L’ultima Trasformazione
Di Maria Adele Popolo
Monologo vincitore al premio per monologhi C.G.Viola ‘Mille occhi per una sola voce’
Contesto del racconto:
Arrivata sull’uscio di casa, la porta è chiusa. Lei ha una chiave in mano, una di quelle antiche con il braccio lungo, che protende verso la toppa ma che trattiene titubante. È l’uscio di un basso, una casa a piano terra con solo un paio di scalini a separarla dalla strada, uno dei tanti bassi del vecchio quartiere, con una porta di legno scrostato, su cui s’intravedono i segni della vita attraverso le varie mani di sverniciatura di vari colori, dal verde pisello al marrone cacca al bordeaux…
Si ferma sull’uscio di fronte a quella porta senza avere il coraggio di aprirla.
- Dovrei essere felice. Sono tornata a casa. Questa casa. La casa. L’unica e sola che abbia mai sentito veramente come tale, il nido, l’alcova… casa.
Anni trascorsi tra muri estranei bianchi, giallini, verdini, celestini, scoloriti, scalcinati, sporchi e freddi.
Anni ad osservare soffitti sconosciuti macchiati, ammuffiti e oppressivi. Anni a calpestare mattonelle grigie e gelide. Anni parcheggiati nelle tante case in cui ho vissuto.
Se ci penso meglio alcune erano anche belle, accoglienti… alcune… case. Le ho chiamate tutte "casa": “Vado a casa, esco da casa, ti aspetto a casa”. Meccanicamente pronunciavo la parola.
Casa: è una semplice bisillaba, alquanto banale in fondo, comune, usata smoderatamente e senza criterio più delle volte. Tutti noi la usiamo senza rendercene conto. Quante volte la ripetiamo in un giorno, senza pensarla, senza sentirla? Abusivamente.
Gli inglesi sono più fortunati. Hanno un termine specifico per dire “la casa”, home, e un altro più generico per dire “una casa”, house. La home è il nido, è la famiglia, è il calore e le radici! La house è un’abitazione, mura e volte fredde ed estranee, un parcheggio!
Ho cominciato a sentirmi come un’inquilina abusiva nell’ultima “casa” parcheggio in cui ho vissuto durante una notte più fredda del solito, più buia del solito, più lunga del solito. Mi ero fermata. Avevo deciso che quella sarebbe stata la mia ultima abitazione, l’ultimo domicilio, la mia casa! Avevo ridipinto le pareti e ripulito le piastrelle del bagno, cambiato le serrature. Avevo finanche chiamato un termo idraulico per farmi installare un condizionatore d’aria.
Avevo appeso le tendine con i fiori arancio alle finestre della cucina abbinate al copritavola, avevo comprato un letto ampio a due piazze tutto per me con un caldo plaid a scacchi variopinti, avevo appeso alla parete uno specchio ovale con la cornice di bronzo, avevo messo un tappeto persiano ai piedi del letto, avevo attaccato quadri colorati, e avevo profumato l’ambiente con essenza di fiori d’arancio. La stessa essenza che in primavera m’inebriava i sensi, quando spalancavo la finestra sul giardino d’aranci. Mi piaceva! Davvero! Mi sentivo a casa: la casa!
Quella notte però qualcosa è accaduto, cosa di preciso non lo so dire. Dormivo, così credevo, al caldo tepore creato dal mio corpo sotto il morbido plaid, quando una leggera ma fredda “cosa” mi ha sfiorato le gambe. Un brivido profondo mi ha scossa dal dormiveglia. Il brivido del terrore. Saltata a sedere sul letto ho scalciato lenzuola e coperta, ho acceso la lampada sul comodino e ho raccolto le gambe al petto. Niente. Il letto era vuoto. Mi sono alzata e ho guardato sotto le lenzuola, sotto il letto, sotto il tappeto… niente. Cosa? Cosa mi aveva sfiorato? Avevo il batticuore e, ansiosa, accendendo tutte le luci, andai in cucina a bere. Seduta al tavolo fissando i fiori arancio della tovaglia, cominciai a chiedermi perché? Sì, perché ero in quella casa che, seppure aggiustata e arredata a mio gusto, non era la mia casa. Perché mai sarei dovuta rimanerci? Erano altri gli inquilini di quella casa, altre persone: bambini trasformati in uomini e donne e andati via. Altre anime, altri cuori e altri sospiri, andati via chissà dove… e la casa era la loro casa, il nido era il loro nido. La “cosa” che gelida mi ha sfiorato era la casa stessa che non mi ha riconosciuto, che ha visto in me un’abusiva, non autorizzata a respirare i suoi ricordi, il suo passato. Non condivisibile poiché non era il mio passato, non erano i miei ricordi. Potevo cambiare altre mille case, mille pareti, mille porte, ma in nessun luogo avrei mai ritrovato me stessa se non qui.
Qui a casa! Questa casa! La casa. L’unica e sola. L’alcova, il nido. Odiata e amata. Rinnegata e ricercata.
Ho paura! Paura di aprire questa porta, di spalancarla e di attraversarla. Provo paura ed euforia.
È un’emozione fortissima, poiché temo di non trovare più niente di quello che ho lasciato… di me.
O forse temo di ritrovare tutto anche ciò che ho dimenticato, scacciato eliminato… di me.
Sento su di me gli sguardi dei vicini che, nascosti dietro le tendine di cotone grezzo, mi osservano. Alcuni mi avranno riconosciuto, quelli storici, altri curiosi si chiederanno chi è questa strana donna, troppo alta e troppo muscolosa, che è rimasta con il braccio sospeso a mezz’aria tanto a lungo, sospesa lei stessa, intorpidita e confusa. Non ho il coraggio di voltarmi verso la strada, verso il mondo, mi sento più protetta così, con gli occhi fissi sulla mia mano invecchiata, ingentilita dai mille strati di creme idratanti, ma lo stesso massiccia e robusta… come il resto del mio corpo. Ho bisogno di aprire questa porta, di rintanarmi in questa casa, di respirare la sua essenza, di farmi cullare dai suoi mormorii sommessi come quando ero bambina… bambino.
Il mio nido. Queste pareti di pietra antica hanno visto, hanno accolto, hanno ascoltato e hanno conservato nel loro silenzio tutto il dolore, tutto il mio essere, tutte le mie trasformazioni. E’ qui che voglio cullarmi. È qui che voglio rintanarmi. È qui che voglio aspettare l’ultima mia trasformazione.
Apre la porta e si perde nel buio della casa!
Fine