Marmellata d’arance

Stampa questo copione

MARMELLATA D’ARANCE

riduzione teatrale dall'omonimo romanzo riduzione teatrale di Anna Messina

dall'omonimo romanzo di Rosalia Messina

Copyright © 2013 Edizioni Arianna

Autrice del romanzo: Rosalia Maria Rita Messina, nata a Palermo il 28 febbraio 1955, residente a Bologna, in via Giovanni Brugnoli 11, 40122; telefono 3316085548; email mssrlm@libero.it

Autrice della riduzione teatrale: Anna Messina, nata a Torino il 28 febbraio 1958, residente a Siracusa, in Ronco secondo al viale Zecchino, 3/B, 96100; telefono 3403967488; annamessina@libero.it

POSIZIONE SIAE Rosalia M.R. Messina 209783

PERSONAGGI

in scena

Fabrizia

Immacolata

zia Gina

Roberto

Luca

zio Egidio

Giulio

Marcella

PERSONAGGI

retroilluminati nel fondale

Nonna Bianca

Emma

Fabrizia bambina

Fabrizia ragazzina

Fabrizia ragazza

Fabrizia adulta

Roberto ragazzino

Bambini

zia Concetta

Cugini e cugine

Addetti pompe funebri

 

ATTO PRIMO

Interno di abitazione, penombra, al centro, tavolino e piantana che getta luce diretta su una poltroncina. A sinistra, di fianco, una finestra. A destra, di fianco, uno specchio e una credenza.

Sfondo predisposto con fondale retroilluminato solo sul lato destro; dietro si intuisce, in controluce, la sagoma di un feretro, intorno al quale si muovono compassionevoli figure nella penombra frusciante di mormorii. Sul palco, a destra, una donna in preghiera, seduta, a capo chino,  fa scorrere il rosario fra le dita; un'altra resta aggrappata alla borsetta che tiene sulle ginocchia.

Si ode fuori campo il rumore di una macchina che giunge da lontano. Rumore di frenata, poi il fragore di una portiera sbattuta, motore della macchina che riparte. Di seguito passi veloci su una scala e poi, improvvisamente, come chi dopo un lungo correre è finalmente arrivato, un calpestio lento e leggero quasi in punta di piedi. Entra Fabrizia, con aria decisa; indossa giubbotto leggero,sciarpa leggera,borsa a tracolla; ha in mano un trolley. Avanza risoluta, come chi si trova in casa propria. Le va incontro Immacolata, la portinaia, i capelli raccolti a crocchia sulla nuca e lo scialletto grigio sulle spalle, una stretta di braccia silenziosa e forte, poi Immacolata si asciuga gli occhi col dorso della mano scuotendo il capo e l' accompagna fino al centro del palco,quindi esce. Fabrizia posa a terra il bagaglio e lentamente si sfila la sciarpa dal collo guardandosi attorno raggelata. Le va incontro una delle persone  in cordoglio, la zia Gina, vestita di nero, tiene stretto nel pugno un fazzoletto bianco, che ogni tanto si passa sugli occhi. Abbraccia Fabrizia e ripete mesta il suo nome.

ZIA GINA:  Fabrizia, Fabrizia.

FABRIZIA: Zia Gina…

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo) Ma tu vai d’accordo con la zia Gina?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo)  Le voglio bene, è mia sorella. E lei vuole bene a me. Ma siamo diverse, siamo sempre state diverse.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Tu sei più bella.

La zia Gina lentamente e mestamente torna nel gruppo di donne in cordoglio.

Fabrizia si sfila il giubbotto e lo butta sulla poltroncina, su cui siede. Prende, poi, dal tavolino un album di fotografie. Lo sfoglia lentamente, assorta. Si sofferma su una foto in particolare, poi alza lo sguardo, presa da un ricordo

La retroilluminazione del fondale si accende a sinistra e si attenua a destra senza spegnersi. Due figure oltre il fondale, visibili in controluce: una donna, la nonna, leggermente curva su un tavolo, impegnata a mescolare dentro un recipiente; una bimba, Fabrizia da ragazzina, in piedi  dall'altra parte del tavolo, intenta a guardarla.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) Crescere è una cosa complicata, Fabrizia. Quasi quanto essere genitore.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo) Me lo dici spesso (pausa). Ma perché è complicato crescere, nonna?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo, pacata) Perché nessuno conosce la ricetta. Devi fidarti di quello che ti dicono i grandi, ma ognuno di loro ti darà la sua ricetta. Pian piano, sarai tu a inventartene una tutta tua, prendendo qualcosa da quelle degli altri.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo, curiosa) E perché è difficile essere genitori?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo, paziente) Per lo stesso motivo, Fabrizia; non te lo insegna nessuno, devi inventarti la ricetta e la cosa più facile è che sbagli.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo, riflessiva) Sembra tutto così semplice, quando è spiegato da te (pausa). Uh, che bello, stai preparando la marmellata d’arance! Posso aiutarti?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo, accondiscendente) Certo! Sbuccia le arance. Guarda, così! (la mimica in controluce accompagna le parole) Ora, si deve eliminare tutta la pellicina bianca, così… poi si tagliano le bucce a listarelle sottili e la polpa a pezzetti, togliendo tutti i semi… Bene! Ora prendi i vasetti dalla credenza e li riempiamo.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: La tua sublime marmellata d’arance! La mia marmellata preferita. Ma non solo le marmellate; tutto quello che in cucina usciva dalle tue mani era sublime. La tua voce quieta scandiva l’incessante andirivieni dal tavolo all’acquaio, dall’acquaio ai fornelli, dai fornelli alla credenza. E intanto mi raccontavi di quando eri piccola, della tua vita col nonno, delle sorelle zitelle del nonno, più grandi di lui e morte ben oltre gli ottant’anni, dette per tutta la vita "le ragazze"; dell’ava tedesca, della prozia suora col cipiglio militaresco e le sopracciglia folte.

Questa, la tua casa, era il mio altrove salvifico in cui rifugiarmi ogni volta che sono stata assalita dalla voglia di fuggire.

Fabrizia riprende a  sfogliare l'album di fotografie mentre tutti escono piano dalla scena lasciando Fabrizia da sola che, infine, si avvicina alla bara, come se non avesse atteso che tutti andassero via.

FABRIZIA: Finalmente siamo sole, nonna. (pausa) Oggi, per la prima volta, mi sento orfana davvero. E l’ho sempre saputo, sai, che mi sarei sentita così. Ricordi? La mamma mi lasciava qui da te quasi senza nemmeno entrare, pronta a partire per uno dei frequenti vagabondaggi che trovava necessario intraprendere per "ritrovarsi", come diceva lei. Tu sorridevi, abbracciavi me, abbracciavi lei.

Lo sfondo si retro illumina a sinistra. Tre figure oltre il fondale, visibili in controluce: una donna, una ragazza, una bimba.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) Dai, Emma, fermati almeno il tempo di pranzare. Sei così magra!

EMMA: (voce fuori campo)  (senza asprezza, con allegria) I magri vivono più a lungo, Bianca!

NONNA  BIANCA: (voce fuori campo) Sto facendo le crocchette di patate.

EMMA: (voce fuori campo) (già allontanandosi) Al ritorno, quando vengo a prendere Fabrizia.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA:  È l’ultima notte che passiamo insieme. Non ho fatto in tempo a salutarti. Non hai preso congedo da nessuno, sei andata via nel sonno. Era quello che meritavi, quello che mi auguravo per te: un dileguarsi dolce, quieto. Voglio stare qui a guardarti e fare l’inventario di tutto quello che ora, solo ora, mi sembra definitivamente passato. Anche se a rovistare fra i ricordi si finisce sempre per essere feriti da qualche scheggia che morde.

Mia madre disse che avrei potuto raggiungerla in America, appena avesse trovato una casa e un lavoro, ma non riuscii a crederle. In fondo nemmeno desideravo continuare ad aspettare che nelle pieghe dei suoi sogni di figlia dei fiori ricavasse un posto per me. Non mi fidavo. Volevo stabilità, cure, attenzione. E già sapevo che queste cose potevi darmele soltanto tu. La certezza di essere stata per lei un incidente di percorso non mi procura più, ormai, alcun dolore.

Fabrizia prende a passeggiare sul palco, poi cerca nervosamente il cellulare nella borsa e, tiratolo fuori, compone un numero.

FABRIZIA:   Nonna è morta.

EMMA:  (voce fuori campo, dopo un breve silenzio)  Ha sofferto?

FABRIZIA:   (secca)  No. È morta come ci auguriamo tutti, nel sonno.

EMMA:  (voce fuori campo, sospira; poi tremante) Scusa, Fabrizia, devo chiudere. Stanno suonando alla porta. Ti chiamo presto. Stasera. O domani.

FABRIZIA:  (chiudendo la comunicazione) Non mi richiamerà. (poi, rivolgendosi al feretro) Non mi hai mai parlato male di lei. (dopo una breve pausa)  E per la verità raramente ho sentito dalla tua voce giudizi severi. Un’ironia bonaria, talvolta, ma nessuna asprezza, nessuna durezza. Eri la madre di tutti.

