L’uomo prudente

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L’UOMO PRUDENTE

L’UOMO PRUDENTE

di Carlo Goldoni

Commedia rappresentata la prima volta in Mantova la primavera dell'anno 1748.

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

ANDREA QUERINI

PATRIZIO VENETO

E SENATORE AMPLISSIMO

Ionon so veramente senza arrossire presentarmi coll’umile offerta di questa mia Commedia a V. E., che occupata nelle gravi incombenze del Pubblico Governo, o ritirata in mezzo ai libri nel suo sceltissimo studio, è sempremai accostumata ad alti pensieri ed alle più serie applicazioni. Ma dovrei certamente arrossir di vantaggio, se, non potendo la mia bassezza dare a’ miei ossequiati Padroni e Protettori benefici altra più luminosa testimonianza del mio profondissimo particolare rispetto e della mia umilissima riconoscenza, non mettessi in fronte d’alcuna delle mie Opere il nome veneratissimo di V. E., tra gli altri venerabili nomi di cui le ho fregiate sinora e son tuttavia per fregiarle.

Qual giustissima taccia della più vergognosa ingratitudine non sarebbe per meritarmi una omission così rea, mentre principalmente è a tutta Venezia palese con quale benignità V. E. da ben tre anni in qua suol riguardar me e le cose mie; con qual cortese affabilità si degna di accogliermi; con qual profusione infine di beneficenze fa comparire agli occhi del Mondo l’onore accordatomi dell’autorevole suo patrocinio?

Ella è opera di questa rispettabile protezione, che hammi procurata la mia buona fortuna, la tranquillità stessa colla quale scrivo le mie Commedie, e il coraggio con cui mi espongo a darle alle stampe, senza che m’inquietino le ciance di alcuni, o mi faccia paura il viso arcigno di altri. Il generoso compatimento che dona alle mie Opere un Soggetto di così fino discernimento, com’è V. E., deve a ragione far diffidare del proprio talento chiunque fosse per giudicarne diversamente; e la benevolenza d’un Personaggio così ragguardevole per Virtù, per Nobiltà, per Dignità per cospicue Aderenze, deve ispirar del riguardo alla malignità la più rabbiosa.

Qui sarebbe il luogo, Eccellentissimo Signore, di metter in vista alcun poco quell’ammirabile genio, che vi ha reso posseditore perfetto non meno di tutte quelle morali, civili epolitiche virtù che son utili alla Repubblica, che delle scienze più profonde e della più colta Letteratura; di esaltar le glorie non mai interrotte per secoli del vostro illustre Casato, vero esempio della Nobiltà più cospicua; di rilevar lo splendore che in Voi ridonda dalle Porpore, o secolari del Padre e dell’uno de’ Zii, o ecclesiastiche dell’altro, vero onore non meno del Sacro Cardinalizio Collegio, che della inclita Patria e di tutta la Letteraria Repubblica.Ma io debbo religiosamente ubbidire al preciso comando che fatto mi avete, di tenermi in un rigoroso silenzio su questi punti, allora quando mi avete generosamente accordata la permissione di dedicarvi una delle mie Commedie.Mi sottopongo adunque anche in ciò al vostro volere, con quella stessa rassegnazion rispettosa, colla quale unitamente a questa mia Commedia, intitolata L’UomoPrudente, mi do l’onore di umiliar a V. E. la mia reverentissima persona.

Di Vostra Eccellenza

Umiliss. Devotiss. Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

L’Uomo Prudente che in questa mia edizione fiorentina tiene il luogo di Commedia XXV, era la terza nella edizione di Venezia nel Tomo I. Allora l’accompagnai con una lettera all’Editore; e buon per me che il medesimo l’ha stampata, poiché serve ora per mia giustificazione contro l’esclamazioni di un zelantissimo Autore, il quale da questa Commedia sola mal concetto formando delle opere mie, le ha senza leggerle condannate. Pregoti, Lettor carissimo, di scorrere attentamente questa mia lettera, che ora trascrivo, e rileverai in appresso il motivo del mio rammarico.

Ho letta di volo e ho corretta all’ingrosso la terza (Commedia), che destinata abbiamo alla stampa. Ve la rimando, perché non manchi materia al torchio; e vi prego, circa all’ortografia, facciate che il Correttore supplisca.

Dal principio del Carnovale passato io non ho più veduto rappresentare l’Uomo Prudente, e né tampoco ho avuto tempo di leggerlo; onde, ripassandolo ora alla meglio, mi ha fatto specie, come se cosa nuova e non mia fosse effettivamente. Mi son consolato delle cose che mi paiono buone, ne ho scoperte delle cattive, e ho deciso dentro di me medesimo, che quando ho scritta la presente Commedia, non avevo ancora spogliata affatto la fantasia di tutti i pregiudizi del Teatro corrotto, e che mi compiacevo tuttavia del sorprendente e di una estraordinaria virtù.

In quel tempo fece la sua gran comparsa l’Uomo Prudente, a fronte del cattivo Teatro. Non so se in oggi avrà la stessa fortuna a fronte delle Commedie mie posteriori, le quali hanno in loro più natura, più verità, miglior condotta e stile migliore. Qualunque sia per essere l’evento di un tal confronto, sarà forse male per la Commedia, ma non sarà male per me, s’ella rimarrà indietro per cagione delle altre mie, le quali amo tutte egualmente.

Voi avreste piacer di sapere quali sieno i difetti che ho io scoperti nell’ Uomo Prudente; ma non sono così goffo che dirvelo io voglia, poiché vi potreste far merito palesandolo a qualche Amico, e in poco tempo si divulgherebbe la mia sentenza data da me contro di me medesimo, e aprirei gli occhi io stesso a chi forse gli ha ancora chiusi.

Questa Commedia è stata reputata per buona da gente molto più dotta, molto più dilicata di me; e gli scrupoli miei saranno fors’anco ingiusti, e li averò concepiti forse in grazia d’una nuova maniera di pensare, di cui mi sono coll’andar del tempo invaghito.

La prudenza di Pantalone mi sembra ora un poco troppo eccedente; il fine della Commedia alquanto sorprendente ed estraordinario; ma a fronte delle Commedie che vedevansi due anni sono, questa mia è un zucchero. Chi vorrà criticarla e la porrà in confronto delle altre mie, mi farà sempre onore, ed io sarò stato il primo che averà detto lo stesso, e voi ne sarete sempre legittimo testimonio, pregandovi di conservar questa lettera per autentica di una tal verità.

È uscito in quest’anno alla luce in Roma un libro che ha per titolo: De’ vizj e de’ difetti del moderno Teatro ecc. Ragionamenti VI. L’Autore ha fatto pompa di una diffusissima erudizione, e non può negarsi che egli non sia dotto, elegante e brioso. Circa all’utilità dell’opera io non darò giudizio, riportandomi in ciò al Novellista Fiorentino, il quale dando notizia di cotal libro nella Novella 42 dell’anno 1753, colonna 662, sul fine così ragiona: Non so chi sia l’Autore del libro; ma all’apparenza non è religioso, ed io esorto i miei Fiorentini a non lo leggere.

Parlerò di quello che tocca a me solamente. Nel primo Ragionamento, pag. 59, condanna l’Autor suddetto questa mia Commedia: convien dire ch’egli non abbia letta la lettera all’Editore, poiché trovandola da me medesimo condannata, sarebbesi risparmiata la briga. Dice egli aver di questa sola Commedia mia parlato, perché questa specialmente gli fu lodata da alcuni, come ben regolata e ben condotta: disgrazia sua, e disgrazia mia, che abbiamo dato in persone di cattivo gusto. S’egli avesse avuto la sofferenza di leggere qualche altra Commedia mia, spero che avrebbe di me parlato con più carità e discretezza, e a fronte di tante Città d’Italia, che onorano le Opere mie per la loro onestà, sarebbe egli solo, che di scorrette e pericolose tacciate le avesse.


Personaggi

PANTALONE de’ BISOGNOSI mercante veneziano, uomo prudente;

BEATRICE sua seconda moglie;

OTTAVIO suo figliuolo del primo letto;

ROSAURA sua figliuola del primo letto;

DIANA vedova, amante di Ottavio;

LELIO cavalier servente di Beatrice;

FLORINDO amante di Rosaura;

Il GIUDICE CRIMINALE della città;

ARLECCHINO servo in casa di Pantalone;

BRIGHELLA servo in casa di Pantalone;

COLOMBINA serva in casa di Pantalone;

NOTAIO;

BARGELLO;

Un CUOCO;

Birri;

Quattro bravi.

La Scena si rappresenta in Sorrento, principato del regno di Napoli.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Notte. Camera di Beatrice, con tre tavolini e sedie, candelieri con candele accese, e sei tazze di tè.

Beatrice a sedere al tavolino di mezzo. Lelio a sedere accanto di lei. Diana a sedere al tavolino a parte sinistra. Ottavio a sedere presso di lei. Rosaura a sedere al tavolino a parte dritta. Florindo accanto di lei. Tutti bevendo il tè.

BEAT. Signor Lelio, sentite com’è grazioso questo tè.

LEL. Non può essere che grazioso ciò che viene dispensato da una mano, ch’è tutta grazia.

BEAT. Voi sempre mi mortificate con espressioni di troppa bontà.

LEL. Il vostro merito eccede qualunque lode. Poh! che peccato! Un vecchio di sessant’anni ha da possedere tanta bellezza nel core degli anni suoi!

BEAT. Ah! non mi ritoccate sì crudelmente le piaghe.

LEL. Il signor Pantalone non meritava una seconda moglie sì vaga e sì graziosa.

BEAT. Quietatevi, vi dico, e bevete il tè, prima che si freddi. (intanto gli altri quattro parlano piano fra di loro)

OTT. Ah! signora Diana, voi mi mortificate a ragione. Sarebbe ormai tempo ch’io vi mantenessi la parola che già vi diedi, e vi rendessi mia sposa; ma mio padre non vuole in verun conto acconsentire ad un tal matrimonio.

DIA. Ma qual è la ragione, per cui il signor Pantalone si oppone alle nostre nozze?

OTT. Io credo che sia l’interesse. Mi disse, giorni sono, che aveva per me un partito di una figlia d’un buon mercante con sessanta mila ducati di dote; e voi, benché siate nata gentildonna e siate stata moglie di un colonnello, non vi considera, perché non avete una ricca dote.

DIA. Ma voi che pensate di fare?

OTT. Sposarvi a dispetto di mio padre, anche quando dovessi rovinare la casa. La signora Beatrice mia matrigna è già dalla mia, e contribuirà molto a nostro vantaggio.

DIA. Amica, il signor Ottavio mi consola; dice che voi sarete per noi. È egli vero? (a Beatrice)

BEAT. Certo, è giustizia.

FLOR. Ma, signora Rosaura, almeno un’occhiata benigna per carità.

ROS. Siete curioso! Fra tanta gente io mi vergogno.

FLOR. Possiamo andar a passeggiare nel corridore.

ROS. Certo, da solo a sola! Bella cosa, signorino!

FLOR. Ma non vi è a grado né sola, né in compagnia: come abbiamo dunque da contenerci?

ROS. Questo tè non mi piace niente. Mangerei più volentieri una zuppa nel latte.

FLOR. A proposito! Ma, cara Rosaura, non mi volete voi bene?

ROS. Uh! zitto, che non vi sentano.

BEAT. Signor Florindo, che fate là con quella scimunita? Siete bene di cattivo gusto.

ROS. (La signora sputa sentenze). (da sé)

FLOR. Io ho tutto il mio piacere, quando sono presso la signora Rosaura.

BEAT. Eh, che un giovane della vostra qualità non deve perdere il tempo così inutilmente. Non vedete che figura ridicola? Merita ella le vostre attenzioni? Venite qui, venite qui, che starete più allegro.

ROS. (La signora Beatrice mi è veramente matrigna; non mi può vedere). (da sé)

FLOR. Ma signora, voi siete bene accompagnata. (a Beatrice)

BEAT. Eh, venite, che faremo la conversazione in terzo.

LEL. Sì sì, amico, venite anche voi a godere dell’amabile compagnia della signora Beatrice.

FLOR. Ma io...

BEAT. Ma voi, padron mio, vi abusate della mia sofferenza.

FLOR. Perdonate, sono da voi. (Rosaura, per non disgustarla, conviene ch’io vada. Vogliatemi bene). (piano a Rosaura, e va vicino a Beatrice)

ROS. (Pazienza! Non mi lascia avere un momento di pace! Povera madre mia, dove sei? Tanto bene che mi voleva! Tante carezze che mi faceva! Ed ora ho da essere strapazzata dalla matrigna? Pazienza! Pazienza! Lo voglio dire a mio padre). (da sé, piangendo)

BEAT. Guardate la vostra innamorata; piange come un bambolo. Che ti venga la rabbia! Se fosse mia figlia vera, la bastonerei come un cane.

ROS. Manco male che non lo sono...

BEAT. Zitto là, pettegola.

ROS. (Uh povera me, la gran bestiaccia!) (da sé)

OTT. Ho inteso tutto. Non dubitate, che sarete servita. Le cento doppie, che avete di debito, le pagherò io. Le gioje già sono ordinate, e i due tagli d’abito domani li avrete a casa. (a Diana)

DIA. Ma non vorrei che vostro padre...

OTT. Che mio padre? Che mio padre? Sono padrone io al par di lui. La roba l’ha fatta mio avolo, e posso anch’io prevalermene ne’ miei bisogni.

SCENA SECONDA

Brighella e detti.

BRIGH. Con licenza de sti do zentilomeni, averia bisogno de dir una parola alla padrona.

BEAT. Questo è il corvo delle male nuove. Di’ su, che vuoi?

FLOR. (S’alza) Venite, galantuomo; parlate con libertà. (intanto s’accosta vicino a Rosaura)

BRIGH. La sappia che in sto ponto è arrivà el patron dalla campagna, onde non ho mancà d’avvisarla, acciò la se regola con prudenza. (a Beatrice, piano)

BEAT. Oh sì, ti darò la mancia per così bella nuova! Che importa a me che sia venuto mio marito? E tu, che cosa vuoi dire con questa prudenza che mi suggerisci?

BRIGH. Digo mo... la me perdona... se no ghe paresse proprio de farse trovar in conversazion... la me scusa, védela.

BEAT. Va via di qua, petulante, temerario che sei. Non ho bisogno dei tuoi consigli, e non mi prendo soggezione di un vecchio pazzo.

BRIGH. Me piase, la lodo, la fa ben, la par bon. (ironicamente)

BEAT. Signor Florindo, favorisca; venga al suo posto.

FLOR. Eccomi, per obbedirvi.

LEL. Voi avete uno spirito superiore. Siete degna di governare un impero, non che una casa. Beato il mondo, se tutte le donne fossero del vostro temperamento!

BRIGH. Sior Ottavio. (s’accosta al tavolino di Ottavio, e parla a lui sottovoce)

OTT. Che vuoi? che c’è?

BRIGH. L’è vegnù so sior padre.

OTT. E per questo? Che importa a me?

BRIGH. Sel la trova qua colla siora Diana, no so come el la intenderà.

OTT. L’intenda come vuole. Se non voleva vedere, doveva stare in campagna.

BRIGH. Cussì la va dita, e viva el bon stomego. (va bel bello vicino a Rosaura, e le parla sottovoce) Siora Rosaura, l’avviso anca ella, e po la fazza quel che la vol: è vegnù so sior padre...

ROS. Mio padre! (s’alza) Oh me meschina! non voglio che mi vegga in conversazione cogli uomini. (parte)

BRIGH. (Questa veramente l’è una putta de giudizio! Almanco la mostra de aver un poco de suggizion e de rispetto per so padre). (da sé)

BEAT. Guardate quella sciocca. È fuggita al nome di suo padre, come se avesse sentito nominare il diavolo.

LEL. Eccolo che viene. Dobbiamo partire?

BEAT. Mi maraviglio di voi.

FLOR. Eh, sarà meglio ch’io vada.

BEAT. Restate, vi dico.

DIA. Signor Ottavio, non vorrei che nascesse qualche sconcerto.

OTT. Non vi movete, non vi movete.

BRIGH. (Figureve in che smanie che darà quel povero vecchio, a veder la so casa deventada corte bandia([1]).) (da sé)

SCENA TERZA

Pantalone vestito da campagna, e detti.

PANT. (Si ferma un poco sulla porta a osservare, poi con disinvoltura s’avanza) Oh! patroni reveriti! Oh che bella conversazion! Sior Lelio, sior Florindo, servitor umilissimo. (Lelio e Florindo si vogliono alzare, e Beatrice li trattiene)

BEAT. Non vi movete.

LEL. Perdoni, se prevalendomi della sua gentilezza, venni in di lei assenza a godere di quelle grazie, che dispensa generosamente la di lei casa. (a Pantalone)

PANT. Patron, me maravegio, no ghe xe bisogno de ste dichiarazion.

FLOR. Io con rossore mi trovo a incomodare la signora Beatrice. (a Pantalone)

PANT. Anzi ella fa sempre grazia.

LEL. È compito il signor Pantalone. (a Beatrice)

BEAT. (Eh, non lo conoscete quel vecchio furbo!) (piano a Lelio)

PANT. Oh, siora Diana, anca ella la xe qua? Anca ella la se degna de onorar la mia casa?

DIA. La bontà della signora Beatrice mi ha dato coraggio di venirle a far una visita.

PANT. Beatrice fa el so debito, distinguendo el merito de siora Diana; e mio fio fa ben a impiegar le so attenzion per una zentildonna cussì garbata. (Ah cagadonao([2])!) (da sé)

DIA. (Sentite con che dolce maniera ci tratta!) (a Ottavio, piano)

OTT. (Oh se sapeste quant’è gatto! Non me ne fido punto). (piano a Diana)

PANT. Siora mugier([3]), cussì sussiegata? Gnanca un strazzo de ben vegnuo([4]) al povero Pantalon? Cossa v’ogio fatto? Savè pur che sè le mie care raìse([5]), che ve vogio tanto ben! (Ma ben, ma ben!) (da sé)

BEAT. Oh oh, quante cerimonie. Chi mi accarezza più di quel che suole, o mi ha gabbato, o che gabbar mi vuole. Fareste meglio ad andarvi a spogliare e andarvene a letto, che sarete stracco.

PANT. Cara fia([6]), vedo che me volè ben anca vu, se ve preme la mia salute. Vegnì qua, tocchemose la man. (s’accosta)

BEAT. Eh via, andate, che questi signori vi dispensano.

LEL. Oh sì, vada pure a suo comodo. (a Pantalone)

FLOR. Per amor del cielo, non stia in disagio per noi. (a Pantalone)

PANT. Donca, per obbedir, no mai per mancanza de respetto, me senterò su sta carega([7]), e goderò anca mi della so conversazion. (siede dove prima era seduta Rosaura)

BEAT. (Che ti venga la rabbia! Credevo che se n’andasse, e si mette a sedere). (da sé)

OTT. (Anche questo ci voleva). (da sé)

PANT. Ma ste do tazze de tè per chi ale servìo? Chi ghe giera su ste careghe?

BEAT. Chi c’era? C’era la vostra signora figliuola, in conversazione sfacciatamente cogli altri, coll’amante vicino, e quando vi ha sentito venire, la modestina se n’è fuggita.

PANT. Via via, fia mia, no pensè mal de quella povera putta([8]). Cognosso la so innocenza, e no la xe capace de certe cosse.

