L’osteria della posta

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L'OSTERIA DELLA POSTA

di Carlo Goldoni

Personaggi:

- Il Conte Roberto di Ripa-Lunga, Cavalier Milanese

- La Contessa Beatrice, sua figliuola

- Il Marchese Leonardo dei Fiorellini, Cavaliere Piemontese

- Il Tenente Malpresti, amico del Marchese

- Il Barone Talismani, Cavaliere Milanese

- Cameriere dell'Osteria

- Servitore di Don Roberto.

Scena:

La scena si rappresenta a Vercelli, all'Osteria della Posta, in una sala comune.

SCENA PRIMA

Il Marchese, Il Tenente, ed Il Cameriere dell'osteria.

Il Tenente. Ehi ! Oste, camerieri, diavoli, dove siete

Il Cameriere. Eccomi a servirla. Comandi.

Il Tenente. Una camera.

Il Cameriere. Eccone quì una. Restino pur serviti.

Il Tenente. Che camera è? Vediamo. (Entra netta camera)

Il Cameriere. Restano quì lor Signor, o vogliono partir presto?

Il Marchese. Dateci qualche cosa; una zuppa, un poco di bollito, se

c'è, e fatepreparare i cavalli.

Il Tenente. (nell'uscire.) Non avete camere migliori di questa?

Il Cameriere. Non, Signore; non c'è di meglio.

Il Tenente. Quì ci sono stato delle altre volte; so che avete una buona

stanza sopra la strada.

Il Cameriere. È occupata, Signore.

Il Tenente. È occupata? Chi c'è dentro?

Il Cameriere. Un cavaliere Milanese con una Dama, che dicono sia sua

figliuola.

Il Tenente. È bella?

Il Cameriere. Non c'è male.

Il Tenente. Da dove vengono?

Il Cameriere. Da Milano.

Il Tenente. Dove vanno?

Il Cameriere. Non glielo so dire.

Il Tenente. Ed a far che si trattengono quì in Vercelli?

Il Cameriere. Sono arrivati qui per la posta. Riposano; hanno ordinato

il pranzo, e passate che saranno le ore più calde, proseguiranno il

viaggio.

Il Tenente. Bene; se si contentano; noi pranzeremo insieme.

Il Marchese. No caro amico, spicciamoci. Prendiamo un po' di

rinfresco, e seguitiamo la nostra strada.

Il Tenente. Caro Marchese, io sono partito con voi da Turino per

compiacervi; vi faccio compagnia assai volontieri; ma viaggiare a

quest'ora, con questo sole, e con questa polvere non mi comoda

molto.

Il Marchese. Un militare si lascia far paura dalla polvere, e dal calore

del sole?

Il Tenente. Se io fossi obligato a farlo per i doveri del mio mestiere, lo

farei francamente, ma quando si può, la natura insegna ad

isfuggire gl'incomodi. Vi compatisco, se vi sollecita il desiderio di

vedere la vostra sposa, ma abbiate ancora un poco di carità per

l'amico.

Il Marchese. Sì, sì ho capito. L'occasione di pransare con una giovane

vi fa temere il caldo, e la polvere.

Il Tenente. Eh corbellerie! quattr'ore prima, quattr'ore dopo, domani

noi saremo a Milano. Cameriere preparateci da mangiare.

Il Cameriere. Sarà servita.

Il Tenente. Vedete, se questi signori, vogliono mangiar con noi.

Il Cameriere. Il cavaliere è sul letto, che dorme. Quando sarà

all'ordine il pranzo, glie lo dirò.

Il Marchese. Sollecitatevi.

Il Cameriere. Subito. (in atto di partire.)

Il Tenente. Avete buon vino?

Il Cameriere. Se vuole del Monferrato, ne ho di prezioso.

Il Tenente. Sì, sì, beveremo del Monferrato.

Il Cameriere. Sarà servita. (Parte.)

SCENA II

Il Marchese, e Il Tenente.

Il Tenente. Allegro, Marchese. Voi, che andate incontro alle nozze,

dovreste essere più gioviale.

Il Marchese. Dovrei esserlo veramente, ella mi tiene un poco in

pensiere il non avere ancor veduta la sposa. Mi dicono, che sia

bella passabilmente, che sia gentile, ed amabile, pure ho

un'estrema curiosità di vederla.

Il Tenente. Come vi siete indotto ad obbligarvi di sposare una giovane

senza prima vederla?

Il Tenente. Il conte Roberto di lei padre, è un cavaliere di antica

nobiltà, molto comodo, e non ha altri, che quest'unica figlia. Egli

ha molte parentele in Turino. Ha una sorella alla corte, ha degli

effetti in Piemonte, i miei amici hanno pensato di farmi un bene

trattando per me quest'accasamento, ed io vi ho aderito, trovandovi

le mie convenienze.

Il Tenente. E se non vi piacesse.

Il Marchese. Pazienza. Sono in impegno, tant'e tanto la sposerei.

Il Tenente. Vabenissimo. Il matrimonio non è che un contratto. Se

c'entra l'amore è una cosa di più.

Il Marchese. Ma vorrei, che c'entrasse.

Il Tenente. Sì; ma per il vostro meglio, non vorrei, che l'amaste tanto.

Conosco il vostro temperamento. Ne' vostri amori solete essere un

poco geloso. Se l'amaste troppo, se vi piacesse moltissimo, voi

avreste delle maggiori inquietudini.

Il Marchese. Veramente non saprei dir io medesimo, se meglio fosse

una sposa amabile con un pochino di gelosia, o una brutterella

senza timori.

Il Tenente. Volete, ch'io vi dica, che cosa sarebbe meglio?

Il Marchese. Quale sarebbe l'opinione vostra?

Il Tenente. Il non avere sposa di sorte alcuna. Poichè se è bella,

piacerà a molti, se è brutta, non piacerà né agli altri, nè a voi. Se è

brutta avrete un diavolo in casa; se è bella avrete dei diavoli in

casa, e fuori di casa.

Il Marchese. In somma voi vorreste, che tutti vivessero alla Militare.

Il Tenente. Sì e credo non ci sia niente di meglio al mondo. Oggi qua,

domani là; oggi un amoretto, domani un altro; amare, far la corte,

servire; e a un toccar di tamburro, salute a chi resta, e buona

ventura, a chi parte.

Il Marchese. E appena giunto ad un quartiere novello, innamorarsi

subito a prima veduta.