Esce di scena, vi fa ritorno dopo poco indossando un accappatoio e con un asciugamani in testa.

FABRIZIA: Bagno rimodernato, vasca con idromassaggio. A te non è passata mai la voglia di rinnovare questa casa, di comprarti un abito nuovo. L’attenzione per i dettagli era la tua passione, quasi una religione.

Si avvicina alla finestra.

FABRIZIA:  La pioggia accompagna spesso i funerali. Io non ne ho visti molti, ma tu mi raccontasti di quello del nonno. E anche di quello di papà. Pioveva, tutte e due le volte. E piove anche oggi…

A breve andrai a raggiungerli nella cappella di famiglia.

Esce di scena, rientra con i capelli sciolti sulle spalle, in sottoveste, con un golf che si infila mentre parla.

FABRIZIA:  Ho sempre fatto dei paragoni, nonna, tra te e mia madre. Territorio impervio. Tu, capace di sorprendermi sempre, mi apparivi stabile, rocciosa. Lei, la donna che mi ha messo al mondo, non aveva avuto voglia di fermarsi a vedermi crescere.

(pausa, mentre si ravvia i capelli) Oggi sarai in chiesa (sorride), tu che in chiesa andavi di rado. Non parlavi di Dio, non m’invitavi mai a farne la volontà. Giunsi abbastanza presto alla conclusione che non avevi bisogno di appoggi ultraterreni per proteggermi, per trovare sempre risposte alle mie domande e conforto per le mie lacrime. L’ultima volta che andai a trovare mia madre, l’ex figlia dei fiori, la trovai buddista…

Esce, torna con una gonna di cui sistema la cerniera e le pieghe

FABRIZIA: Dovevi sembrare strana alle tue coetanee, un tipo originale. Così sentivo sussurrare. Quando morì il nonno alleggeristi l’arredamento di tende e tappeti. Ricettacoli di polvere, soffocano − dicevi. E io ti chiedevo: − Ma al nonno piacevano?

Non ti spazientivi, anche se te l’avevo chiesto mille volte, sempre bisognosa di trovare quadrature ai cerchi, di tracciare linee rette di contenimento intorno al caos dei sentimenti e delle relazioni.

− Sì − rispondevi − gli piacevano tanto. E io brontolavo, ma li tenevo.

Il salotto californiano di mia madre, l’ex zingara, abbondava di centrini di pizzo, di tende, di tappeti…

Fabrizia si avvicina allo specchio per controllare l'abbigliamento. Si ferma,si guarda negli occhi e ride.

FABRIZIA: Rideresti con me, se potessi ascoltare questi pensieri. Ma dimmi, è possibile che tu li ascolti?

Pausa. Poi si avvicina alla credenza, l'ispeziona velocemente. Trova un contenitore di vetro con la chiusura ermetica, pieno di biscotti.

FABRIZIA: Naturalmente non mi deludi nemmeno stavolta. Ti tenevi sempre pronta a sfamare chiunque avesse varcato la soglia di casa. (Addenta un biscotto). Sarà una lunga giornata. (mentre mangia). Non mi sento disperata, nonna. Forse anche di questo devo ringraziarti. Mi hai tirato su bene, hai messo nel mio bagaglio tutti gli strumenti giusti per farcela. La tua morte non mi sconvolge. Sento il vuoto, mi mancano i tuoi occhi, il tuo sorriso, la tua voce. Però mi hai insegnato a non soccombere, quando la tempesta si abbatte su di me. Guardandoti, ho imparato a restare calma quando tutti si agitano, a riflettere prima di agire e a farlo rapidamente. Senza che tu lo abbia mai enunciato, il messaggio era che si deve sopravvivere, per quanto grande sia il lutto.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Una  figura oltre il fondale, visibile in controluce: una donna, la nonna.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) La vita non è facile né difficile. Si sopporta quello che viene senza tanto stare a piagnucolare. Ci si rimbocca le maniche e si va avanti. E per andare avanti c'è bisogno di tutta la propria forza. Si finisce per annacquarla, indulgendo alle lacrime.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi. Fabrizia torna a sedersi.

FABRIZIA:  Quanti ricordi in questa casa… Le mie feste di compleanno…

Lo sfondo si retroillumina  a sinistra. Voci di bambini fuori campo. Tante figure oltre il fondale, visibili in controluce: bambini, la nonna, la festeggiata davanti alla torta con le candeline, il soffio per spegnerle, gli applausi, il "Tanti auguri a te" che si spegne pian piano insieme alle luci del fondale.

FABRIZIA:  Ricordo in particolare quella dei miei dodici anni. Era una giornata piovosa come questa. Ma una bellissima festa! La casa era un tripudio di festoni multicolori di carta crespa, nati dalla magia delle tue mani. Sulla tavola una tovaglia rossa e sopra biscotti, ciambelle, cioccolato e la torta di compleanno, decorata con confettini rosa che formavano il mio nome. Avevi invitato tutti  i miei compagni di scuola,  i miei cugini e i bambini che abitavano nel condominio. (Pausa, come ricordando). Eh, già! I bambini del palazzo... Roberto!

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale, visibili in controluce: due ragazzini, un maschio e una femmina. Lui le si avvicina e le lecca un orecchio. Lei lo spintona.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Che schifo  (gridando)!

ROBERTO RAGAZZINO: (voce fuori campo, saccente) Sei tutta matta. Dev’essere un problema di famiglia.

Roberto si gira per allontanarsi, ma Fabrizia furiosa lo blocca fronteggiandolo.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Che hai da dire tu sulla mia famiglia?

Roberto fa spallucce.

ROBERTO RAGAZZINO:  (voce fuori campo)  Non fare la scema, lo sai cos’hanno da dire tutti sulla tua famiglia.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo, spavalda) No, non lo so. Dimmelo tu.

ROBERTO RAGAZZINO:  (voce fuori campo) Mica doveva essere tanto normale per suicidarsi.

Fabrizia strattona Roberto afferrandolo per il colletto della camicia.

FABRIZIA RAGAZZINA (voce fuori campo)  Che hai detto? Che vuol dire?

Roberto incassa la testa fra le spalle.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo) (incalzando) Devo chiederlo a tua madre?

ROBERTO RAGAZZINO:  (voce fuori campo)   (ansimando)  Tuo padre…

Fabrizia si affloscia, lascia allontanare Roberto.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: Ieri Roberto c’era, fra gli altri vicini e parenti. Condoglianze formali, ringraziamenti formali. C’era anche sua madre, la temibile signora Piazza. Lui non è più l’odioso ragazzino grasso e occhialuto, che mi tampinava sulla strada da casa a scuola e da scuola a casa. È un giovane uomo nemmeno tanto robusto, adesso, con una faccia seria. Forse la indossa per i funerali.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale, visibili in controluce: Roberto e Fabrizia.

ROBERTO: (voce fuori campo)  (esibendo un pacchetto di sigarette) Posso?

FABRIZIA: (voce fuori campo)  Sì. Ne voglio una anch’io.

ROBERTO: (voce fuori campo) Mi dispiace, per quella cosa di quando eravamo ragazzini. Credevo lo sapessi.

FABRIZIA: (voce fuori campo) Ma guarda. L’avevo capito. Però avrei apprezzato di più se avessi inteso rivelarmi l’ignoto. (dopo una pausa) Infierire è da persone meschine. Piccole. Mediocri anche nella cattiveria. Il colpo mortale, quello richiede fegato. Anzi, palle. Forse entrambe le cose.

ROBERTO: (voce fuori campo) Hai ragione. Ma vedi, i bambini tutti belli e buoni dei cartoni animati sono una colossale balla. Io ero brutto, grasso e cattivo, un cattivo mediocre, sì, è vero. Posso solo ripeterti che mi dispiace.

FABRIZIA: (voce fuori campo) Fa niente. Tuo padre è morto compostamente di (come si usa dire) un male incurabile, ho saputo. Due, tre anni fa?

ROBERTO: (voce fuori campo)  Quattro.

FABRIZIA: (voce fuori campo)  Non mi è nemmeno passato per la mente di farvi le condoglianze. Mi stupisce che tu sia qui, oggi. Della presenza di tua madre non mi meraviglio, la buona vicina ipocrita e velenosa non manca mai ai funerali. Stai ancora qui con lei?

ROBERTO: (voce fuori campo) Il tempo passa, Fabrizia. Ho trentatré anni, tu, se non ricordo male, trentadue. No, non sto più qui con mia madre.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: Ma certo! Ha ragione, il tempo è passato davvero ed è stupido aspettarsi che questo giovane uomo dall’aria solida e seria nasconda dentro di sé, come una matrioska, il ragazzo oppresso dalla grassezza e da sua madre. E allora un film comincia a girarmi veloce in testa. Roberto che mi chiede il numero di cellulare. Roberto che dopo qualche giorno mi invita a cena. Roberto che mi corteggia. Io che lo illudo e poi lo ferisco, sottraendomi, quando è sicuro di avercela fatta. O che mi faccio scopare e poi ridicolizzo la sua prestazione. Perché per quanto brava tu sia stata, nonna, qualcosa dentro di me non funziona come dovrebbe. Mi prendo cura dei miei pazienti, ma di me stessa so prendermi cura solo così, alzando barriere glaciali. Nella migliore delle ipotesi, a volte lancio bombe incendiarie che finiscono per bruciare anche me.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale, visibili in controluce: Roberto e Fabrizia.