BEAT. Cospetto! Mi fareste dire... Ecco, tutte le mie azioni sono criticate, e colei può metter sottosopra la casa, che fa tutto bene. Si vede la vostra troppa parzialità; ma questa sarà la rovina di casa vostra.

PANT. Gh’avè rason([9]), disè ben; ghe remediaremo. La metterò fora de casa.

BEAT. Oh assolutamente, o lei, o io.

PANT. E cussì, siora Diana, come se la passela? Stala ben? Brighella, fame dar el tè. (Brighella parte) Quando se tornela a far novizza([10])? (a Diana)

DIA. Eh, signore, io sono una povera vedova; non trovo chi mi voglia.

PANT. Se no la xe ricca de bezzi, la xe ricca de nobiltà e de bellezza. Manca partii, che la gh’averà. Ma cossa gh’astu, Ottavio, che ti me par inmusonà([11])? Gh’astu mal? Gh’astu bisogno de bezzi? Xestu innamorà?

OTT. (Chi non lo conoscesse, eh!) (da sé)

PANT. No ti respondi? Ho inteso. La diga, siora Diana, cossa gh’alo mio fio?

DIA. Che volete ch’io sappia de’ fatti suoi?

PANT.

«Intesi a dir che bella donna accorta

Sola è dell’uomo consigliera e scorta.»

LEL. Anco poeta il signor Pantalone?

PANT. Un poco de tutto, e gnente de ben. Vogio, se le se contenta, recitarghe certe ottave in lode del buon gusto del dì d’ancuo.

BEAT. (Egli sta qui per farci rabbia. Io non ne posso più). (piano a Lelio e a Florindo)

LEL. (Partirò, se v’aggrada). (a Beatrice)

BEAT. (Sarà meglio). (s’alzano)

FLOR. (Pantalone è un geloso di buonissima grazia). (da sé)

PANT. Come? Cussì presto le me priva de le so grazie?

LEL. In altro tempo sentirò con piacere le vostre ottave: ora, se mi date licenza, debbo partire.

PANT. Patrona de comodarse come che la vol, de star, de andar e de tornar (e de andarse a far ziradonar). (da sé) Anca ella, sior Florindo?

FLOR. Se ve ne contentate. (Diana e Ottavio s’alzano)

PANT. Anca siora Diana va via? No la vol restar a cena con mi?

DIA. Obbligatissima alle sue grazie.

PANT. Gh’ala la carrozza?

DIA. No signore, sono a piedi.

PANT. E la vol andar via cussì sola col servitor? Vorla che la serva mi?

DIA. Oh, non permetterei mai tal cosa.

PANT. Oh via donca, la servirà sti zentilomeni.

OTT. La signora Diana non ha bisogno di nessuno, poiché la voglio servir io. (con serietà caricata)

PANT. Oh, sì ben, disè ben. No gh’aveva pensà. (Oh che fio([12])!) Andè, ma tornè presto, che avanti che vaga in letto, v’ho da parlar. (ad Ottavio)

OTT. Quello che mi volete dire stassera, me lo direte domani.

PANT. No ve basta compagnar siora Diana alla casa? La compagneu anca alla camera? Feu da braccier e da cameriera? No la se n’abbia per mal, che digo per rider.

DIA. (Che vecchietto gioviale!) (piano ad Ottavio)

OTT. (Che vecchio malizioso, volete dire). (piano a Diana)

LEL. Orsù, signor Pantalone, a buon riverirla.

PANT. Presto, luse, torzo([13]). Brighella, Arlecchin, Colombina.

SCENA QUARTA

Brighella con torcia accesa, poi Arlecchino e Colombina, e detti.

PANT. E sti altri dove xeli? Arlecchin, digo, Colombina; xeli in letto costori?

BEAT. Non sono a letto, no, ora verranno. Arlecchino, Colombina. (li chiama)

COL. Cosa comanda?

ARL. Son qua, siora padrona, son qua.

BEAT. Andate a prender dei lumi, per servire questi signori.

COL. Subito la servo. (parte)

ARL. Vado a rotta de collo. (parte)

PANT. (Mi([14]) chiamo, e no i vien; ella chiama, i vien. Mi comando, e lori gnente; ella comanda, se fa tutto. Ho inteso, basta cussì). (da sé)

COL. Eccomi col lume. (torna con candela accesa)

ARL. Son qua col torzo. (torna con una torcia)

LEL. Signori, felicissima notte. (parte, servito da Brighella)

FLOR. Scusino l’incomodo. (parte, servito da Arlecchino)

DIA. Signora Beatrice, vi son serva; serva, signor Pantalone.

PANT. La reverisso, patrona, la reverisso.

BEAT. Voglio accompagnarvi.

DIA. Non v’incomodate.

BEAT. Permettetemi.

DIA. In casa vostra siete padrona. (parte, servita di braccio da Ottavio, accompagnata da Beatrice, con Colombina che precede col lume)

SCENA QUINTA

Pantalone solo.

PANT. La mugier in mezzo de do amazzai([15]); la comanda, la fa e la desfa, e mi no gh’intro per gnente. El fio mena in casa la machina([16]) e el la vol a so modo. La fia anca ella se va desmestegando([17]), e scomenza a piaserghe l’odor del sesso mascolin. I servitori no i me obedisse, e no i me stima un figo: stago veramente ben, che no posso star megio. Cossa me giova aver dei bezzi e della roba, e esser un dei primi marcanti, accredità per tutta l’Europa, se in casa no gh’ho la mia quiete, ma più tosto me trovo circondà da tanti nemici, quanti xe quelli che magna el mio pan! Ma gnente: testa, giudizio e pazienza. Col tempo spero de superar tutte ste avversità, e far cognosser al mondo che la prudenza de l’omo supera ogni contraria fortuna.

SCENA SESTA

Brighella e detto.

BRIGH. (Vien lento lento, senza parlare, maravigliandosi)

PANT. Coss’è, cossa gh’astu? Perché xestu cussì incocalio([18])? Cossa xe stà? Parla, gòmita, buta fuora.

BRIGH. Che la siora Beatrice se devertissa in mezzo a do cicisbei, no me stupisso, perché l’è l’ultima moda; che el sior Ottavio conduga i contrabandi in casa, no me fazzo maravegia, perché l’è el solito dei fioi de famegia, quando che i pol; ma me stupisso, me maravegio, me strassecolo e me disumano, vedendo el sior Pantalon, che con tanta pausa, con tanta indifferenza e quiete d’animo, sopporta sui so occhi le insolenze de una mugier arrogante e de un fio desobbediente, e el permette che in casa soa se tira stoccae a tutt’andar a quell’onor, che con tanto zelo e premura l’ha procurà fin adesso de defender col scudo della più delicata prudenza.

PANT. Caro Brighella, servitor fedel, e squasi fio([19]) per el ben che te vogio, perché fin da piccolo t’ho arlevà in casa mia, me piase el caldo che ti te senti per el mio onor; lodo el to zelo, e stimo la libertà co la qual ti me parli: con tutto questo però lassa che te diga, che siccome ti xe nassuo([20]) un omo ordenario, no ti xe capace de altro che de pensieri ordenari. Credistu Pantalon tanto orbo, che nol veda e nol cognossa? o lo credistu d’anemo tanto vil, che nol gh’abbia coraggio de far vendetta? Ti me cognossi pur. Ti sa pur chi son, e se so menar le man co bisogna, e se gh’ho stomego de cimentarme, siben che son vecchio. Ma, caro Brighella, l’onor xe una marcanzia cussì delicata, che chi troppo la maniza, la insporca. Se avesse scomenzà a rimproverar la mugier e strapazzar el fio; se avesse scazzà de casa quei canapioli([21]), se avesse dà i so titoli a quella sporca de Diana, in casa mia nasseva una revoluzion, un strepito, un fracasso tal, che tutta la vicinanza se saria sollevada, e la reputazion de casa Bisognosi andava in bordelo. Quei do zerbinotti, zirando per la città e contando l’istoria a so modo, i m’averave menà per bocca. Tutto el paese averave dito: in casa de Pantalon xe nassuo questo e questo per el poco giudizio del fio, per la poca reputazion della mugier; e Pantalon sui véntoli([22]), e Pantalon fatto materia ridicola delle conversazion. Dise el proverbio: no te metter in testa quello che ti gh’ha sotto i piè. Quel che xe nato in casa mia, fin adesso nissun lo sa; e no vogio esser mi quello che lo vaga a publicar. Ho remedià con politica; me son contegnù con prudenza, e darò sesto([23]) a tutto col tempo. Brighella, el finzer a tempo, el dissimular quando giova, xe la vera virtù dell’omo savio e prudente. Ti pensa a servirme con fedeltà, che in quanto a mi gh’ho spirito, gh’ho cuor, gh’ho giudizio da defender el mio onor al par de chi se sia. (parte)

SCENA SETTIMA

Brighella solo.

BRIGH. Resto de sasso. Un omo de sta sorte l’è un prodigio del mondo. Conosso adesso la mia temerità, per la qual me lusingava de esser un omo de garbo, e vedo che son un coccal; e dirò quel che ho sentio dir tante volte:

«L’omo senza prudenza tanto val,

Quanto val la manestra senza sal.» (parte)

SCENA OTTAVA

Segue notte.

Camera di Beatrice con tavolino e lumi.

Beatrice e Colombina

COL. Così è; sì, signora, l’ho sentita co’ miei propri orecchi quella pettegola di vostra figliastra a dir male di voi. Ne ha dette tante a vostro marito, ne ha dette tante! Cantava come un rosignuolo di maggio. Gli ha riportate tutte le parole che avete dette contro di lui, ed oltre al vero ha aggiunto ancora molto del suo. Se l’aveste veduta, come vi burlava bene. Contraffaceva tutti i vostri gesti, tutte le vostre maniere, la vostra voce, e si torceva di qua, e si voltava di là. Mi veniva voglia di pigliarla per quei capelli mal pettinati, e su quel viso patetico darle una dozzina di schiaffi spiritosi.

BEAT. Basta, basta, Colombina, non ne posso più. Sento che la rabbia mi rode, la collera mi divora. Voglio che costei me la paghi; voglio a tutto costo metterla in disgrazia di quel babbeo di suo padre. L’invenzione che abbiamo trovata per farla credere di mal costume più che non è, sarà ottima ed opportuna, e spero che riuscirà, come abbiamo fra di noi concertato. Chiamami Arlecchino. Facciamo ch’egli vada subito a ritrovar il signor Lelio ed il signor Florindo, e con bel modo facciamoli venire questa notte qui in casa. Tu eseguirai quanto abbiamo stabilito, e se la cosa riesce secondo il disegno, mi leverò dinanzi agli occhi questa impertinente che mi perseguita.

COL. E pure è vero bisogna guardarsi da’ nasi dritti e da’ colli torti. Ora chiamo Arlecchino. (parte)

SCENA NONA

Beatrice sola.

BEATR. In casa mia voggio poter fare quello che voglio. Ho preso un vecchio per questo, che per altro non mi sarebbe mancato un giovinotto di buona grazia. Benché sia nata povera e ordinaria, avevo più amanti io sola, che tutte insieme le ragazze del vicinato.

SCENA DECIMA

Colombina, Arlecchino e detta

BEAT. Senti, Arlecchino, tu devi andare verso il casino de’ nobili, dove sogliono trovarsi il signor Lelio e il signor Florindo; li hai da condurre in disparte ambedue, ed hai a dir loro che dopo le quattro si portino a questa casa, che la porta ne sarà socchiusa. Ma bada bene, e apri ben l’orecchio, e non far delle tue. Questa ambasciata la devi lor fare separatamente. Al signor Lelio dirai che l’invito è mio, e che io l’aspetto per andare con esso lui a prendere il fresco. Al signor Florindo dirai poi che l’invita la signora Rosaura, per discorrer seco con libertà de’ suoi amori.

ARL. (Si va torcendo, dinotando la confusione che gli recano tante parole)

BEAT. Hai capito? Eseguirai puntualmente?

ARL. (Dice di sì)

BEAT. Via. Come dirai? (Qui Arlecchino imbroglia tutto il discorso; confonde i quattro nomi di Lelio, Florindo, Beatrice e Rosaura. Ella gli va qualche cosa replicando, ed egli si va ora rimettendo, ora confondendo. Finalmente mostra di aver ben capito, e parte)

SCENA UNDICESIMA

Beatrice e Colombina, poi Pantalone

COL. Arlecchino non si può negar che non sia sciocco, ma poi è altrettanto grazioso.

BEAT. Mi serve con fedeltà, e perciò lo sopporto.

PANT. (Vol piover, la volpe se consegia([24]). Ma troverò mi el modo de far andar via sta siora camariera. Proverò con una invenzion de mandarla in campagna; e se no servirà, la scazzerò co le brutte). (da sé)

COL. Ecco quel vecchio tisico di vostro marito. (piano a Beatrice)

BEAT. Non crepa mai quest’anticaglia. (piano a Colombina)

PANT. Possio vegnir? Desturbio qualche negozio d’importanza?

BEAT. Mi disturbate certo; appunto adesso volevo andarmene a letto.

PANT. Senza cena?

BEAT. Senza cena. Mi duole il capo.

PANT. No saveu che chi va a letto senza cena, tutta la notte se remena([25])? E col remenarve scoverzirè el povero Pantalon, e lu gramo vecchio se sfredirà([26]). (ridendo)

BEAT. Eh, il gramo vecchio non si sfreddirà, poiché voglio dormir sola.

PANT. Fe ben: megio soli che mal compagnai([27]). No m’importa, gh’ho gusto che stè ben; e co sè contenta vu, son contento anca mi.

COL. L’ho sempre detto che il signor Pantalone è un uomo di garbo.

PANT. Madonna Colombina, gh’ho una cattiva niova da darve. La gastalda([28]) vostra siora mare([29]), con reverenza parlando([30]), sta mal, e tanto mal che fursi no l’arriverà a doman de sera.

COL. Povera vecchia! Si vedeva che voleva campar poco.

PANT. No ve despiase che la mora?

COL. Mi dispiace, ma abbiamo da morir tutti.

PANT. Domattina col mio calesso anderè a trovarla, perché la desidera, avanti de morir, de darve un abbrazzo.

BEAT. No veh, Colombina, non andare.

PANT. La sarave bella che la fia negasse alla mare sta consolazion!

COL. Eh, considero che anzi le sarebbe di maggior dolore. È meglio ch’io non vada.

PANT. Basta, se no ti vol andar, lassa star. Ma to sorella Lisetta sta co tanto de occhi a aspettar che la muora, per portar via i bezzi e tutta la roba de casa. (Proverò st’altro sconzuro). (da sé)

COL. N’ha molta della roba mia madre?

PANT. Cancaro! la gh’averà i so do o tre mile ducati al so comando.

COL. Uh povera madre mia! E deve morire? (mostra di piangere)

PANT. No ghe xe più remedio.

COL. E mia sorella Lisetta porterà via tutto?

PANT. Infallibilmente.

COL. Uh povera madre mia! che dolore proverebbe, se non mi vedesse! Oh, voglio andarla a ritrovare senz’altro.

PANT. (La medesina ha fatto operazion). (da sé)

BEAT. E mi vuoi lasciare qui sola?

COL. Ma, signora padrona, si tratta della madre. Io le voglio tutto il mio bene; la natura deve fare il suo effetto. Non voglio che si dica che l’ho lasciata morire senza vederla. Oh poverina! oh povera madre mia! (piange)

PANT. (Vardè cossa che xe le donne, vardè!) (da sé)

BEAT. (Basta, se vuoi andare, non mi oppongo, ma ricordati quel che t’ho detto circa Lelio e Florindo con Rosaura). (piano a Colombina)

COL. (Eh, signora sì; questo si farà stassera, ed io partirò domani). Canchero, due mila ducati! Oh cara la mia mamma! Lisetta vuol tutto? Vengo, vengo mamma mia, vengo. (parte)

SCENA DODICESIMA

Beatrice e Pantalone

PANT. Siora mugier carissima, za che semo qua soli e che nissun ne sente, avanti che andè a dormir, vorave, se ve contentè, dirve quattro parole.

BEAT. Dite pure. E chi vi tiene che non parliate?

PANT. Vegnì qua; sentemose un puoco, e parlemo d’amor e d’accordo.

BEAT. Oh, io non sono stanca. Potete parlar in piedi.

PANT. No no, vogio che se sentemo; e a ciò no ve incomodè, tirerò mi le careghe([31]). Via, sentève, fia mia, e no me fe andar in collera. (porta le sedie, e siede)

BEAT. (Io non so di che umore sia la bestia; convien secondarlo). (da sé) Eccomi. Siete contento? (siede)

PANT. Sì ben; cussì me piase; obbedienza e rassegnazion. Abbiè pazienza, se ve sarò un pochetto fastidioso, e respondeme a ton([32]).

BEAT. Dite pure, ch’io v’ascolto. (M’aspetto una gran seccatura). (da sé)

PANT. Quanti anni xe che sè mia mugier?

BEAT. Saranno ormai tre anni.

PANT. Donca ve recorderè quel che gieri, avanti che ve sposasse.

BEAT. Me ne ricordo al certo. Ero una povera giovane, ma dabbene e onorata. Che vorreste dire per ciò?

PANT. Dota no me n’avè dà.

BEAT. Vi siete contentato così.

PANT. Nobiltà in casa no me n’avè portà.

BEAT. Son figlia di gente onorata, e tanto basta.

PANT. Ve recordeu quali xe stai i nostri patti, quando v’ho tiolto([33])?

BEAT. Oh, troppe cose mi avete dette; io di tutte non me ne ricordo.

PANT. Oh ben, se no ve le recordè, ve le tornerò a metter in memoria. Me par anca a mi che ve le siè desmentegae, e per questo sta sera torneremo a far la lizion. Savè che mi no m’ho maridà né per vogia de mugier, né perché fusse innamorà delle vostre bellezze. Son restà veduo con una fia alquanto semplizota, e poco bona per governar una casa: mio fio l’ho sempre visto inclinà piuttosto a desfar che a far, e innamorà delle frasche e delle spuzzette; onde per tirar avanti la casa, aver un poco de governo e tegnir in dover la servitù, son stà obbligà a maridarme. Non ho cercà dota, perché no ghe n’ho bisogno. Non ho cercà nobiltà, perché no vôi suggezion; ho procurà de aver una putta de casa, savia e modesta e povereta, perché, cognossendo da mi la so fortuna, tanto più la fusse obbligada a respettarme, obbedirme e volerme ben. M’ha parso che vu fussi giusto a proposito per el mio bisogno. Savevi cussì ben far, e tanto me parevi bona e savia, che m’ha parso de toccar el ciel col deo([34]), quando che v’ho sposà. Savè che v’ho dito allora, che in casa mia no ve saria mancà gnente, e credo che no ve possiè lamentar; ma savè anca che v’ho dito che in casa mia no vogio conversazion; che no vogio visite, che no vogio amicizie de zoventù. M’avè promesso de farlo, l’avè zurà; v’ho credesto; ma adesso vedo tutto el contrario. Casa mia xe deventada un redutto([35]), la mia porta xe sempre spalancada; chi va e chi vien. Circa alle mode, sè deventada la piavola de Franza([36]); se spende alla generosa; se tratta alla granda; e quel ch’è pezo, el mario nol se considera un figo, se ghe perde el respetto, nol se obedisse, e el se reduse a ste do estreme necessità: o de soffrir con rossor el vostro contegno, o de precipitar la famegia per remediarghe. Considerè se cussì se pol durar. Vardè vu, se sta vita la posso far. Beatrice, ho parlà, tocca adesso a risponder a vu.