Il Tenente. Sì, in un batter d'occhio. Se questa giovane che è quì

alloggiata è niente niente di buono, m'impegno farvi vedere, come

si fa ad innamorarla con due parole.

Il Marchese. Tutto sta, che vogliano compagnia.

Il Tenente. E perchè avrebbono da ricusarla?

Il Marchese. Bisogna vedere di che umore è suo Padre.

Il Tenente. Gli parlerò io, m'introdurrò francamente, faremo amicizia

in un subito alla militare.

Il Marchese. Ma, caro amico, non ci fermiamo qui troppe ore.

Il Tenente. Gran premura è la vostra! eppure secondo ciò, che mi

avete detto, non vi aspettano a Milano, che da quì un mese.

partiremo nella serata; viaggieremo di notte, e domani senz' altro

sarete in tempo di sorprendere gentilmente la vostra sposa. In

tanto, se volete riposare, andate lì nella nostra camera. Io voglio

andare in cucina a vedere, che cosa ci daranno da desinare, ed a

sentire questo vino di Monferrato, che non vorrei ci corbellassero

sulla fede. Nasca, quel che sa nascere, se avessimo anche da

mangiar soli, quando vi è un buon bicchiere di vino, non

passeremo mal la giornata. (Parte)

SCENA III

Il Marchese (solo.)

Bravo il signor Tenente. Egli èsempre di buon umore. Non so, se ciò

sia per grazia del temperamento, o per privilegio del suo mestiere.

Quanto, volontieri avrei calcata anch'io la strada del Militare! Ma

son solo di mia famiglia, è necessario, ch'io mi mariti. Hanno a

sdegno i parenti miei, ch'io goda la mia dolcissima libertà, e mi

conviene sagrificarla. Sia almeno il mio sigrifizio men aspro! e

meno pericoloso. Voglia il cielo, che una Sposa amabile, e di mio

genio, mi faccia sembrar leggiera la mia catena; Ah sì, quantunque

d'oro, quantunque arricchita di gemme, o adornata di fiori, è però

sempre catena. La libertà è superiore ad ogni ricchezza, ma vuole il

destino, che l'uomo si assoggetti alle leggi della natura, e

contribuisca colle proprie sue perdite al bene della società, alla

sussistenza del mondo. (Entra nella sua stanza.)

SCENA IV.

La Contessa, poi Il Cameriere.

La Contessa. (stando sulla porta della sua Camera.) Ehi, Cecchino,

Cecchino. (Chiamando più forte.) Costui manca sempre al servizio;

non può stare alla soggezione. Mio Padre stravagante in tutto, è

stravagante anche in questo; soffre un servitore il più trascurato

del mondo. Converrà, ch'io esca, se voglio... Ehi! chi è di là, c'è

nessuno?

Il Cameriere. Comandi.

La Contessa. Dov'è il nostro servitore?

Il Cameriere. È giù, che dorme, disteso sopra una panca, che non lo

desterebbono lo cannonate.

La Contessa. Portatemi un bicchier d'acqua.

Il Cameriere. Subito. Dorme il Signor Conte?

La Contessa. Sì dorme ancora.

Il Cameriere. Avrebbero difficoltà di pranzare in compagnia con altri

due cavalieri?

La Contessa. Quando si desterà mio padre, ne parlerete con lui.

Il Cameriere. Benissimo. (Parte.)

SCENA V.

La Contessa, poi Il Marchese.

La Contessa. In altro tempo gradito avrei moltissimo il trattenermi in

piacevole compagnia, ma ora sono così angustiata, che non ho

cuore di vedere persona, né di trattare con chi che sia.

Il Marchese. (nell'intrare.) Signora, la riverisco umilmente.

La Contessa. Serva divota.

Il Marchese. È ella pure di viaggio?

La Contessa. Per obbedirla.

Il Marchese. Per dove, se é lecito.

La Contessa. Per Turino.

Il Marchese. Ed io col mio compagno son diretto a Milano.

La Contessa. Ella va alla mia patria.

Il Marchese. È Milanese adunque.

La Contessa. Sì Signore. Con sua licenza. (Vuol partire.)

Il Marchese. Perdoni. Volea domandarle una cosa, se mi permette.

La Contessa. Scusi, non vorrei, che si destasse mio Padre, ed avesse

occasion di riprendermi, s'io mi trattengo.

Il Marchese. E chi è egli, il suo signor Padre?

La Contessa. Il conte Roberto di Ripa lunga.

Il Marchese. (da sé.) Oimè, che sento? qui la mia Sposa? Perché in

viaggio? Perchè partir da Milano?

La Contessa. Che vuol dir, Sìgnore, questa sua sospensione? Conosce

ella mio Padre?

Il Marchese. Lo conosco per fama. Sarete voi, Signora, per avventura

la contessina Beatrice?

La Contessa. Per l'appunto; come avete voi cognizione di mia persona

Il Marchese. Non siete voi destinata in isposa al Marchese Leonardo

de' Fiorellini?

La Contessa. Siete anche di ciò informata?

Il Marchese. Sì certamente. Il Marchese è mio amico, e so, che dovea

portarsi a Milano per concludere queste nozze. (da sè.) Vo tenermi

celato fin che arrivo a scoprire qual novità l'abbia fatta movere dal

suo Paese.

La Contessa. Signore.... Chi siete voi per grazia?

Il Marchese. Il conte Aruspici, Capitano delle guardie del Re.

La Contessa. Siete amico del Marchese Leonardo?

Il Marchese. Sì certo, siamo amicissimi.

La Contessa. Potrei lusingarmi di ottenere da voi una grazia?

Il Marchese. Comandate , Signora. Mi darò l'onor di obbedirvi. (Il

Cam. viene con l'acqua, e la presenta alla Contessa.)

La Contessa. (al Marchese.) Con permissione.

Il Marchese. Vi supplico d'accomodarvi. (Le dà una sedia; la Contessa

siede, e poi beve l'acqua.)

Il Marchese. (da sé.) Il suo volto mi persuade; son contentissimo della

sua gentillezza. (Siede.) Il cuore vorrebbe che io mi svelassi, ma la

curiosità mi trattiene. (Il cameriere parte.)

La Contessa. Vorrei, che con tutta sincerità, da cavaliere, da uomo

d'onore qual siete, aveste la bontà di dirmi di qual carattere sia

questo signor Marchese, che mi vien destinato in isposo.

Il Marchese. Sì signora, m'impegno di farvene intieramente il ritratto.

Lo conosco assai per poterlo fare, e lo farò esattissimove lo

prometto. Permettete però, ch'io vi chieda primieramente per qual

ragione quì vi trovate, e non piuttosto in Milano, dove secondo il

concertato, dovea portarsi il Marchese Leonardo per isposarvi.

La Contessa. Ve lo direi francamente, ma ho timore, che si risvegli

mio padre, e se mi trova qui con un Forestiere...

Il Marchese. Sarà per voi una scusa assai ragionevole, trattenendovi

con un amico del vostro Sposo.

La Contessa. Non dite male. La ragione è onestissima.

Il Marchese. Favorite dunque....

La Contessa. Sì volontieri. Io sono troppo sincera per poter

nascondere la verità. Mio padre mi ha destinata in isposa ad un

cavaliere, ch'io non conosco. Non l'ho veduto mai, e non so s'io

possa lusingarmi di dover essere con lui felice. Non mi cale ch'egli

sia bello, non desidero ch'ei sia vezzoso; il più vago, il più brillante

giovane di questo mondo potrebbe avere agli occhi miei qualche

cosa di ributtante, che mi spiacesse, e mi ponesse in necessitàdi

fargli conoscere la mia avversione. Più dell'aspetto suo, è

interessante per me il suo carattere. Chi mi accerta ch'egli sia

umano, virtuoso, trattabile? La ricchezza, la nobiltà non mi

lusingherà mai di star bene, se non avrò la pace del cuore, e

questa vogl'io difenderla ad ogni costo con quel dono di libertà, che

mi èconcesso dal cielo. Mio padre, a dispetto delle mie proteste,

ad onta delle mie ripulse, ha sottoscritto un contratto che mi

potrebbe sagrificare. Ho de' parenti in Milano, che persuasi delle

mie ragioni, mi compatiscono; ed egli per levarmi ogni adito, ogni

soccorso, vuol condurmi a Turino, vuol pormi al fianco di sua

Sorella, ch'è l'autrice di tal contratto, e piacciami, o mi dispiaccia

lo sposo, vuole costringermi a. legarmi seco. Non ho potuto

resistere alla improvvisa risoluzione sua di partire. Mi lascio con

lui condurre a Turino; ma risoluta risolutissima di protestare la

mia avversione, quando mi trovassi disposta ad abborrire il

consorte. Andrò io stessa a gettarmi a piedi di quel Sovrano,

chiederò giustizia contro le violenze del Padre; pronta a chiudermi

in un ritiro per sempre, anziché porger la mano ad un oggettoche

mi paresse spiacevole, pericoloso, ed ingrato.

Il Marchese. Signora, io non so condannare né le vostre massime, né

i vostri timori, né le vostre risoluzioni. Vi compatisco anzi e vi lodo;

e s'io fossi quel desso, a cui vi avessero destinata in isposa, vi

lascierei in pienissima libertà, quando avessi la sfortuna di non

piacervi.

La Contessa. Signore, io vi ho detto sinceramente di me tutto quello,

che potea dirvi; ditemi ora voi qualche cosa intorno al carattere del

vostro amico.

Il Marchese. Dirovvi prima, rispetto al suo personale, non esser egli

assai bello, ma nel nostro paese non è mai passato per brutto.

La Contessa. Benissimo; tanto basta per un marito.

Il Marchese. L'età sua la saprete?

La Contessa. Sì, quest'è forse l'unica cosa, che di lui mi fu detta. So,

ch'egli è ancora in una fresca virilità, e mi dicono, aver egli un

avvantaggiodalla natura, che lo fa parere ancor più giovane di

quello, ch'egli è di fatto.

Il Marchese. Egli è piuttosto grande della persona, ma non ha

l'incomodo di soverchia grassezza.

La Contessa. Tutto ciò è indifferente, vorrei saper qualche cosa del

suo carattere, delle sue inclinazioni, de' suoi costumi.

Il Marchese. Vi dirò, è tanto mio amico il marchese Leonardo, che

non ho cuore di dirne male, e non ho coraggio di dirne bene.

La Contessa. Mi hanno detto, ch'egli è qualche volta collerico.

Il Marchese. Sì, è vero, ma con ragione.

La Contessa. Sapete voi dirmi s'ei sia geloso?

Il Marchese. Per dire la verità, piuttosto.

La Contessa. Se sapete, ch'egli è geloso, saprete dunque, ch'egli ha

fatto all'amore.

Il Marchese. E chi è quel giovane, giunto alla fresca virilità, che voi

dite, che non abbia fatto all'amore?

La Contessa. Questa è una cosa, che mi dispiace infinitamente.

Il Marchese. Non vi dolete di ciò. Egli ha amato sempre con onestà,

con rispetto, e con fedeltà.

La Contessa. Ha amato sempre? dunque ha amato più volte.

Il Marchese. (da sè.) Cospetto! ha un'argomentazion che imbarazza.

Vi accerto, che s'ei si marita, donerà tutto il cuore alla di lui sposa.

La Contessa. Voi vi potete di ciò compromettere?

Il Marchese. Sì, certamente. Lo conosco sì a fondo, e talmente noti mi

sono i di lui pensieri, che potrei giurareper esso, non che

promettere, ed assicurarvi.

La Contessa. E quali sono i suoi più cari trattenimenti?

Il Marchese. Ve li dico immediatamente. I libri, la conversazione, il

teatro.

La Contessa. Male, malissimo. Un marito, che studia, trascura assai

facilmente la moglie. Chiama la conversazione, non prende affetto

alla casa; e chi frequenta il teatro trova delle occasioni assai

comode per concepire delle novelle passioni.

Il Marchese. Perdonatemi, signora mia, a me sembra, che

v'inganniate, e credomi in necessità di fare l'apologia al sistema del

mio buon amico. Lo studio delle lettere è un'occupazione dello

spirito, che non toglie al cuore l'umanità. L'amore è una passione

della natura, e questa si sa sentire in mezzo alle più serie, o alle

più dilettevoli applicazioni. Chi non sa far altro, che amare, per

necessità deve qualche volta annoiarsi della sua medesima

compiacenza, e quel ch'è peggio, dee infastidire l'oggetto de' suoi

amori. Lo studio all'incontra divide l'animo con proporzione;

insegna ad amare con maggiore delicatezza, fa discernere il merito

della persona amata, e sembrano più brillanti le fiamme, dopo i

respiri del cuore, dopo la distrazion dello spirito. — Veniamo ora

all'articolo delle conversazioni. Infelice quell'uomo, che non ama la

società. Questa lo rende colto, e gentile, spogliandolo di quella

selvatichezza, che lo renderebbe poco dissimile dalle bestie. Un

misantropo, un solitario non può essere, che incomodo alla

famiglia, e seccante per una sposa. Chi abborrisce per se medesimo

la conversazione molto meno l'accorderà alla consorte, e per

quanto si amino due coniugati, non può a meno, stando insieme

tutto il giorno, e la notte, che non trovino frequenti motivi di

corrucciarsi, e va a pericolo la tenerezza di convertirsi in noia, in

dispetto, in abborrimento. — Dirò per ultimo quel, ch'io penso

intorno ai teatri, e assicuratevi, che com'io penso, pensa pure il

Marchese Leonardo, come se noi fossimo la stessa cosa; ed ei

medesimo favellassecolle mie labbra. Il teatro è il migliore

trattenimento di tutti gli altri, il più utile, ed il più necessario. Le

buone commedie istruiscono, e dilettano in un tempo stesso. Le

tragedie insegnano a far buon uso delle passioni. Il comodo di

conversare in teatro, non è quello, che cercano le persone di mal

talento, e gli occhi del pubblico esiggono anzi il contegno, il

rispetto, la civiltà, il buon costume. Insomma, sig. mia, se vi cale

d'avere un marito onesto, amoroso, e bastantemente discreto, io

conosco il Marchese, tale ve lo assicuro, e ve lo prometto, ma se lo

voleste, o zotico, o effeminato, disingannatevi in tempo, e siate

certa, che penetrando egli il vostro pensiere, sarà il primo a

mettervi in libertà, a disciorre il contratto, e a porvi in istato di non

perdere il vostro cuore, e la vostra pace.

La Contessa. Confesso il vero, in virtù delle vostre parole, io vado a

Turino assai volentieri.

Il Marchese. Siete persuasa del carattere del Marchese Leonardo?

Siete contenta, di quanto di lui sinceramente v'ho detto?

La Contessa. Io sono persuasa, io sono contenta di quello, che voi mi

dite; cioè, che s'ei non mi piace, mi abbia da lasciare nella mia

pienissima libertà.

Il Marchese. Signora Contessa, scusate l'ardire, io dubito, che

abbiate il cuor prevenuto.

La Contessa. No certo, se amassi un altrolo direi francamente.

Il Marchese. Possibile, che la vostra bellezza non abbia ancoraferito

il cuore di qualcheduno?

La Contessa. Io non dico, che non vi sia qualcheduno, che mi ami;

dico soltanto, ch'io non ho il cuore impegnato.

Il Marchese. E chi è, se èlecito, che per voi sospira?

La Contessa. Volete sapere un po' troppo, signor Capitano.

Il Marchese. Siete tanto sincera, ch'io mi lusingo non mi tenete celato

neppur quest'arcano.

La Contessa. Non è arcano altrimenti. Lo sa mio padre, lo sanno tutti,

e ve lo dirò francamente è il barone Talismani.

Il Marchese. Non lo conosco. È giovane?

La Contessa. Bastantemente.

Il Marchese. È bello?

La Contessa. Non è sprezzabile.

Il Marchese. E voi non l'amate?

La Contessa. Non l'amo, ma non l'abborrisco.

Il Marchese. Lo prendereste in isposo?

La Contessa. Piuttosto lui, che una persona, ch'io non conosco.

Il Marchese. Scusatemi, io credo, che ne siate accesa.

La Contessa. Mi conoscete poco, Signore; io non sono avvezza a

mentire.

Il Marchese. L'essere voi sì mal prevenuta per il Marchese Leonardo

pare un indiziodi radicata passione.

La Contessa. Perdonate, io non ho detto di esserne mal prevenuta,

temo, dubito, e me ne vo assicurare. Potete voi condannarmi?

Il Marchese. No, adorabile contessina. Voi meritate di esser contenta,

e desidero, che lo siate; felice colui che avrà la sorte di possedere

una sposa sìamabile, e cosa sincera, ammirabile é la vostra

virtù, rara é la vostra bellezza, soavi sono, e vivacissimi i vostri

begli occhi....

La Contessa. (si alza.) Signor Capitano, mi sembra, che vi avvanziate

un po' troppo.

Il Marchese. Mi anima l'interesse, ch'io prendo pe 'l caro amico.

La Contessa. Fatelo con un poco più di contegno.

Il Marchese. Oh cieli! vorrei pur chiedere.... Ma non ardisco.

La Contessa. Con permissione. È tempo ch'io, vada a risvegliare il

mio Genitore. (In atto di partire.)

Il Marchese. Permettetemi.

La Contessa. E che cosa vorreste.

Il Marchese. Ditemi coll'usata vostra sincerità, s'io fossi colui, che vi

è destinato in isposo, potrei lusingarmi di essere da voi gradito?

La Contessa. Se amate la sincerità, soffrite ch'io vi dica di no.

Il Marchese. Sono orribile agli occhi vostri.

La Contessa. Non vi dirò, se piacciami, o mi dispiaccia l'aspetto

vostro. Dicovi solamente, che gli accenti vostri dimostrano in voi

un poco troppo di militare licenza. Io non bramo uno sposo, né

zotico, né selvaggio, ma lodesidero onesto, morigerato, e

prudente. (Parte.)

SCENA VI

Il Marchese (solo.)

OH cieli! in qual orribile confusione mi trovo! Bello è il carattere della

contessa, poichè è fondato sulla base della più pura sincerità. Ma

io mi veggio sul punto di essere da lei ricusato, e dopo averla

veduta, e dopo la scoperta fatta del di lei talento, e del di lei cuore,

la perdita mi sarebbe più dolorosa. Ha detto liberamente, che s' io

fossi quel tale non ne sarebbe contenta. Vero è, che mostrò di

dirlo, per causa di un mio innocente trasporto; ma potrebbe con

ciò aver colorita una maggiore avversione. Che fo io dunque? Mi

scopro ad essa qual sono, o torno a Turino senza piú rivederla? Ah

non so che risolvere. Ecco l'amico, chiederei ad esso consiglio, ma

non mi fido intieramente della sua prudenza.

SCENA VII.

Il Tenente, ed il suddetto.