FABRIZIA: (voce fuori campo)  Perché sei qui?

ROBERTO:(voce fuori campo)  Mi faceva piacere esprimerti…

FABRIZIA: (voce fuori campo)  (interrompendolo)Fuori tempo massimo. Avresti dovuto tirare fuori questi talenti tanti anni fa.

ROBERTO:(voce fuori campo) (sorridendo appena, con aria stanca)  Ciao, Fabrizia.

FABRIZIA: (voce fuori campo)  (sibilando cattiva)Salutami mammina.

ROBERTO:(voce fuori campo) (compito)  Non mancherò.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: Lo senti, nonna? Che voce bassa e gentile. Non sembra nemmeno ironico. Neanche quando sorride. Sto male davvero. Sono furibonda per il senso di inferiorità che provo nei confronti di una delle persone che ho più disprezzato, e che continua a darmi esempi di eleganza comportamentale degni di un duca. Mi comporto come la bambina cattiva che ogni tanto impersonavo, quando però era il tempo giusto per essere piccola e ogni tanto cattiva; troppo spesso in questi giorni la sento parlare con la mia voce di ora. E come ha fatto quell’ameba di Roberto a diventare com’è adesso, come si è liberato della ciccia, della stupidità e di mammina? Ma allora essere allevati bene non basta? Ed essere allevati male, da una qualunque signora Piazza, non necessariamente fa crescere figli stronzi? Non è sempre colpa delle madri, nonna. Tu lo pensavi, ma non è vero. Ognuno cresce in una direzione che non dipende soltanto da quanto è stato bravo chi lo ha allevato.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due  sedie e due figure oltre il fondale, visibili in controluce: nonna Bianca e Fabrizia ragazzina. La nonna davanti ai fornelli fa saltare di tanto in tanto la frittata nella padella. Fabrizia siede al tavolo della cucina. 

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Che significa suicidato?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) (con voce tranquilla)  Lo sai cosa significa, Fabrizia.  Significa che una persona si toglie la vita, insomma cerca la morte, senza starsene ad aspettare che arrivi quando è il suo momento. Chi te l’ha detto?

La nonna finisce di cucinare e va a sederti accanto a Fabrizia.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Roberto, quello del secondo piano.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) Aspettavo che fossi un po’ più grande per dirtelo io, ma ho sbagliato. Non metto mai in conto la cattiveria e la stupidità della gente.

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo)  Perché l’ha fatto, nonna?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo, sempre meno ferma)  Non lo so, cara. Tante volte me lo sono chiesto. Me lo chiedo ancora. Non era mai stato felice, era taciturno, un po’ cupo, fin da piccolo. Quando si innamorò di tua madre sperai tanto che la serenità che sembrava avere trovato durasse. La prima volta che la vidi, qui a casa, pensai che lei, così vitale, lo avrebbe scosso, gli avrebbe fatto cambiare ritmo… Ma le cose andarono diversamente. Lei si stancò di trascinarlo, e lui non si trovava a suo agio nella vita. Non ci si era trovato mai. Naturalmente mi sono interrogata sulle mie colpe. Non sono riuscita a scoprirle, ma di certo devono esserci state. È sempre colpa delle madri, per quello che va storto ai figli.

Fabrizia incomincia a piangere, la nonna  allarga le braccia e la ragazzina le si rannicchia contro, restando seduta.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA:  Non ti sei mai tirata indietro, tutte le volte che ho voluto parlarne, ancora e ancora e ancora. Sulle domande che man mano si facevano adulte modulavi le tue risposte. Molto tempo dopo − avevo vent’anni − mi resi conto, ripensando a quel dialogo di là, in cucina, che avevi messo sotto accusa solo te stessa. Che di mia madre avevi ricordato solo la forza vitale, senza attribuirle colpe.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Sullo sfondo, nonna Bianca in un abito estivo,                   con la borsa in mano, e Fabrizia ragazzina acciambellata in una poltrona, intenta a leggere un libro.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo)   Vuoi accompagnarmi al cimitero?

FABRIZIA RAGAZZINA: (voce fuori campo) Sì. (poi, dopo qualche istante di silenzio) Ma come ha fatto?

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) (si china verso la ragazzina, le mette le mani sulla spalle, la guarda)  È un discorso che preferisco affrontare dopo, quando saremo tornate a casa. Sedute comode, senza fretta. Magari anche abbracciate. Ci stai?

Fabrizia ragazzina fa cenno di sì con la testa.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

Squillo di cellulare. Fabrizia fruga dentro la borsa e recupera il telefonino.

FABRIZIA: Ciao, Marcella... Ma dai, non essere ansiosa: ho intenzione di fermarmi qui solo una settimana ancora. Certo che torno! Sei scema? Se ti dico che resto ancora una settimana vuol dire che tra una settimana sarò in reparto. Stai tran­quilla. (chiude la telefonata)

FABRIZIA: Sai, nonna, Marcella è la meno nordica delle mie colleghe nordiche. È mora. Sua madre è pugliese e la sua cucina sa di olio d’oliva e pomodoro, ed è tanto ospitale e affettuosa.

Si siede. Bussano alla porta, Fabrizia non si muove. Dopo un po' rumore di chiavi che girano nella toppa. Entra Immacolata, la portinaia , con le chiavi di casa in mano.

IMMACOLATA:  Fabri’, le vuoi indietro le chiavi?

FABRIZIA: No, non le voglio. Tienile. Che me ne faccio di un altro mazzo di chiavi? Mi bastano le mie, quando arrivo da Pordenone. Magari i parenti mi consiglieranno di vendere la casa, ma io voglio tenerla. (si commuove, volta leggermente la testa, resta in apnea)

IMMACOLATA: Lascio aperto il portone sotto e qui la porta socchiusa, va bene?

FABRIZIA: Grazie, Imma.

Immacolata le  fa una carezza sulla testa.

FABRIZIA: (improvvisa) Imma,  ma tu te lo ricordi mio padre? Cioè, ti ricordi di quando è morto?

Immacolata la guarda disorientata.

IMMACOLATA: Sì, certo che me lo ricordo. Quando con mio marito abbiamo cominciato a lavorare qui era un ragazzino di dodici anni. E mi ricordo anche (fa una pausa e inghiotte) di quando è morto.

FABRIZIA: Nonna com’era?

IMMACOLATA: Era… come se fosse diventata di ghiaccio, Fabri’. Davanti a tutti gli altri non ha mai pianto. A chi veniva a farle le condoglianze, sai, quelle cose che si dicono in questi casi, ma che si può dire poi a una madre che ha perso il figlio così, ecco, lei non rispondeva. Faceva sì con la testa, stringeva mani, si lasciava baciare e abbracciare ma non diceva niente. Apriva la bocca solo per parlare di cose pratiche, Imma per favore porta questi fiori di là, Imma hai chiuso la finestra. Quando se ne andavano tutti io mi offrivo di restare a farle compagnia, e lei faceva no con la testa, mi diceva che stava bene, che poteva stare da sola.

Immacolata resta un po’ a guardarla. Fabrizia le sorride, Immacolata l'accarezza su una spalla, e se ne va. Entrano uno dopo l'altro gli amici, i vicini, i  parenti per il funerale: lo zio Egidio con la zia Concetta e il figlio, Alfredo, la zia Gina con le tre cugine, ciascuna con marito e figli al seguito, la signora Piazza, Roberto che da lontano le fa un cenno di saluto, Luca. Si avvicinano silenziosamente al feretro.

Fabrizia si guarda allo specchio.

FABRIZIA: Il territorio da cui non seppi tornare indietro fu la scoperta del suicidio di papà. La fuga della mamma mi ferì, ma in un altro modo. In fondo stavo meglio con te e non sopportavo l’altalena di abbandoni e ritorni. Anche se poi, quando sono cresciuta, ho sentito il bisogno di andare a cercarla all’altro capo del mon­do. Ho trovato una donna che non degnerei di un minuto di attenzione se non per quell’oscuro legame del sangue che deve pur significare qualcosa, se non sono riuscita a can­cellarla del tutto dai miei pensieri. Non l’avrei scelta, se ci fosse data la possibilità di simili scelte. Ma era necessario chiudere i conti con lei, guardarla e sapere chi fosse la donna che mi aveva lasciato dietro di sé come un fagotto abbandonato sul sedile di una sala d’aspetto ferroviaria. Vo­levo conoscere la vita che si era costruita chiudendomi fuori. Speravo di capire, di riuscire a perdonare, dicendomi che ve­derla solo in occasione dei suoi ritorni, distanziati da lunghi intervalli, non poteva bastare. Come se fosse dipeso da me il nostro rapporto rarefatto, come se toccasse a me coprire la distanza. Quando mi ritrovai nella sua casa ripensai con rabbia allo spirito con cui mi ero imbarcata nella missione di ritrovarla. Ero furente per la mia ingenuità, per essermi attribuita una responsabilità che invece avrebbe dovuto assumersi lei. La frustrazione per essere stata io a prendere l’iniziativa mi rese ostile e annientai sul nascere ogni possibilità di contatto.