BEAT. Vi risponderò in poche parole, che circa al rispettarvi non ho preteso di perdervi il rispetto, ma vi ho sempre considerato per quello che siete. In quanto al vestire, se non vi piace così, porterò quello che mi farete, anderò vestita come volete; ma in quanto poi alla conversazione, non credo che pretendiate ch’io abbia a intisichire.

PANT. No vogio che deventè tisica, ma ghe xe altro modo de conversar. Se pratica delle amighe; se va con elle alla commedia; qualche volta anca a qualche festin. Se zioga, se cena, se sta allegramente, con zente da par soo, tutti marii e mugier; ma voler praticar sti cagazibetto, sti cascamorti, sti sporchi, che va per le piazze e per le botteghe a vantarse de quel che xe e de quel che no xe; star le ore co le ore s’una carega sentai, senza far gnente, e solamente parlar in recchia, sospirar e voltar i occhi come spiritai, Beatrice cara, no sta ben, no par bon, no se puol, no se deve e no vogio.

BEAT. Dunque, per quel ch’io sento, voi siete geloso.

PANT. No, fia mia, no son zeloso. No ve fazzo sto torto de crederve capace de mal. Zelosia vol dir sospetto, e chi sospetta, xe degno d’esser tradio. Parlo per quel che vedo; digo per quel che sento. El mondo xe composto più de zente cattiva, che de zente bona. Facilmente se crede più el mal, che el ben. Chi sa el vostro contegno, no crederà che siè quella donna onorata che sè. Quella zente che pratichè, gh’ha poco bon nome, e dise el proverbio: Vustu saver chi l’è? varda chi el pratica. Onde adesso no ve parlo da mario, ve parlo da pare; lassè ste amicizie, muè([37]) conversazion; tegnì un altro stil, che sarà megio per vu.

BEAT. Io vi voglio parlare con libertà, né vi voglio adulare. Tutto farò, ma lasciar le mie conversazioni è impossibile.

PANT. Lassar le vostre conversazion xe impussibile? Adesso no ve parlo più da pare! ma da mario. Beatrice, o pensè a muar vita, o parecchieve a muar aria. (s’alza) Se ve abusè della libertà, saverò el modo de metterve in suggizion. V’ho fatto patrona della mia casa, delle mie sostanze, del mio cuor, ma no del mio onor; e no sarà mai vero, che vogia sopportar che una donna matta se metta sotto i piè la reputazion de casa Bisognosi. O ressolveve de far a modo mio, o ve farò morir serada tra quattro muri. (parte)

BEAT. Ah, giuro al cielo! Io serrata fra quattro mura? Io lasciar le conversazioni? Io dipendere dai capricci d’un vecchio pazzo? No, non sarà mai vero; e se tu mediti di farmi morire fra quattro mura, può essere che prima a me riesca di farti morire per le mie mani. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Segue notte.

Camera con due porte in prospetto, con portiera, ed una sedia avanti.

Colombina, conducendo per mano Florindo, all’oscuro.

FLOR. Dunque mi assicuri che Arlecchino non ha errato?

COL. Ha fatto l’ambasciata puntualmente.

FLOR. Ed è la signora Rosaura che m’invita seco in questa notte?

COL. Sì signore, per l’appunto.

FLOR. Ma da me che vuole?

COL. Oh, lo saprete da lei.

FLOR. E la signora Beatrice che dirà?

COL. Essa non ne sa nulla; che se lo risapesse, guai a me!

FLOR. Non vorrei che nascesse qualche scandalo.

COL. Venite meco, e non dubitate.

FLOR. Ma tu mi porrai in qualche precipizio.

COL. Eh, per l’appunto. Qui a momenti verrà la signora Rosaura: ma avvertite di non iscoprirvi così subito, lasciate prima che vada a letto suo padre. Quando sarà tempo, v’avviserò io.

FLOR. Ma dove devo nascondermi?

COL. Qui, dietro questa portiera. (lo conduce ad una delle due porte)

FLOR. Per amor del cielo, non mi tradire.

COL. Uh, siete pur pusillanimo! Gli amanti devono essere coraggiosi nelle avventure amorose. Sento gente, nascondetevi qui.

FLOR. Amore, assistimi nell’impegno in cui sono. (si nasconde sotto la porta)

COL. Oh, vuol essere bella! Sinora l’affare va bene: attendiamo il resto. Ma dimattina voglio andar da mia madre: canchero, due mila scudi! Mia sorella non me la ficca.

SCENA QUATTORDICESIMA

Rosaura col lume e smoccolatoio, e detti.

ROS. Colombina.

COL. Signora.

ROS. Questa sera non si cena?

COL. Oh sì, altro che cenare! Vostro padre ha gridato con la moglie; stassera non si cena.

ROS. Se egli ha gridato, non ho gridato io. Mi sento fame, e voglio mangiare.

COL. Eppure non dovreste aver fame.

ROS. Perché?

COL. Perché siete innamorata.

ROS. Quanto a questo poi, l’amore non mi leva punto l’appetito.

COL. Ma se vedeste il vostro signor Florindo, lasciereste qualunque lauta mensa?

ROS. Oh, questo poi no; faccio più conto di una vivanda che mi piace, di quanti Florindi vi sono. (Florindo fa de’ moti d’ammirare)

COL. Ma gli volete poi bene al signor Florindo?

ROS. Orsù, non mi rompere il capo con simili discorsi. Vammi a pigliare qualche cosa da cena; che io qui sedendo ti aspetto. (siede)

COL. Ora vado a servirvi. (vuol smoccolare il lume, e lo spegne) Oh diamine! mi si è spento. Aspettate che vado a riaccenderlo.

ROS. Fa presto, che ho paura a stare al buio.

COL. Vengo subito. (Povera bambina!) (da sé)

(Parte, lascia il lume in terra spento)

ROS. Guardate che sguaiata! Lasciarmi qui all’oscuro; a pericolo ch’io vegga qualche fantasma. Oimè! solo a pensarlo mi sento venir freddo. Parmi sentir non so che. Oh povera me! che sarà mai?

SCENA QUINDICESIMA

Colombina, tenendo per mano Lelio all’oscuro, e detti.

LEL. Dubitavo che quello sciocco d’Arlecchino avesse equivocato.

COL. No no, ha detto bene. La signora Beatrice appunto v’aspettava. Trattenetevi in questa camera alcun poco, finché il vecchio va a letto, e or ora verrà. (sottovoce)

LEL. Ma qui dove sono?

COL. State zitto e aspettate. (Ora la quaglia è nella rete, convien scoprirla). (da sé, e parte)

LEL. Io mi trovo nel bell’imbarazzo. Queste donne mi vogliono precipitare.

ROS. Eppure parmi di sentir gente. Io tremo da capo a piedi.

LEL. E quanto dura questa faccenda?

ROS. E Colombina non viene.

LEL. Vedo venir un lume. Sarà la signora Beatrice.

ROS. Questa sarà Colombina.

LEL. Oimè, Pantalone! Dove m’ascondo?

(Corre per trovar luogo da celarsi, urta nella sedia dove sta Rosaura, e casca addosso la medesima)

ROS. Aiuto, misericordia.

SCENA SEDICESIMA

Pantalone con lume, e detti.

PANT. Eh, che non lo posso creder... Olà([38])! coss’è sto negozio? (vede Lelio vicino a Rosaura; Lelio s’alza e gli fa una riverenza) Servitor devotissimo. Brava, siora fia, pulito. Con tutta la vostra modestia, lo gh’avevi in traversa([39]) l’amigo.

ROS. Ma io, signor padre, non ne so nulla.

PANT. Non ne so nulla? Oh che mozzina monzua! E vu, sior Lelio, adesso ho capio. Finzevi de vegnir per Pasquin, e vegnivi per Marforio.

LEL. Signore, quest’è un accidente impensato.

PANT. Lo so anca mi che no aspettavi d’esser scoverto. Orsù, qua no gh’è tempo da perder. I rimproveri sarave inutili, el mal xe fatto. Bisogna pensar al remedio. Deve la man, sposeve, e in sta maniera tutte le cose le anderà a so segno.

LEL. Oh, signore, perdonatemi...

PANT. Coss’è sto perdonatemi? Me maravegio dei fatti vostri; o sposè mia fia, o co sto cortello ve scannerò co fa un porco. (mette mano)

LEL. (Sono nel bell’impegno). (da sé)

PANT. Animo, Rosaura, daghe la man.

ROS. Oh, io non lo voglio assolutamente.

PANT. No ti lo vuol? Ah, desgraziada, no ti lo vuol, e ti gieri de notte abbrazzada con ello? Presto, no perdemo più tempo; o reparè el mio onor colle vostre nozze, o lavarò le macchie col vostro sangue.

LEL. (Fingerò di sposarla, per liberarmi da un tale imbroglio). (da sé) Giacché così volete, eccomi pronto a darle la destra.

PANT. Presto, ubbidisci, o te sgargato([40]). (minaccia Rosaura.)

ROS. Ah povera me! Lo sposerò, lo sposerò. Ecco la mano.

LEL. Ecco che io la sposo... (esce Florindo)

FLOR. Adagio un poco, signori miei...

PANT. Comuòdo! un altro? Cossa feu qua, sior?

FLOR. Qui venni invitato dalla signora Rosaura.

PANT. A do alla volta? (a Rosaura)

ROS. Vi giuro, non ne so nulla in coscienza mia.

PANT. (Oh, adesso sì che la prudenza de Pantalon ha squasi perso la tramontana). (da sé)

FLOR. Signor Pantalone, confesso che la situazione in cui mi trovate, merita i vostri rimproveri ed i rigori del vostro sdegno, ma amore sia il difensore della mia causa. Amo la signora Rosaura, e se non isdegnate di avermi per genero, ve la dimando in consorte.

PANT. Cossa dise sior Lelio?

LEL. Io gliela cedo con tutto il cuore.

PANT. E vu la tiolè, siben che sior Lelio giera qua a brazzadei([41])? (a Florindo)

FLOR. Ciò poco m’importa. Un accidente non conclude.

PANT. Oh, el xe de bon stomego. E ti cossa distu? (a Rosaura)

ROS. Io direi... ma mi vergogno...

PANT. Ah, ti te vergogni, ah! Desgraziada, a do alla volta, e ti te vergogni?

ROS. Il cielo mi castighi, se ne sapevo nulla.

PANT. Via, animo, di’ su quel che ti vol dir.

ROS. Direi, che se avessi a maritarmi... oh, mi vergogno davvero.

PANT. (La me fa una rabbia, che la mazzaria). (da sé) Mo fenìssila una volta.

ROS. Quando avessi a maritarmi, prenderei il signor Florindo.

PANT. (Manco mal che la l’ha dita). Orsù, ho inteso tutto. Sior Florindo, domattina la discorreremo.

FLOR. Dunque partirò...

PANT. No no, no la se la passa co sta disinvoltura. Quella xe la camera de mio fio, che za per sta sera no vien; là ghe xe un letto, questa xe una luse. (prende il candeliere che aveva Rosaura). La vaga a repossar, e domattina se parleremo.

FLOR. Ma signore...

PANT. Manco chiacole([42]). La vaga, se no la vol che se scaldemo el sangue.

FLOR. Per obbedirvi, anderò dove v’aggrada.

ROS. Signor padre, ho d’andare ancor io con lui?

PANT. Sentì, la povera vergognosa. E ti gh’averessi tanto bon stomego?

ROS. Credeva... basta, mi rimetto.

PANT. Sior Florindo, xe tardi, la resta servida.

FLOR. V’obbedisco. Addio, signora Rosaura. (entra in camera)

ROS. Serva, signor Florindo. (Quanto è bellino!) (da sé)

PANT. (Serra Florindo in camera colle chiavi)Questa xe fatta. A vu, siora, in te la vostra camera.

ROS. Senza cena?

PANT. Anemo, digo, no me fe andar in collera...

ROS. Senza lume?

PANT. Tiolè sto poco de mocolo. (tira fuori un poco di cerino)

ROS. Ma io ho paura...

PANT. Fenimola, andè a dormir, siora melodia([43]); che adessadesso...

ROS. Vado, vado, non mi sgridate, che mi fate svegliare i vermini. (entra nell’altra camera)

PANT. (La serra colle chiavi) Doman se descorrerà con più comodo.

LEL. Signor Pantalone, io me ne posso andare.

PANT. Ve dirò, no meriteressi che ve fasse andar vivo co le vostre gambe, ma che ve fasse portar via in quattro. No lo fazzo, perché gh’ho viscere umane in petto, e amo el mio prossimo come mi medesimo; anzi, in vece de trattarve mal, come meritè, ve vogio dar un avertimento da amigo e da fradello carnal. L’avertimento xe questo: mia mugier e mia fia no le vardè né poco, né troppo; in casa mia no ghe stè più a vegnir; e sora tutto, del caso che xe successo sta sera, vardè de non parlar con nissun. Se ve trovè in lioghi dove ghe sia donne de casa Bisognosi, finzè de no cognosserle e tirè de longo; perché se averè ardir de accostarve a casa mia, ve lo confido con segretezza, in t’un scalin della scala ghe xe un trabuchello, che, levando un certo ferro che so mi, se volterà sottossora, e ve precipiterà in t’un pozzo de chiodi e de rasadori; e se no vegnirè in casa mia, ma cercherè de trovarve in altri lioghi co mia mugier o mia fia, o se gh’averè ardir de parlar de sto accidente, gh’ho diese zecchini in scarsela da farve dar una schioppetada in te la schena, senza che sappiè da che banda la vegna. Ve lo digo con flemma, senza andar in collera; prevaleve dell’avviso, e regoleve colla vostra prudenza.

LEL. Signor Pantalone, vi ringrazio infinitamente dell’avviso; me ne saprò prevalere. Sulla scala il trabocchetto...

PANT. E zoso el pozzo de chiodi.

LEL. Dieci zecchini in tasca...

PANT. Per farve dar una schioppetada.

LEL. Obbligatissimo alle sue grazie.

PANT. Patron mio riveritissimo.

LEL. Rendo grazie alla sua cortesia.

PANT. È debito della mia servitù.

LEL. Ella è troppo gentile.

PANT. Fazzo giustizia al so merito.

LEL. Averò memoria delle sue grazie.

PANT. E mi no me desmentegherò de servirla.

LEL. Ci siamo intesi.

PANT. La m’ha capio.

LEL. Ella non ha parlato ad un sordo.

PANT. E ella no l’ha da far con un orbo.

LEL. Signor Pantalone, la riverisco.

PANT. Sior Lelio, ghe son servitor.

LEL. (Trabocchetto! alla larga. Ma! pur troppo è vero. Tutte le donne sono trabocchetti). (da sé, e parte)

PANT. Vogio andarghe drio. No vorave, che passando per camera de mia mugier, el trabucasse con ella. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Giorno.

Segue la stessa camera, con due porte chiuse.

Beatrice e Colombina

BEAT. Questo dunque è il bell’esito che hanno avuto le nostre invenzioni? Rosaura per castigo or ora sarà maritata col signor Florindo?

COL. Così è; quel politicone di vostro marito, senza punto scaldarsi il sangue, l’ha accomodata così.

BEAT. Oh, questa poi non la posso tollerare; ci va della mia riputazione, che colei trionfi ad onta mia.

COL. Il signor Pantalone ha serrato il signor Florindo in quella camera, e stamattina, levato che sarà, concluderà senz’altro questo matrimonio.

BEAT. È assai che non si sia ancora alzato!

COL. È stanco dal viaggio; per altro egli s’alza sempre di buon mattino.

BEAT. E Florindo sposerà Rosaura senza dir nulla a me, e senza averne il mio assenso?

COL. Oh, lo farà senz’altro.

BEAT. Se gli potessi parlare, non lo farebbe. Se sapessi in che modo aprir quella camera, mi darebbe l’animo di sturbar ogni cosa.

COL. Il modo d’aprirla è facile: sapete pure che tutte le chiavi di queste camere sono simili; colla vostra si può aprire anche questa. Ma è ben vero che non mi par decente che due donne aprano la camera d’un uomo, che può essere ancora a letto, il ciel sa in qual positura.

BEAT. Fa così, batti all’uscio: chiama Florindo, domanda s’egli è levato. Se dice di sì, digli che vi è chi gli vuol parlare, e apri; eccoti la mia chiave.

COL. Non mi dispiace; così farò. (va alla camera di Florindo)

BEAT. Fa presto, prima che il vecchio si levi.

COL. Signor Florindo. (batte)

SCENA SECONDA

Florindo di dentro, e dette.

FLOR. Chi è? Chi mi chiama?

COL. Siete levato?

FLOR. Sono levato e vestito; ed aspetto d’uscir di prigione.

COL. Se non vi è di disturbo, vi è persona che vi vorrebbe parlare.

FLOR. Ma se non posso uscire.

COL. Ora vi apro. (apre l’uscio, e Florindo esce)

FLOR. Dov’è la signora Rosaura? (a Colombina)

BEAT. Cercate la signora Rosaura, eh? Mi maraviglio di voi. Siete un uomo incivile. Avete commessa un’azione troppo indegna.

FLOR. Ma, signora, l’affare è già accomodato. Il signor Pantalone si contenta...

BEAT. Se se ne contenta il signor Pantalone, non me ne contento io. Che! Io dunque non conto per nulla in questa casa? Senza mia saputa si fanno i matrimoni? E voi avete per me sì poco rispetto?

FLOR. L’occasione nella quale mi son ritrovato...

BEAT. Sì sì, v’intendo; vorreste scusarvi, ma poco servono le vostre scuse, se non mi date una ben giusta soddisfazione.

FLOR. Signora, comandate; sono pronto a far tutto, per comprovarvi il rispetto che professo alla vostra persona.

BEAT. In questo punto dovete andarvene di casa mia.

FLOR. Senza concludere il matrimonio?...

BEAT. Differitelo ad altro tempo. Vi avviserò io, quando mi parrà che si faccia.

FLOR. Ma la signora Rosaura…

BEAT. Ella dipende dal mio volere.

FLOR. E il signor Pantalone?

BEAT. Sarà mia cura di far con esso le vostre giustificazioni.

FLOR. Almeno dar un addio alla sposa...

BEAT. Questo è troppo. Non mi mettete al punto di mortificarvi ambedue.

FLOR. Mi par troppo amara...

BEAT. Mi par troppo ardire il vostro.

FLOR. Perdonate.

BEAT. Partite.

FLOR. Vi obbedisco. (Oh femmina disturbatrice de’ miei contenti!) (parte)

SCENA TERZA

Beatrice e Colombina

BEAT. Vedi, se mi è riuscito di farlo partire?

COL. Certo che in questa maniera sarebbe partito. Pareva lo voleste sbalzare dalle finestre.

BEAT. Mah, nelle occasioni conviene farsi rispettare e temere.

COL. Orsù, signora padrona, l’ora è tarda; è tempo che io vada a rivedere mia madre.

BEAT. Cara Colombina, non abbandonarmi.

COL. E volete che io perda una sì bella eredità?

BEAT. Chi t’assicura che ciò sia vero, e non sia un’invenzione di quel vecchio malizioso, per cacciarti di casa?

COL. Sapete che non mi pare la pensiate male! Mia madre è stata qui, che son pochi giorni. Ella non è tanto ricca, e vostro marito non mi può vedere. Sarà meglio ch’io prima me n’assicuri; ne domanderò a qualche contadino, e se non è vero, voglio che mi senta quel volpone di vostro marito.

BEAT. Ho sentito chiuder l’uscio dello scrittoio. Il vecchio è levato, e non tarderà a venire in sala. Ritiriamoci; ma prima torna a serrar quella camera.