Il Tenente. Amico, noi avremo un sontuoso pranzo. Vi é di grasso, e

di magro, e il vino di Monferrato è eccellente. Di più avremo un

altrocompagno a Tavola; un cavaliere mio amico arrivato qui per

la posta in questo momento. Parla con l'oste, non so di che, e or'

ora sarà qui con noi.

Il Marchese. E chi è questo Forestiere?

Il Tenente. Il baron Talismani.

Il Marchese. (Con ammirazione.) Come! il baron Talismani?

Il Tenente. Lo conoscete anche voi!

Il Marchese. Non l'ho mai veduto, ma so chi egli è.

Il Tenente. Io vi assicuro ch'è un galant'uomo.

Il Marchese. Sì, ne son persuaso. Gli avete voi detto che siete meco?

Mi avete a lui nominato?

Il Tenente. Non ho avuto tempo di farlo.

Il Marchese. Avvertite a non dire ad esso chi sono.

Il Tenente. Che imbroglio è questo? Evvi fra voi due qualche

inimicizia?

Il Marchese. Entriamo nella nostra Camera. Vi narrerò una

stravagante avventura.

Il Tenente. Si sa ancora, se avremo la fortuna di aver con noi questa

giovane passeggiera?

Il Marchese. Andiamo. Sentirete intorno ad essa qualche cosa di

particolare.

Il Tenente. L'avete veduta?

Il Marchese. Ritiriamoci; che se viene il barone, temo non abbia a

nascere qualche trista scena. Non è senza mistero la sua venuta.

Venite, ascoltatemi, e se mi siete amico resistetemi. (Da sè.) Ah

temo che si amino, dubito che  la contessa affetti una mentita

sincerità. Ardo di sdegno, fremo di gelosia. (Entra nella sua

camera. )

Il Tenente. Che imbroglio è questo? Non lo capisco. Spiacemi di

vedere agitato l'amico, ma non vorrei perdere l'occasione di

divertirmi con una buona tavola, e con una bella ragazza. (Entra

nella sua camera.)

SCENA VIII

Il Barone, ed Il Cameriere.

Il Cameriere. Quì, Signore; non abbiamo altre camere in libertà. Se

vuol restar servita di sopra?

Il Barone. Dov'è il Tenente?

Il Cameriere. Perdoni io non so di questi Signori, che sono qui, qual

sia il signor Tenente.

Il Barone. Quegli che ha parlato meco giù nel cortile.

Il Cameriere. Sarà in quella Camera col suo compagno.

Il Barone. E chi è il suo compagno?

Il Cameriere. Non lo conosco.

Il Barone. Qual è la camera, in cui mi disse il padrone esservi un

cavaliere attempato con sua figliuola?

Il Cameriere. Eccola lì, Signore; è quella.

Il Barone. Benissimo; non occorr'altro.

Il Cameriere. Vuol ella uno stanzino nell'appartamento di sopra?

Il Barone. Dove si pranza?

Il Cameriere. In questa sala.

Il Barone. Bene; resterò quì; io non ho bisogno di camera.

Il Cameriere. Si serva, come comanda. (Parte.)

SCENA IX.

Il Barone (solo.)

Nasca quel, che sa nascere, vò prendermi almeno questa soddisfazione.

Vò sapere se la mal'azione, che mi vien fatta proviene dal conte, o

da sua figliuola. Partir senza dirmi nulla? Permettere, ch'io vada al

solito per visitar la contessa, e farmi dire da un servitore: sono

partiti? La sera innanzi si sta insieme in conversazione, e non mi si

dice: domattina partiamo? è un insulto, è un'inciviltà

insopportabile.

SCENA X.

Il Conte, (senza spada) ed il suddetto.

Il Conte. (da sè.) Che vedo? qui il baron Talismani?

Il Barone. (da sè.) Non so, se più m'interessi l'amore, o il disprezzo; o

la derisione.

Il Conte. Signor Barone, la riverisco devotamente.

Il Barone. Servo, suo signor Conte.

Il Conte. Che fa ella qui, Signore?

Il Barone. Il mio dovere. Venni per augurarle il buon viaggio, e per

usare seco lei quella urbanità, che non si è degnata di praticare

con me.

Il Conte. Vossignoria potea risparmiarsi l'incomodo. So, che per me

non si sarà data tal pena.

Il Barone. Sì Signore, sono quì venuto per voi.

Il Conte. Ed in che vi posso servire?

Il Barone. Desidero, che mi diciate per qual ragione vi siete partito da

Milano, senza ch'io abbia avuto l'onor di saperlo?

Il Conte. Siccome non abbiamo insieme verun interesse, io non mi

sono creduto in debito di parteciparvi la mia partenza.

Il Barone. Parmi, che a ciò vi dovesse obbligare il buon costume,

l'amicizia, la convenienza.

Il Conte. Circa al buon costume, io credo di non averlo da imparare

da voi. Se mi parlate dell'amicizia, vi dirò, ch'io soglio usarla, e

misurarla secondo le circostanze; e rispetto alla convenienze avrei

largo campo da giustificarmi, se il rispetto, ch'io porto alla vostra

casa non mi costringesse a tacere.

Il Barone. Signore, voi tacendo, mi spiacete assai più, di quel che

possiate fare parlando.

Il Conte. Quand'è così, adunque parlerò per spiacervi meno. Dite di

grazia. Sapete voi, che la mia figliuola è promessa in Isposa ad un

cavaliere Piemontese.

Il Barone. Lo so benissimo. Ma so altresì, ch'ella non consente

sposarlo, senza prima conoscerlo.

Il Conte. Siete voi persuaso, che una figliuola sia padrona di dirlo,

quando il di lei padre ha sottoscritto un contratto?

Il Barone. Io non credo che un padre abbia l'autorità di sagrifigare

una figlia.

Il Conte. Come potete voi dire, che ella sia con queste nozze

sagrificata ?

Il Barone. E come potete voi assicurarvi, che ella ne sia contenta?

Il Conte. Per assicurarmi di ciò, la conduco meco a Turino.

Il Barone. Bene io non vi condanno per questo. Ma perché non dirlo

agli amici vostri?

Il Conte. Tutti i miei amici sono stati di ciò avvertiti.

Il Barone. Io dunque non sono da voi onorato della vostra amicizia?

Il Conte. Signor Barone, facciamo a parlar chiaro. L'amicizia, che dite

d'avere per me, non deriva da un sincero attaccamento alla mia

persona, ma dall'amore che avete per mia figliuola? e il ciel non

voglia, che non vi mova piuttosto la condizione di un'unica figlia,

erede presuntiva di un genitore non povero. Qualunque sia il

pensier che vi stimola, è sempre indegno di un galant'uomo, che

dee rispettare l'autorità di un padre, e la casa di un cavaliere

onorato. Può essere, che la renitenza di mia figliuola alle nozze

ch'io le propongo, derivi innocentemente dal di lei cuore, ma ho

anche ragion di sospettare, che l'orgoglio di una fanciulla sia

animato dalle lusinge di un amante vicino. Beatrice è saggia, e

morigerata, ma tanto più mi confermo che non sia ella per se

medesima capace di contradirmi, senza essere prevenuta da

qualche occulta passione. Voi siete il solo su cui cader possono i

miei sospetti, ed ho a ragion dubitato, che partecipandovi la

risoluzione mia di condurla meco a Turino, aveste l'abilità di

persuaderla a contradirmi, anche in questo, e pormi in necessità di

usar la violenza, e il rigore. Ecco la ragione, per cui vi ho tenuto

celato il disegno mio di partire non per mancanza di rispetto a voi,

ed alla vostra degna famiglia. Se ciò vi sembra un aggravio, vi

supplico di perdonarmi. Scusate un padre impegnato, compatite

un cavaliere, che ha data la sua parola. Esaminate voi stesso, e

comprenderete meglio di quello ch'io possa dirvi, se onesti sono i

miei sentimenti.

Il Barone. Sì, conte, mi persuade il vostro sano ragionamento; e sono

assai soddisfatto dalle vostre cortesi giustificazioni. Vi confesso la

verità, ho della stima per la degna vostra figliuola, parliamo

liberamente, ho dell' amore, ho della tenerezza per essa, e volesse

il cielo, ch'io fossi degno di possederla, non già pe 'l vile interesse

della sua dote, ma pe 'l merito di quella bellezza, e di quella virtù,

che l'adorna. Vi giuro non pertanto sull'onor mio, non aver io colpa

veruna nella ritrosia, ch'ella mostra ai voleri vostri. Non son

capace di farlo, ed ella non è sì debole per lasciarsi sedurre.

Compatitemi, se ho potuto spiacervi. Scusate in me una passione

onestissima, concepita per la violenza di un merito sorprendente;

assicuratevi del mio rispetto, e fatemi degno della cara vostra

amicizia.

Il Conte. Ah caro amico, voi mi onorate, voi mi colmate di

consolazione. Vi amo, vi stimo, eccovi in quest'abbraccio un

sincero segno dell'amor mio.

Il Barone. Conte, poss'io avanzarmi a domandarvi una grazia?

Il Conte. Chiedete pure, che non farei per un cavaliere sì degno.

Il Barone. Permettetemi, che io possa accompagnarvi a Turino.

Il Conte. No, scusatemi; questo è quello, ch' io non vi posso

permettere.

Il Barone. Per qual ragione?

Il Conte. Stupisco, che non la vediate da voi medesimo. Un padre

onorato non ha da condurre la propria figlia allo sposo coll'amante

al fianco.

Il Barone. Io non intendo venirvi, che col carattere di vostro amico

Il Conte. È ancora troppo indiviso l'amico del padre e l'amante della

figliuola.

Il Barone. Sono un cavaliere onorato.

Il Conte. Se tal siete, appagatevi della ragione.

Il Barone. E bene, s'io non verrò con voi, non mi potrete vietare ch' io

vi seguiti di lontano.

Il Conte. Potrò fare in modo per altro, che non restiate in Turino.

Il Barone. Come?

Il Conte. Partecipando alla corte la vostra pericolosa insistenza.

Il Barone. Voi mi siete dunque nemico; voi mi giuraste falsamente

amicizia, per adularmi.

Il Conte. Voi piuttosto cercate d'addormentarmi con ingannevoli

proteste d'indifferenza.

Il Barone. I pari miei non mentiscono.

Il Conte. I pari vostri dovrebbono conoscer meglio il proprio dovere.

Il Barone. Il mio dover lo conosco, ed insegnerò a voi ad aver il vostro.

Il Conte. L'ardire con cui vi avanzate a parlarmi è prova manifesta del

vostro mal'animo, e della vostra indegna passione.

Il Barone. Non è cavaliere, chi pensa male de' galant'uomini.

Il Conte. Son cavaliere, e non mi pento de' miei sospetti.

Il Barone. Rendetemi conto dell'ingiuria, che voi mi fate.

Il Conte. Attendetemi; e ve lo proverò colla spada. (In atto di andare

alla sua camera.)

SCENA XI

La Contessa, e detti.

La Contessa. Ah padre, trattenetevi per amor del cielo.

Il Conte. Ah figlia ingrata! ecco svelato il gran mistero delle tue

renitenze. Ecco chi ti anima ad una scorretta disobbedienza. Ecco

l'oggetto delle tue fiamme, che ti fa odiare l'immagine d'ogn'altro

sposo.

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Il Barone. (da sè.) Ah volesse il cielo, ch'egli dicesse la verità.

La Contessa. No, Signor, v'ingannate. Niuno ha ardito di consigliarmi;

nè io sono sì docile, per lasciarmi vincere, e persuadere. Il mio

cuore è ancor libero, ed amo tanto questa mia libertà che ardisco

di contrapporla a chi mi ha dato la vita. Niuno più di voi, Signore,

ha il diritto di comandarmi; e sarei disposta a ciecamente

obbedirvi, quando non si trattasse di un sagrifizio sì grande, sì

incerto, e pericoloso.

Il Barone. (da sè.) Eppure io mi lusingo ancora ch'ella mi ami.

Il Conte. Vo assicurarmi, s'ella è sincera, o se finge, e m'inganna.

(Alto.) Tu temi adunque, che il marchese Leonardo possa spiacerti?

La Contessa. E non è ragionevoleil mio timore?

Il Conte. E s'ei non è di tuo genio, sei risoluta di non volerlo?

La Contessa. Perdonatemi per carità ....

Il Conte. Oh via non vo' che tu mi creda così tiranno, ch'io voglia

violentare il tuo cuore, e renderti sfortunata per sempre. Sperai

togliendoti da Milano, vederti più rassegnata: temei, che un segreto

amor ti accendesse, ti credo libera; ti veggio nel tuo pensiere

constante; penso di non arrischiare il mio decoro in Turino.