Mio padre, poi… Sapere che non contavo abbastanza per lui da fargli passare la voglia di morire è stato duro. Il mestiere di medico che faccio, la confidenza che ho con la troppa morte che vedo, a volte penso che derivi da lì.

Vedi, nonna, tu lo sai bene che ci sono territori dai quali non si torna indietro. Quelli che, mentre li attraversiamo, ci cambiano per sempre, modificando la nostra percezione di noi stessi e delle cose in modo che ne restiamo irreversibilmente trasformati anche noi. Succede a chi va in guerra, immagino. Succede ai malati di cancro che, anche quando guariscono, sono persone diverse da quelle che erano prima, consapevoli della propria fragilità. La rivelazione che, dopo la malattia, le terapie, le amputazioni, le attese interminabili, il disagio fisico, tutto può comunque finire di colpo, polverizza le priorità indiscutibili delle persone sane che non saranno mai più indiscutibili, comunque vada a finire.

Dal gruppo delle persone in cordoglio si stacca Luca che piano si avvicina a Fabrizia

LUCA: (dolce) Tira giù quei cocci aguzzi di bottiglia. Anzi, tira giù tutta la muraglia, nessuno ti assedia.

FABRIZIA: (alzando subito la guardia; ma la voce si addolcisce man mano che parla) Caschi male, con questo sfoggio di cultura. Ti sei dimenticato che abbiamo fatto il liceo insieme, e certo non eri fra i primi della classe? (sorride)

LUCA: (sorridendo) Dai, Fabrizia.

FABRIZIA: Non ne posso già più di questa città, adesso che non c’è più la nonna non credo che ci tornerò spesso. Mi stancano i parenti.

LUCA: Già… mi ricordo. Sei sempre stata così…

Luca si allontana per riavvicinarsi al gruppo di cordoglio.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale, visibili in controluce: la nonna e Fabrizia ragazza, sedute su due poltrone una di fronte all'altra. La nonna sferruzza, Fabrizia legge.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo)  Ha chiamato Luca.

FABRIZIA RAGAZZA: (voce fuori campo) Dovrei telefonargli, ma sono così stanca…

NONNA BIANCA: (voce fuori campo)  Siete meno vicini di una volta.

FABRIZIA RAGAZZA: (voce fuori campo, secca) Perché ci vediamo meno? Studiamo cose diverse, le nostre facoltà sono distanti. (pausa)  E poi se Luca è davvero innamorato di me, come pensi tu, siccome io non lo sono di lui è meglio che non lo incoraggi.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) Innamorato? Sì, è vero, lo penso. Per come ti guarda. Perché continua a cercarti mentre tu, da quando è finita la scuola, praticamente non lo chiami più. Ma forse nemmeno lo sa, che ti ama. A volte si fa fatica a riconoscerlo, l’amore.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: Luca. Com’è cresciuta questa distanza fra noi? Sei l’unica, nonna, a non avermi mai chiesto se fra me e lui ci fosse qualcosa. Che domanda scema. Che significa che fra due persone c’è qualcosa? C’era moltissimo, fra me e Luca, stavamo sempre insieme, a scuola e dopo la scuola, la sera del sabato, l’estate. Non ho avuto, a pensarci bene, una vera amica del cuore. Avevo Luca.

(pausa) È bello, Luca, più bello adesso di quando eravamo ragazzi. È inconsapevole di esserlo, e questo in un uomo mi seduce sempre. Lo guardo, e all’improvviso mi dispiace che non ci siamo innamorati. Anche se tu dicevi che lui sì, lui era innamorato. Chissà com’è la vita coniugale con uno come lui. Ma eravamo troppo vicini, troppo intimi per diventare una coppia.

(pausa)

Squillo improvviso del cellulare. Fabrizia visualizza il nome del chiamante. Risponde incuriosita.

FABRIZIA: (secca)  Ciao

EMMA: (voce fuori campo)  Fabrizia, parto fra una settimana. 

FABRIZIA : (secca) Vieni dalla California? Ma dai?

EMMA: (voce fuori campo, sospira) So quanto fosse importante per te la nonna. E poi è da tanto che non vengo a trovare mia sorella e mia madre.

FABRIZIA: (caustica) Telefonami appena avrai un momento libero.

EMMA: (voce fuori campo) Fabrizia, quando torni a Pordenone, a casa tua?

FABRIZIA: (con risoluzione improvvisa) Rimango ancora una settimana. Perché non mi raggiungi lì?

EMMA:  (voce fuori campo) D’accordo. Mi fermo finché non ti stanchi di avermi intorno.

FABRIZIA: (esitante, senza asprezza)Piuttosto, fino a quando non ti stanchi tu. (chiude la comunicazione e si siede.)

(pausa)

FABRIZIA: È da te che l’ho imparato, da mio padre attraverso te, che ci sono territori dai quali non si torna indietro. L’eredità di mio padre si esaurisce in due righe indirizzate "a Fabrizia", che tu hai conservato fino a quando non ti ho chiesto se avesse scritto a qualcuno prima di.

Prima di è un territorio oscuro, sconosciuto. Anche per te lo era. Rispondevi alle mie domande, ti costava fatica − lo capivo − ma non lo dicevi e non ti sottraevi.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale,visibili in controluce: la nonna e Fabrizia ragazza. La nonna è seduta su una sedia a capo leggermente chino, Fabrizia accanto a  lei legge un biglietto

FABRIZIA RAGAZZA: (voce fuori campo)  "Ho visto le speranze accumularsi come polvere, le ho viste spazzate via da un vento maligno e preciso. Ti prego di perdonarmi. Speranza vana anche questa, al tuo posto sarei incapace di perdono."

NONNA BIANCA: (voce fuori campo) Quando tuo padre tornò senza preavviso da Bologna senza avere terminato gli studi, con uno sguardo assente che oltrepassava me, il nonno, le stesse pareti di questa casa, restai sbalordita. Dopo qualche giorno mi disse che se qualcuno avesse fatto domande avrei dovuto raccontare che era tornato da un mese. Mi spaventai. Volevo capire, innanzitutto. "Cosa hai combinato, che ti è accaduto, chi dovrebbe chiedermi di te, ti cerca la polizia, perché, che hai fatto?" Poi passai ai rimproveri: "non ti ho educato a fare cose di cui dovessi vergognarti, che ti obbligassero a nasconderti".

Mi guardava con una specie di pietà per se stesso, forse, più che per me: "non puoi capire, mamma − diceva − ci sono territori dai quali non si torna indietro".

Per un po’ nessuno lo cercò. Stava molto in casa, il telefono non squillava mai per lui, che sobbalzava ogni volta che suonava. Aveva paura. Una sera, verso mezzanotte, suonò il citofono. Due che non conoscevo, una coppia, lui barba lunga e baffi folti, lei capelli molto corti, magra da far pietà, accento del nord, forse milanesi. Tuo padre mi chiamò in disparte, mi disse che dovevamo ospitarli, “solo un paio di giorni, mamma”. E non ebbi il coraggio di fare obiezioni, vinta dal suo sguardo vuoto e dalla voce flebile di supplica che nemmeno da bambino aveva mai avuto. Avevo paura di fare domande, paura delle possibili risposte, della distanza infinita fra mio figlio come lo conoscevo e quello che era diventato. Non ci furono altri episodi preoccupanti, dopo che quei due se ne andarono. Non ho mai saputo come si chiamassero, fra loro non pronunciarono mai nomi, nemmeno tuo padre lo fece. Ho aspettato per alcuni anni di vedere le loro facce sui giornali, alla televisione, ma non accadde. Tuo padre non riprese mai gli studi, si mise in cerca di un lavoro. Mi tranquillizzai, vedendolo tornare a una quotidianità senza scosse. Un paio d’anni dopo conobbe tua madre.

Squillo improvviso del cellulare che interrompe il filo dei ricordi. Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA:  (con un sospiro stizzito sibilando) Giulio! (non risponde, anzi posa nervosamente sul tavolino il cellulare che emette ancora  un paio di squilli; inizia a passeggiare nervosamente)

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure maschili visibili in controluce armeggiano sul feretro e poi lo spingono fuori seguiti da tutti.

In scena restano Fabrizia e, dietro di lei, lo zio Egidio. Poi lo zio, con gesto un po’ goffo, appoggia un braccio sulle spalle di. Fabrizia, visibilmente commossa.

ZIO EGIDIO: (con voce graffiata, piano)Raggiungiamo gli altri.

Escono.

Buio.

FINE PRIMO ATTO

SECONDO ATTO

Casa di Fabrizia a Pordenone. Arredo moderno. Un divano chiaro, un tavolino, una piantana.

In scena in attesa vi è Giulio. Sotto l’impermeabile aperto indossa giacca e cravatta. Entra Fabrizia con il trolley, di ritorno dalla Sicilia. Rimane sorpresa di  trovarlo lì.

FABRIZIA:  Ciao, Giulio. Come…?

GIULIO:  (premuroso) Fabrizia! Ho chiamato prima, forse un’ora fa. Volevo avvertirti che sarei passato.