COL. Sì sì, non ci facciamo vedere, che non abbia a pensar male. Eccola serrata, ed ecco le chiavi.

BEAT. Oh, come vuol restar di stucco, non ritrovando Florindo in casa!

COL. Con tutta la sua politica, questa volta gliel’abbiamo fatta.

BEAT. E Rosaura vuol mangiar l’aglio davvero!

COL. Suo danno, crepi pure quella bacchettonaccia maliziosa.

BEAT. Ecco gente! andiamo. (parte)

COL. Oh, noi altre donne ne sappiamo una carta più del diavolo. (parte)

SCENA QUARTA

Pantalone solo.

PANT. Xe ora che vaga a liberar sti poveri presonieri. Ho slongà un pochetto la mia ora solita de levarme per la strachezza del viazo, e xe un poco tardi, e el sior Florindo me aspetterà con batticuor e paura. Dise el proverbio: tutto el mal non vien per nuocer. El bravo chimico sa dal velen cavar l’antidoto, e l’omo politico sa dal mal cavar el ben. Cussì mi da un desordene spero cavar un ordene, e maridando mia fia, liberarme del mazor spin, che gh’abbia in ti occhi. Co ste do righe de scrittura che ho fatto, se concluderà el matrimonio tra sior Florindo e Rosaura, e con quest’altra spero de tirar mio fio a sposar la fia del sior Pancrazio, ricca de sessanta mile ducati. So che in quel pezzo de matto incocalio([44]) per siora Diana, troverò delle difficoltà, ma spero co sta alzadura d’inzegno tirarlo in rede, senza che el se n’accorza, e se non altro far che quella pettegola se desgusta. Scomenzemo da sti do desperai: ma prima vogio sentir Rosaura; vogio un poco che la me diga come xe andà el negozio de gersera, e come gh’intrava quel cagadonao([45]) de sior Lelio. Rosaura, xestu levada? Xestu vestia? Vien fuora, che te vogio parlar. (apre con la chiave)

SCENA QUINTA

Rosaura esce dalla camera, e detto.

ROS. Eccomi, signor padre; che mi comandate?

PANT. Fia mia, quel che xe stà, xè stà, e no te vogio rimproverar un fallo che podeva dir quindese([46]), ma che fursi te farà vadagnar la partia. Vogio da ti solamente saver come xe andà sto negozio, e come qua in camera con ti s’ha trovà sior Florindo e sior Lelio.

ROS. Credetemi, non ne so nulla, da fanciulla onorata.

PANT. Cossa favistu in sta camera?

ROS. Aspettavo che Colombina mi portasse la cena.

PANT. Ma sior Lelio gerelo una piatanza?

ROS. Io non l’avevo veduto.

PANT. Come no l’avevistu visto, se el te gera tanto vesin?

ROS. Non l’ho veduto, perché ero all’oscuro.

PANT. Ma perché star a scuro?

ROS. Colombina spense il lume, e andò in cucina a riaccenderlo.

PANT. Ah ah, Colombina ha stuà la luse, e la gera andada a impizzarla([47])? Ho capio tutto. Quella desgraziada, quella ruccola([48]) maledìa, xe stada quella che t’ha menà in camera i do pretendenti. Fia mia, basta... (La xe innocente, lo credo e lo tocco co man). (da sé) Ma za che l’accidente ha portà cussì, bisogna uniformarse e sposar sior Florindo.

ROS. Oh, questa cosa non mi dispiace niente.

PANT. Donca ti ghe vol ben a sior Florindo?

ROS. Se devo dire la verità, non gli voglio male.

PANT. O via, manco mal. Ancuo ti sarà contenta. Ma avverti a esser una bona mugier, come ti xe stada una bona fia. L’amor se coltiva colla confidenza, e se un mario e una mugier scomenza a viver deseparai, presto presto i deventa nemici. Se ti ghe vol ben, ti ha da cercar de secondar le so inclinazion. Se el te vol aliegra, e ti mostra allegria: se ti ghe piasi malinconica, e ti sospirando, ma solamente per ello, falo muover a compassion. Se el te mena ai divertimenti, vaghe, ma co modestia; se el te tien in casa, staghe con rassegnazion. Se l’è zeloso, schiva([49]) tutte le occasion de darghe sospetto; se el se fida, no te abusar della so bontà. Se l’è generoso, procura de regolarlo; se l’è avaro, procura de illuminarlo; e sora tutto se el cria, e se el te dà causa de criar, essi ti([50]) la prima a taser, se pur xe pussibile che una donna sia la prima a sbassar la ose.

ROS. Vi ringrazio di questi buoni avvertimenti. Cercherò di valermene. Ma il signor Florindo che fa? Dorme ancora?

PANT. No so; la camera no l’ho gnancora averta; aspetta che adesso, se el xe levà, vôi che se concluda su do piè sto matrimonio. (va per aprire)

ROS. (Volesse il cielo! non vedo l’ora di sentirmi chiamare signora sposa). (da sé)

PANT. Sior Florindo, xela in letto? Nol responde, adesso anderò a veder se el dorme. (a Rosaura, ed entra)

ROS. Sì sì, fate prestino. Che rabbia averà la signora Beatrice! Eh, ora non potrà farmi la padrona addosso.

PANT. (Esce confuso, e guarda e riguarda dentro e fuori, e osserva bene la chiave)

ROS. (Mi par confuso, che sarà mai?) (da sé) E bene, signor padre, che fa il signor Florindo?

PANT. Eh sì, adesso adesso. (torna in camera)

ROS. Io non capisco questa sua confusione. Voglio farmi animo; voglio andarvi anch’io. Che sarà mai? Finalmente è mio sposo. (vuol entrare; Pantalone esce e la trattiene)

PANT. Dove andeu, sfazzada?

ROS. Non mi dite nulla... Andavo a vedere io..

PANT. No abbiè ardir d’intrar in quella camera. Sior Florindo no xe gnancora vostro mario.

ROS. Ma almeno ditemi che cosa fa? È egli nel letto?

PANT. Siora sì, el xe in letto; ghe dol un poco la testa, e el vol dormir. Andè in te la vostra camera: ànemo.

ROS. Siete in collera?

PANT. Ànemo, ubbidì, se no volè che vaga in collera.

ROS. Subito, eccomi, v’obbedisco. Il ciel mi guardi di disgustarvi! (Ah, che io lascio gli occhi su quella porta, ed il cuore non si parte da quella camera). (da sé, ed entra nella sua stanza)

SCENA SESTA

Pantalone solo.

PANT. Come! anca Florindo me tradisse? Furbazzo, indegno; cussì el me manca de fede? El me domanda la fia, e po el scampa([51]) per no sposarla? Ma come alo fatto a scampar de camera? La porta gera serada. Per de drento no se averze([52]); e se s’averzisse, dopo no se puol serrar senza chiave. Oh poveretto mi! adesso scomenzo a tremar: la mia reputazion scomenza a pericolar. Ma gnente, forti, coraggio; troverò sior Florindo, lo cercherò mi, lo farò cercar da Brighella, e un poco colle bone, e un poco colle cattive, l’obbligherò a mantegnir la parola. Vaga la casa e i copi([53]), ma che se salva la reputazion. (parte, lasciando aperta la porta)

SCENA SETTIMA

Rosaura sola, poi Arlecchino

ROS. Mio padre se n’è andato, ed io non posso a meno di non tornare in questa sala. Oh, se potessi entrare in quella camera, quanto sarei contenta! Ma la modestia non lo permette. Eppure, chi sa! forse il mio Florindo mi brama e mi sospira, ed a me non conviene consolarlo per ora.

ARL. Siora Rosaura, co le lagrime ai occhi me rallegro del vostro matrimonio.

ROS. Lo sai ancor tu che sono sposa, eh?

ARL. Mo andè là, che avì fatt una gran bestialità!

ROS. Per che causa ho fatto male?

ARL. Se avevi pazienza, gh’era per vu un partido molto meio de questo.

ROS. Qual era questo miglior partito?

ARL. V’averave sposada mi.

ROS. Pazzo che sei! non lasci mai le tue scioccherie.

ARL. Coss’è ste scioccherie? Digh da bon, e non burlo.

ROS. Orsù, se mi vuoi bene, fammi un piacere. Entra lì nella camera, dove sta il signor Florindo nel letto, e fagli per me un’ambasciata.

ARL. Per farve veder ch’a ve vui ben, lo farò: za per far ambassade son fatt’a posta.

ROS. Digli che mando a vedere come sta, e desidero di vederlo.

ARL. Gnora sì. (entra nella camera, dove era Florindo)

ROS. Almeno mi facesse dire che entrassi; dicendolo egli, non farei male.

ARL. (Esce senza parlare)

ROS. E bene, Arlecchino, che t’ha detto il signor Florindo?

ARL. Niente affatto.

ROS. Ma sta bene?

ARL. Credo che nol staga né ben, né mal.

ROS. Ma gli hai fatta l’ambasciata?

ARL. Gnora sì.

ROS. Ed egli che t’ha detto?

ARL. Niente affatto.

ROS. Va là, torna, e dimandagli se gli duole il capo.

ARL. Gnora sì. (va, poi torna e dice) La testa no la ghe dol.

ROS. Digli dunque perché non si leva.

ARL. Gnora sì. (va, poi torna e dice) L’è za levà.

ROS. Digli perché non viene a vedermi.

ARL. Gnora sì. (va, poi torna e dice) El ghe vede poco.

ROS. Caro Arlecchino, digli che, se mi vuol bene, si lasci da me vedere.

ARL. Gnora sì. (va, poi torna e dice) Adesso el vien.

ROS. Digli che solleciti, e venga presto.

ARL. Gnora sì. (va, e dice di dentro) El vien, el vien, el se veste, e subito el vien.

ROS. Oh me felice! Sento che il core mi balza in petto dall’allegrezza. Arlecchino, viene o non viene?

ARL. (Dice) Eccolo. (e si vede alzar la portiera)

ROS. Ecco il mio caro bene.

ARL. (Esce vestito con giubba e parrucca, e fa delle riverenze a Rosaura)

ROS. Eh scimunito, indiscreto! Che fai cogli abiti di Ottavio mio fratello? Il signor Florindo dov’è?

ARL. Patrona cara, cerchelo vu, perché a mi no me dà l’anemo de trovarlo. Ma in mancanza soa, son qua mi e m’esibiss mi.

ROS. Come! non vi è Florindo?

ARL. Gnora no.

ROS. Eh! tu m’inganni.

ARL. Nol gh’è, in conscienza mia.

ROS. Non posso più; modestia, abbi pazienza. (entra in camera di Florindo)

ARL. Lu no gh’è certo. L’è andà via, el l’ha impiantada. Chi sa che no la me toga mi? (esce Rosaura dalla camera)

ROS. Ah me infelice! ah me meschina! ah Florindo traditore! ah barbaro! ah inumano! Mi ha lasciata, mi ha tradita, se n’è fuggito.

ARL. No ve desperè, son qua mi.

ROS. Ho ben veduto il mio povero padre mesto e confuso. Siamo assassinati. Ah Florindo crudele, queste sono le promesse? son questi i giuramenti? Ahimè! mi sento morire. (piange)

ARL. Siora padroncina, no pianzì, che me fe pianzer anca mi.

ROS. Mi manca il respiro, mi si oscura la luce, mi sento la morte nel seno; ma giacché devo morire, voglio spirare almeno su quel medesimo letto, su cui quel disleale ha riposato la scorsa notte.

ARL. Eh, no fe sto sproposito.

ROS. Sì, voglio morire, e se non basta ad uccidermi il dolore, mi darò la morte colle mie mani. (entra in camera come sopra)

ARL. Uh uh, che smanie, che desperazion! (osserva alla porta) La s’ha buttà sul letto, la pianze, la se despera. L’è cussì desperada, no ghe ne vôi saver alter, e za che so cussì ben vestido, vôi andar a veder se trovo la me fortuna. Le donne basta che le veda un bell’abit, subit le se innamora. Basta che i abbia el formai sulla velada, se in ca no gh’è pan, non importa. (parte)

SCENA OTTAVA

Florindo e Brighella

BRIGH. E un omo della so sorte se lassa far paura da una donna?

FLOR. Ma che dovevo io fare? Beatrice è la padrona di casa, mi ha scacciato come un briccone, ed io doveva restarmene così maltrattato?

BRIGH. Me maravegio! el patron l’è el sior Pantalon. El m’ha dito che, se la trovo, la conduga in casa, e el vol in tutti i modi che se concluda sto matrimonio.

FLOR. E questo è quello che io desidero.

BRIGH. Donca la torna in te la so camera. L’aspetta el sior Pantalon. No la se lassa veder da siora Beatrice, e a momenti tutto sarà accomodà.

FLOR. Sì, Brighella, farò tutto per ottenere Rosaura. In quella camera attenderò il signor Pantalone.

BRIGH. La vaga presto, che vien siora Beatrice.

FLOR. Vado subito. (entra nella camera dov’è Rosaura)

BRIGH. Vardè a che segno arriva la petulanza de una mugier cattiva! No la varda, per i so caprici, a precipitar la reputazion della casa.

SCENA NONA

Beatrice e Brighella

BEAT. Ecco qui il bel soggettino! Questo è il consigliere intimo del signor Pantalone: questo è il nostro direttore, il nostro maestro di casa, il nostro padrone.

BRIGH. No so che motivo l’abbia de parlar con mi co sti sentimenti, né de darme sti titoli e sti rimproveri. Son servitor de casa, servo tutti con fedeltà, e in quarant’anni che servo el sior Pantalon, non ho mai avù da lu una parola storta; mi a ella ghe porto tutto el respetto, ma no posso soffrir de sentirme caricar de titoli che no merito, e esser messo alla berlina senza rason.

BEAT. Sentite come alza la voce codesto temerario!

BRIGH. Anca temerario la me dise? Siora Beatrice, ghe porto respetto perché la xe mugier del mio patron; da resto, se no considerasse altro che la so nascita, ghe responderia de trionfo([54]).

BEAT. Ah petulante, arrogante, sfacciato; non so chi mi tenga, che non ti dia qualche cosa nel viso.

BRIGH. La ghe penserà ben a farlo, perché po, sala, no varderò de precipitarme.

SCENA DECIMA

Pantalone e detti. Florindo e Rosaura di quando in quando si fanno veder dietro la portiera.

PANT. Coss’è? Coss’è stà? Cossa xe sto sussuro?

BEAT. Ecco lì, il vostro dilettissimo servitore, la vostra spia, il vostro mezzano, alza la voce e alza le mani, e mi perde il rispetto; ed io ho da soffrire quest’oltraggio? E voi comportate che un servitoraccio maltratti vostra moglie? Oh cielo, a che stato sono ridotta! (piange)

BRIGH. L’amigo l’è... (sottovoce a Pantalone, che non gli bada)

PANT. Come! Brighella ha abuo tanto ardir de perder el respetto a mia mugier? Un servitor ha la temeritae de cambiar parole colla so patrona?

BRIGH. Ma bisogna che la sappia...

PANT. Tasi, impertinente, asenazzo: per qual se sia rason, per qual se sia strapazzo che la te avesse fatto, no ti dovevi mai azardarte de alzar la ose, e de rebecarte([55]), come se no ghe fusse differenza da ella a ti.

BRIGH. E aveva da soffrir senza parlar?... (L’amigo l’è drento...). (a Pantalone)

PANT. Sior sì, avevi da soffrir. Chi magna el pan dei altri, ha da soffrir: e quando no se vol o no se pol soffrir, se domanda licenza, e se va a far i fatti soi, ma no se responde, no se fa el bell’umor.

BRIGH. La senta, ghe digo che... (piano)

PANT. Finalmente la xe mia mugier, e vogio che la sia respettada quanto mi, e più de mi. E vu, sier tocco de petulante, andè subito via de sta casa.

BRIGH. Come! un servitor della mia sorte, che per quarant’anni l’ha servida con tanta fedeltà...

PANT. Se m’avè servio con fedeltà, avè fatto el debito vostro, e mi v’ho pagà pontualmente. E se ve resto qualcossa de salario, faremo i conti, e ve salderò. Intanto tolè sti vinticinque ducati a conto, e andè a far i fatti vostri. (gli dà una borsa)

BRIGH. La prego de compatimento...

PANT. No gh’è compatimento che tegna. Andè via subito. Tolè sti bezzi, o ve li trago in tel muso.

BRIGH. Ben! Co la vol cussì, cussì sia: tiogo i vinticinque ducati, e me la batto. Pazienza! (Questo l’è un castigo che no me despiase: e intanto i amici i se diverte a quattr’occhi). (da sé, e parte)

SCENA UNDICESIMA

Pantalone e Beatrice

BEAT. (Gran prodigio che mio marito abbia cacciato di casa Brighella, per amor mio!) (da sé)

PANT. Vedeu, fia mia, come se fa a castigar i servitori, che no gh’ha respetto per i so patroni? Imparè; perché ve vogio ben, perché fazzo stima de vu, v’ho dà sta sodisfazion. Doveressi mo adesso anca vu far l’istesso verso de mi, e licenziar de sta casa Colombina e Arlecchin, che con tanta temerità i tratta co mi, come se fusse el gastaldo([56]), e no i me considera per quel che son.

BEAT. Quanto a questo poi, Colombina e Arlecchino fanno il mio servizio; a voi non so che abbiano perduto il rispetto, e non mi sento di licenziarli.

PANT. Benissimo; imparerò a mie spese. Un’altra volta me saverò regolar. Ma Colombina e Arlecchin...

BEAT. Ma Colombina e Arlecchino ci staranno a vostro dispetto. Già v’eravate ingegnato di fingere la malattia della gastalda per far partir Colombina, ma si è scoperto il vero, e siete restato deluso.

PANT. Fia mia, no me vogio scaldar el sangue. Questo xe un negozio del qual ghe ne parleremo a so tempo.

BEAT. Oh via, mutiamo discorso. Mi rallegro, signor Pantalone, che avete fatta sposa la vostra figliuola.

PANT. (No la sa gnente che l’amigo se l’ha battua([57])). (da sé) Cossa voleu far? Xe megio cussì. L’anderà fora de casa, e vu sarè libera de sto intrigo.

BEAT. Avete fatti gli abiti a questa sposa? (ridendo)

PANT. Ho ordinato el bisogno per far le cosse pulito.

BEAT. E quando seguiranno questi sponsali?

PANT. Oh presto, presto.

BEAT. Quanto mi vien da ridere!

PANT. Perché ve vien da rider? (Stè a veder che la sa tutto). (da sé)

BEAT. E si fa un matrimonio in casa, senza che io ne sappia nulla? Bravo, così mi piace.

PANT. L’occasion ha portà cussì. Ringraziè quella desgraziada della vostra cameriera, e preghè el cielo che la se fenissa cussì.

BEAT. E vi credete che questo bel matrimonio debba seguire?

PANT. Lo credo seguro.

BEAT. Quanto v’ingannate! Andate, andate a correr dietro al signor sposo. Se vostra figliuola non ha altro marito, vuol invecchiare fanciulla.

PANT. Donca savè la baronada che el m’ha fatto, e ve ne ridè?

BEAT. Lo so e me ne rido, perché io sono quella che ha fatto partire il signor Florindo; né avrà più ardire di tornarci, né s’azzarderà più di trattare un tal matrimonio.

