con cui guardi gli operai della Ford ti fa fingere di voler avere una conversazione seria con me, mentre invece vuoi solamente saltarmi nel letto.

Lee                                - Non vedo il nesso tra gli operai della Ford e...

Edie                              - Sono costretta a chiederti di non dormire qui.

Lee                                - Edie, solo perché non condivido in pieno tutte le tue idee, questo dovrebbe impedirci...

Edie                              - Sei pregato d'andartene. Non sei una persona come si deve. (Scoppia a piangere, si alza, zoppican­do, e va verso il buio).

Lee                                - (si volge al pubblico) Cara mamma. Saluti dal lago Champlain! Oggi mi hanno pagato e sguazzo nel lusso Wpa. Mi sono comprato una camicia di lana e un paio di guanti belli caldi: fa già piuttosto freddo quassù. Ma l'aria è cosi pura che quasi t'u­briaca. Il lavoro che faccio è proprio bello. Stia­mo facendo ricerche in questa parte dello Stato di New York per una specie di guida storica detta­gliata che la Wpa sta preparando per tutte le regioni degli Stati Uniti. Ho intervistato i diretti di­scendenti dei soldati che durante la Rivoluzione presero parte alla battaglia del Fort Ticonderoga[14]. Ti salutano tutti con affetto. Mi dispiace che tu rimpianga ancora il pianoforte, ma come dici tu, inutile guardare al passato. Ci vediamo fra un paio di mesi. Con affetto. Lee. PS. Sei stata tu, im­magino, a ficcarmi quel biglietto da dieci dollari nella tasca della giacca. Vuol dire che le cose vanno meglio? Dimmi la verità, ti prego.

Durante la suddetta scena Rose è entrata e s'è sedu­ta a tavola mischiando le carte. Poi entrano il Non­no, la nipote di Rose Lucilie, sua sorella Fanny e Doris, che indossa un accappatoio. Portano sedie, si siedono attorno alla tavola e giocano a carte. Il Nonno legge il giornale.

Rose                              - Finirai col consumartelo, quell'accappatoio, Doris... perché non ti vesti qualche volta?

Doris                             - Tanto, abitiamo qui dietro l'angolo.

Rose                              - Sei cosi giovane e stai quasi tutto il giorno chiusa in casa.

Doris                             - Sidney vuole che prenda a tutti i costi la licen­za media.

Rose                              - Ma per prenderla dovrai pur metterti qualcosa addosso.

Lee                                - Non finiva mai il mese di luglio, laggiù a Brooklyn. Il puzzo di muffa che filtrava dalle soffitte giù per le scale mentre la casa arrostiva al sole. Imbambolati davanti alle carte aspettavamo finché arriva­va la sera e per le strade sembrava non ci fosse più anima viva. E in fondo a ogni pensiero c'era sempre la paura del campanello: chi suonava? qualche vaga­bondo? o un esattore? Da Coney Island al ponte di Brooklyn non si sentiva che il rumore di carte che sbattevano nel silenzio. (Esce).

Fanny                            - scuote via con la mano qualcosa dal petto fis­sando le carte.

Rose                              - Non ti distrarre, lascia stare la forfora per un secondo.

Le altre ridono. Fanny ride ma pare indispettita.

Fanny                            - Non è forfora! Era un filo!

Rose                              - Ha la forfora fatta a fili. (A Lucilie) Ma che madre che hai!

Lucille                           - Figurati che cosa ha avuto il coraggio di chiederci, a me e alle mie sorelle...

Fanny                            - Già, una cosa terribile.

Lucille                           - Di andare da lei e restare li tutto il santo pomeriggio a pulirle casa!

Fanny                            - Che c'è di male? Ci si divertiva tanto quan­d'eravate piccole... tutte e quattro a pulire, pulire...

Rose                              - Che fissazione!

Fanny                            - (si asciuga il viso) Lo sai che sta diventando un forno qua dentro, Rose?...

Lucille                           - Io fra un po' svengo.

Rose                              - Non svenire, le finestre di dietro sono aperte. Tutti devono credere che non ci siamo.

Fanny                            - Ma non c'è un filo d'aria... fallo per papà...

 

Lucille                           - Tu puoi essere andata via e aver lasciato una finestra aperta... Basta che tu non risponda alla porta.

Rose                              - Non voglio correre questo rischio. Con questo esattore non la passi liscia. L'ho visto come fa, ba­sta che veda una finestra aperta e allunga subito le orecchie. Sono implacabili... Ho mandato Stanislaus a comprare i limoni, cosi ci berremo una bella limonata fresca. Giova...