FABRIZIA:  Peccato che io da un bel po’ non risponda alle tue telefonate. Se stavolta l’avessi fatto, ti avrei suggerito di evitarti questa fatica. (pausa)  Non ho voglia di parlarti, Giulio. Non voglio essere così inospitale da non offrirti neanche un bicchiere d’acqua, ma non voglio parlare. Qualunque cosa tu sia venuto a dirmi, non voglio saperla.

GIULIO: Sono venuto perché è morta la nonna.

FABRIZIA:  (brusca)  Per farmi le condoglianze?

GIULIO: Fabrizia, sono venuto in pace, non cercare di attirarmi nella solita guerra. (sorride) Solo questo voglio dirti: siamo stati insieme cinque anni, e che fossimo diversi era chiaro fin dal primo giorno. Eppure per cinque anni abbiamo diviso tutto. Poi ci siamo stancati, ma è inutile rimarcare le nostre differenze in ogni occasione. Se permetti, della cosa più innocente fai un pretesto per aggredirmi.

FABRIZIA: Concordo, Giulio, non è perché siamo diversi che ce l’ho con te.

GIULIO: Vogliamo restare qui in piedi in mezzo alla stanza a parlarne?

FABRIZIA: No, ma nemmeno fra due ore sarà per me il momento giusto per parlare di come mai non siamo riusciti a restare insieme, Giulio. Ho ben altro per la testa. E in fondo, fammelo dire, sapere perché fra noi non funziona non mi interessa più. Non funziona e basta. Non eravamo felici da tempo.

GIULIO: Fra poco sarà ora di cena. Ti va di andare a fare un boccone da qualche parte?

FABRIZIA: (ride senza allegria) Mi dispiace, Giulio. Mi dispiace che tu ti sia preso il disturbo di venire qui, con tutti gli impegni che hai. Ma non voglio parlarti. Non ho niente da dirti, niente da sentire, niente da offrirti. Non ce l’ho con te, è finita e dobbiamo fare i conti con questa realtà. Ma ognuno per conto suo.

Giulio si fruga in tasca, estrae un mazzo di chiavi che posa sul tavolino ed esce senz’altro,lento. Rumore di portone sbattuto.

FABRIZIA: (sospiro di sollievo) Non ti piaceva Giulio, nonna, mi fu chiaro fin dal primo incontro. Alla tua affabilità mancava il calore cui ero abitua­ta. "Avvocato", lo chiamavi ogni tanto scherzando, "ti piace la pasta alla Norma, avvocato?" Lui certo non poteva capire che cercavi di fartelo piacere perché lo amavo io; e infatti lo entusiasmavi. Ma io ti conoscevo bene. Ti guardavo ironica mentre gli usavi una gentilezza e provavo pena per la sua ingenua soddisfazione.

Lasciare Giulio è stato facile. E vederlo, oggi, non mi ha fatto male. Quello che è accaduto assomiglia al sassolino che si aggiunge a una montagna altissima di detriti e, col suo minuscolo, quasi impercettibile peso, scatena la valanga.

Se ripenso agli anni che abbiamo trascorso insieme, mi accorgo con stupore che sembrano davvero poche, a ripensarci adesso, le cose che ci univano. E anche poco importanti. Vado in cerca di ricordi buoni, ma è come se allontanandocisi dagli eventi questi rimpicciolissero, perdessero di spessore. Invece cinque anni sono pieni zeppi di fatti minuti, di risate, di spaghetti cucinati a mezzanotte, di liti furibonde e rappacificazioni convulse. Possibile che la memoria trattenga solo immagini sbiadite, senza contorni?

Mi chiedo come mai Giulio desse per scontato che io avessi voglia di parlare con lui. Ne era tanto certo che non ha nemmeno avvertito, ha aspettato di essere quasi arrivato per chiamarmi. Pensava forse che il lutto recente mi rendesse più vulnerabile.

Te l'avevo detto che era finita. E tu non facesti domande, sapevi che la porta devo aprirla io, che bussare non serve.

Mi compiaccio di essere rimasta indifferente nel rivederlo… (momento di disagio come chi viene colto da un pensiero fastidioso)  No. Troppa rabbia perché io possa sostenere che Giulio mi lascia ormai del tutto indifferente. La rabbia − dicevi tu − è dolore andato a male.

Se tu fossi qui, ti direi quello che non sono riuscita a perdonargli. Mi manchi da morire.

(Dopo una pausa) Meno male che sono tornata qui, al mio lavoro, ai miei malati. Alla mia solitudine confortevole come una vecchia tuta, come una poltrona che ha assunto la forma del corpo che vi si adagia. Chissà che cercavo, che aspettavo, fermandomi una settimana a Catania.

Non impariamo mai nulla, nonna. Mai

Bussano alla porta

FABRIZIA:  (agitata)  Oddio, è già qui? Come mi è venuto in mente di invitarla? (esce, dopo essersi velocemente tolto il giubbotto che indossa e averlo buttato sulla spalliera del divano.)

FABRIZIA: (voce fuori campo, un po’ incerta, imbarazzata)  Eccoti, sono appena arrivata anch’io. Non ti aspettavo così presto.

EMMA: (voce fuori campo, tranquilla) Sono stata fortunata, ho trovato un volo da Roma che partiva subito e ho rinunciato per il momento ad andare in Sicilia. Ci sarà tempo per andarci, tornerò in California tra due mesi.

Rientra in scena Fabrizia seguita da Emma, sua madre. Placida, il corpo sottile e abbronzato, capelli raccolti, tintinnante di monili d’argento, indossa camicia e pantaloni bianchi di tessuto morbido fluttuante.

Emma arriva al centro del palco, seguita da Fabrizia, e lascia andare il suo bagaglio. Emma si volta, sorride alla figlia e l'abbraccia forte. Poi fa un passo indietro e la scruta, tenendole le mani sulle spalle. Fabrizia si innervosisce.

FABRIZIA: Devi impararmi a memoria? Non serve. E poi oggi sono ancora meno bendisposta del solito. (Si scosta con un sorriso respingente.)

EMMA:  (alza le mani in segno di resa e sorride.)

FABRIZIA (prende il bagaglio di Emma):  Quanto rimani qui, allora?

EMMA:  Te l’ho detto. Mi fermo finché non ti stanchi di avermi intorno.

FABRIZIA: (ride)  E io ti ho già risposto che è più facile che sia tu a stancarti.(poi, come per un pensiero improvviso, voltandosi a guardarla) Ah, senti, a casa mia c’è un solo letto. Possiamo condividerlo, oppure io mi arrangio sul divano.

EMMA: Condividiamo.

FABRIZIA: Sarebbe la prima volta.

EMMA: Ma no! Non puoi ricordartelo, ma quando eri piccola piccola, appena papà usciva di casa per andarsene al lavoro io tornavo a letto, ti prendevo dalla culla e ti mettevo accanto a me. Ci facevamo certe dormite…

FABRIZIA: Certo, dobbiamo tornare molto indietro, per ritrovare qualche cosa fatta insieme, eh?

EMMA: Posso usare il bagno?

(Fabrizia le indica la porta, Emma esce.)

FABRIZIA: Quasi non credo di averla invitata. Tutte le cose che per anni non ci siamo dette… Come pesano. E che smania mi è venuta di tirarle fuori. Oh, non è detto che ci riesca. E lei? Si sentirà spiazzata, dopo il muro di silenzio che le ho offerto per anni?

Ora vorrei chiederle come ha fatto a staccarsi da me senza che le restasse una ferita aperta da qualche parte.

Sono andata fino in America, a Santa Monica, per sapere come viveva senza di me. Ho visto la sua casa, il suo giardino, suo marito, i figli che lui aveva avuto dalla prima moglie, il suo labrador, i suoi libri, la sua istruttrice di yoga, i suoi amici buddisti, i suoi elettrodomestici oversize, la sua serra. Ma non sono andata oltre, incapace di seppellire il mio rancore di bambina abbandonata, furibonda per quella normalità dalla quale aveva escluso solo me, furibonda per quei due ragazzini biondi e abbronzati che la mattina divoravano i pancake preparati da lei.

Come sarebbero andate le cose se allora fossi riuscita a non isolarmi in un distacco risentito? Si sarebbe steso fra noi un ponte di parole, magari fragile all’inizio, ma sul quale avremmo potuto camminare per incontrarci? Se avessi urlato le mie accuse, strappandole lacrime e giustificazioni, invece di scagliarle contro rimproveri muti e qualche battuta agra, si sarebbe aperto uno spiraglio verso la riconciliazione?

− Torna quando vuoi − mi disse quando partii. Non l’ho mai fatto. Rientrata a casa da quel viaggio, ti ritrovai solida e immutabile. Ti raccontai, non subito, a frammenti, negli anni, ti raccontai di cosa era piena la nostra distanza. Tu sei sempre stata indulgente verso di lei.

Lo sfondo si retroillumina a sinistra. Due figure oltre il fondale,visibili in controluce: la nonna e Fabrizia ragazza, separate da un tavolo su cui la nonna impasta i biscotti. La nonna è in piedi, Fabrizia seduta. 

FABRIZIA RAGAZZA: (voce fuori campo)Come mai la giustifichi sempre?  Eppure siete così diverse.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo)  E come lo sai che siamo diverse? Conosci me, ma di lei non sai niente, Fabrizia. Di lei conosci solo l’assenza.

FABRIZIA RAGAZZA: (voce fuori campo)(scattando)Ah, ma senti! Non dipende da me, è lei che se n’è andata.

NONNA BIANCA: (voce fuori campo; scuote la testa) Certo, lei se n’è andata. Magari le pesa talmente tanto che non ha il coraggio di cercarti con insistenza. Sta lì, in attesa. Ma cosa ti impedisce di cercarla tu? (pausa)  Era giovane, Emma, quando si ritrovò da sola con te. Non era pronta, sai, finché ci si ricorda troppo di come ci si sentiva da bambini, da ragazzi, non si è pronti per essere genitori. Uno se lo deve scordare, la memoria deve cominciare ad avere dei vuoti su quel periodo, e allora farcela diventa possibile. Forse lei si ricordava ancora troppo bene di com’è difficile crescere senza padre, l’aveva perso presto anche lei. Quando è morto tuo papà lei dev’essersi sentita riportare indietro e ritrovare la via del ritorno alla vita adulta le sarà riuscito difficile.

Luce del fondale in lenta dissolvenza fino a spegnersi.

FABRIZIA: Lo capisco adesso, all’improvviso. Non era indulgenza, era solidarietà. Eravate sopravvissute a un comune naufragio, a una perdita indicibile. Per tutta la vita, hai sparso nella mia mente semi di dubbio, sperando che prima o poi germogliassero.

Ma di come mio padre si era tolto la vita sapevo soltanto quello che mi avevi raccontato tu.

E ora? Lei è qui e mi rendo conto che l’invito a trascorrere qualche giorno qui contiene l’implicita rinuncia alle punzecchiature, alle parole acide e oblique che pure sento salirmi alle labbra e che ricaccio indietro.

Chissà se una eventuale archiviazione della Fabrizia ispida che hai conosciuto e amato ti piacerebbe, nonna. Assuefatta come sono alla stravaganza, temo la normalità come se si trattasse di una malattia.

Rientra Emma.

FABRIZIA: Cosa preferisci per pranzo?

EMMA: Fai tu.

FABRIZIA:  Ti porto in un ristorantino qui vicino.

Escono. Luci che si spengono in dissolvenza.

Luci riaccese. Fabrizia ed Emma sono sedute sul divano.

FABRIZIA: Sai? Sono andata alla Timpa, nella casa di tante vacanze estive. Odore familiare di chiuso, polvere e naftalina. Non so cosa ci sia andata a fare. La nonna che non c'è più e mio padre assente da sempre… Gli oggetti che gli appartenevano non mi parlano di lui. Nella stanzetta in cui ho sempre dormito io, quando il caldo ci sfrattava dalla città, ho ritrovato il mio cavalluc­cio a dondolo di legno, regalo di uno dei primi compleanni. In un cassetto dello scrittoio sul quale ho studiato con Luca per la maturità la nonna aveva conservato dei quaderni. Renato Manno, c’è scritto sulla prima pagina, con una grafia larga e ordina­ta. Quaderni di scuola elementare, di scuola media, copertine sdrucite, pagine stropicciate, qualche orecchia ineliminabile. Ce n’è uno ondulato come un tetto di lamiera, mi raccontò la nonna che gli era caduto nel lavandino e l’avevano asciugato col phon. Non piacevano a papà le cose danneggiate, sciupate, stava molto attento a non sporcarsi i vestiti e lavava ogni set­timana la cinquecento col tubo per innaffiare e la spugna.

Sono sua figlia in questo amore per le cose inanimate.

Qualche oggetto, le vecchie foto: per un momento, sai, ho cullato l’idea di portare con me quei detriti di una vita andata in frantumi. Poi mi sono detta che era meglio lasciarli lì. Che almeno quella casa rimanga un luogo intatto a cui tornare.

(poi, improvvisamente, di getto)  Non mi hai mai parlato della morte di papà.

Emma cerca nelle tasche le sigarette e l’accendino, poi li posa sul tavolo.

FABRIZIA: (a voce bassa)  Pensavi che non ti avrei mai chiesto nulla?

Emma annuisce, controvoglia.

FABRIZIA: Lo pensavo anch’io. Ma di lui ho soltanto il biglietto che ha lasciato per me e i racconti di nonna Bianca. E lei l’aveva perso di vista da anni. Da quando era partito per Bologna, in realtà, non ne sapeva più niente: cos’era diventato, come c’è arrivato sul quel balcone.

Voglio sapere chi era, come lo vedevano amici, parenti, anche gli estranei che hanno appena sfiorato la sua vita.

− I figli vanno via di casa − mi disse una volta nonna Bianca − e la madre li perde di vista, non sa più niente di come si stanno trasformando. Quando tornano sono diversi − diceva − ma non si sa cosa li ha cambiati. Diceva che si era pentita di non aver fatto domande. Che le era sembrato giusto essere discreta, ma che si rendeva conto di non aver voluto sapere.

− Sentivo le notizie sugli attentati − diceva − leggevo i giornali, immaginando cose terribili: tuo padre che sparava, che uccideva qualcuno, un carabiniere di vent’anni, magari, poi fuggiva… No, non volevo sapere verità che non ero certa di poter sopportare, crimini di fronte ai quali mi sarei trovata incapace di perdono.

EMMA: Non credere che io sappia molto di più, Fabrizia.

FABRIZIA: Mi farò bastare quello che sai. Me lo devi.

Emma riprende la sigaretta e se la rigira fra le dita.

EMMA: Non ti capisco, Fabrizia. Mi aspettavo tante domande, quando sei venuta in California. Ma ora? Mi ero abituata all’idea che di certe cose non avresti mai voluto parlare con me.

FABRIZIA: Eri sollevata, vero?

EMMA: (calma) Sei ingiusta. All’inizio mi addolorava il tuo silenzio, così pesante di accuse che sapevo di meritare. E poi… sì, poi la tua durezza divenne un riparo, un rifugio contro il pericolo di essere ferita dalle parole che non mi avevi detto e che temevo. Per assurdo che ti sembri, la tua ostilità mi faceva sentire in salvo.

FABRIZIA: Dai, non farti pregare.

EMMA: Figurati se voglio farmi pregare. Ma è difficile.

FABRIZIA: (incalzante)   Provaci.

EMMA:  Eravamo partite. Io e te.

FABRIZIA: (interrompendola) Questo lo so.

EMMA: Insomma, siamo tornate. Tu dormivi in braccio a me. Sono entrata, l’ho chiamato, piano, per non svegliarti. Era seduto al buio, su una poltrona vicino a… vicino al balcone. Ha acceso la luce, mi è venuto incontro. Mi abbracciò. Tu continuavi a dormire, ti abbiamo messa a letto. Ti ha dato un bacio sulla fronte, poi ha detto “devi perdonarmi, Emma, ti amo”. Non capii. Lo vidi andare sul balcone, in un attimo scavalcò la ringhiera e… (deglutisce).

Fabrizia si siede, Poi subito si rialza. Gira per la stanza riordinando qua e là, in imbarazzo.

EMMA: (con voce incerta)  Mi faccio una doccia.

FABRIZIA Ah, quasi dimenticavo. Ieri ho invitato la mia amica Marcella per un tè. Sta per arrivare

Emma esce.

FABRIZIA: Mi manchi, nonna. È difficile fare a meno proprio adesso della tua saggezza anticonformista. Ancora più arduo convivere col dubbio, infiltratosi a tradimento nei miei pensieri pesanti, che, se tu ci fossi ancora, mia madre non sarebbe qui, dove mai mi era passato per la mente di invitarla. Ma no, mi dico poi, non è per questo, non esistono surrogati possibili di te. Figuriamoci, poi, se può riempire vuoti giusto lei, la casella più vuota della mia anomala geografia familiare. Perché papà ha rinunciato alla vita, non a me soltanto; lei la vita se l’è tenuta stretta, se l’è riempita di tante cose: una famiglia, una casa, un lavoro, gli amici, il buddismo e lo yoga. Perfino altri figli da allevare. È di me che non ha voluto saperne.

Mi sembra di indossare abiti altrui, troppo larghi o troppo stretti. Non sono a mio agio nei ruoli canonici, non ci sono abituata. Mi sembra di essere una bambina che sta giocando con un’altra a mamma e figlia. Io, lo sai, non ci giocavo mai con le bambole, ero un tipo da costruzioni Lego, da plastilina, da disegni.

Non sono sicura di volermi rivelare a lei. Siamo una all’altra sconosciute. Mi accorgo, con stupore, che ho paura di scoprire che mi capisce. Se davvero ne fosse capace, questi anni di silenzio acquisterebbero il sapore dello spreco; non credo di essere in grado di sopportarlo. E poi non sono pronta a perdonare, a seppellire le ragioni e i torti. Che mi resta, se mi libero del mio rancore? Per anni non ho avuto altro.

Veramente no. Avevo te, nonna.