PANT. Beatrice, qua scomenzè a toccarme dove che me diol. No cerchè altro che de perseguitar quella povera putta, e par che abbiè ambizion de strapazzar l’onor de sta povera casa. Me maravegio però de sior Florindo, che ascoltando vu più de mi, tradissa in sta maniera una putta innocente, e un omo d’onor come che son mi.

BEAT. Eh, questi sono scherzi della gioventù.

PANT. Queste le xe baronae, che merita una schioppetada. Sior Florindo ha da sposar mia fia, o el se farà cognosser per un omo infame.

SCENA DODICESIMA

Florindo e Rosaura escon di camera, e detti.

FLOR. Florindo è uomo onorato, ed è di Rosaura consorte.

PANT. Come!

BEAT. Che vedo?

PANT. Sior Florindo, vu sè mario de mia fia?

FLOR. Sì signore, ella ne ha avuta la fede.

PANT. Fia mia, ti xe novizza de sior Florindo? (a Rosaura)

ROS. Signor sì, l’abbiamo aggiustata fra di noi.

PANT. Siora Beatrice, cossa diseu? No se pol far un matrimonio senza de vu. Sior Florindo no averà più ardir de metter i pi in sta casa. (burlandosi di Beatrice) Se Rosaura non sposa altri che Florindo, la se vol invecchiar fanciulla. E questi sono scherzi della gioventù. Ah, ah, ah, quanto me vien da rider!

BEAT. (La rabbia mi divora. Sento che la bile mi affoga. Voglio partire, per non dargli piacere colle mie smanie). (da sé) Sempre non riderete. Se non mi vendico, mi fulmini il cielo, mi strascini un demone nell’inferno. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Pantalone, Rosaura e Florindo

PANT. El ciel ghe fazza la grazia. Sior Florindo, coss’è sta metamorfosi? Ora mi vedete, ora non mi vedete?

FLOR. Già dalla signora Beatrice avete inteso come sono stato costretto ad uscire. Brighella poi mi ha illuminato e mi ha qui ricondotto. Per celarmi da vostra moglie, rientrai in questa stanza, ove piangente e quasi morta trovai la mia cara Rosaura. La consolai colla mia presenza, la presi per la mano, e stavamo sotto quella portiera ad aspettare il momento fortunato per presentarci a voi, senza l’odioso aspetto della signora Beatrice.

ROS. Perdonatemi, se ho trasgredito il vostro comando. Un eccesso di amore e di dolore mi ha trasportata in quella camera, ove avrei terminato di vivere, se non giungeva Florindo.

PANT. Orsù, no parlemo altro, sè mario e mugier. Sior Florindo, no la creda che me vogia prevaler de sta congiuntura per maridar mia fia senza dota, come fa tanti pari e tante mare al dì d’ancuo([58]): gh’ho destinà sie mille ducati, e questa xe la so carta de dota. Mille ghe ne darò alla man, per far qualche spesa che ghe vol per el sposalizio, e cinque mille ghe ne darò, quando la m’averà dito dove la li vuol segurar.

FLOR. Questo è tutto effetto della vostra bontà. Io non lo merito e non lo cerco.

PANT. Questo xe un atto de giustizia. Mia fia no xe bastarda, e xe dover che la gh’abbia la so dota.

ROS. Signor padre, se me lo permettete, voglio condurre il signor Florindo a vedere la mia cagnolina, che ha partorito l’altro giorno tre canini che paion dipinti.

PANT. Sì sì, ménelo a veder quel che ti vol: faghe veder tutto, che l’è paron([59]).

FLOR. Dunque con sua licenza, signor suocero.

PANT. Sior zenero, la se comoda.

FLOR. Ah, che di me non v’è uomo più contento nel mondo! (parte)

ROS. (Voglio più bene a Florindo, che non voglio a mio padre, e ancor più che non volevo a mia madre. Poverino! mi fa tante carezze!) (da sé, e parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Pantalone, poi Ottavio

PANT. A veder sti do novizzi, me se resvegia alla memoria quei tempi antighi, quando anca mi co mia mugier Pandora... Quella la giera una donna de garbo. Sia maledìo quando ho tiolto custìa. Ma co l’è fatta, bisogna lodarla.

OTT. (Pensoso passa davanti a Pantalone, si cava il cappello, e non parla)

PANT. (La luna ha fatto el tondo). (da sé) Com’ela, sior fio? Sempre inmusonà([60]), sempre colle cegie revoltae([61])? Sè un omo molto bisbetico.

OTT. Mah, bisogna esserlo per forza. Un uomo che non ha il suo bisogno, si vergogna di comparire fra gli altri.

PANT. No gh’avè el vostro bisogno? cossa ve manca? Trenta ducati al mese da buttar via, no i ve basta?

OTT. Non mi bastano, signor no, non mi bastano.

PANT. Via via, no me magnè; se no i ve basta, cresceremo la dosa; ve ne darò dei altri. (Vôi chiaparlo colle bone). (da sé)

OTT. Cospetto! cospetto! Come ho da far io nell’impegno in cui sono?

PANT. In che impegno seu? Via, se la xe cossa lecita, e che se possa, ve agiuterò mi.

OTT. Ho bisogno di cento doppie. Sono in impegno di prestarle ad un amico, e non posso fare di meno.

PANT. O amigo, o amiga, o imprestar, o donar, le cento doppie ve le darò mi.

OTT. Eh, mi burlate voi.

PANT. Tanto xe vero che no ve burlo, quanto che in sto momento ve posso consolar. In sta borsa no gh’è cento doppie, ma ghe xe mille ducati, che ho parecchiai per dar a sior Florindo, mario de mia fia e vostro cugnà, a conto de dota; questi ve li dago a vu; servive delle cento doppie per supplir all’impegno, e del resto faremo i conti colle vostre mesate. Seu contento?

OTT. Contentissimo. (prende la borsa) (Che novità è questa? Mio padre vuol morire). (da sé)

PANT. Cussì, come che te diseva, fio mio, ho maridà to sorella co sior Florindo, cittadin de bona casa e de mediocre fortuna. Ghe dago sie mille ducati; mille subito, e cinque mille col me li averà segurai. Per cinque mille bisogna che li prometta, e bisogna che anca ti ti te sottoscrivi, acciò, in caso della mia morte, no i possa dubitar che ghe manca la dota.

OTT. Ma io sono figlio di famiglia come posso obbligarmi? Potreste emanciparmi, e allora...

PANT. Siben che son marcante, ghe ne so un puoco anca de legge. Quando el fio de famegia se obbliga alla presenza del pare, s’intende che el pare ghe daga facoltà de obbligarse, e l’obbligazion sussiste come se el fusse emancipà.

OTT. Farò come volete.

PANT. Olà. Da scriver. (servi portano tavolino, e da scrivere) Via, sottoscrivi ste do carte de dota, tutte do compagne: una per sior Florindo, e una per nu.

OTT. (Non vorrei mi facesse qualche cavalletta!) (da sé) Ma lasciate prima ch’io la legga, se l’ho da sottoscrivere...

PANT. Siben, gh’avè rason. Lezè pur; soddisfeve. (gli dà il contratto con Florindo)

OTT. (Legge piano)

PANT. (Eh cagadonao! giusto adesso te la ficco). (da sé)

OTT. Sta bene, ecco ch’io mi sottoscrivo: Io, Ottavio Bisognosi affermo e prometto quanto sopra, ed in fede mano propria.

PANT. Fe l’istesso in quest’altra compagna. (gli dà un altro foglio)

OTT. Benissimo: Io, Ottavio Bisognosi, ecc. (fa come sopra. Frattanto che Ottavio si sottoscrive, Pantalone colla mano opera ch’egli non legga)

PANT. (Oh, adesso son contento). (da sé) Bisognerà po che ti pensi a maridarte anca ti.

OTT. Eh, per me v’è tempo. Parliamo d’altro. Signor padre, se vi contentate, vi è la signora Diana che vorrebbe dirvi una parola. Se vi pare di accordarle questa grazia, ora la fo venire. (Giacché la luna è buona, vo tentar la mia sorte). (da sé)

PANT. Perché no voressi che l’ascoltasse? Songio qualche prencipe da no me degnar? Anzi la me fa onor: diseghe pur che la vegna.

OTT. Vado dunque a introdurla... (vuol partire)

PANT. Oe disè, saveu gnente vu cossa che la vogia?

OTT. Lo so e non lo so, ma bensì posso dirvi, che se in questo che lei richiederà, vi è bisogno del mio assenso, di questo ne sarete sicuro. (La signora Diana, che ha dello spirito, otterrà forse più di quello potrei ottenere io, se parlassi. E poi ella è donna, e da mio padre esigerà più riguardo). (da sé, e parte)

SCENA QUINDICESIMA

Pantalone, poi Diana

PANT. Sta carta, sta sottoscrizion carpida, so anca mi che no la pol impedir che mio fio se marida con chi el vol lu, ma spero che la servirà per metter delle disunion tra Ottavio e siora Diana; e a mi per adesso me basta cussì. Xe ben vero però che per aver el mio intento, sta volta no me son servido della prudenza, ma d’un scaltro ripiego, che me fa poco onor. Me vergogno d’averlo fatto, no la xe più da omo prudente, no la xe degna de mi, ma l’amor del pare qualche volta trasporta, e se se trova in certe occasion dove, abbandonandose alla passion, la prudenza non ha tempo de illuminar. No vorave che gnanca l’aria savesse el modo che ho tegnù per carpir sta sottoscrizion. Me ne servirò con cautela; farò che mio fio no lo diga a nissun, perché no vorave mai che qualchedun de quelli che me crede omo savio, tolesse in sto fatto esempio da mi, e imparasse a valerse della finzion, la qual in ogni tempo, in ogni occasion, deve esser aborrida, condannada, come l’aborrisso e la condanno anca mi.

DIA. Signor Pantalone, veramente parrà strano ch’io venga in casa vostra a parlarvi di un affare che doveva essere diversamente trattato; ma la bontà che ieri ho scoperta in voi verso di me, e lo stato in cui presentemente mi trovo, mi obbligano a far questo passo.

PANT. Se la m’avesse degnà d’un so comando, sarave vegnù fin a casa a servirla; ma za che la s’ha degnà de vegnirme a onorar, la parla pur liberamente, che me farò gloria de ubbidirla, per quanto se estenderà le mie forze.

DIA. (Qui bisogna levarsi la maschera, e svelare ogni arcano). Il signor Ottavio, vostro figliuolo, mostra di essere di me invaghito, e mi ha data la fede di sposo. Io non volevo accettare una tale offerta, senza prima assicurarmi del vostro assenso, ed egli mi fa sperare che voi non siate per opporvi alle nostre nozze. L’affare però è delicato, e tuttoché io sia vedova, ciò non ostante non voglio più a lungo tollerare la frequenza delle sue visite, senza una conclusione. Ecco il motivo per cui vi do il presente incomodo; desidero sapere la vostra intenzione sopra di ciò, e alla buona disposizione, che in voi spero di ritrovare, aggiungo le mie preghiere, pel desiderio che tengo di unirmi in parentado con una sì degna e rispettata famiglia.

PANT. Siora Diana, ella me fa più onor che no merito, e no me stimerave degno d’aver per niora una zentil donna de tanta stima. Ghe digo ben che mio fio degenera dal so sangue, trattando con ella cussì mal, e tiolendose spasso d’una persona che merita tutta la venerazion e el respetto.

DIA. Come! si prende spasso di me? Con che fondamento lo dite?

PANT. La perdona l’interrogazion impropria: sala lezer([62])?

DIA. So leggere al certo.

PANT. Cognossela el carattere de mio fio?

DIA. Lo conosco.

PANT. Donca la leza; giusto ancuo([63]) Ottavio ha sottoscritto el contratto colla fia de sior Pancrazio Aretusi. La varda: Ottavio Bisognosi prometto sposar la signora Eleonora Aretusi... e per dote e nome di dote ducati sessanta mille. (legge qua e là, facendo accompagnar Diana coll’occhio)

DIA. Dunque Ottavio così mi tradisce? mi schernisce così?

PANT. Me despiase infinitamente; ma no ghe xe più remedio. La fazza che l’avvertimento ghe serva per l’avegnir. Coi fioi de famegia no la se ne impazza. Lustrissima, possio servirla in altro? (La medesina ha fatto un’ottima operazion). (da sé)

DIA. Ah per amor del cielo, signor Pantalone...

PANT. Con so bona grazia, bisogna che vaga in mezà([64]). (Inghioti sta pillola, e impara a far zoso la zoventù). (da sé, e parte)

SCENA SEDICESIMA

Diana, poi Ottavio

DIA. Chi intese mai più barbaro tradimento? E lo scellerato, per maggior mio scorno, mi manda a farmi deridere da suo padre?

OTT. E bene come andò la faccenda?

DIA. Come andò, eh? Come per l'appunto desiderava la tua perfidia. Sarai contento, or che mi hai svergognata in faccia del tuo medesimo genitore.

OTT. Come? Che dite?

DIA. Ma perché non dirmelo tu, scellerato? Perché non svelarmi colla tua bocca il segreto che avevi nel cuore? Perché farmelo saper da tuo padre?

OTT. Ma io rimango attonito. Che v'ha detto mio padre?

DIA. Va, sposa la signora Eleonora; prenditi la pingue dote di sessanta mila ducati, ma non ti lusingare ch'io lasciar voglia invendicati i miei torti.

OTT. Signora Diana, ve l'ho detto; mio padre è un vecchio furbo; vi avrà dato ad intendere lucciole per lanterne.

DIA. Ancor fingi? Ancor mi schernisci? Lo conosco il tuo carattere; pur troppo hai tu sottoscritta in un foglio la tua fortuna e la mia morte.

OTT. Ma di che foglio parlate? Si può sapere?

DIA. Lo devo ripetere per mio rossore e per tuo contento; lessi il contratto nuziale da te sottoscritto colla signora Eleonora Aretusi.

OTT. Dov'è questo contratto?

DIA. Tuo padre l'aveva e l'ha tuttavia nelle mani.

OTT. E quando l'ho io sottoscritto?

DIA. Oggi, barbaro, oggi tu l'hai firmato.

OTT. Eh, che sbagliate! Poc'anzi ho sottoscritto il contratto nuziale di mia sorella col signor Florindo.

DIA. Inventami delle favole! So leggere, e conosco il tuo carattere. Dice la scrittura: Ottavio Bisognosi affermo e prometto quanto sopra, ed in fede mano propria.

OTT. Ah, mio padre mi ha tradito; quel foglio ch'io credei simile all'altro... Io non lo lessi... me ne fidai... Ah, dove arriva la malizia d'un uomo! Diana mia, siamo entrambi traditi: io sono innocente. Mio padre, prevalendosi della mia buona fede, ha carpita fraudolentemente la mia sottoscrizione.

DIA. Eh, dà ad intendere simili scioccherie a de' bambini, non alle donne mie pari. Sei un bugiardo, sei un ingannatore.

OTT. Ma credetemi...

DIA. No, che non ti voglio più credere Mi hai ingannata abbastanza. Ma avrò ancor io coraggio bastante per dimenticarmi di te, se tu l'avesti d'abbandonarmi.

OTT. Sentite, Diana... Vi giuro...

DIA. Taci, spergiuro, non irritar lo sdegno del cielo. Ti lascio per non mai più rivederti. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Ottavio, poi Beatrice

OTT. Fermatevi... (va per seguirla, Beatrice lo chiama)

BEAT. Signor Ottavio, trattenetevi, non vi lasciate trasportare dal dolore. Già intesi il tutto, e dico che vostro padre è una fiera crudele.

OTT. Signora Beatrice, mio padre vuol la mia morte.

BEAT. Sarebbe meglio ad esso il morire, quel vecchio pazzo disumanato.

OTT. Crepasse pure in questo momento.

BEAT. Sta a voi il rendervi felice.

OTT. Come?

BEAT. Accelerando la morte a quel barbaro.

OTT. Ah! che mai dite? La natura aborrisce quest’attentato.

BEAT. In esso però la natura non parla a favor del figliuolo e della moglie. Egli ne insegna a disumanarci, mentre colla sua crudeltà toglie la vita ad entrambi.

OTT. Pur troppo egli ci vuol tutti morti; e non veggo altro rimedio per noi, che prevenirlo. Ma non avrei cuore di farlo.

BEAT. L’avrei ben io questo cuore; mi basterebbe il vostro soccorso. (È giunta a segno la mia passione per Lelio, il mio odio per quel vecchio insensato, che mi impedisce ogni mia felicità; son già risoluta ad ogni più atroce misfatto). (tra sé)

OTT. (Dopo aver passeggiato un poco, pensando) (Ah, conviene risolversi. La mia disperazione è all’estremo). (tra sé) E come potremo eseguir le nostre vendette? (a Beatrice)

BEAT. Provvedetemi d’un buon veleno, e a me lasciate la cura.

OTT. Ah signora Beatrice, finalmente egli è a me padre, a voi marito.

BEAT. (È già fatto il gran passo; mi son scoperta, e se non lo riduco all’effetto, io sono perduta). (tra sé) Non merita questi dolci nomi un barbaro padre, un marito crudele. Egli vuol l’eccidio di tutti noi, e noi colle mani alla cintola aspetteremo ch’egli trionfi colla nostra morte? Alla fine ha vissuto abbastanza; se gli possono accorciare pochi momenti di vita, e noi vi guadagniamo la nostra quiete, i nostri contenti. Io mi libero da una così tormentosa catena, e voi, divenendo l’assoluto padron di voi stesso e di tutte le ricchezze di quell’avarissimo vecchio, potete sposarvi la signora Diana, e godere seco felici i giorni tutti di vostra vita. Altrimenti vi converrà abbandonarla, sposar un’altra, e veder la povera Diana precipitarsi e morire dalla disperazione: avrete voi questo cuore?

OTT. A questa orribile idea non posso resistere. Diana parla al mio cuore con maggior forza del padre. Tutto si faccia per salvar la sua vita e il mio amore. Attendetemi, che col veleno tra pochi momenti ritorno. (parte)

BEAT. Ed io non tarderò a porlo in opera. Privarmi delle mie conversazioni? Minacciar di serrarmi tra quattro mura? Proibire a Lelio che più non ponga piede in mia casa? Maritar Rosaura a mio dispetto, beffeggiarmi, ridersi, burlarsi di me? Ho giurato vendetta, e la eseguirò... Ma qual vendetta ho io determinato di fare? Oimè! la più orribile, la più detestabile che dar si possa. Avvelenare il marito? Può darsi azione più barbara, più nera, più abbominevole? Ah! che tremo in pensarlo. Tremo per il rimorso, per i pericoli, per il timore; scoperto che fosse il mio tradimento, sarebbe lo stato mio peggiore molto a quello che ora par che mi aggravi. Sarei in odio del cielo, in odio del mondo... Ma sono in impegno. Ah maledetto impegno! Fremo di sdegno, e mi sento ardere per la vergogna. Che farò? Che risolverò? Non saprei. Voglia il cielo che Pantalone non mi provochi d’avvantaggio. (parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Cortile in casa di Pantalone.

Colombina, poi Arlecchino

COL. Eppure quel vecchiaccio del mio padrone mi aveva gabbata, se la padrona non mi faceva aprir gli occhi. Mia madre sta molto bene, ed io era una pazza a lasciarmi levar di casa con sì bel pretesto; è ben vero però che il vecchio non mi può vedere e non mi lascerà mai aver pace, onde se mi viene occasione di maritarmi, lo voglio fare, e allora uscirò di casa con riputazione. Vi sarebbe Arlecchino, che non mi dispiace: è un poco sciocco, ma per la moglie non è male che il marito sia sciocco. Eccolo appunto, ed è vestito cogli abiti del signor Ottavio; qualcuna delle sue solite galanterie. E come sta bene!