Fanny                            - Io non ci credo che ti possano buttar fuori tanto facilmente, Rose.

Rose                              - Svegliati! dove stai Fanny? Come fai a essere ancora cosi ingenua? E una banca! Che gli possa an­dare di traverso a quanti sono, dopo tutti i quattrini che abbiamo tenuto là dentro per tutti quest'anni. Prova a domandargli duecento dollari adesso... e vedrai. (Le vengono le lacrime agli occhi).

Fanny                            - Rose cara, non te la prendere... qualcosa suc­cederà, vedrai. Moe prima o poi troverà pur qualco­sa, cosi conosciuto com'è...

Rose                              - Non m'importerebbe tanto se non fossimo sta­ti cosi stupidi! Riesce a metter su un'impresa come quella che avevamo e lascia che i suoi fratelli gliela mandino in malora.

Lucille                           - Non potrebbe chiedere a sua madre che gli dia un po' di...

Rose                              - Sua madre dice «non posso, c'è la Crisi» e in­tanto t'acceca con tutti i diamanti che ha addosso. E che gli ha regalato lui! Fa schifo la gente! Guar­da! Ti giuro, la prossima volta che comincio a cre­dere in qualcuno, spero mi taglino la lingua...

Doris                             - Ma Lee non potrebbe tornare a casa e dare una mano?

Rose                              - Mai! Lee deve pensare col suo cervello e af­frontare i suoi problemi da solo. Non ha niente da imparare da noi. Che se la sbrighi da sé.

Lucille                           - Però mettersi a fare il comunista...

Rose                              - Lucille, tu che ne puoi sapere? Chi è che ne sa qualcosa? i giornali? I giornali, che avevano detto che la Borsa non sarebbe più scesa!

Lucille                           - Ma sono contro Dio, zia Rose!

Rose                              - Mi rallegro. Da quando in qua sei diventata cosi religiosa, Lucille? Ma per favore, falla finita!

Fanny                            - (si alza, fa per andarsene) Torno subito.

Rose                              - Adesso va a farsi la pipi sul dito cosi spera le vengano le carte buone.

Fanny                            - E va bene! Allora non vado! (Torna alla sua sedia).

Rose                              - (si volta verso Doris) A che giochiamo, Doris?... a carte o alle belle statuine?

Doris                             - è seduta davanti alle sue carte, tutta confusa.

Nonno                           - (abbassando il giornale) Ma che le fanno a fare queste elezioni?

Rose                              - Come, che le fanno a fare?

Nonno                           - Tanto lo sanno tutti che vincerà ancora Roosevelt. Secondo me è sempre un po' troppo a sini­stra, ma fare delle altre elezioni è proprio buttar via i quattrini.

Rose                              - Ma che stai dicendo, papà... sono passati quat­tro anni, devono farla per forza un'altra elezione.

Nonno                           - Chi l'ha detto?... Se lo facessero re...

Rose                              - Re?

Fanny                            - (indicando col dito il Nonno, ridendo) Ma sen­tilo lui!


Nonno                           - Se fosse re non avrebbe bisogno di sprecare tutto il suo tempo in quegli inutili discorsi elettora­li, e forse potrebbe mettersi sotto davvero e miglio­rare le cose.

Rose                              - Se avessi un francobollo gli scriverei una let­tera.

Nonno                           - Potrebbe essere come un altro imperatore Francesco Giuseppe. In tutta l'America tornerebbe la calma. Poi, quando muore, fate tutte le elezioni che volete.

Rose                              - (a Doris) Stai giocando a carte o stai covando?

Doris                             - (cascando dalle nuvole) Oh, tocca a me? (Volta una carta) Va bene: ecco!

Rose                              - Alleluia! (gioca una carta. E la volta di Lucilie, che gioca). Sei dimagrita?

Lucille                           - Ho cercato. Vorrei tornare a lavorare al lu­na park.

Doris                             - lancia un rapido sguardo ansioso verso il Nonno assorto nella lettura.

Fanny                            - (indica il Nonno con aria furtiva) Non ti far sentire.

Lucille                           - Lui non lo deve sapere? E poi la ballerina non la farei più: andrei come valletta del prestigia­tore, e a dire qualche barzelletta. Parlano di rico­minciare nel New Jersey.

Rose                              - Herby non riesce a trovar niente?

Lucille                           - Macché, sta diventando matto, zia Rose.

Rose                              - Dio onnipotente! Allora? non ti sei decisa an­cora, Fanny?

Fanny                            - (sentendosi sollecitata, studia le carte) Un se­condo! Lasciami almeno un po' di tempo.

 

Rose                              - Quando hanno fatto la distribuzione dei cer­velli questa famiglia era a pranzo fuori?

Fanny                            - (si alza innervosita, fa qualche passo, poi è ferma­ta da...) Col caldo che fa qui non riesco nemmeno a pensare.

Rose                              - Gioca! La finestra non posso aprirla. Non ho proprio nessuna voglia di rivedere quell'uomo. Ha due occhi cosi cattivi. (Stanislaus entra da sinistra. È un marinaio di mezza età. Con maglietta girocollo e calzoni di tela). E lei entra dalla porta d'ingresso? Lo sa che oggi può venire l'uomo dell'ipoteca?

Stanislaus                      - Dimenticato. Non ho visto nessuno per strada, però. (Alza un sacchetto di limoni) Limonata fresca in arrivo su ponte C. (Traversa) Inamidato tutti i tovaglioli. (Esce).

Rose                              - Inamidato tutti i tovaglioli... scrocchiano come biscotti. Voglio leggere la fortuna con le carte. (Tira fuori un altro mazzo dal banco del piano, dispone una «fortuna»).

Lucille                           - Io non so, zia Rose: ti sembra davvero una bella idea tenerti quell'uomo in casa?

Doris                             - Io proprio non ne avrei il coraggio. Come fai a dormire con uno sconosciuto in cantina?

Fanny                            - Nooo! Stanislaus è un vero gentiluomo. (A Rose) Credo che sia anche un po' finocchio, no?

Rose                              - Speriamo. (Tutte ridono). Fa' il piacere, Fanny, gioca la regina di bastoni.

Fanny                            - Come sai che ho la regina di bastoni?

Rose                              - Perché sono intelligente io. Infatti ho votato per Herbert Hoover io... Vedo le carte che passano, cara, e faccio presto a capire quelle che rimangono.

Fanny                            - (al Nonno che continua a leggere) Che fenome­no! Ha il cervello di nonna!

Rose                              - Uhhh!... guarda un po' che carte, questo gioco della fortuna!

Fanny                            - Qua. Ora gioco io. (Gioca una carta).

Rose                              - (continua a disporre le carte per il gioco della fortu­na) Di solito gli do da mangiare sul portico: ma quando gli ho offerto un piatto di minestra mi dice che prima lava le finestre e poi mangia. Primal Mai sentito una cosa simile! Io sono rimasta! Forza Do­ris, tocca a te!

Doris                             - (cercando disperatamente di far presto) Lo so da me quello che devo fare, aspetta un attimo!

Le sorelle immobili studiano le loro carte, Rose ora è rivolta al pubblico. Una luce rapidamente la isola.

Rose                              - Quando andavo a scuola si doveva star seduti come soldati, colla schiena dritta e le mani conserte sul banco. Tutto doveva essere inappuntabile. Quando la Marina risali il fiume Hudson per anda­re in guerra, piangemmo tanto, era cosi bello. E piangemmo tanto anche quando fu fucilato lo zar di Russia. Anche lui, com'era bello. Il presidente Warren Gamaliel Harding[15], anche lui, che meravi­glia! Il sindaco James J. Walker[16] sorrideva che pa­reva un angelo, che naso, e che piedini! Richard Whitney[17] presidente di Wall Street, bell'uomo, dal portamento eretto. Cento altri potrei nominarne, dai rotocalchi. Chi l'avrebbe detto allora, che tutti questi begli uomini, alti, dal portamento eretto, si sarebbero poi rivelati degli imbroglioni, che sareb­bero finiti in galera, o dei totali deficienti? Cos'al­tro c'è rimasto in cui possiamo credere ancora? La stanza da bagno. Mi ci chiudo dentro e m'attacco ai rubinetti, per non gridare. Contro mio marito, mia suocera, contro Dio sa che cosa, finché non mi por­teranno via... (Ritorna al gioco della fortuna e con ansia profonda) Che diavolo di carte ho tirato fuori? Cos'è questo?

La luce torna normale.

Doris                             - L'Elegia di Gray in un cimitero campestre.

Rose                              - Cosa?

Fanny                            - (le tocca il braccio, preoccupata) Perché non ti butti un po' sul letto, Rose...

Rose                              - Sul letto... perché? (A Doris) Cosa dicevi dell’Elegia di Gray. Cosa stai?...

Stanislaus entra rapidamente: indossa una giacchet­ta corta da cameriere, bianca, inamidata. Regge sul­la spalla con destrezza un vassoio sul quale sono bic­chieri e tovaglioli arrotolati. Rose ha un'espressione allarmata mentre mette giù una carta nel gioco della fortuna.

Stanislaus                      - «It's a braw bricht moolicht nicht to-nicht»... è scozzese!

Fanny                            - Ma come fa a farli star ritti cosi quei tova­glioli?

Rose                              - (è in uno stato di tensione terribile, leva a fatica lo sguardo dalle carte che ha disposto sul tavolo) Che vorrebbe dire quella giacchetta, cosi, all'improvviso?

Le donne la guardano, contagiate dalla sua tensione.

 

Stanislaus                      - Motonave Manhattan. Cameriere perso­nale del capitano. Agli ordini. (Saluta).

Rose                              - Vuol farla finita con questa farsa tragica? Si tolga quella giacchetta. Che va dicendo? Cameriere del capitano? Chi è lei?

Stanislaus                      - Ero cameriere personale di capitano, ma il Manhattan non fa più servizio. Io servito banchie­re Morgan, John D. Rockefeller, Enrico Caruso, Lionel Barry more...

Rose                              - (molto sospettosa) Porti i bicchieri, per favore... (Lui alza la caraffa perversare la limonata). Grazie, verso io. Vada, per favore. (Non lo guarda. Lui esce. Nel silenzio, lei solleva la caraffa, la inclina, ma le tre­ma la mano e Fanny prende la caraffa).

Fanny                            - Rose, tesoro, andiamo su...

Rose                              - A voi che impressione fa?

Fanny                            - Perché? E molto simpatico.

Lucille                           - La casa la sa tenere bene, zia Rose. E come una nave.

Rose                              - E’ un bugiardo, però: dice qualunque cosa gli passa per la testa e io gli credo. Che diavolo m'è preso? Si vede benissimo che è uno stronzo; suona il campanello, si presenta alla porta, non l'ho mai visto in vita mia e lo metto a dormire in cantina.

Lucille                           - Shhh!

Stanislaus entra con un vassoio di biscotti: s'è ri­messo la maglietta girocollo, con aria decisa...

Rose                              - Senta, Stanislaus ... (Si è alzata).

Stanislaus                      - (sente che è imminente il suo licenziamen­to) Scendo in dispensa nave domani, prendo ver­nice bianca speciale, dipingo tutta facciata casa, me fanno tutto credito, lei pagare niente.

Rose                              - Ho cambiato idea, capito?

Stanislaus                      - (con un sorriso disperato) Io prestare grande scala negozio ferramenta. Cosi mettere belle tendine per finestra cantina. Mi scusi, devo pulire ghiacciaia. Assaggi limonata, imparata sottomarino spagnolo. (Si dilegua).

Fanny                            - Secondo me è molto carino, Rose... tieni (Le offre un bicchiere di limonata).

Lucille                           - Non ti preoccupare per l'uomo dell'ipoteca, zia Rose. Sono passate le cinque ormai, dopo le cin­que non vengono più...

Rose                              - (combattuta, incerta) E carino, dite?

Nonno                           - (mettendo giù il giornale) Sai che dovrebbe fa­re

Lee                                - ... Rosie?

Rose                                         - Ah?

Nonno                           - Lee dovrebbe andare in Russia.

Le sorelle e Lucille si voltano a guardarlo sorprese.

Rose                              - (incredula, spaventata) In Russia?

Nonno                           - In Russia hanno bisogno di tutto, mentre qui, capisci? non hanno bisogno di niente, perciò non c'è lavoro.

Rose                              - (con una punta d'isteria) Cinque minuti fa Roosevelt era troppo a sinistra e ora vuoi mandare Lee in Russia?

Nonno                           - E’ diverso. Guarda che dice qua... centomila americani hanno fatto domanda per lavorare in Russia. Qua, guarda. Sta scritto qui. Perciò se Lee andasse laggiù ad aprire una bella catena di negozi d'abbigliamento...

Rose                              - Papà! fai tanto l'anticomunista... e non sai che in Russia tutto appartiene al governo?

Nonno                           - Si, ma non i grandi magazzini.

Rose                              - Tanto più i grandi magazzini.

Nonno                           - I grandi magazzini sono proprietà del go­verno?

Rose                              - Si.

Nonno                           - Brutti bastardi!

Rose                              - (a Lucilie) Io qui divento matta...

Doris                             - Allora, chi l'ha scritto?

Rose                              - Scritto cosa?

Doris                             - L’Elegia di Gray in un cimitero campestre. Era una domanda da quindici dollari, ieri alla radio. T'ho telefonato, ma eri fuori. Ho fatto una corsa a chiamarti...

Rose                              - Chi ha scritto l’Elegia scritta in un cimitero cam­pestre di Gray?

Doris                             - E quando sono tornata alla radio stavano fa­cendo un'altra domanda.

Rose                              - Doris, tesoro... (Lentamente) ... l’Elegia scritta in un..., di Gray. ( Fanny ride). Perché ridi, lo sai?

Fanny                            - (piacevolmente) Come posso saperlo?

Lucille                           - È Gray? (Rose la guarda, con enorme tristez­za negli occhi) Beh, dice Elegia di Gray no?

Doris                             - Ma come può essere Gray? quello è il titolo.

Rose guarda davanti a sé con uno sguardo di totale disperazione.

Fanny                            - Che hai, Rose?

Doris                             - Perché? che ho detto?

Fanny                            - Rose, che ti succede?

Lucille                           - Ti senti bene?

Fanny                            - (realmente preoccupata, voltando il viso di Rose verso di sé) Che ti succede? (Rose scoppia a piange­re. Fanny si alza e l'abbraccia, anche lei sul punto di piangere) Oh, Rosie, per favore... non fare cosi. Le cose andranno meglio, qualcosa dovrà pur succe­dere...

Un suono da sinistra - la porta di ingresso - le sconvolge.

Doris                             - (indicando verso sinistra) C 'è qualche...

Rose                              - (alzando le braccia in aria come un'ossessa)Shhhh! (Sottovoce) Vado di sopra. Non sono in casa per nessuno. (Sta per andare a destra).

Moe entra.

Doris                             - (ridendo) È zio Moe!

Moe                               - Cos'è tutta questa eccitazione?

Rose                              - (andando verso di lui) Oh, Dio sia ringraziato! Credevo fosse quello dell'ipoteca. Sei tornato a casa presto.

Lui resta in piedi guardandola.

Fanny                            - Andiamocene, su.

Cominciano a sparecchiare la tavola del vassoio, li­monata, bicchieri, ecc.

Moe                               - (guardando Rose in viso) Stai piangendo?

Lucille                           - Come va in città?

Rose                              - Uscite dalla porta di dietro.

Moe                               - In città è l'inferno.

Fanny                            - Mi preparate tutte le vostre bollette? Doma­ni scendo in città.

Rose                              - (a Moe) Fatti una doccia. Perché sei cosi pal­lido?

Lucille                           - Ciao, zio Moe.

Moe                               - Ciao, ragazze.

Doris                             - (uscendo con Fanny e Lucille) Gli devo chiede­re come ha fatto quella limonata...

Sono uscite. Moe ha lo sguardo fisso come se vedes­se ancora qualcosa, tranquillo ma assorto.

Rose                              - Hai... venduto niente?... No, eh? (Lui scuote la testa negativamente, ma non è a questo che sta pensan­do). Tieni... (Prende un bicchiere dal tavolo) Vieni, bevi, è fresca.

Moe                               - (prende il bicchiere, ma non beve) Tutte le sere queste scenate isteriche.

Rose                              - No, non ho niente. Solo, trovo tutto cosi stu­pido, e certe volte proprio non ce la faccio... non ce la faccio... (Si prende la testa fra le mani).

Moe                               - II fatto è... mi stai a sentire?

Rose                              - Cosa? (Improvvisamente si accorge che la presen­za del Nonno disturba in qualche modo Moe, si volta e va rapidamente da lui) Va' nel portico sul dietro, papà, eh? Li c'è ombra adesso... (Gliporge un bic­chiere di limonata).

Nonno                           - Ma l'uomo mi vedrà.

Rose                              - Non importa, non verrà a quest'ora, e poi è ve­nuto Moe. Va'... (Il Nonno si avvia verso il fondo). Perché non metti gli altri occhiali, avrai più ristoro. (Il Nonno se né andato. Lei toma da Moe) Si, caro. Allora come andrà a finire?

Moe                               - Ce la caveremo benissimo.

Rose                              - Perché?

Moe                               - Perché si. Perciò questo nervosismo tutte le se­re è inutile, e io giuro su Dio...

 

Rose                              - (indicando la tavola e le carte sparse) Sono le car­te della fortuna. Io... ho cominciato a fare il gioco della fortuna e ho visto... un giovane. La morte di un giovane.

Moe                               - (colpito) Non lo dire.

Rose                              - (sensitiva) Perché? (Moe si volta verso il pubbli­co, sbigottito, spaventato) Perché hai detto questo!

Moe                               - Niente...

Rose                              - Lee è...?

Moe                               - La vuoi far finita !...

Rose                              - Dimmi!

Moe                               - Ho visto una cosa terribile nella metropolitana. Uno s'è buttato sotto il treno.

Rose                              - Ahhh... un altro! Dio mio! l'hai visto?

Moe                               - No, è successo pochi minuti prima che arrivas­si. Dicono che era molto giovane. Uno dei poliziotti reggeva un gran cesto di fiori. Dicono che cercava di vendere fiori.

Rose                              - Io l'ho visto! (Con un brivido nella spina dorsa­le, puntando il dito sulle carte) Guarda, è li! Scrivo subito a Lee e gli dico di tornare a casa immediata­mente! E devi dirglielo anche tu che torni a casa!

Moe                               - Non ho da dirgli niente, Rose. Come vuoi che lo faccia venire a casa?

Rose                              - (urla e piange) Allora va' da tua madre e parlale da uomo... e non da pagliaccio della malora! (Piange).

Moe                               - (punto sul vivo, quasi sconfitto, senza guardarla) Non si può... non si può andare avanti cosi in eter­no, Rose, un paese non può morire e basta! (Lei seguita a piangere. Lui urla straziato) Vuoi farla fi­nita? Ce la metto tutta! Dio onnipotente, sto ten­tando!

Il campanello suona. Sussultano per l'emozione, lei voltata verso sinistra, lui mezzo voltato dalla parte del suono. Entra il Nonno di corsa, indicando verso sinistra.

Nonno                           - Rose!

Rose                              - Shhhh! (Il campanello suona di nuovo. Moe pre­me contro le tempie le dita irrigidite, cercando di non vedere, umiliato. Sussurrando) Dio del cielo... fa' che se ne vada! (Il campanello suona di nuovo. Moe sta a testa china, con mano tremante si stringe spasmodica­mente la fronte). Dio, Dio santo, da' al nostro nuo­vo[18] presidente la forza e la saggezza... (Il campanel­lo suona con più insistenza) ... da a Roosevelt la ma­niera d'aiutarci... (Campanello) ...Oh, mio Dio, aiuta... la nostra cara patria... e la gente...

Il campanello suona incessantemente ora, mentre calano le luci. Rumore di folla sportiva. Luce su Lee che sta finendo di scrivere i suoi appunti a lato del ring. Sidney appare, in uniforme da guardia. Han­no entrambi i capelli grigi. Elementi di un ring di pugilato nello sfondo.

Sidney                           - È stato un bell'incontro, signor Baum.

Lee                                - Eh? Non c'è male.

Sidney                           - Non vorrei disturbarla. I suoi articoli mi piacciono molto.

Lee                                - Ah? Grazie molte. (Fa per passare oltre).

Sidney                           - (finalmente si fa riconoscere) Ehi!

Lee                                - (sorpreso dell'impertinenza) Mmm? (Lo riconosce ora) Sidney. Oh, santo cielo, Sidney!

Sidney                           - Sei davvero un bel cugino. Ti guardo dritto in faccia, e tu, come se niente fosse!

Lee                                - Beh, chi t'aveva mai visto in quell'uniforme.

Sidney                           - Sono capo del servizio di sicurezza qui.

Lee                                - Bravo.

Sidney                           - M'ha sorpreso vederti qui a fare l'incontro stasera.

Lee                                - Ho deciso di riprendere la mia rubrica... è vero che tua madre è morta?

Sidney                           - Già, non c'è più... e anche zia Rose... e Moe, mi è dispiaciuto tanto. voce (da dietro le quinte) Li porto fuori, Sidney?

Sidney                           - Si, va bene.

Le luci sul ring si spengono.

Lee                                - E tu e Doris, siete sempre?...

Sidney                           - Si, siamo l'unica coppia rimasta, fra quelle che conosciamo, che non ha ancora divorziato. Sai chi vorrebbe tanto vederti? Ti ricordi Lou Charney?

Lee                                - Charney?

Sidney                           - Della squadra d'atletica: non ti ricordi?... tu e lui correvate tutti i giorni insieme a scuola.

Lee                                - (non ancora certo, ma) Ah, già, Lou... come sta?

Sidney                           - È morto... è stato ucciso in guerra, in Ita­lia... ma sua madre parla ancora di te e di lui, quan­do andavate via insieme tutte le mattine, di corsa...

Lee                                - Davvero... e chi abita a casa nostra adesso?

Sidney                           - Un portoricano dell'Fbi. Brava gente, ma non tagliano mai l'erba del prato. (Tende la mano al­l'altezza del ginocchio) E di Geòrgie Rosen, hai sa­puto, no? anche lui ucciso in guerra.


Lee                                - Georgie Rosen.

Sidney                           - II piccolo Georgie... ti vendette la bicicletta da corsa, mi pare...

Lee                                - (ora ricorda) Anche Geòrgie!

Sidney                           - (annuisce contento) Un sacco di guerre in quel quartiere!

Lee                                - (scuote la testa) ... ti trovo bene Sidney.

Sidney                           - Anche tu... non è più l'America d'una volta, però, eh?

Lee                                - In che senso?

Sidney                           - Non so... gli atteggiamenti, e tutto. Ma che ci vuoi fare?... questo paese per me è come una dro­ga... mi aspetto sempre grandi cose... aspetto sem­pre che arrivi la notizia buona... dirai che sono matto...

Lee                                - No, perché dovrei?

Sidney                           - (afferra il braccio di Lee, con gratitudine) An­che tu sei cosi, eh?

Lee                                - ... ho proprio paura di si.

Sidney                           - Lo sapevo! Vieni, Lee, ti do uno strappo... ho una macchina in garage... posso offrirti da bere?

Lee                                - Come no!

Sidney                           - Senti, ti mando il nastro della mia ultima canzone? L'ho intitolata: Una luna tutta per me. Un bel titolo, non ti pare?

Lee                                - ... si, bellissimo.

Sidney                           - (sta scomparendo nel buio) Una luna tutta per me... m'è venuta all'improvviso, mentre stavo sedu­to sul portico di casa... (Va verso il buio).

Lee resta indietro. E una luce s'alza, nebbiosa e fio­ca, su Rose al piano, che suona in sordina con un ritmo anormalmente lento che sembra arrivare da grandi distanze. Lee è in una luce bianca, tagliente.

 

Lee                                - Dopo tutti questi anni non ho ancora deciso co­sa pensare nei riguardi di mia madre. Alla sua ma­niera, un po' pazza, somigliava molto all'America. Qualunque cosa credesse credeva anche il contra­rio. Si sedeva nella metropolitana accanto a un ne­gro e in due o tre minuti riusciva a farsi raccontare da lui vita, morte e miracoli. Poi, magari il giorno dopo... (Tono allarmato) «Hai sentito! Dice che i negri stanno invadendo il quartiere! » O si lamenta­va del suo destino di donna «Sono nata vent'anni in anticipo» diceva «Trattavano una donna come una vacca, le ficcavano in pancia un bambino e la tenevano chiusa in casa a chiave per il resto della vi­ta! » Ma subito dopo avvertiva «Attento alle don­ne!... quando non sono stupide sono ingannatrici! » Arrivavo a casa e le facevo fare un bel tuffo nell'ideologia rivoluzionaria, e lei era subito pronta a sa­lire sulle barricate: non era ancora sera ch'era di nuovo innamorata del Principe di Galles. Somiglia­va tanto all'America: era ossessionata dal denaro, ma quello cui veramente aspirava era qualche posto in alto da dove poter guardare intorno e inalare un'aria di vita libera. Anche se era stata sconfitta tante volte, credette fino alla fine che il mondo era stato creato per diventare sempre migliore... Non so: quello che so di sicuro, ogni volta che penso a lei, è che finisco sempre col sentirmi traboccare di vita.

Rose                              - (alpiano) Canta!

Lui sorride, si volta rapido verso di lei: Rose è lon­tana, sempre più lontana, le mani gli fanno cenno da sopra la tastiera. Mentre una viva luce balena sul continente coperto di nuvole nello sfondo... Lui va verso di lei e le luci calano mentre appare Robert­son, settantenne, col suo bastone.

 

Robertson                     - Gli intervistatori fanno sempre le stesse due domande: «potrebbe succedere ancora?» è la prima. Io non posso riuscire a credere che permet­teremo a tutta la nostra economia di disintegrarsi un'altra volta... ma si sa anche che la stupidità uma­na è senza limiti... La seconda domanda è se fu ve­ramente Roosevelt a salvare l'America. (Pausa). In realtà Roosevelt era un conservatore, un uomo tra­dizionale che fu trascinato a sinistra da un'emer­genza dietro l'altra. Ci furono momenti in cui la pa­rola rivoluzione in America non fu considerata re­torica. Ma, ch'egli lo volesse o no, il risultato certo di tutti i suoi contorsionismi, del suo sperimentare, del suo dire la verità e del suo continuo e insoppor­tabile tergiversare... fu che la gente fini col credere che il paese le appartenesse sul serio. Non è affatto detto che questa fosse l'intenzione del signor Roosevelt, non so neanche bene come possa essere acca­duto ma, secondo me, è stata questa fede che ha sal­vato gli Stati Uniti. Buio.

FINE


[1] Il volo di Charles Lindberg poco più che ventenne sullo Spirit of Saint Louis da New York a Parigi, avvenne infatti il 20-21 maggio 1927.

[2] Era l’andazzo dei tempi: comprando a riporto – “on the margin” – bastava un piccolo anticipo per entrare in possesso di un titolo

[3] Ministro delle finanze.

[4] Famoso cantante degli anni '20.

[5] Sul meccanismo dei deficiency judgements si sofferma Malcolm Cowley rievocando le sommosse contadine nel Middle West. Ecco quel che dice su una vendita all'asta simile a questa ordinata dal giudice Bradley: «Apparve lo sceriffo e apri l'asta. Parlò solo l'avvocato (dell'assicurazione creditrice) che, secondo le istruzioni ricevute, fece un'offerta di trentamila dollari, più di quanto avrebbe potuto offrire, ma meno del valore dell'ipoteca. Per i re­stanti tremila dollari si riprometteva di ottenere dal giudice una successiva «sentenza di insufficienza» che avrebbe permesso di ricavare il resto del de­bito attraverso la vendita forzata della proprietà mobile del debitore. Erano queste "sentenze di insufficienza", che si aggiungevano alle preclusioni di ri­scatto, che infuriavano maggiormente gli agricoltori del Middle West. Infatti con esse la vittima e la sua famiglia erano spogliati di tutto, anche degli at­trezzi e delle macchine con le quali avrebbero potuto ricominciare da capo. Stavolta la folla immobilizzò lo sceriffo, afferrò l'avvocato per il collo e gli disse che, o alzava l'offerta o sarebbe stato impiccato all'albero più alto. L'avvocato fu accompagnato alla posta dove mandò un telegramma a New York. In un'ora giunse la risposta affermativa. L'avvocato si salvò la pelle e il debitore i suoi attrezzi e il suo bestiame. Cosi potè affittare un'altra fatto­ria e mantenere la sua famiglia» (Malcolm Cowley, The Dream o/the Golden Mountain, New York 1980).

[6] Il gioco nel testo è practìcal e radical (di sinistra).

[7] Wpa: Work Progress Administration (poi cambiò nome in Work Pro­ject Administration); un programma di aiuti ai disoccupati attraverso il quale un programma di aiuti ai disoccupati attraverso il quale l’amministrazione Rooseveltpompò miliardi di dollari nell'economia per sti­molare la ripresa degli Stati Uniti. Con salari che andavano dai quindici ai novanta dollari mensili, più di due milioni di lavoratori all’anno, dal 1935 al 1941, furono assunti in un gran varietà di impieghi manuali e intellettuali.

[8] Felix Frankfurter (1882-1965) professore di legge all'università di Har­vard. Roosevelt lo ebbe come consigliere legale quando fu governatore di New York e poi durante il New Deal; infine lo nominò giudice della Corte Suprema nel 1939.

[9] Helen Hayes (n. 1900) attrice famosa, interpretò Victoria Regina di Laurence Housman, nel 1935.

[10] Al Smith, governatore di New York.

[11] Quartiere considerato di lusso.

[12] In Hard Times Studs Terkel considera, questo di Flint, nel novero dei grandi scioperi dell'epoca, il sit-down per eccellenza. Il 30 dicembre 1936 gli operai del Fisher Body della General Motors di Flint (Michigan) «sat down», si sedettero sul posto di lavoro, e la sera, invece di andarsene, occu­parono la fabbrica. Per sei settimane gli operai di Flint vissero negli stabilimenti. L'ii febbraio 1937 la General Motors si arrese. Un mese dopo anche a US Steel cedette senza combattere. Fu un grande successo del sindacalista John L. Lewis, e del Cio (Congress of Industriai Organization) da lui fondato e inaugurò tali metodi di lotta nelle industrie automobilistiche.

[13] «One man alone is no fucking good», frase dal romanzo To bave and bave not (1937) scritto il quale Hemingway parti per la guerra di Spagna, che descrisse poi in Forwhom the belltolls (1940) (Per chi suona la campana).

[14] Località d'importanza strategica sulla strada fra il Canada e l'alta valle dell'Hudson. Durante la Rivoluzione americana, a Ticonderoga i Green Mountain Boys, guidati da Etha Alle, strapparono il forte agli inglesi il io maggio 1775.

[15] Presidente degli Stati Uniti dal 1921 al 1923.

[16] Sindaco di New York dal 1926, accusato di corruzione fuggf in Europa (1932).

[17] Definito dall'economista John Galbraith «uno dei più sciagurati uomi­ni d'affari dei tempi moderni»: fini a Sing-Sing.

[18] E’ il Roosevelt del '34: la prima versione infatti terminava quell'anno.