Con te non avevo remore a confessare i misfatti del cuore, non ho mai sentito il bisogno di raccontarmi migliore di quanto io sia.

Potrei dirti, se tu ancora potessi sentirmi, che la distanza fra me e Giulio mi è stata chiara fin dall’inizio, che non c’è stata alcuna rivelazione improvvisa di menzogne e tradimenti, che i fatti accaduti da ultimo hanno solo impedito che potessi continuare a ignorare una semplice, sgradevole verità: che di Giulio niente mi entusiasmava.

Rientra Emma. Ha cambiato abbigliamento e pettinatura. Fabrizia la guarda attenta. Emma coglie lo sguardo.

EMMA:  È la mia imperfetta tecnica di sopravvivenza, Fabrizia. Frano dentro e mi puntello fuori, come posso, andando dal parrucchiere e mettendo fiori freschi in un vaso.

FABRIZIA:  Stai bene, così.

Campanello.

FABRIZIA:  Oh! È già qui (esce per rientrare accompagnata da Marcella che si avvicina ad Emma )

MARCELLA:   Vi somigliate!

FABRIZIA:    Solo la bocca e i capelli.

EMMA:  Dovresti confrontare le mie foto di bambina e quelle di Fabrizia. È difficile distinguere le mie dalle sue.

FABRIZIA:  (sottovoce) Non ho mai avuto modo di ve­derle, quelle tue foto di bambina.

Si siedono tutt’e e tre sul divano. Sommessa conversazione che si affievolisce di pari passo con la dissolvenza delle luci. L’ultima cosa che si ode prima del buio è la voce squillante di Marcella che dice:

MARCELLA   Sai che ti dico, Emma? La prossima estate Fabrizia e io venia­mo a trovarti a Santa Monica, vero, Fab?

FABRIZIA: (sommessa): Vediamo.

Di colpo buio.

Pausa e poi di nuovo luce. Fabrizia ed Emma, quest’ultima in tenuta casalinga. Fabrizia spolvera il tavolino, Emma rassetta i cuscini sul divano.

EMMA: E Giulio…?

FABRIZIA:  (scostante) Ti spiego un'altra volta.

EMMA: (dopo una pausa imbarazzata)  Non ti manca il mare?

FABRIZIA: Altroché.

EMMA  Papà amava tanto il mare. Mi rigenera, diceva. Anche in inverno andava a passeggiare sulla spiaggia, ti portava qualche conchiglia, un ciottolo.

FABRIZIA: Com’era con me?

EMMA: Gli piaceva uscire con te. E ti parlava, ti parlava sempre, mentre t’imboccava, mentre ti vestiva, raccontava i gesti mentre li faceva, adesso mettiamo il golfino, Fabrizia, il golfino rosso; su, laviamoci le mani; che bel bocconcino di cotoletta che sta dando papà a questa piccolina.

FABRIZIA: E con te com’era?

EMMA:  Era tenero, sapeva ascoltare. Ma non siamo riusciti a essere felici. Stava tanto male.

FABRIZIA: Forse eravate troppo diversi.

EMMA: È vero, ma questo avrebbe potuto salvarlo, salvarci. Se fossi riuscita a trasmettergli un po’ della mia leggerezza… Vedi, io non ho vissuto il fermento di quegli anni come l’aveva vissuto lui, che è rimasto schiacciato nel passaggio dagli slogan all’azione. Di quegli anni avevo accolto la parte gioiosa, le canzoni, i colori, la libertà, i viaggi in India…

FABRIZIA:  …l’erba… (interrompendola, ironica).

EMMA: (confermando, senza scomporsi)  L’erba. È una cosa innocente, il fumo.

FABRIZIA: Te la fai ancora qualche canna, eh?

EMMA: (seria)  Ogni tanto. Lo so che per te la vita che ho fatto e che faccio è incomprensibile. Di solito tocca ai genitori perdere la sintonia con i propri figli, pensare: ma chi è questo sconosciuto? La tua è la prima generazione, io credo, che prova smarrimento di fronte alle mattane degli adulti. Mi dispiace, non ho scelto io di nascere nell’epoca dell’autocoscienza e dell’erba.

FABRIZIA  (ironica)  È la stessa epoca in cui è nata la zia Antonella. Nemmeno sembra tua sorella, tanto siete diverse.

Emma sospira, scuote la testa.

EMMA:  Che vuoi che ti dica, Fabrizia? È la mia vita. Non ho saputo fare di meglio.

FABRIZIA:  (con una punta di astio) Ci hai provato, almeno, a fare di meglio? Cosa te l’ha impedito?

EMMA: Lo so che mi disprezzi, che mi credi un mostro egoista. Lo credo anch’io, a volte; ma lascia che ti dica, con tutta sincerità, che se sono ancora viva lo devo all’amore per me stessa, che temevo di avere smarrito, nel periodo più buio della mia vita, e che invece dormiva da qualche parte e sono riuscita a risvegliare. Però non sono la persona fatua che posso sembrare. Tu ti fermi alle apparenze, invece per capire gli altri bisogna ascoltarli davvero, guardare oltre le parole e i gesti. Tu di me sai poco e niente. Ti sei aggrappata a quello che ti serviva a tenermi lontana.

FABRIZIA: Ma che dici? La rimproveri a me, la lontananza? Non eri tu a lasciarmi dalla nonna per un sacco di tempo? Sono stata io ad andarmene in America? Dai, sii seria e sincera, per una volta almeno! Dillo, che ero una palla al piede di cui volevi solo liberarti!

EMMA: Non posso negare di non esserci stata per tanto tempo, troppo. Ma non credere che sia stato indolore, che non ci abbia pensato. A volte facciamo solo quello che siamo in grado di fare, quello che ci consentono le nostre forze. Cosa credi? Che mi sia gettata alle spalle così − fa schioccare le dita − la perdita di tuo padre? Lo amavo, sai? È stato tremendo imparare a fare a meno di lui.

FABRIZIA: E per impararlo dovevi fare a meno anche di me?

EMMA: Non giudicarmi, Fabrizia, tu non sai niente.

FABRIZIA: È vero. Non è dipeso da me, però.

EMMA: Non m’importa, adesso, assegnare responsabilità. Ma se per te è fondamentale sentirmelo dire, certo, è dipeso da me, fino a un certo momento. Poi no.

FABRIZIA:  (con voce incerta, dopo una pausa) Stavamo parlando di papà. Lo amavi…

EMMA: Lo amavo, Fabrizia. Moltissimo. L’ho rivisto quando era tornato da Bologna e mi sono innamorata subito. Anche lui, ma era bloccato in una specie di inerzia. Forse pensava di non meritare la normalità.

FABRIZIA: Dove vi siete incontrati?

EMMA: Papà e mio cugino Sandro erano compagni di scuola. Ci conoscevamo da ragazzini. Una conoscenza superficiale, non avevamo scambiato molte parole. Lui era piuttosto taciturno, non era facile stabilire un contatto. Per la verità non ne ero stata particolarmente colpita. Poi, un paio d’anni dopo il suo rientro da Bologna, Sandro, che si era sposato da poco, organizzò una festa. C’era anche papà. Quella stessa sera nacque qualcosa tra noi. Non era silenzioso come poi gli capitò tanto spesso di essere. A ripensarci dopo, mi resi conto che aveva deciso di scrollarsi dalle spalle un fardello. Con una voglia di farcela che nel corso degli anni vidi più volte riemergere e poi scomparire. L’angoscia lo riafferrava sempre, e ogni volta lui affondava di più. Ma all’inizio ci fu un periodo felice, anche se avvertivo i segnali del disagio (guarda Fabrizia e sorride col sorriso di chi si scusa).

Tu non ci crederai, ma sono una persona attenta. Non sto sempre a guardarmi allo specchio, non vivo concentrata solo sul mio benessere. Certo, ho imparato che se non sto bene io non posso far stare bene nessun altro.

È stata una storia intensa. Di alti e bassi, purtroppo. Non ho potuto salvarlo, non me l’ha permesso. Forse non ne sarei stata capace, ma quel che è certo è che solo una parte di lui voleva ricominciare a vivere, un’altra era in cerca di espiazione. Nel conflitto fra queste due spinte ha finito per prevalere la seconda. Io non so cosa gli fosse successo a Bologna, cosa avesse fatto per essere così a pezzi. Mi disse fin dall’inizio che c’erano cose di cui non mi avrebbe parlato mai, cose che l’avrebbero ucciso, disse così, se le avesse espresse a parole. È stato difficile rispettare il suo bisogno di silenzio, ma non ho mai fatto pressione perché si confidasse.

FABRIZIA: Per proteggerti.

EMMA: Forse. Anche. Ma non era solo questo. Era… rispetto. Come, anni dopo, ho rispettato il tuo rancore, il tuo tenermi a distanza quando mi sentii pronta a riannodare i fili e per te non era il momento.

FABRIZIA: Lascia stare me, adesso. Rispetto per cosa, cosa rispettavi quando lui stava impazzendo?

EMMA:  (riflette un momento, poi le parole escono lente) Temevo che se avesse dato una forma precisa al suo orrore non se ne sarebbe liberato più, come se soltanto raccontandoli a qualcuno quei fatti lontani diventassero una cosa solida, una certezza. Insomma, la certezza di avere fatto davvero certe cose. È questo che l’ha ucciso, l’indicibilità della colpa.

FABRIZIA: Cosa immagini che avesse fatto? Assassinato qualcuno? Piazzato bombe da qualche parte?

EMMA:  Non lo so, Fabrizia. Non lo so davvero. Di qualunque cosa si trattasse, solo sporadicamente il ricordo gli dava tregua. Forse era solo qualcosa che aveva visto, di cui si sentiva parte per essere stato presente.

Momento di silenzio.

FABRIZIA: Com’era, durante queste tregue?

EMMA: Sembrava uscire dal letargo. Diventava febbrile, come se volesse riprendersi il tempo perduto; faceva progetti, organizzava viaggi. Ma sentivo che non veniva fuori definitivamente dalla sua angoscia, era solo un tirare un po’ il fiato; poi si smarriva ancora. Mi avrebbe trascinato a fondo con sé, se non mi fossi difesa. Cominciai a fuggire mentre ancora era vivo. Mi allontanavo con te, senza litigare, anzi, lui era contento quando partivamo. Diceva che si sarebbe sentito ancora più oppresso, se avessimo condiviso il suo buio, lo chiamava così. (Scuote la testa, allunga una mano e  sfiora il braccio di Fabrizia). E poi il buio lo ha travolto.

FABRIZIA: (dopo un profondo respiro) Perché sei scappata, poi? Nei miei ricordi te ne andavi da sola. Quando mi portavi ancora con te ero troppo piccola, non ne ho memoria. Mi sono rimaste impresse le volte in cui mi mollavi dalla nonna Bianca e sparivi. Non ti facevi viva, nemmeno telefonavi. Quando tornavi eri sempre più distante.

(in crescendo) Perché sono rimasta esclusa dalle tue cure? Perché non hai mai reclamato il tuo ruolo, una volta che ti eri assestata in una vita tranquilla, accanto a un uomo rassicurante e innamorato? Avrei voluto che me lo chiedessi, anzi, lo pretendessi. Che piangessi, strepitassi, urlassi sono io tua madre, è con me che devi stare.

Per quanto mi sia ripetuta spesso che la mia vita aveva i suoi binari e che sarebbe stato destabilizzante per me rivoluzionarla, raggiungendoti in America, la rabbia corrosiva per la tua assenza è restata.

EMMA: Volevo proteggerti, Fabrizia. Sono stata male, la mia vita si è disintegrata la sera in cui tuo padre morì. Non riesci a immaginarlo? Ero rimasta priva della mia forza, quella che sarebbe stata necessaria per raccattare i cocci, incollarli e farne qualcosa di decente. Quando perdi qualcuno che per te era importante, come lui era per me, non puoi fare a meno di torturarti pensando che è colpa tua, almeno in parte. Ti chiedi cosa avresti potuto fare…

FABRIZIA: (tra sé) Lo diceva anche la nonna.

EMMA: Quando sono stata meglio, quando mi sono sentita presentabile, tu avevi trovato un equilibrio, con la nonna stavi bene…

FABRIZIA: Certo, ma dovevi andartene per forza in America? Non potevi restare a portata di mano?

EMMA: Allora mi sembrò di non avere scelta. Ti avevo dato troppo poco, Fabrizia. Temevo di non poter recuperare più. E poi volevo un’altra occasione, nuova di zecca. Un altro paese, un’altra lingua, altri paesaggi. Non ero certa d’incontrare un altro amore, ma lo desideravo. M’è andata bene, con Jeff ho conosciuto l’armonia, anche se, a quanto pare, la vedovanza fa parte del mio karma.

FABRIZIA: Nel mio dev’esserci il deserto affettivo (sospira).

EMMA:  Se con Giulio non è andata bene non vuol dire che andrà sempre male.

FABRIZIA:  (guardandola fissamente) Non pensavo solo a Giulio. Pensavo a te, a papà. La mia presenza non vi ha trattenuto dal fare quello che avevate deciso di fare, scappare dalle vostre responsabilità.

EMMA: (piano) Non ce lo perdonerai mai, Fabrizia?  (Si guarda le mani, poi alza gli occhi e fa un sorriso timido). La fede che ho abbracciato mi ha insegnato che abbiamo il diritto di cercare la felicità.

FABRIZIA: Be’, nel Paese in cui hai scelto di vivere hanno scritto la stessa cosa nella Dichiarazione d’indipendenza.

EMMA:  No, non è la stessa cosa. Quella di cui ti sto parlando non è la ricerca della felicità attraverso i consumi.

FABRIZIA:  (senza cattiveria)  Oh, ma non ti fai mancare niente nemmeno da quel punto di vista.

Emma sorride pacata.

EMMA: (con tono più sicuro) La felicità di cui parlano i buddisti va ricercata dentro se stessi, a prescindere dalla vita che si fa, da quello che si ha e che non si ha. Preghiamo per la felicità di chi amiamo, anche se non ci ama, in modo da non trasformare il nostro sentimento in veleno che ci intossica.

FABRIZIA:  Non hai pregato abbastanza per la mia felicità, allora. O non sei stata ascoltata.

EMMA: Sai, c’è una poesia dell’Antologia di Spoon River che parla di questo, di come l’amore deluso possa diventare un bel dolore, se lo si rispetta, e riempire la vita di profumo, dice proprio così, mentre invece il rancore lo trasforma da clematide in edera mortale, e così l’anima cade dal suo sostegno. Negli ultimi versi c’è un ammonimento che tante volte avrei voluto rivolgerti: Non lasciate la volontà farvi da giardiniere nell’anima, a meno che siate sicuri ch’essa è più saggia dell’anima vostra.

Fabrizia ha un momento di commozione, che controlla.

FABRIZIA: Tu ce l’hai fatta a vivere rispettando il dolore?

EMMA:   A Santa Monica pensavo a un nuovo inizio. Ma non era il tempo. Accettare la mia colpa e la tua ostilità mi ha regalato una ragionevole dose di felicità e mi ha consentito di coltivare la speranza che, se fossi rimasta ferma, avremmo finito per incontrarci. In fondo, ciascuna a suo modo, abbiamo fatto la stessa cosa: costruire sulle macerie e sopravvivere ai lutti.

FABRIZIA:   Diceva la nonna: la rabbia è dolore andato a male (fa un carezza sulla spalla di Emma).

(Dopo un momento di silenzio, cambiando tono) Suvvia, usciamo!

EMMA:  Perché no? Un po' d'aria ci farà bene. Vado a prendere la borsa.

Emma esce

FABRIZIA   Sarebbe così semplice buttarsi tutto alle spalle, far coincidere una fine − quella della tua vita − con un inizio, quello di un dialogo fra me e lei. Le piacerebbe, sarebbe in linea con tutte quelle cazzate buddiste che per fortuna dosa con cautela. Ancora una volta provo compassione per la buona volontà che ci mette, come se fosse lei la figlia, e io la madre esigente che occorre blandire, compiacere, soddisfare.

Mi nasce dentro la voglia di risarcirla per gli sforzi che fa. Tengo a bada un vago disagio, figlio della consapevolezza di comportami come un genitore che sente di pretendere troppo.

Un senso di spreco per tutti gli anni vuoti di momenti come questo riaccende la vecchia rabbia, quel rancore sempre latente che − me ne rendo conto all’improvviso − sono stanca di portarmi appresso, come un bagaglio ingombrante.

Non sono migliore di lei, nonna. Sono diversa, come sapevo da sempre, ma migliore no. Ci sono parti pessime di me che tengo a bada solo perché non riuscirei a sopportare la visione di me stessa, se dessi libero sfogo alle mie meschinità.

Emma rientra in caftano e sacca morbida.

EMMA   (serena)   Domani vado a fare il biglietto aereo per Catania. Voglio passare qualche giorno con mia mamma e la zia Antonella.

Escono. Rumori fuori scena come di una caduta dalle scale, un grido. Voce di Emma concitata. Rientra sostenendo Fabrizia che tiene sollevato un piede.

FABRIZIA: Mi gira la testa. E che male alla caviglia!

EMMA: Su, su! Siedi. Che capitombolo! Chiamo l’ambulanza.

FABRIZIA: (soffrendo, ma risoluta)   Non è necessario. È solo una distorsione. Devo stare solo un po' a riposo. Ghiaccio e gamba sollevata. Telefonerò a Marcella.

Emma prende uno sgabello e glielo sistema sottola gamba.

EMMA: Vado a prepararti un tè caldo (fa per avviarsi).

FABRIZIA: Stai tranquilla, Marcella verrà sicuramente a darmi una mano. Me la caverò benissimo.

Emma che stava per uscire, si ferma.

EMMA: Ci sono io.

FABRIZIA: Non stavi per comprare il biglietto?

Si gira a guardare Fabrizia.

EMMA:  (ripete tranquilla)  Ci sono io.

FABRIZIA   (guardandola)   Certo, certo.  Scusa, mamma, credevo che avessi urgenza di rientrare.

Emma esce. Fabrizia sorride appena.

SIPARIO