ARL. Largo, largo al fior della nobiltà.

COL. Buon giorno, Arlecchino.

ARL. Addio, bella zitella. (con sussiego)

COL. Che vuol dire che stai così sussiegato meco?

ARL. La mia nobiltà non s’abbassa colle femmine cucinanti.

COL. Che! sei diventato nobile?

ARL. Non vedi l’abito?

COL. L’abito non fa il nobile.

ARL. E pur al dì d’ozi basta un bell’abit per aver del lustrissimo.

COL. Hai ragione. Dunque di me non ti degni?

ARL. No certo.

COL. E pur so che tu mi volevi bene.

ARL. E te ne voria ancora, se non fusse incavalierà.

COL. E se io fossi indamata, mi vorresti allora bene?

ARL. Siguro: te amaria quanto la pupilla degli occhi miei.

COL. Illustrissimo signore, si contenti d’aspettare un pochino, pochino. (Voglio secondar il di lui umore). (da sé)

ARL. Andate, andate, bella ragazza, che noi vi aspettiamo.

(Fino che torna Colombina, Arlecchino fa delle buffonerie, affettando l’aria nobile, facendo riverenze e pavoneggiandosi; poi torna Colombina, con tabarrino e cuffia da dama)

COL. Cavaliere, a voi m’inchino.

ARL. Bella dama, a voi mi prostro.

COL. Un cavaliere non istà bene senza la dama.

ARL. Né la dama sta bene senza del cavaliere.

COL. Dunque se vi compiacete...

ARL. Dunque se vi degnate...

COL. Io v’offro la mia destra.

ARL. Ed io la mia sinistra.

SCENA DICIANNOVESIMA

Pantalone in disparte, che osserva, e detti.

COL. E con la mano vi consacro il mio cuore.

ARL. E con la mia vi dono la coratella.

COL. Col laccio d’Imeneo le nostre nobiltà si congiungano.

ARL. Per far razza de nobili birbantelli.

PANT. (Fa cenno da sé che vuol burlarli, e parte)

COL. Ah, ch’io peno d’amore!

ARL. Ah, ch’io spirito dalla fame!

COL. Venga nel mio feudo, che potrà saziarsi.

ARL. E qual è il vostro feudo?

COL. La cucina.

ARL. Questo è un marchesato, che val più di un regno.

COL. Colà troverà i suoi sudditi.

ARL. E chi sono li sudditi?

COL. Alesso, fritto, ragù, arrosto e stufato.

ARL. Io mi mangio in un giorno il marchesato.

PANT. (Torna con quattro uomini, ai quali ordina con cenni ciò che devono fare, e resta in disparte. I quattro uomini s’avanzano; due prendono in mezzo Colombina e due Arlecchino. Essi vorrebbero parlare, ma gli uomini li minacciano e li fanno star cheti. Levano loro gli abiti da cavaliere e dama, sempre senza parlare, e Pantalone se ne ride; poi mettono in capo a Colombina un zendale, e addosso ad Arlecchino uno straccio di ferraiuolo; danno loro mano uno per parte, e li conducono via, sempre alla mutola, Colombina da una parte e Arlecchino dall’altra.

COL. Addio, cavaliere. (verso Arlecchino, partendo)

ARL. Addio, dama. (nella stessa maniera, e sospirando parte)

PANT. Serèli ben in quei magazzeni fina a stassera, che po li manderemo dove che i ha d’andar.

SCENA VENTESIMA

Pantalone solo.

PANT. Furbazzi! se pol far pezo? A poco alla volta lori giera i paroni, e mi el servitor. Che i staga ancuo in caponera; doman i manderò in t’un altro paese. A poco alla volta pol esser che me riessa de dar regola a sta nave, combattua dalla borrasca de tante contrarietà. Col giudizio, coi ripieghi, coi bezzi e colla prudenza, spero superar le tempeste d’una cattiva mugier, el vento d’un cattivo fio, i scogi d’una pessima servitù, e arrivando al porto della pase e della quiete, contar con gloria i pericoli, e recordarme con giubilo delle passae desgrazie.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Cucina con finestra, in casa di Pantalone, con fuoco acceso e varie pentole al focolare. Tavolino con un tondo ed un cucchiaio.

Cuoco che lavora, poi Beatrice con vari fogli in mano.

BEAT. (Di dentro) Arlecchino, Colombina, Arlecchino. (esce) Non si sentono, non si trovano; eh assolutamente è così: il vecchio me li ha fatti sparire. Giuro al cielo, l’avrai finita una volta, vecchiaccio indegno. Questo veleno mi libererà dalla tua tormentosa catena. Ma Colombina non c’è, e non so come mi fare. Costui mi dà soggezione... or l’ho pensata bene. Così si faccia. Ehi, cuoco.

CUO. Illustrissima.

BEAT. Avete molto che fare?

CUO. S’immagini, son solo.

BEAT. Anch’io son sola, per grazia del vostro signor padrone, che ha licenziata tutta la servitù, ed ho bisogno di far recapitare questi due fogli.

CUO. Ma io non posso; vede bene, ho le pentole al fuoco.

BEAT. Bisogna andarvi assolutamente.

CUO. E se le vivande anderanno a male?

BEAT. Vada al diavolo tutto, ma questo s’ha da fare.

CUO. Il padrone griderà.

BEAT. La padrona son io.

CUO. E il desinar chi lo farà?

BEAT. Il boia che t’appicchi. Va, e porta questi viglietti, e non replicare.

CUO. Comanda chi può, obbedisca chi deve. A chi vanno, illustrissima?

BEAT. Questo va al signor Lelio Anselmi, e questo alla signora Diana Ardenti. Recali subito, e fatti dare la risposta.

CUO. Sarà puntualmente servita. Ma la supplico far dar un’occhiata alle pentole... (Oh maledetta!) (da sé)

BEAT. Che vi è in quelle pentole?

CUO. In questa un ragù di polli alla francese; in questa un pezzo di carne pasticciata; in questa dell’erbe per una zuppa santé; in questa quattro maccheroni per la servitù; e in questa la panatella per il signor Pantalone.

BEAT. Non dubitare, che se capiterà alcuno, farò assistere alla cucina.

CUO. Ma... non potrebbe mandar questi due viglietti...

BEAT. Animo, non più parole.

CUO. Vado subito. (Uh, che diavolaccio è costei!) (da sé, e parte)

SCENA SECONDA

Beatrice, poi Ottavio

BEAT. Può darsi che il veleno produca colla morte di Pantalone qualche disordine, perciò voglio procurare di avere in casa qualche compagnia: mentre in tali casi uno aiuta l’altro. Ma già che in quel pentolino vi è la panatella di Pantalone, quella sarà a proposito per fare l’operazione. Ecco in questa poca polvere le mie vendette. (va al focolare, e mette il veleno nella pentola) Mangiala, che buon pro ti faccia. Non avrebbe da andar troppo in lungo l’effetto di questo veleno, poiché la dose è molto caricata.

OTT. Signora Beatrice. (affannato)

BEAT. Che vi è di nuovo?

OTT. Avete ricevuto da quella donna il foglio sigillato col veleno?

BEAT. Certo, l’ho avuto.

OTT. Datemelo, datemelo.

BEAT. Perché?

OTT. Datemelo, e non pensate altro.

BEAT. È già messo in opera.

OTT. Come? L’ha bevuto mio padre?

BEAT. No, ma è in una di quelle pentole, che sono al fuoco.

OTT. In quale?

BEAT. In una di quelle.

OTT. Le butterò tutte sossopra. Ah, che il rimorso mi rode il cuore! Sento un’inquietudine che mi tormenta. La natura, inorridita di così atroce delitto, mi rimprovera già di parricida.

BEAT. (Oimè, son perduta! Bisogna ingannarlo). (da sé)

OTT. Ho già persuasa la signora Diana della mia innocenza; e se mio padre non approva le nostre nozze, noi le faremo senza di lui; benché m’abbia egli fatto sottoscrivere quel foglio, un matrimonio segreto tronca qualunque promessa. Non sia mai vero ch’io cooperi alla morte di chi mi ha data la vita.

BEAT. Avete ragione, anch’io ne cominciava a sentir della pena; voi siete figlio, e vi sentite muovere dal nome di padre; anch’io finalmente son moglie, e il vostro esempio mi risveglia l’amore del consorte. Credetemi, lo facevo più per voi che per me. (S’egli riconciliato con Diana, più non cura le sue vendette, io non voglio trascurare le mie). (da sé)

OTT. Qual è dunque la pentola in cui bolle il veleno?

BEAT. Sì, caro Ottavio, figlio veramente amoroso e prudente. (va al focolare, e prende un’altra pentola ed un cucchiaio) Eccovi in quest’erbe, destinate per una zuppa da darsi al povero Pantalone, l’arsenico che mi avete mandato. Gittatele giù da quella finestra nel fiume, e si disperda con esse la memoria del nostro errore. (Purché l’effetto succeda, accada poi ciò che vuole). (da sé)

OTT. Vaso indegno, ricolmo d’iniquità, vatti a seppellire nell’acque, anzi nel fondo d’abisso. (getta la pentola dalla finestra.)

BEAT. (Povere erbe, non hanno colpa veruna). (da sé)

OTT. Ora son contento.

BEAT. Deh, in un perpetuo silenzio si nasconda il tentativo.

OTT. Ci va egualmente della mia, che della vostra salvezza. Or che ho salvato mio padre, torno più lieto dalla mia sposa. (parte)

BEAT. Va, che l’hai veramente salvato. Povero stolto! e tu pensavi che ti volessi dire la verità? Se non volevi che tuo padre morisse, non mi dovevi provvedere il veleno: che quando una donna disperata ha l’arme in mano di vendicarsi, morirebbe piuttosto che tralasciare di farlo. (parte)

SCENA TERZA

Rosaura, con un cane in braccio.

ROS. O che prodigio! la signora Beatrice in cucina, e intorno le pentole! Suo danno! Mio padre ha licenziato Colombina per cagion sua; faccia ora da sé. Ma gran discorsi faceva qui con mio fratello! Mi pare che abbia gettata una pentola dalla finestra. Oh che pazzi! Ma non v’è nemmeno il cuoco. Vorrei dare un poco di pappa alla mia cagnolina. Adesso adesso, piccina, aspetta, guarderò io se c’è nulla per te. (va al focolare) Oh, ecco appunto della pappa; sarà di mio padre. Non importa. Un poca anco a Perlina, e poi un poca ancora a Moschina tua sorella, sai. Vieni, cara, vieni. (Leva della panatella dalla pentola con un cucchiaio, e la mette in un tondino in terra, vicino al focolare; poi mette in terra Perlina, acciò vada a mangiare, ed essa, dopo annasatala, fugge dentro alle scene. Rosaura rientra nella scena per ripigliare la cagna fuggita, e ne porta fuori un’altra simile a quella, ma di legno, dipinta come Perlina e ad essa somigliantissima, la quale dal popolo viene perciò creduta Perlina, e la pone vicino al tondino della panatella, come se fosse la prima cagna; poi dice) O via mangia, che ora vado a prender Moschina. Quanto bene ch’io voglio a queste bestioline! Ma più però al mio sposino! (Parte. La finta cagnina, essendo snodata e raccomandata a vari fili, orditi al di sopra del teatro e ai laterali di esso, si fa giuocare, come se il veleno in lei operasse. Si vede fare dei contorcimenti, dei salti e dei capitomboli, e finalmente si vede stesa in terra, come morta. Rosaura torna colla medesima cagna di prima, che finge sia Moschina, sorella e simile a Perlina) Cara la mia Moschina, andiamo a mangiare la pappa colla sorellina. Ma che vedo! Perlina, che fai? Non mangia! È sdraiata! Par morta! O me infelice, che sarà mai? Perlina, Perlina dico. Non si muove. È dura, dura; quanta robaccia ha rigettata! Povera me! Perlina mia. (intanto che le va intorno, taglia i fili che la reggono, e la tira avanti) È morta; senz’altro è morta! Povera Perlina! Perlina mia! Oimè, che dolore ch’io provo! Oimè, non posso più!

SCENA QUARTA

Florindo e detta.

FLOR. Sposa, che avete? Che mai v’è accaduto di male? Perché gridate sì forte?

ROS. Ah, caro Florindo, mirate là la mia Perlina, morta così in un tratto.

FLOR. Me ne dispiace, ma poi non mi pare che una bestia esiga tanto dolore.

ROS. Eh, dite bene voi altri uomaccioni, che avete il cuor duro.

FLOR. Ma aveva male? Com’è morta?

ROS. Era sana, sanissima. Le ho dato a mangiare di quella pappa, ed è subito morta.

FLOR. Guardate come vien nera: pare avvelenata.

ROS. Certo, altro che veleno non può essere stato.

FLOR. Osserviamo questa panatella. Vi è della polvere cristallina. Di dove l’avete presa? (osserva il tondino)

ROS. Da quella pentola.

FLOR. Vediamola un poco. Capperi! vedete voi quella spuma? Quello è veleno.

ROS. E vi mancò poco non ne mangiasse anco Moschina. Vanne, vanne, cara, che l’odore non ti facesse morire. (manda dentro la cagna vera)

FLOR. E per chi deve servire questo pan cotto?

ROS. È solito mangiarlo mio padre.

FLOR. Dov’è il cuoco?

ROS. Io non lo so. Questa mattina non si vede.

FLOR. (Qui vi è qualche tradimento). (da sé) Ma chi attende al fuoco, nessuno?

ROS. Poco fa vidi la signora Beatrice che vi attendeva, e mi parve ponesse del sale nelle pentole.

FLOR. Buono!

ROS. E con essa vi era Ottavio mio fratello.

FLOR. Meglio!

ROS. E fra di loro pareva che contendessero.

FLOR. Ah indegni!

ROS. E Ottavio gettò una pentola dalla finestra.

FLOR. Ah traditori!

ROS. Ma perché dite loro simili ingiurie?

FLOR. Perché, eh? Semplice che siete! Beatrice ed Ottavio volevano avvelenare il signor Pantalone, e se quella povera bestia non lo scopriva, vostro padre innanzi sera moriva.

ROS. Misera me, che sento? Povero genitore! mi vien da piangere solo nel figurarmelo.

FLOR. Ma state cheta, e non parlate a nessuno. Lasciate qui questa cagna, e qui questa pentola. Ora io rimedierò al tutto. (Tacere un simil fatto sarebbe un fomentare le loro perfide iniquità. Chi risparmia i rei, sagrifica gl’innocenti). (da sé, e parte)

SCENA QUINTA

Rosaura, poi Pantalone

ROS. Ecco lì, poverina! Chi me l’avesse mai detto, che dovesse così miseramente morire! Mi sento strappare il cuore.

PANT. Fia mia, cossa fastu in cusina?

ROS. (Piangendo corre ad abbracciar Pantalone) Ah, caro padre, siete vivo, e vivrete per prodigio del cielo.

PANT. Perché? Cossa xe stà?

ROS. Riconoscete la vita da quella povera bestiolina.

PANT. Perlina xe morta?

ROS. Sì, me ne dispiace, ma più sarei afflitta se foste morto voi in di lei vece, mio caro papà.

PANT. Ma cossa gh’intrio mi([65]) con una cagna?

ROS. Se non moriva ella, dovevate morir voi.

PANT. Mi([66]) no t’intendo.

ROS. Ella è morta di veleno.

PANT. E per questo?

ROS. Il veleno è in quella pentola...

PANT. Avanti mo.

ROS. In quella pentola vi è una panatella...

PANT. E cussì?

ROS. Quella panatella era destinata per voi.

PANT. Aseo([67])! vien qua, fia mia, di’ pian che nissun ne senta. Come xelo sto negozio? Cossa sastu? Come lo sastu?

ROS. Ecco il testimonio di quel che io dico. Perlina è morta. La signora Beatrice e Ottavio mio fratello sono stati i carnefici di quella povera sventurata, e lo volevano essere di voi.

PANT. Via, no pol esser. Ti xe matta. La cagna sarà morta per altre cause. Varda ben a no parlar. Varda ben a no dir gnente a nissun. Che se ti parli, te depeno de fia.

ROS. Io non parlerò con nessuno. Ma quello che vi dico, è la verità.

PANT. No xe vero gnente. So mi che no xe vero gnente.

ROS. Eppure questa volta v’ingannate...

PANT. Anemo, andè via de qua, che questo nol xe liogo per vu.

ROS. La mia povera cagna...

PANT. La cagna lassela qua...

ROS. La vorrei...

PANT. No me fe andar in collera. Andè via.

ROS. Obbedisco. (Anderò a piangere con libertà). (da sé, parte)

SCENA SESTA

Pantalone solo.

PANT. Gran provvidenza del cielo, che assiste l’innocenza! Sti do traditori i me voleva morto, e col sacrifizio d’una bestia el ciel me salva la vita. Pur troppo vedo dal color e dalla bava de sta povera cagna, che la xe morta de velen, e quella xe la solita pignatela della mia panada. Ah, Beatrice crudel! ah, Ottavio desumanà! cossa ve falo sto povero vecchio? Perché no aspettar che la morte natural, che poco pol tardar a vegnir a trovarlo, ve lo leva dai occhi senza la macchia de un tradimento? Povero Pantalon! Una mugier sollevada dal fango, un fio arlevà con tanto amor, tutti do congiurai a procurarme la morte! E perché? La mugier per farse ridicola colle conversazion; el fio per precipitarse col matrimonio. Oh povera umanità! L’omo se fabbrica da so posta i precipizi, e el compra colle iniquità la so propria rovina. Cossa ogio da far in sto caso? Taser xe mal; parlar xe pezo. Se taso, ghe filo el lazzo([68]); se parlo, tutto el mondo lo sa. Tasendo, xe in pericolo la mia vita; parlando, pericola la reputazion della casa. Prudenza e consegio. Orsù, qua bisogna ziogar de testa. Remediarghe, ma senza strepito. Quel che ho fatto de Colombina e de Arlecchin, farò de Beatrice. La farò serar in t’un liogo, che gnanca l’aria lo saverà, e no mancherà pretesti per farla creder o in villa, o ammalada. Mio fio lo manderò in Levante, e me libererò in sta maniera de do nemici, senza sacrificarli e senza publicar i desordini della mia casa. Sta pignata, sto piatto e sta cagna bisogna farli sparir, acciò no s’abbia un zorno a trovar el testimonio delle so indegnità e delle mie vergogne. Marii([69]) troppo boni, pari troppo amorosi, specchieve in mi, e considerè che quando l’omo se marida, el se fabbrica delle volte un lazzo colle so man, e quando ghe nasse un fio, per el più ghe nasse un nemigo. (parte)

SCENA SETTIMA

Camera con varie porte e tavolino.

Beatrice e Lelio

BEAT. Ma venite. Di che avete paura?

LEL. Eh, signora mia, mi ricordo del complimento del signor Pantalone. Mi sovviene del trabocchetto.

BEAT. Per liberarvi da simile malinconia, vi ho condotto io stessa su per le scale.

LEL. E de’ due uomini della schioppettata, come anderà?

BEAT. Non dubitate. Vi giuro sull’onor mio che Pantalone fra poco non sarà più in istato né di comandare, né di vendicarsi.

LEL. M’affido alle vostre parole, come feci al vostro viglietto, e per ubbidirvi...

BEAT. Ditemi, signor Lelio, e parlatemi con libertà: avete voi veramente affetto per me? Sdegnereste voi l’occasion di esser mio sposo?