Torniamo dunque a Milano. Troverò io la maniera di sciogliere il

contratto col Marchese Leonardo, e ti porrò nella tua pienissima

libertà. Tu vedi per altro, che non mancheranno al paese nostro le

critiche, e 1e mormorazioni. Sarebbe bene, che tu accettassi un

altropartito, di cui fosti meglio contenta. Il baron Talismani è un

cavaliere di merito. Mi lagnai ingiustamente di lui, credendolo a

parte de' tuoi segreti; lo trovo innocente, e mi pento d'averlo

insultato. Però s'ei si scorda de miei trasporti, s'ei non isdegna di

averti, se tu acconsenti a un tal nodo, io te l'offerisco in consorte.

Il Barone. Ah Conte, voi mi colmate di giubbilo voi mi colmate di

contentezza. Scordomi ogni dispiacere sofferto per una sì amabile

sposa, per un suocero sì rispettabile, e generoso.

La Contessa. Piano, Signore, con questi titoli di sposa, e di suocero.

Rendo grazie alla bontà di mio padre, che usami una sì amorosa

condescendenza; ma io non sono in grado di abbandonarmi ad una

sì repentina risoluzione.

Il Barone. Oh cieli! ricusate voi la mia mano?

La Contessa. Il tempo, e l'occasione, in cui me l'offrite, non merita

ch'io ne faccia gran caso. Voi mi vedete in viaggio per vedere uno,

che mi viene offerto; mivedete in pericolo di disgustar il mio

genitore s'io non l'accetto, o di porlo in un imbarazzo, se, per

compiacermi, si espone al pericolo di lacerare una scritta. Sembra

a voi cosa onesta offrire il mezzo ai sconcerti, alle inimicizie, alle

dissensioni?

Il Barone. Signora mia, scusatemi, voi mostrate di esser uno spirito di

contradizione.

Il Conte. Rispettate mia figlia. Ella mostra di essere più ragionevole, e

più saggia di voi.

Il Barone. Sono ormai stanco di sofferire gli insulti ....

Il Conte. (al Barone.) Achetatevi per un momento. (Alla Contessa.)

Quale dunque sarebbe la tua intenzione?

La Contessa. Proseguire il nostro cammino: veder lo sposo, che mi

proponete, assicurarmi del suo carattere, e del suo costume. Per

poco ch'egli mi piaccia, quando é onesto, e discreto, preferirò ad

un altrocolui, che ha l'onore di essere da voi prescielto. Ma

quando il cuore mi obbligasse ad odiarlo, avrò coraggio io

medesima di manifestargli la mia avversione e di liberar me stessa

dal sagrifizio, e di esimer voi da un impegno, premendomi tanto la

pace mia, quanto l'onor vostro, e la vostra tranquillità.

Il Conte. Sì, figlia, tu pensi assai rettamente, e mi lusingo; che il cielo

ti farà esser contenta.

Il Barone. Qualunque sia la scena che deesuccedere, verrò a Turino

per esserne anch'io spettatore.

Il Conte. Voi non ardirete di farlo.

Il Barone. Né voi avete autorità bastante per impedirmelo.

Il Conte. I pazzi si castigano da per tutto.

Il Barone. Pazzo a me? Provvedetevi della vostra spada.

La Contessa. Qual ardire è cotesto? ....

SCENA XII

Il Tenente, e detti.

Il Tenente. Alto, alto, signori miei. Non procedete più oltre colle

minacce. Sono stato finora testimonio delle vostre contese. Or che

vi sento prossimi ad un cimento son qua io, ad interessarmi per la

pace comune.

Il Conte. Signore, io non ho l'honor di conoscervi.

Il Tenente. Sono un Ofizialedi sua Maestà; il Tenente Malpresti per

obbedirvi.

La Contessa. Siete voi il compagno di viaggio del Capitano?

Il Tenente. Sí, Signora, del Capitano.

Il Conte. (alla Contessa.) Come conosci tu questo capitano?

La Contessa. Signore; l'ho qui veduto, ho seco lui favellato. È grande

amico del Marchese Leonardo. Mi ha ragionato di lui lungamente;

mi ha detto dell'amico suo qualche parte di bene, ma per dirvi la

verità non ne sono intieramente contenta.

Il Tenente. Non badate, Signora, a ciò che vi ha detto il compagno

mio. Egli é assai capriccioso, ama moltissimo il Marchese

Leonardo, l'ama quanto se stesso, e come non ardirebbe di esaltar

se medesimo, usa la stessa moderazione parlando del caro amico.

Badate a me, che lo conosco egualmente, ma non ho i suoi stessi

riguardi. Il Marchese Leonardo è il più amabile, è il più gentil

cavaliere del mondo.

Il Barone. Signor Tenente, voi potevate far a meno d'incomodarvi.

Il Tenente. Credetemi, non mi sono incomodato per voi. Sono uscito

per impedire un duello, e per rallegrar l'animo di questa bella

Signora. Ella teme di andare a Turino a sagrificarsi, ed io l'accerto,

che va incontro ad un sagrifizio, a cui si accomoderebbero più

Donzelle. Il Marchese Leonardo è un cavaliere ben fatto. Parla

bene, tratta civilmente con tutti; è di cuor generoso; ed ha fra le

altre virtú, la più perfetta, la più costante sincerità.

La Contessa. Tutto ciò va benissimo, e la sincerità principalmente mi

appaga. Ma ditemi la verità; non è egli collerico?

Il Tenente. No, certamente.

La Contessa. Non è geloso ?

Il Tenente. Nè meno.

La Contessa. Non impiega il suo tempo fra i libri, le conversazioni, e il

teatro?

Il Tenente. Tutto sa prendere con parsimonia, con moderazione; con

discretezza.

SCENA ULTIMA

Il Marchese, ed i suddetti.

Il Marchese. No, Signora, non prestate fede al Tenente. Egli è amico

del Marchese Leonardo quant'io lo sono, e il troppo affetto lo fa

trascendere sino a tradire la verità.

Il Tenente. (al Marchese.) E avrete voi il coraggio di farmi comparire

ua bugiardo?

Il Marchese. La sincerità mi costringe.

Il Tenente. Signora, non gli credete. Io conosco il Marchese Leonardo

perfettamente.

Il Marchese. Signora, assicuratevi, ch'io lo conosco meglio di lui.

Il Barone. Ecco signora Contessa, ecco vicina per causa vostra una

nuova disfida.

Il Marchese. No, Signore, non dubitate; per ciò non ci batteremo.

Dica ciò, che vuole il Tenente, dirò anch'io, che il Marchese è un

uomod'onore, ma é necessario altresì ch'io prevenga questa

virtuosa Damina esser egli soggetto ai trasporti dell'ira, ed agli

incomodi della gelosia. Se non è ella disposta a tollerarlo coi suoi

difetti, torni pure a Milano, ponga in calma il suo spirito, non tema

dell'insistenza del cavaliere; prometto io per esso, che sarà posta

dal merito suo in intierissima libertà.

Il Conte. Potete voi compromettervi della volontà del Marchese?

Il Marchese. Non ardirei di così parlare, s'io non ne fossi sicuro.

La Contessa. Scusatemi, signor Capitano. Ho qualche ragione di

sospettare della vostra sincerità.

Il Barone. Eh via, signora contessa, fidatevi dell'onestà di un uffiziale

d'onore. Ei vi assicura, che il Marchese Leonardo non è per voi.

Il Marchese. Signore, di un'altra cosa assicura la signora Contessa;

che il Marchese non ardirà per questo di rimproverar lei, né suo

padre; ma farà con voi a suo tempo quei risentimenti, che sono

dovuti alle vostre male intenzioni.

Il Barone. Spero, che il Marchese Leonardo sarà più ragionevole che

voi non siete.

La Contessa. Tronchinsi omai questi importuni ragionamenti: Signore

Padre, andiamo se vi contentate, andiamo a Turino.

Il Marchese. Io non vi consiglio di andarvi.

La Contessa. E per qual ragione, Signore?

Il Marchese. Perché il Marchese Leonardo non vi piacerà.

La Contessa. Voi non potete di ciò assicurarvi.

Il Marchese. Ne son certissimo.

La Contessa. E con qual fondamento ?

Il Marchese. Con quello delle vostre parole.

La Contessa. Può essere, che nel trattarlo, lo trovi più amabile di

quello, che voi me lo dipingete.

Il Tenente. (alla Contessa.) Assicuratevi, che ne resterete contenta.

Il Marchese. Non è possibile.

Il Conte. Signore, voi fate sospettare di aver concepito qualche

disegno sopra la mia figliuola, e che cerchiate distorla dal primo

impegno.

Il Barone. Non sarebbe fuor di proposito, che vi fosse sotto qualche

impostura.

Il Marchese. Mi maraviglio di voi. Sono un uomod'onore, e per

convincervi quanti siete, ecco mi levo la maschera. Io sono il

Marchese Leonardo.

La Contessa. (da sè.) O cieli! qual sorpresa è mai questa?

Il Barone. (da sè.) Ah! temo che sian perdute le mie speranze.

Il Conte. Signore, che mai vi ha obbligato a celarvi, a fingere, ed a

sorprenderci in sì strano modo?

Il Marchese. Il desiderio di vedere la Sposa mi ha fatto anticipare il

viaggio mio per Milano, e il caso ci ha fatti essere insieme ad

un'osteria della posta. La sincerità della contessina Beatrice mi ha

palesato l'animo suo, la mia candidezza mi ha obbligato ad

informarla del mio carattere. Conosco, che ella non èpersuasa

del mio sistema, che insopportabili le riuscirebbero i miei difetti, e

che agli occhi suoi oggetto poco caro è la mia persona. Tradirei me

stesso se usar tentassi una violenza al di lei bel cuore. Ella è

amabile, ella è virtuosa, e gentile, ma il cielo non l'ha destinata per

me.

La Contessa. Ah! signore, permettetemi ch'io vi dica che non mi

dispiace l'aspetto vostro, e ch'io sono incantata della vostra virtù.

Come! evvi al mondo un animosì generoso, che per l'amore della

verità non teme di screditar se medesimo in faccia di persona

ch'egli ama? Voi possedete un sì bel cuore, una sì perfetta

sincerità, e temetech'io non vi stimi, ch'io non vi rispetti, ch' io

non vi adori? Siate voi pur collerico, con sì saggi principj, non

potrete esserlo, che con ragione. Siate pure geloso, non lo sarete

mai senza fondamento. Siate invaghito della società, degli studi,

saranno sempre lodevoli le vostre applicazioni, le vostre amicizie.

Toccherà a me ad evitare i motivi dei vostri sospetti, delle vostre

inquietudini, ed a far sì, che fra i piaceri vostri non abbia l'ultimo

luogo una sposa tenera, e rispettata. Compatite le mie apprensioni,

scusate la soverchia delicatezza del modo mio di pensare.

Assicuratevi, che mi siete caro; che vi amerò sempre, e che il cielo

mi ha destinata per voi.

Il Marchese. Ah ! se tutto è vero quel che voi dite, io sono il più felice

di questa terra.

Il Conte. Amico, voi avete avuto campo di conoscere il carattere di

mia figliuola. Ella non è capace di mentire, e di tradir se medesima

per un capriccio.

Il Tenente. Beato il mondo, se di tal donne sincere se ne trovasse non

dirò in gran copia, ma almeno, il quattro, o il cinque per cento.

Il Conte. Andiamo signore Marchese, se vi contentiate, andiamo tutti

a Milano. Colà secondo il nostro primo concerto si concluderanno

le nozze.

Il Marchese. Andiamo pure, se così piace alla mia adorabile

Contessina.

La Contessa. Guidatemi pure dove vi aggrada. Son col mio caro

padre, son col mio caro sposo, non poss'essere più contenta.

Il Tenente. Sì andiamo, Signori, ma con loro buona licenza; diamo

prima una buona mangiata, e facciamo onore al prezioso vino di

Monferrato.

Il Barone. Confesso, che io non merito il piacere di essere della

partita, ma vi prego di credermi vostro amico e assai pentito

d'avervi dato qualche motivo di dipiacere. Assicuratevi, signore

Marchese....

Il Marchese. Non più Signore; accetto per vere le vostre

giustificazioni, e per disingannar la mia Sposa, ch'io sia

soverchiamente collerico, o pazzamente geloso, vi supplico di restar

a pranzo con noi, e di favorirci nel viaggio. Oh viaggio per me

felice! Oh fortunata Osteria della posta! Fortunatissima sempre

più, s'ella sia degna della grazia, e del compatimento di chi ci

ascolta.

SIPARIO