LEL. Signora, siete maritata.

BEAT. E se fossi vedova?

LEL. Mi farei gloria d’aspirare alle vostre nozze.

BEAT. Vien gente; ritiratevi in quella camera.

LEL. Io sono in curiosità di sapere per qual cagione mi avete ordinato di venir qui.

BEAT. Ritiratevi, dico, e saprete ogni cosa.

LEL. Vi obbedisco. (Che labirinto è mai questo!) (da sé, entra in una camera)

SCENA OTTAVA

Beatrice, poi Diana

BEAT. Spero passar più felicemente i miei giorni col signor Lelio. Egli è giovane, e di buon gusto.

DIA. Signora Beatrice, eccomi a ricevere i vostri comandi.

BEAT. Siate la ben venuta, signora Diana, non vi ho incomodata per me, ma per il signor Ottavio.

DIA. Che posso fare per lui?

BEAT. Presto avrà bisogno di voi.

DIA. Per qual cagione?

BEAT. Suo padre sta male; se morisse, voi gli rasciughereste le lagrime?

DIA. Lo farei volentieri.

BEAT. Credo anch’io che non vi dispiacerebbe la morte di Pantalone.

DIA. Certo ch’ei m’è nemico, ma finalmente è padre d’Ottavio.

BEAT. Bene bene, c’intendiamo. Favorite, ritiratevi in questa camera, che or ora sono con voi.

DIA. E Ottavio dov’è?

BEAT. Può tardar poco a venire.

DIA. Attenderò dunque le vostre grazie.

BEAT. Non mancherò a’ miei doveri.

DIA. Amore, a te mi raccomando. (entra nell’altra camera)

SCENA NONA

Beatrice, poi Ottavio

BEAT. La presenza di Diana gioverà molto per tener in freno Ottavio, quand’egli vedrà morire suo padre.

OTT. (Eppure non sono ancor quieto; il cuore mi presagisce qualche sinistro). (da sé, turbato)

BEAT. Che avete, signor Ottavio, che mi sembrate sospeso?

OTT. Ho incontrato mio padre, che scendeva le scale. Mi guardò torvo, non mi disse parola, e pareva gli uscisse il pianto dagli occhi.

BEAT. E bene! Che perciò?

OTT. Non vorrei avesse penetrato quello che si tramava contro di lui.

BEAT. Non lo sappiamo che voi ed io. Io certamente non ho parlato. Se voi non l’aveste fatto...

OTT. Guardimi il cielo; se dubitar potessi che ciò si svelasse, mi darei la morte colle mie mani.

BEAT. Sentite quanta gente sale le scale!

OTT. Certo, questo è un gran romore.

BEAT. Chi son coloro?

OTT. Non li conosco

BEAT. S’avanzano.

OTT. Che mai sarà?

SCENA DECIMA

Birri, Bargello, Notaioe detti.

I birri fermano Ottavio, e gli levano la spada. Il Bargello ferma Beatrice. I due si lagnano dell’affronto. Il Bargello li fa tacere con buona grazia. Il Notaio dice al Bargello che li conduca in prigione, ed egli lascia a lui quattro birri per far le necessarie perquisizioni. Il Bargello e i birri conducono via Beatrice e Ottavio. Il Notaio dice ai birri che facciano diligenza per trovare un cane morto di veleno e una pentola di pan cotto; e tutti partono per eseguire.

SCENA UNDICESIMA

Lelio da una camera e Diana dall’altra.

LEL. Che vidi!

DIA. Che intesi!

LEL. Signora Diana. (vedendosi l’un l’altro)

DIA. Signor Lelio. (vedendosi l’un l’altro)

LEL. Voi qui?

DIA. Voi in questa casa?

LEL. Io ci sono per mia disgrazia.

DIA. Ed io per mia mala ventura.

LEL. Avete veduto?

DIA. Pur troppo. Povero Ottavio! di lui che sarà?

LEL. Male assai, e peggio per la signora Beatrice.

DIA. Colui, vestito di nero, che disse di veleno?

LEL. Dubito che volessero suonarla al povero Pantalone. Certe parole mi ha dette la signora Beatrice.

DIA. Disse a me pur qualche cosa che mi fa dubitare. Ma noi in questa casa non stiamo bene.

LEL. Certo che venendo sorpresi, potremmo cadere in sospetto di complici.

DIA. Dunque partiamo... Ma sento gente.

LEL. Dubito che sia Pantalone.

DIA. Non ci lasciamo vedere.

LEL. Ritiriamoci nelle nostre camere.

DIA. Partiremo in miglior congiuntura. (entra in camera)

LEL. Ora sì, che se mi vedesse, sarebbe il tempo di usar l’ordigno del trabocchetto. (entra nella sua camera)

SCENA DODICESIMA

Pantalone solo.

PANT. Come! i zaffi([70]) in casa! Beatrice ligada! mio fio in preson! Donca xe stà parlà. Donca se sa dalla giustizia quel che con tanto zelo procurava de sconder! Povera la mia reputazion! povera la mia casa! Adesso sì che scomenzo a perder la carta del navegar, e la bussola più no me serve. Perder la mugier no sarave gnente, anzi el sarave per mi un gran vadagno el perder una cossa cussì cattiva. Perder un fio sarave poco, perché finalmente perderave un sicario, un traditor; dei bezzi no me importa: come che i xe vegnui, i pol andar, e el cielo che me li ha dai, me li pol anca tior. La vita poco la stimo. Ho vivesto abbastanza e la morte de poco la me pol minchionar. Ah, l’onor xe quello che me sta sull’anema! L’onor xe quel tesoro che no gh’ha prezzo, che vive anca dopo la morte e che, perso una volta, se stenta a recuperar. Questa xe la gran perdita, che adesso me fa zavariar([71]). Questo in te le mie desgrazie xe el tormento più grando. Cossa dirà el mondo de mi? Come se parlerà della mia famegia? In che stima sarogio tegnù? Xe vero che mi no son complice dei delitti della mugier e del fio; ma el fio e la mugier le xe do persone tanto taccae al pare e al mario, che per forza bisogna che l’uno partecipa dell’onor e del disonor dei altri. Se mia mugier xe infamada, l’infamia casca sora de mi; se mio fio xe condannà, mi ho a soffrir i desordeni della condanna. Cossa donca([72]) ogio da far? Viver in mezzo a tanti rossori? A un omo che stima la reputazion, come mi, xe impossibile. Darme la morte colle mie man? Me tiorave el dolor, ma crescerave l’infamia della mia casa. Donca cossa ressolvio de far? Prudenza, che ti m’ha sempre assistio in te le mie desgrazie, no ti gh’ha gnente da suggerirme in t’un caso de tanta importanza? Ti me abbandoni sul più bello? Anemo, adesso xe tempo de far cognosser al mondo che la prudenza xe la medesina universal dei animi travagiai, e che colla prudenza l’omo pol superar tutte le contrarietà del destin. Sì, te sento, te intendo, ti me incoragissi, ti me dà anemo, ti me dà speranza. Sì ben, el partìo no me despiase... se poderave muarghe le carte in man... el can l’ho buttà via... la pignata xe andada... manca el corpo del delitto... Mi son l’offeso... La Giustizia no poderà condannar... So quel che digo... La piaga xe fresca, el remedio sarà ancora a tempo. Parlerò, pregherò, spenderò, pianzerò, se bisogna, sparzerò tutto el sangue, pur che se salva l’onor. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Cortile con due porte terrene, o sian magazzini.

Notaio e birri.

NOT. Eppure non si trovano né questo cane, né questa pentola. La signora Rosaura ed il signor Florindo asseriscono che dovevano essere nella cucina. Saranno stati nascosti. Facciamo ogni diligenza per ritrovarli. Buttate giù queste porte.

(I birri buttano giù una porta, dalla quale esce Colombina)

SCENA QUATTORDICESIMA

Colombina e detti.

COL. Buona gente, il cielo vi benedica, che mi avete liberata da quella carcere.

NOT. Chi vi ha serrata là dentro?

COL. Credo siano stati certi bricconi indegni de’ birri, che non si dà al mondo peggior gente di quella, ma questi almeno sono galantuomini, che mi hanno liberata.

NOT. (Signori galantuomini, il complimento è tutto vostro). (ai birri) Ma perché vi hanno rinserrata? (a Colombina)

COL. Per nulla. Che venga la rabbia a quanti birri vi sono. Credetemi, se ne trovassi uno, lo vorrei trucidare colle mie mani.

NOT. (Costei forse saprà qualche cosa del veleno). (da sé) Legatela, e conducetela a Corte. Frattanto io anderò a visitare questa stanza. (entra nella stanza terrena. I birri legano Colombina)

COL. Come! ancor voi mi legate? Non sareste già... Oh me meschina! sentite, se ho detto male dei birri, ho inteso di dire di quei cattivi. Ma dove mi conducete? Ah povera Colombina! Finora colle mie bellezze mi riuscì di legare, ed ora mi conviene esser legata. (parte con due birri, gli altri restano)

SCENA QUINDICESIMA

Il Notaio dalla suddetta stanza, poi Arlecchino e birri.

NOT. Qui non vi è nulla. Buttate giù quest’altro uscio.

(I birri buttano giù l’uscio dell’altra stanza terrena, ed esce Arlecchino tutto lasso e cadente. I birri lo reggono, ed egli si va appoggiando ad essi, e ora casca di qua, e ora di là)

NOT. Animo, amico, che cosa avete?

ARL. Fame.

NOT. Chi siete?

ARL. Fame.

NOT. Che nome avete?

ARL. Fame.

NOT. Chi vi ha serrato là dentro?

ARL. Fame.

NOT. Costui non vuol parlare. Legatelo bene, e conducetelo a Corte.

ARL. (Gridando fame, fame, si lascia dai birri strascinar via)

NOT. Mi pare uno sciocco, dubito che poco vi sarà da ricavare rapporto al venefizio di cui si tratta. (parte)

SCENA SEDICESIMA

Sala del Giudice, con tavolino con sopra da scrivere, ed un processo, e due sedie.

Il Giudice a sedere, poi il Notaio

GIUD. Questi rei sono troppo ostinati, non vogliono confessare; e se non riesce al notaio di rinvenire il corpo del delitto, la causa si vuol render difficile. Ma eccolo appunto che viene. (entra il Notaio) Ebbene, signor notaio, avete ritrovato il cane morto e la pentola avvelenata?

NOT. Fu vana ogni mia diligenza; nulla di ciò si è potuto rinvenire. Trovai chiusi in due stanze terrene un servitore ed una serva di Pantalone; credendoli intesi del fatto, li feci arrestare, ma costituiti poi con ogni accuratezza, ed esaminati altresì la signora Rosaura ed il signor Florindo, trovai che Pantalone li aveva fatti colà rinserrare per castigarli della loro insolenza, prima che fosse commesso l’attentato del venefizio di cui si tratta, onde li feci sciogliere e licenziare.

GIUD. Ma senza il corpo del delitto come verremo in chiaro della verità per procedere contro de’ rei? Voi vedete che non si tratta di un delitto di fatto transeunte, ma permanente.

NOT. Se V.S. Eccellentissima mi dà licenza, dirò essere necessario di venire al confronto. La signora Rosaura e il signor Florindo protestano che manterranno in faccia a Beatrice ed Ottavio quanto hanno deposto; onde facciamoli venir tutti quattro, che forse un tal esperimento gioverà contro la loro ostinazione. Darò io loro alcuni interrogatori, che mi comprometto di farli confessare senza tormenti.

GIUD. Approvo il vostro parere. Così si faccia. Sedete. (Notaio siede, suona il campanello)

SCENA DICIASSETTESIMA

Bargello e detti.

BARG. Che comanda V.S. Eccellentissima?

GIUD. Conducete qui Beatrice ed Ottavio, detenuti per venefizio, ed altresì fate introdurre Rosaura Bisognosi e Florindo suo marito, chiamati a Corte come testimoni.

BARG. Sarà ubbidita. (parte)

GIUD. Il caso è molto grave. Una moglie ed un figlio tentar di avvelenare il marito ed il padre? Che iniquità! Voglio dare un terribile esempio. Voglio usare tutti i rigori della giustizia.

NOT. Ma specialmente bisogna severamente punir Beatrice, acciò queste mogli cattive imparino a trattar bene i loro mariti. In oggi sono tanto arroganti, che non si può più vivere.

SCENA DICIOTTESIMA

Beatrice ed Ottavio alla parte dritta, con birri e Bargello.

Rosaura e Florindo alla parte sinistra, e detti.

GIUD. Signor Florindo, l’ostinazione di questi inquisiti, che negano le loro colpe, impegna la vostra onestà a sostenere in faccia loro quanto avete deposto. Ora si dovrà venire al confronto. E se voi (alli due rei) avrete la temerità di negare, sapranno i tormenti strapparvi di bocca, vostro malgrado, la verità. Signor notaio, scrivete.

SCENA DICIANNOVESIMA

Pantalone e detti.

PANT. Sior illustrissimo, la prego sospender per un momento, e degnarse de ascoltarme anca mi.

GIUD. Parlate pure, ch’io non ricuso ascoltarvi. Volete esser solo?

PANT. Eh, no m’importa che ghe sia tutto el mondo. Me stupisso che in t’una causa e in t’un processo, dove mi comparisso l’offeso, se vaga avanti senza ascoltarme. Xe vero che el delitto de venefizio xe delitto pubblico, e per la pubblica vendetta se procede ex officio, ma xe anca vero che, dove se tratta dell’ingiuria o del danno, la parte offesa s’ha da ascoltar.

GIUD. (Mi pare che non dica male). (al Notaio, piano)

NOT. (È vero, ma vi è sempre tempo). (al Giudice)

GIUD. (Per lo più voi altri notai mettete il carro avanti i buoi). (al Notaio) E bene, che intendete dire perciò? (a Pantalone)

PANT. Intendo de dir che se forma un processo ingiusto e desordenà. Che la falsa quarela, dada contra mia mugier e mio fio, offende la reputazion de mi e della mia casa, e intendo che no se proceda più avanti.

GIUD. Voi pretendete troppo, signor Pantalone. L’accusa non si presume calunniosa, mentre l’accusatore è persona onesta.

PANT. Cossa me parlela de presunzion? In t’una causa de sta sorte ghe vol altro che presunzion. Fatti i vol esser, prove e testimoni: e siben che no son omo legal, no son però tanto indrio colle scritture([73]), che no sappia anca mi che in criminal prima de tutto s’ha da cercar el corpo del delitto. Dov’elo sto velen, che se dise parecchià per mi da mia mugier e mio fio? Dov’ela quella pignata, dove in vece del mio alimento bogiva([74]) la mia morte? Dov’è quel can che se crede che sia morto in vece mia, e che m’abbia salvà la vita colla so morte? Questi i doverave esser i fondamenti della macchina de sto processo, e senza de questi la fabbrica no sta in piè, anzi la precipita e la se destruze. Ma za che se tratta de una causa che xe tutta mia, vogio mi supplir alle mancanze del fisco e vogio mi presentar in offizio quel corpo del delitto, che fin adesso no s’ha trovà. La favorissa, sior nodaro, de lezer la descrizion del can, che se dise morto in vece mia de velen.

NOT. (Descrive un cane della tale statura, del tal colore, coi tali e tali contrassegni, come sarà stato veduto dagli spettatori)

PANT. Sta cagna che no se trova, sto corpo de delitto che manca, el xe in te le mie man, lo gh’ho mi, e l’ho fatto portar qua per lume e disinganno della Giustizia. Dè qua. (chiama un suo servitore, da cui riceve la cagna viva) Eccola qua viva e sana; la confronta la statura, i colori, le macchie, i accidenti, el pelo, le recchie e el naso. Questa xe la cagna che se credeva morta, ma no xe vero. Qualche accidente l’averà stramortia, e l’umana ignoranza, credendo sempre el mal, pensando sempre al pezo, ha fatto creder alla semplice de mia fia e al gnoco de Florindo, che la fusse morta, e morta de velen. (il Giudice ed il Notaio osservano la cagna, e con cenni approvano esser quella) Mancando donca el corpo del delitto, manca tutte le presunzion. Ma come presumer mai se podeva che una mugier volesse velenar un mario, che un fio volesse velenar so pare? Una mugier per la qual ho abuo tanto amor e respetto, un fio per el qual ho abuo tanta tenerezza e passion? No, che no i xe capaci de un tradimento cussì crudel. Mia mugier xe el specchio dell’onestà; mio fio l’esempio dell’ubbidienza. El cielo m’ha dà una mugier che no merito, un fio che me rende consolazion. La mia famegia xe sempre stada benedia dalla pase; la mia casa xe sempre stada l’abitazion dell’amor. Mai tra de nu no xe passà una cattiva parola; mai da sti do innocenti ho abuo un desgusto. Mia mugier attenta a assisterme con carità; mio fio impegnà a servirme con fedeltà. Mi ho sempre procurà de contentarli. I ho trattai no da marcante, ma da zentilomo; mai gh’ho fatto mancar, no dirò el so bisogno, ma quanto i saveva desiderar. Donca per che motivo se puol creder mai che i me volesse velenar? Quando se tratta de presumer un delitto, bisogna esaminar se ghe giera rason de cometterlo. Né mi meritava da lori sta crudeltà, né lori i giera capaci de concepirla. (Beatrice e Ottavio s’inteneriscono e piangono) La i varda in viso, sior giudice, per carità; la veda se quelle idee le xe capace de tradimenti. I pianze, poveretti, i pianze dal dolor de sentirse cussì a placitar([75]); i pianze per el dolor de un mario e de un pare afflitto e appassionà, per veder una mugier innocente, un fio senza colpa in figura de rei, ligai e presentai in fazza della Giustizia. No, cari, no pianzè; passerà sto nuvolazzo([76]) che manazza([77]) tempesta, tornerà el sol della nostra pase. Vegnì qua, lassè che ve abrazza, che ve strenza al petto, in segno de quella sicurezza che gh’ho del vostro amor, del ben che ve vogio, e della speranza de vederve presto fuora de sti pericoli, senza macchia della nostra reputazion. (abbraccia ora l’uno, ora l’altro, piangendo)

GIUD. (Qual naturale eloquenza han mai i Veneziani!) (piano al Notaio)

NOT. (Bisogna far forza per non arrendersi!) (al Giudice, come sopra)

BEAT. Ah mio adorato consorte, eccomi, che pentita...

PANT. (La tira un poco lontana dal tribunale, e le parla sottovoce) Zitto, anema mia, zitto, no parlar; questo no xe liogo da scuse e da pentimenti. Se el cielo ve inspira qualche bon sentimento per mi, trattegnilo anca un puoco; a casa poderè sfogarve, e consolar sto povero vecchio, che ve vol tanto ben.

BEAT. (Mi sento scoppiar il core). (da sé, rimettendosi)

OTT. Ah caro padre, se fui sedotto...

PANT. (Fa lo stesso, come ha fatto con Beatrice) Tasi, e no parlar in sto liogo. No scoverzimo i pettoloni([78]) senza proposito. No mancherà tempo de sepellir in te le lagreme ogni cattiva memoria. Da ti no vogio altre scuse che ubbidienza e respetto.

GIUD. (Guardate come son tutti inteneriti). (piano al Notaio)

NOT. (Quasi quasi farebbon piangere anche me). (piano al Giudice)

ROS. (Io resto stordita!) (piano a Florindo)

FLOR. (Vostro padre è un grand’uomo. Noi abbiamo fatto il male, ed egli vi ha rimediato). (a Rosaura, come sopra)

PANT. Sior giudice, mancando el corpo del delitto, e mancando ogni presunzion, no credo che la gh’averà difficoltà de dichiararli innocenti e liberarli da ste miserie.

GIUD. Signor Florindo, voi, che per asserto zelo della vita di vostro suocero, foste l’accusatore del venefizio, che dite in confronto dell’arringa del signor Pantalone?

FLOR. Dico che troppo facile fui a prestar fede ad una vana apparenza, qualificata dalle illusioni di Rosaura mia consorte, onde, in quanto a me, mi ritratto dalla querela, convinto dall’evidenza in contrario, e pentito d’aver cagionata una tal vessazione ad una famiglia che non la merita.

GIUD. E voi, signora Rosaura, con qual fondamento avete confermata la deposizione del signor Florindo?

ROS. Non mi confondete. I vostri termini io non li intendo.

GIUD. Perché avete detto che la cagna era morta?

ROS. Perché non credevo che fosse viva.

GIUD. Ma perché non aveva ad esser viva?

ROS. Perché credevo che fosse morta.

GIUD. Ma ora è morta, o viva?

ROS. La morta è morta, e la viva è viva.

PANT. Ah caro sior giudice, no la daga mazor tormento a un povero pare, col torse spasso d’una fia semplice e senza el chiaro lume della rason. No sentela el fondamento de quelle belle risposte? La credeva morta, la credeva viva, la morta è morta, e la morta è viva? Su sto bel principio s’ha fondà el discorso de sior Florindo, co sto bel fondamento l’è vegnù a denunziar. Mi bisogna sentirme, mi bisogna ascoltarme. A mi, se i fusse rei, complirave che i fusse castigai, a mi doverave premer de metter in siguro la mia vita insidiada e perseguitada; ma mi son quello che nega la denunzia, che convince el denunziante, che prova non esser vero el delitto, e mi son quello, che azonzendo alle rason più sode e più vere le lagreme più calde e più vive, cavae dal fondo del cuor, prostrà ai piè de sto Tribunal, domando e giustizia e pietà: giustizia per do poveri innocenti falsamente accusai; pietà per un povero vecchio, ferio nella parte più delicata, che xe l’onor. La giustizia li assolve, la pietà me consola; e se la giustizia dovesse ancora sospender la grazia, la pietà sia quella che me conceda un’anticipata consolazion.

GIUD. Signor Pantalone, alzatevi e consolatevi. La mancanza del corpo del delitto, la deficienza di prove, la ritrattazione dei denunzianti, rendono finora nullo il processo, e fanno sperare la libera assoluzione degli imputati. È ben vero però che il fisco potrebbe passare a diligenze maggiori, specialmente circa alla vita, ai costumi e al domestico loro contegno, ma in grazia della vostra difesa, della vostra tenerezza, della vostra bontà, usando quell’arbitrio che a me danno le leggi, liberamente li assolvo. Se sono innocenti, lo meritano per se stessi; se sono rei, lo merita il dolcissimo vostro cuore. Sicuro, che se anco fossero rei, sarà maggior colpo nell’animo loro la vostra pietà, di quello far potessero i rigori della giustizia. Signor Pantalone, ve lo ridico, consolatevi che sono assoluti.

PANT. Ohimè... No posso parlar... Sior giudice... Fioi, vegnì qua... Me schioppa el cuor...

BARG. Eccellentissimo signor giudice, chi mi paga le mie catture?

GIUD. Quando il reo resta assoluto, è nulla la cattura e il processo.

NOT. Anch’io ho scritto ed ho faticato, e vi ho rimesso la carta.

BARG. Ma io intendo che si proceda coi rigori del fisco.

PANT. Via, sior bareselo, buttè più bon, che savè che mi son galantomo.

BARG. Tutti dicono esser galantuomini colle parole, ma i fatti poi non corrispondono.

PANT. (T’ho capio). (da sé) Ma mi son galantomo più dei altri; e che sia la verità, passando per la sala de sto palazzo ho visto a luser in terra e ho trovà sto relogio. L’ho cognossuo che l’è vostro, l’ho tiolto su, e senza badar al valor e alla perfezion, onoratamente lo restituisso al so vero patron.

BARG. È vero, questo è il mio orologio. L’avevo perduto. Vi ringrazio d’avermelo restituito. Signor giudice, il signor Pantalone è un galantuomo, bisogna prestargli fede. Assolva pure la di lui moglie e il di lui figliuolo, che quanto a me volentieri gli dono le mie catture. (parte)

NOT. (Questa bella frase del signor Pantalone mi pone in qualche sospetto). (piano al Giudice)

GIUD. Quello che ho fatto, ho fatto, e non mi pento di averlo fatto. (al Notaio)

NOT. Pazienza! Mi dispiace la carta... (parte)

PANT. Andemo, no perdemo più tempo. Sior giudice, no so cossa dir. El ciel la benedissa; el cielo la defenda da ogni desgrazia. (E me varda mi de aver bisogno mai de sta sorte de grazie). (da sé, parte)

BEAT. (Fra il dolore, il rossore ed il pentimento, mi sento balzar il cuore nel seno). (da sé) Signor giudice, rendo grazie alla vostra pietà. (parte)

GIUD. (Eppure colei non la credo tanto innocente. Oh donne senza giudizio!) (da sé)

OTT. (Povero padre! Poteva far di più per salvarmi?) (da sé) Signor giudice, a voi m’inchino.

GIUD. Amate e rispettate il vostro genitore, che ben lo merita.

OTT. (Questo rimprovero mi fa tremare). (da sé, parte)

ROS. (Ora sì, che sto fresca! Beatrice mi vorrà morta, e mio padre mi mangerà viva). (da sé) Signor giudice, volete altro da me?

GIUD. No no, andate pure. Abbiate un poco di prudenza.

ROS. Il cielo mi liberi dalle vostre mani. (parte)

FLOR. Non vorrei, signor giudice, che la mia denunzia sembrasse una calunnia.

GIUD. Per questa volta vi passa bene, un’altra volta pensateci meglio.

FLOR. (Se vengo più qui sopra, mi si rompa l’osso del collo). (da sé, e parte)

GIUD. Molto malagevole impegno è quello del giudice! Dover sempre imprimer timore, e dover sentire tutto giorno dolersi, piangere e sospirare! Io sono consolatissimo, quando posso assolvere e far bene. Valendomi del sentimento di quel poeta:

«Giudice che pietoso assolve i rei,

Egual si fa nella clemenza ai Dei.» (parte)

SCENA VENTESIMA

Camera di Pantalone con due porte.

Lelio e Diana

LEL. Vi dico, signora Diana, che giù per quella scala io non ci voglio andare, e non ci dovete andar nemmen voi.

DIA. Questo è un vostro vano sospetto. Ancorché fosse vero, che nella scala che dite vi fosse il trabocchetto, ora per l’appunto Pantalone avrà levato l’ordigno. Eh via...

LEL. Nello scender ch’io feci, tentai bel bello col piede ciascun gradino, e sentii che il quinto volea mancarmi di sotto i piedi, se non ero prevenuto e non mi ritiravo per tempo.

DIA. Vi dico che questa è apprensione.

LEL. Io non voglio arrischiar la vita.

DIA. Che dunque? Dobbiamo stare qui eternamente?

LEL. Aspettiamo la sera, e col favor delle tenebre scenderemo dalla finestra.

DIA. Bel pensiere! (ridendo)

LEL. Opportuno, mia signora.

DIA. Sento gente.

LEL. Torniamo a nasconderci. (entra nella sua camera)

DIA. Per esser uomo, è più vile di me. (entra nella sua)

SCENA VENTUNESIMA

Pantalone solo.

PANT. Ah Giove, ah Giove, ve ringrazio con tutto el cuor. Me xe riussio finalmente de salvar la reputazion. Tutti chi m’incontra, se rallegra con mi, e persuasi che Beatrice e Ottavio fusse innocenti, i compatisse la so desgrazia, e i gh’ha invidia della mia fortuna. Me par, se no me inganno, d’aver intenerio quei cuori de sasso. Ah, se fusse vero, no ghe sarave a sto mondo un omo più felice de mi.

SCENA VENTIDUESIMA

Beatrice e detto.

BEAT. (S’inginocchia alla dritta, e parla piangendo) Ecco a’ vostri piedi, o mio adorato consorte, una moglie ingrata e crudele, indegna del vostro amore. Confesso che, acciecata dalle furiose passioni, ho avuto la empietà di procurare la vostra morte; ma ora, pentita di cuore, convinta e intenerita dal vostro amore e dalla vostra pietà, vi chiedo umilmente perdono, e vi supplico di non negarmi la grazia, ch’io vi possa baciar la mano.

SCENA VENTITREESIMO

Ottavio e detti.

OTT. (S’inginocchia dall’altra parte, pure piangendo) Amorosissimo mio genitore, eccovi dinanzi gli occhi un figlio traditore, inumano, degno dell’odio vostro e di mille morti. Confesso di aver cooperato alla vostra morte, ancorché tardi, e fuor di tempo, abbia tentato di ripararla. Ed ora avendo in odio me stesso, vi chiedo pietà, e vi supplico e vi scongiuro a concedermi il prezioso dono d’imprimervi un bacio su quella mano adorata.

PANT. (Dà una mano a ciascuno di essi, piangendo) Tiolè, tiolè, cuor mio, vissere mie, leveve su, lassè che ve abrazza, che ve struccola([79]), che ve basa. No parlemo più del passà. Ve perdono; sì, ve perdono, e se sarè co mi una bona mugier e un fio ubbidiente, ve sarò sempre mario affettuoso e pare desvisserà.

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Rosaura e detti.

ROS. Signor padre, io sono stata la cagione di tanti vostri rammarichi, ma finalmente, considerando che io l’ho fatto per timore della vostra morte, concedetemi un benigno perdono.

PANT. Sì, fia mia, te perdono. Ma no me far più de ste burle. Co t’ho dito de taser, no ti dovevi parlar.

ROS. Allora aveva di già parlato.

PANT. No me fazzo maravegia, perché la testa delle donne la xe come un caratello([80]). Quel che intra per i spinelli([81]) o delle recchie, o dei occhi, subito va fuora per el coccon([82]) della bocca.

SCENA VENTICINQUESIMA

Florindo e detti.

FLOR. Io, signor Pantalone, fui quegli che per salvare la vostra vita portai le istanze alla Giustizia contro la signora Beatrice e al signor Ottavio. Ciò feci spronato dall’amore di genero, onde spero che voi mi perdonerete, non men di quelli che ho creduto d’essere in necessità di offendere, siccome vivamente li prego.

PANT. No posso desapprovar la vostra condotta. Ma mi che penso diversamente dai altri, ringrazio el cielo che la sia andada cussì. Ve scuso e ve perdono; e sul mio esempio no gh’è pericolo che mio fio e mia mugier no i fazza con vu l’istesso.

OTT. Come cognato e vero amico vi abbraccio.

BEAT. Io vi protesto tutta l’amicizia ed il rispetto. Ma, caro consorte, giacché siete così facile a conceder grazie, un’altra ardirei domandarvene.

PANT. Domandè pur. Voleu el sangue? Tutto lo sparzerò per vu, la mia cara colonna.

BEAT. Colombina e Arlecchino hanno perduto il pane per mia cagione. Son qui, che chiedono pietà; vi prego rimetterli in grazia vostra, assicurandovi che muteranno costume col nostro esempio.

PANT. Volentiera; tutto quel che volè; che i vegna pur, za che per accidente so che i xe stai cavai fuora de caponera([83]). Ma basta che anca vu ve contentè che torna in casa Brighella, che doverave esser poco lontan.

BEAT. Ne sono contentissima. Basta che voi lo vogliate.

SCENA VENTISEIESIMA

Brighella, poi Colombina, poi Arlecchino e detti.

BRIGH. Za che in desparte ho sentio la grazia che i mi paroni s’ha degnà de farme, con tutta umiltà l’accetto, e ghe prometto servitù fedel, respetto immutabile e obbedienza fina alla morte.

PANT. Caro Brighella, te vogio ben.

COL. Signor padrone, eccovi dinanzi la vostra povera cameriera, che per essere stata impertinente, avete con ragion castigata. Da qui avanti vedrete ch’io sarò obbediente come una cagnolina, e acciò non vi succedano più disgrazie, vi farò sempre la pappa colle mie mani.

PANT. Se ti gh’averà giudizio, sarà megio per ti.

ARL. Sior padron, son qua ai vostri piedi; mi ve compatisso vu, vu compatime mi, e quel che stà, è stà.

PANT. Za so che da ti no se pol aver de megio. Compatisso la to alocagine, e basta che ti sii fedel.

SCENA VENTISETTESIMA

Diana e detti.

DIA. Giacché vedo giubilar tutti in un mar di contenti, m’azzardo anch’io di presentarmi al signor Pantalone.

PANT. Come gh’intrela ella? Come xela qua?

DIA. Venni invitata dalla signora Beatrice.

BEAT. È vero, prima che fossi arrestata.

OTT. Signora Diana, voi mi vedete cambiato per opera dello sviscerato amor di mio padre; sappiate che il mio cambiamento è universale, e che mi trovo costretto a sagrificare all’obbedienza giurata al mio genitore anche l’amore che aveva per voi.

DIA. Pazienza! Confesso non esser degna di un tanto bene, e compatisco lo stato in cui vi trovate.

PANT. Ah caro fio! (E pur quella poverazza me fa peccà). (da sé)

SCENA ULTIMA

Lelio e detti.

LEL. Giacché la sorte mi fece a parte dei vostri contenti, non voglio lasciare di consolarmi con voi, mio veneratissimo signor Pantalone.

PANT. Anca ella? Come?

LEL. Anch’io fui qui chiamato dalla signora Beatrice.

BEAT. Pur troppo è vero; ma ora comincio ad aborrire il mio passato costume.

PANT. (Me despiase che sta zente ha sentio tutto e no vorave che i parlasse; bisogna obligarli). (da sé) Sior Lelio e siora Diana, in segno de quella stima che fazzo de lori, ghe vorave proponer un mio pensier, ma vorave mo anca che i se degnasse de accettar el mio bon cuor, senza rimproverarme de troppo ardir.

DIA. Io dipenderò da’ vostri voleri.

LEL. Sarò pronto esecutore de’ vostri comandi.

PANT. Siora Diana, me togo la libertà de offerirghe sie mille ducati, acciò la se trova un mario adattà alla so condizion; e se sior Lelio xe contento, pregherò siora Diana che a ello, co la dota, la ghe daga la man e el cuor. Cossa diseli?

DIA. Io son contenta. (Altro non cercava che di maritarmi). (da sé)

LEL. Ed io mi chiamo felice. (Sei mila ducati non si trovano così facilmente). (da sé)

PANT. Anca questa xe fatta. Adesso sì che son veramente contento; ma siccome a sto mondo no se pol dar un omo contento, cussì me aspetto a momenti la morte. No m’importa; morirò volentiera co la consolazion d’aver redotto de una mugier capricciosa una compagna amorosa, de un fio scavezzo un agnello ubbidiente, de zente discola persone savie e da ben. Sia dito a gloria della verità, questa xe tutta opera della prudenza, la qual, come calamita fedel, voltandose sempre alla tramontana del ponto d’onor e della giustizia, anca in te l’alto mar dei travagi insegna al bon nocchier a schivar i scogi delle disgrazie e trovar el porto della vera felicità.

Fine della Commedia


([1]) Corte bandia: tripudio.

([2]) Cagadonao, disgraziato.

([3]) Mugier, moglie.

([4]) Ben vegnuo, ben venuto.

([5]) Care raìse, care viscere.

([6]) Cara fia, cara figlia: termine di tenerezza, che si usa con tutte le donne di confidenza.

([7]) Carega, sedia.

([8]) Putta, ragazza.

([9]) Gh’avè rason, avete ragione.

([10]) Novizza, sposa.

([11]) Inmusonà, adirato.

([12]) Oh che fio,  per metafora: oh che briccone.

([13]) Luse, torzo: lumi, torcia.

([14]) Mi, io.

([15]) Do amazai, per metafora, due ganimedi.

([16]) La machina, per metafora, la cicisbea.

([17]) Desmestegando, accostumando

([18]) Incocalio, reso stupido.

([19]) Fio, figlio.

([20]) Nassuo, nato.

([21]) Canapioli, giovinastri.

([22]) Véntoli, ventagli, ovvero roste.

([23]) Darò sesto, darò regola.

([24]) Proverbio.

([25]) Proverbio. Se remena, si rimescola.

([26]) Se sfredirà, si raffredderà.

([27]) Proverbio.

([28]) Gastalda, moglie del custode della casa di campagna.

([29]) Mare, madre.

([30]) Con reverenza parlando: ironia, rispetto all’aver dato della signora alla madre di Colombina.

([31]) Careghe, sedie.

([32]) A ton, a proposito.

([33]) V’ho tiolto, vi ho preso, cioè, vi ho sposato.

([34]) Col deo, col dito. Proverbio.

([35]) Redutto, ridotto.

([36]) La piavola de Franza, la bambola, che vien di Francia in Italia per la moda del vestire.

([37]) Muè, mutate.

([38]) Olà, ammirazione.

([39]) Traversa, grembiale

([40]) Te sgargato, ti scanno.

([41]) A brazzadei, abbracciato: frase burlevole.

([42]) Chiacole, chiacchere.

([43]) Melodia, flemmatica.

([44]) Incocalio, incantato.

([45]) Cagadonao, disgraziato.

([46]) Un fallo che podeva dir quindese. Alludesi per metafora al gioco del pallon grosso, nel quale ogni fallo conta quindici per gli avversari.

([47]) Impizzarla, accenderla.

([48]) Ruccola, erba amara odorosa che si mangia in insalata; metaforicamente vuol dir mezzana.

([49]) Schiva, fuggi.

([50]) Essi ti, sii tu.

([51]) Scampa, fugge.

([52]) Averze, apre

([53]) Vaga la casa e i copi, vada la casa e il tetto.

([54]) Responder de trionfo. Alludesi al gioco denominato Trionfo; vuol dire: rispondere alla stessa maniera, dar una carta del medesimo colore.

([55]) Rebecarte, rivoltarti.

([56]) Gastaldo, custode della casa di campagna.

([57]) Se l’ha battua, ne n’è andato.

([58]) Al dì d’ancuo, al dì d’oggi.

([59]) Paron, patrone.

([60]) Inmusonà, con faccia brusca.

([61]) Colle cegie revoltae, accigliato.

([62]) Sala lezer? sa leggere?

([63]) Ancuo, oggi.

([64]) Mezà, dicesi ad una stanza che serve a uso di studio o di negozio.

([65]) Mi, io

([66]) Come sopra.

([67]) Aseo, aceto, espressione di maraviglia.

([68]) Filar el lazzo, dar motivo di seguitar a far male.

([69]) Marii, mariti.

([70]) Zaffi, birri.

([71]) Zavariar, delirare.

([72]) Donca, dunque.

([73]) Tanto indrio colle scritture, esser ignorante.

([74]) Bogiva, bolliva.

([75]) Placitar, accusar in pubblico.

([76]) Nuvolazzo, nuvola pregna d’acqua.

([77]) Manazza, minaccia.

([78]) I pettoloni, i mancamenti.

([79]) Struccolar, stringere.

([80]) Caratello, picciola botte.

([81]) Spinelli, piccioli fori.

([82]) Coccon, turacciolo, e si prende per il maggior foro del botticino, a cui s’adatta il turacciolo.

([83]) Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi.