Mastro Don Gesualdo

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MASTRO DON GESUALDO

Commedia in tre atti e 17 quadri

di GIOVANNI VERGA

Riduzione di Anton Giulio Bragaglia

PERSONAGGI

Don GESUALDO – La baronessa RUBIERA – BIAN­CA TRAO

NINI' RUBIERA – ISABELLA – DIODATA

La zia CIRMENA – Il barone ZACCO - La zia MACRI'

Il canonico LUPI – Il barone MENDOLA – Il notaio NERI

GIUSEPPINA RUBIERA - SPERANZA MOTTA – SANTO MOTTA

Don DIEGO – NANNI L'ORBO – Il duca di LEYRA – CIOLLA

FILIPPO MARGARONE – La baronessa ZACCO

Donna BELLONIA MARGARONE

LA CAPITANA - GIUSEPPINA ALOSI - NUNZIO MOTTA

ROSARIA - LAVINIA ZACCO - L'arci­prete BUGNO

GIOVANNINA MARGARONE - LA GUARDAROBIERA

Don FERDINANDO - Don LUCA, sacrestano - IL CAPITANO

L'AVV. FI­SCALE, ATTORE, MEDICO

PELAGATTI - GIACALONE

BRASI CAMAURO - Il dottor TAVUSO - Mastro LIO PIRTUSO

VITO OR­ LANDO - BARABBA ,- GIUSEPPINA SGANCI

Il marchese LIMOLI - Il farmacista BOMMA - La comare LIA

SUA FIGLIA - AGRIPPINA MACRI' - Il cav. PEPERITO

FIFI' MARGA­RONE - NICOLINO MARGARONE - AGOSTINO

Mastro COLA - FORTUNATO BURGIO - Il massaro CARMINE

LICIO PAPA – IL 1° DOME­STICO DEL DUCA

Donna MARIETTA ZACCO

Mastro TITTA - II garzone ALESSI

MITA MARGARONE - DUE FIGLI DI SPERANZA.

Commedia formattata da

AVVERTENZE PER LA RAPPRESENTAZIONE

Il numero dei personaggi può con raddoppi esser ridotto a circa 30 usando 10 comparse per quelli che non parlano. Alcuni personaggi possono essere addi­rittura soppressi.

Le 17 scene si possono presentare con pochi ele­menti che scorrano dai lati o vengano dal fondo o dall'alto.

Se si può disporre di un palcoscenico spazioso il sistema migliore da usare è quello di tre carrelli pro­venienti da destra, da sinistra e dal fondo, mentre le altre tre scene di ogni atto saranno fatte di spezzati scorrevoli lateralmente o di tende. Ne verrà una rap­presentazione a gran spettacolo, con scene architetto­niche preparate prima, in ogni particolare.

1° Quadro - Sipario plastico di strada, col portone che si apre e mostra uno scalone.

2° Quadro - Casa di Bianca Stanzone di tende, vuoto, con porte.

3° Quadro carrello - Granaro della Rubiera, ex teatro principesco; colonnati a gibus; palco di famiglia nel centro.

4° Quadro carrello Salone casa Sganci; due balconi in primo rivolti verso la platea e salone di tende in fondo.

5° Quadro - Siamo fuori la porta dei magazzini di don Gesualdo: un fondale armato con porta che fa da sipario alla scena seguente.

6° Quadro carrello - Qui mezza scena rappresenta un'aia con Un albero a sinistra una siepe in fondo e mezzo pagliaio che spunta a destra. L'altra metà è la gran porta aperta di una fattoria che contiene sulla pa­rete a sinistra il camino acceso.

ATTO PRIMO

PRIMO QUADRO

Il paese. A sinistra la strada. Casa Trao a destra con balcone e gran portone. Quando questo sarà aperto si vedrà uno scalone che sale nel fondo.

 (Suona la Messa dell’alba a San Giovanni; ma il pae-setto dorme ancora della grossa. Buio. Funebre uggiolare di cani. Tutta un tratto, nel silenzio, s'ode un rovinio, la campanella squillante di Sant'Agata che chiama aiuto, usci e finestre che sbattono, la gente che scappa fuori in camicia gridando).

Voci                              - Terremoto! San Gregorio Magno! (Subito giunge il suono grave del campanone di San Giovanni, che dà l'allarme anch'esso; poi la campana della fossa di San Vito; l'altra della Chiesa Madre, più lontano; quella di Sant'Agata che pare addirittura cascar sul capo degli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano pure svegliate le campanelle dei monasteri, il Collegio Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa; uno scampanìo ge­nerale che corre sui tetti spaventato nelle tenebre).

Voci                              - No! no! E' il fuoco!... Fuoco in Casa Trao!... San Giovanni Battista! (Gli uomini accorrono vociando, colle braghe in mano. Le donne mettono il lume alla finestra: tutto il paese sulla collina formicola di lumi, come se fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano).

Voci                              - Don Diego! Don Ferdinando! (si ode chia­mare in fondo alla piazzetta; e uno che bussa al portone con un sasso. Dalla salita verso la piazza grande, e dagli altri vicoletti arriva gente: un calpestio continuo di scarponi grossi, sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant'Agata, e quella voce che chiama).

Voci                              - Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti? (Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedono salire infatti, nell'alba che comincia a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sfarzi di fa­ville. E piove dall'alto un riverbero rossastro che accende le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt'a un tratto si ode sbatacchiare una finestra e una vocetta stridula che grida di lassù):

Don Ferdinando           - Aiuto!... |Ladri!... Cristiani, aiuto!

Voci                              - Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando!

Voci                              - Diego! Diego! (Dietro la faccia stralunata di don Ferdinando Trao appare alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si ode la voce rauca del tisico che strilla anch'esso):

Don Diego                    - Aiuto!... Abbiamo i ladri in casa!... Aiuto!

                                      - (Giunge in punto trafelato)

Nanni l'Orbo                 - Sì, li ho visti io i ladri in casa Trao! Con questi occhi!... Uno che voleva scappare dalla fi­nestra di donna Bianca e s'è cacciato dentro un'altra volta, al veder accorrere gente!

Don Gesualdo               - Brucia il palazzo, capite? Ci ho accanto la mia casa, perdio!

Tutti a soggetto             - (vociare di mastro don Gesualdo Motta. Gli altri, spingendo, facendo leva al portone, rie­scono a. penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll'erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati, armati di secchie, di brocche d'acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che vuole dar di mano alle campane un'altra volta, per chiamare all'armi; Pelagatti cosi com'era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito. Dal cortile non si vede ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto come spira il mae­strale, passano al disopra delle grandi ondate di fumo, che si sperdono dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente, delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell'altra legna grossa, assi d'impalcati, correntoni fradici, una trave di palmetto che non si è mai potuto vendere).

Don Gesualdo               - Peggio dell'esca, vedete! Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!... Santo e santis­simo!... E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santissimo... e santo!...

                                      - (In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembrano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripete come una anatra):

Don Ferdinando           - Di qua! di qua! (Ma nessuno osa avventurarsi su per la scala che traballa. Una vera bi­cocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; dalle fenditure che scendono dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta).

Don Gesualdo               - Contro il mio muro è accatastata!...

 Volete sentirla o no? (Sono accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile; strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao).

Speranza                       - Signori miei... guardate un po'!... Ci ab­biamo i magazzini qui accanto! (E se la prende anche con suo marito Burgio, ch'è lì in maniche di camicia) Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque!

SECONDO QUADRO

Casa di Bianca. Stanzone vuoto con porte attorno al primo piano della casa precedente. Vecchi quadri e qual­che seggiolone. Tende oscure con porte e quadri da tirare in soffitta tutt'insieme.

 (Mastro don Gesualdo si slancia per il primo, urlando, su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni spari­scono per gli stanzoni scuri e vuoti).

Voci                              - Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio. (Nanni l'Orbo ce l'ha sempre con quello della fine­stra, vociando ogni volta: «.Eccolo! Eccolo!». E dalla biblioteca, la quale casca a pezzi, si ode sempre la voce chioccia di don Ferdinando).

Don Ferdinando           - Bianca! Bianca! (E don Diego che bussa e tempesta dietro un uscio, fermando pel ve­stito ognuno che passa).

Don Diego                    - Bianca! Mia sorella!...

Don Gesualdo               - (rosso come un pomodoro, liberan­dosi con una strappata) Che scherzate? Ci ho la mia casa accanto, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere!

                                      - (E’ un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portano acqua; ragazzi che si rincorrono schia­mazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendono ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l'eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembrano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che fa ballare il pavimento. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalorditi, travolti in mezzo alla folla che rovista in ogni cantuccio la miseria della loro casa, continuano a strillare):

Don Ferdinando e don Diego - Bianca!... Mia so­rella!...

Santo                             - (grida loro nell'orecchio) Avete il fuoco in casa capite? Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia!

Don Diego                    - (picchiandosi un colpo in fronte balbetta) Le carte di famiglia! Le carte della lite. (E don Fer­dinando scappa via correndo, colle mani nei capelli. Come spira il vento, entrano ad ondate vortici di fumo denso, che fanno tossire don Diego).

Don Diego                    - Bianca! Bianca! Il fuoco!... (Mastro don Gesualdo torna indietro accecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhi fuori dell'orbita, mezzo soffocato).

Don Gesualdo               - Santo e santissimo! Non si può da questa parte!... Sono rovinato!

Speranza                       - (che è rauca dal gridare, strappando di dosso i vestiti alla gente per farsi largo, colle unghie sfode­rate, come una gatta, e la schiuma alla bocca) Dalla scala ch'è laggiù, in fondo al corridoio! (Tutti corrono da quella parte, lasciando don Diego, che seguita a chia­mare dietro l’uscio della sorella).

Don Diego                    - Bianca! Bianca!... (Odesi un tramestìo dietro quell’uscio; un correre all'impazzata, quasi di gente che ha perso la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata).

Nanni l'Orbo                 - (gridando in fondo al corridoio) Ec­colo! Eccolo! (E si ode lo scoppio del pistolone di Pela­gatti, come una cannonata).

Santo                             - (vociando dal cortile) La Giustizia! Ecco qua gli sbirri.

                                      - (Allora si apre l'uscio all’ improvviso, e appare donna Bianca discinta, pallida come una morta, annaspando colle mani convulse, senza profferir parola, fissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d'angoscia. Ad un tratto si piega sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipite, balbettando):

Bianca                           - Ammazzatemi, don Diego!... Ammazzatemi pure!... ma non lasciate entrare nessuno qui!... (Quello che accade poi, dietro quell'uscio, che don Diego ha chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorella, nessuno lo saprà mai. Si ode soltanto la voce di lui, una voce d'angoscia disperata, che balbetta):

Don Diego                    - Voi?... Voi qui?...

                                      - (Accorrono il signor capitano, l'avvocato fiscale, don Lido Papa, il caposbirro, gridando da lontano e bran­dendo la sciaboletta sguainata).

Licio Papa                     - Aspetta! Aspetta! Ferma! Ferma! (E il signor capitano dietro di luì, trafelato come don Licio, cacciando avanti il bastone).

Il Capitano                    - Largo! Largo! Date passo alla Giusti­zia! (L'avvocato fiscale ordina di buttare a terra l'uscio).

L'Avvocato                   - Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Come vi « successo? (S'affaccia don Diego invecchiato di dieci anni in un minuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille grigie, con un sudore freddo sulla fronte, la voce strozzata da un dolore immenso).

Don Diego                    - Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!

Pelagatti                        - (inferocito contro Nanni l'Orbo) Bel la­voro mi faceva fare!... Un altro po' ammazzavo com­pare Santo!...

Il Capitano                    - Con le armi da fuoco!... Che scher­zate?... Siete una bestia!

                                      - (Adesso dal corridoio, dalla scala dell'orto, tutti por­tano. Don Ferdinando, il quale torna in quel momento carico di scartafacci, batte il naso nel corridoio buio con­tro Giacalone che va correndo. Bianca è stata presa dalle convulsioni: non bastano in quattro a trattenerla sul tet­tuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come un cadavere, colle mani scarne e tremanti, cerca di ricac­ciare indietro tutta quella gente. Il capitano infine si mette a far piovere legnate a dritta e a manca, come viene, sui vicini che s'affollano all'uscio curiosi).

Il Capitano                    - Che guardate? Che volete? Via di qua! Fannulloni! Vagabondi! Voi, don Licio Papa, mettetevi a guardia del portone.

A soggetto                    - (viene un momento il barone Mendola, per convenienza, e donna Sarina Cirmena che ficca il naso da per tutto; il canonico Lupi da parte della baronessa Rubiera. La zia Sganci e gli altri parenti mandano il servitore a prendere notizia della nipote. Don Diego, reggendosi appena sulle gambe, sporge il capo dall'uscio e risponde a ciascheduno).

Don Diego                    - Sta un po' meglio... E' più calma!... Vuol essere lasciata sola...

Il Canonico                   - (scuotendo il capo e guardando in giro le pareti squallide della sala mormora) Eh! eh! Mi rammento qui!.;. Dov'è andata là ricchezza di Casa Trao?.. (Il barone Mendola scuote il capo anche lui li­sciandosi, il mento ispido di barba dura colla mano pe­losa. La zia Cirmena scappa a dire):

Zia Cirmena                  - Sono pazzi! Pazzi da legare tutti e due! Don Ferdinando già è stato sempre uno stupido... e don Diego... vi rammentate? Quando la cugina Sganci gli aveva procurato quell'impiego nei mulini?... Nossi­gnore!... Un Trao non poteva vivere di salario!... Di li­mosina, sì, possono vivere!...

Il Canonico                   - (interrompendo, colla malizia che gli ride negli occhietti di topo, ma stringendo le labbra sottili) Oh! oh!

Zia Cirmena                  - Sissignore!... Come volete chiamarla? Tutti i parenti si danno la voce per quello che devono mandare a Pasqua e a Natale. Vino, olio, formaggio... anche del grano... La ragazza già è tutta vestita dei re­gali della zia Rubiera.

Il Canonico                   - Eh! eh!... (Con un sorrisetto incre­dulo, va stuzzicando ora donna Sarina ed ora il barone, il quale china il capo, seguita a grattarsi il mento di­scretamente, finge di guardare anch'esso di qua e di là).

Mendola                        - Eh! eh!... pare anche a me!... (Giunge il dott. Tavuso in fretta, col cappello in capo, senza salutar nessuno, ed entra nella camera dell'inferma. Poco dopo torna ad uscire, stringendosi nelle spalle, gonfiando le gote, accompagnato da don Ferdinando, allampanato che pare un cuoco. La zia Macrì e il canonico Lupi corrono dietro al medico. La zia Cirmena, che vuole sapere ogni cosa, pianta in faccia quei suoi grandi occhi rotondi peg­gio dell'avvocato fiscale).

Il dottor Tavuso            - Eh? Cos'è stato?... Lo sapete voi? Adesso si chiamano nervi... malattia di moda... vi man­dano a chiamare per un nulla... quasi potessero pagare le visite del medico! Volete che ve lo dica? Le ragazze a certa età bisogna maritarle! (E volta le spalle soffiando gravemente, tossendo, spurgandosi. I parenti si guardano in faccia. Il canonico per discrezione, prende a tener a bada il barone Mendola, dandogli chiacchiera e tabacco, sputacchiando di qua e di là, onde cercare di sbirciar quello che succede dietro l'uscio socchiuso di donna Bianca, stringendo le labbra riarse come inghiottisse ogni momento).

Il Canonico                   - Si capisce!... la paura avuta!... Le ave­vano fatto credere d'avere i ladri in casa!... povera donna Bianca!... E' così giovine!... così delicata!...

Zia Cirmena                  - Sentite, cugina! (Tira in disparte la Macrì. Don Ferdinando, sciocco, vuole accostarsi per udire lui pure) Un momento!! Che maniera! Ho da dire una parola a vostra zia!... Piuttosto andate a pigliare un bicchiere d'acqua per Bianca, che le farà bene...

Don Ferdinando           - (coll'aria sorridente) E' tutta rovi­nata la cucina! Non c'è più dove cuocere un uovo!... Bi­sognerà fabbricarla di nuovo! (Già come nessuno gli dà retta, fissa in volto or questo ed ora quello col suo sor­riso sciocco).

Il Canonico                   - Va bene, va bene. Poi ci si penserà...

'Mendola                       - Ci si penserà?... Se ci saranno i denari per pensarci! Io gliel’ho sempre detto... Vendete la metà di casa, cugini cari... anche una o due camere... tanto da tirare innanzi!... Ma nossignore!... Vendere la casa dei Trao?... Piuttosto, a ogni stanza che rovina chiudono l'uscio e si riducono in quelle che restano in piedi... Così faranno per la cucina... Faranno cuocere le uova qui in sala, quando le avranno... Vendere una o due ca­mere?... Nossignore... non si può, anche volendo... La ca­mera dell'archivio? e ci son le carte di famiglia!... Quella della processione e non ci sarà poi dove affacciarsi quando passa il Corpus Domini!... quella del cucù?... Ci hanno anche la camera pel cucù, capite! (E il barone, con quella sfuriata, li pianta tutti lì, che si sganasciano dalle risa).

Zia Cirmena                  - (prima d'andarsene, picchia di nuovo all'uscio della nipote) Come sta? (Fa capolino don Die­go, sempre con quella faccia di cartapesta).

Don Diego                    - Meglio... E' più calma!... Vuole esser lasciata sola...

Zu [Mackì                     - Povero Diego!

Zu Cirmena                   - Lo sapevo da un pezzo... Vi rammen­tate la sera dell'Immacolata, che cadde tanta neve? Vidi passare il baronello Rubiera dal vicoletto qui a due passi... intabarrato come un ladro...

Il Canonico                   - Avete udito il dottore Tavuso? Pos­siamo parlare perché siamo tutti amici intimi e parenti... A certa età le ragazze bisogna maritarle!

TERZO QUADRO

Granaro della Rubiera, ex teatro principesco. Arche; volticine; colonnati dipinti e donne nude sui muri. Palco di famiglia nel centro. Sedioni antichi, selle, pale, scope. Una portantina con stemma. Lanterne antiche e sacchi di frumento. Barili, ecc.

 (La baronessa Rubiera fa vagliare del grano. 'Don Diego la vede passando davanti la porta del magazzino, in mezzo a una nuvola di pula, con le braccia nude, la gon­nella di cotone rialzata sul fianco, i capelli impolverati, malgrado il fazzoletto, che s'era tirato già sul naso a mo' di tettino. Essa sta litigando con quel ladro del sensale Pirtuso, che le vuole rubare il suo farro pagandolo due tarì meno a salma, accesa in volto, gesticolando con le braccia pelose, il ventre che le balla).

Rumerà                         - Non ne avete coscienza, giudeo?... (Poi, come vede don Diego, si volta sorridente) Vi saluto, cu­gino Trao. Cosa andate facendo da queste parti?

Don Diego                    - Venivo appunto, signora cugina... (sof­focato dalla polvere, si mette a tossire).

Rubiera                         - Scostatevi, scostatevi! Via di qua, cugino. Voi non ci siete avvezzo. Vedete cosa mi tocca fare? Ma che faccia avete, gesummaria! Lo spavento di questa notte, eh?...

Rosaria                          - (dalla botola, in cima alla scaletta di legno, si affacciano due scarpacce, delle grosse calze turchine, e si ode una bella voce di giovinetta) Signora baronessa, eccoli qua.

Rubiera                         - E' tornato il baronello?

Rosaria                          - Sento « Marchese » che abbaia laggiù.

Rubiera                         - Va bene, adesso vengo. Dunque, pel farro cosa facciamo, mastro Lio? (Pirtuso è rimasto accocco­lato sul moggio, tranquillamente, come a dire che non gliene importa del farro, guardando sbadatamente qua e là le cose strane che sono nel magazzino vasto quanto una chiesa).

Pirtuso                           - (per sviare la domanda) Ai miei tempi, si­gnora baronessa, io ci ho visto la commedia in questo magazzino.

Rubiera                         - Lo so! lo so! Così si son fatti mangiare il fatto suo i Rubiera! E ora vorreste continuare!... Lo pi­gliate il farro, sì o no?

Pirtuso                           - Ve l'ho detto: a cinque onze e venti.

Rubiera                         - No, in coscienza, non posso. Ci perdo già un tari a salma.

Pirtuso                           - Benedicite a vossignoria!

Giacalone                      - Via, mastro Lio, ora che ha parlato la signora baronessa. (Il sensale riprende il suo moggio, e se ne va senza rispondere. La baronessa gli corre dietro, sull'uscio).

Rubiera                         - A cinque e ventuno. Vi accomoda?

Pirtuso                           - (Benedicite, benedicite.

Rubiera                         - (al cugino Trao) Stavo pensando giusto a voi, cugino. Un po' di quel farro voglio mandarvelo a casa... No, no, senza cerimonie... Siamo parenti. La buona annata deve venire per tutti. Poi il Signore ci aiuta!... Avete avuto il fuoco in casa, eh? Dio liberi! M'hanno detto che Bianca è ancora mezza morta dallo spavento-Io non potevo lasciare qui, scusatemi...

Don Diego                    - Sì... son venuto appunto... Ho da par­larvi...

Rubiera                         - Dite, dite pure... Ma intanto, mentre siete laggiù, guardate se torna Pirtuso... Così, senza farvi scor­gere...

Vito Orlando                - E' una bestia! Conosco mastro Lio. E' una bestia! Non torna.

Il Canonico                   - (seguito dal sensale) Deo gratias! Deo gratias! Lo combiniamo questo matrimonio, signora ba­ronessa? (Come s'accorge di don Diego, che aspetta, umilmente in disparte, il canonico muta subito tono e maniere, colle labbra strette, affettando di tenersi in di­sparte per discrezione).

Rubiera                         - Cinque e ventidue.

Pirtuso                           - Cinque e venticinque.

Rubiera                         - Rosaria! Rosaria! E tacete! Io so per chi comprate. E' per mastro don Gesualdo. (Giacalone strizza l'occhio dicendo di sì).

Pirtuso                           - Non è vero! Mastro don Gesualdo non ci ha che fare! Quello non è il mestiere, di mastro don Ge­sualdo!

Il Canonico                   - State tranquillo, che mastro don Ge­sualdo fa tutti i mestieri in cui c'è da guadagnare.

Pirtuso                           - (a Giacalone) Che non ne vuoi mangiare pane, tu? Non sai che si tace nei negozi? (La baronessa, dal canto suo mentre il sensale le volta le spalle, ammicca anch'essa al canonico Lupi, come a dirgli che riguardo al prezzo non c'era male).

Il Canonico                   - Sì, sì. Il barone Zacco sta per vendere a minor prezzo. Però mastro don Gesualdo, ancora non ne sa nulla.

Rubiera                         - Ah! s'è messo anche a fare il negoziante di grano, mastro don Gesualdo? Non lo fa più il muratore?

Il Canonico                   - Fa un po' di tutto, quel diavolo. Dicesi pure che vuol concorrere all'asta per la gabella delle terre comunali...

iRubiera                        - Le terre del cugino Zacco?... Le gabelle che da cinquant'anni si passano in mano di padre in figlio?... E' una bella bricconata!

Il Canonico                   - Non dico di no; non dico di no. Oggi non si ha più riguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denari, quello ha ragione... (Verso don Diego, con grande enfasi) Adesso non c'è altro Dio! Un galantuomo alle volte... oppure una ragazza ch'è nata di buona fa­miglia... Ebbene, non hanno fortuna! Invece uno venuto da nulla... uno come mastro don Gesualdo, per esempio!... (Come in aria di mistero, parlando piano con la baro­nessa e don Diego Trao, sputacchiando di qua e di là) Ha la testa fine quel mastro don Gesualdo! Si farà ricco, ve lo dico io! Sarebbe un marito eccellente per una ra­gazza a modo... come ce ne son tante che non hanno molta dote.

Pirtuso                           - (che sta per andarsene davvero) Dunque, signora baronessa, posso venire a caricare il grano?

Rubiera                         - Sì, ma sapete come dice l'oste? « Qui si mangia e qui si beve; senza denari non ci venire ».

Pirtuso                           - Pronti e contanti, signora baronessa. Grazie a Dio vedrete che saranno puntuali.

Giacalone                      - Se ve l'avevo detto! E' mastro don Ge­sualdo!

Il Canonico                   - (dopo che Pirtuso se ne è andato) Sa­pete cosa ho pensato? di concorrere pure all'asta vossi­gnoria, insieme a qualchedun altro... ci starei anch'io...

Rubiera                         - No, no, ho troppa carne al fuoco!... Poi non vorrei fare uno sgarbo al cugino Zacco! Sapete bene... Siamo nel mondo... Abbiamo bisogno alle volte l'uno dell'altro.

Il Canonico                   - Intendo... mettere avanti un altro... ma­stro don Gesualdo Motta, per esempio. Un capitaluccio lo ha; lo so di sicuro... Vossignoria darebbe l'appoggio del nome... Si potrebbe combinare una società fra di noi tre... (Ma sembrandogli che don Diego Trao stia ad ascoltare i loro progetti, perché costui aspetta il momento di parlare alla cugina Rubiera, impresciuttito nella sua palandrana, e ha tutt'altro per la testa il poveraccio!, il canonico cambia subito discorso):

Il Canonico                   - Eh, eh, quante cose ha visto questo magazzino! Mi rammento, da piccolo il marchese Limoli che recitava « Adelaide e Comingio » colla Margarone, buon'anima, la madre di don Filippo, quella ch'è andata a finire poi alla Salonia. «Adelaide! Dove sei?». La scena della Certosa.... Bisognava vedere! tutti col fazzo­letto agli occhi! Tanto che don Alessandro Spina, per la commozione, si mise a gridare: « Ma diglielo che sei tu!...» e le buttò anche una parolaccia. (La baronessa afferma coi segni del capo dando un colpo di scopa, di tanto in tanto, per dividere il grano dalla mondiglia).

Rubiera                         - Così andavano in rovina le famiglie. Se non ci fossi stata io, in casa dei Rubiera!... Lo vedete quel che sarebbe rimasto di tante grandezze! Io non ho fumi, grazie a Dio! Io sono rimasta quale mi hanno fatto mio padre e mia madre... gente di campagna, gente che hanno fatto la casa colle loro mani, invece di distruggerla! e per loro c'è ancora della grazia di Dio nel magazzino dei Rubiera invece di feste e di teatri... (Rumore del vetturale che arriva colle mule cariche). Rosaria! Ro­saria!

Rosaria                          - Don Nini non era alla Vignazza, Alessio è ritornato col cane, ma il baronello non c'era.

Rubiera                         - Oh, Vergine Santa! (Strillando) Oh, Maria Santissima! E dove sarà mai? Cosa gli sarà accaduto al mio ragazzo? (Don Diego a quel discorso si fa rosso e pallido da un momento all'altro. Ha la faccia di uno che voglia dire: «Apriti terra e inghiottimi». Tossisce, cerca il fazzoletto dentro il cappello, apre la bocca per parlare; poi si volge dall'altra parte, asciugandosi il sudore. Il canonico s'affretta a rispondere, guardando sottecchi don Diego Trao).

Il Canonico                   - Sarà andato in qualche altro posto... Quando si va a caccia, sapete bene...

Rubiera                         - Tutti i vizi di suo padre, buon'anima! Caccia, giuoco, divertimenti... senza pensare ad altro... e senza neppure avvertirmi!... Figuratevi, stanotte, quando le campane hanno suonato a fuoco, vado a cercarlo in camera sua, e non lo trovo! Mi sentirà!... Oh, mi sen­tirà!... (// canonico cerca di troncare il discorso, col viso inquieto, il sorriso sciocco che non vuole dir nulla).

Il Canonico                   - Eh, eh, baronessa! Vostro figlio non è più un ragazzo; ha ventisei anni!

Rubiera                         - Ne avesse anche cento!... Fin che si ma­rita, capite!... E anche dopo!

Rosaria ---------------- - Signora baronessa, dove s'hanno a scaricare i muli?

 Rubiera                        - Vengo, vengo, andiamo per di qua. Voialtri passate pel cortile, quando avrete terminato.

Il Canonico                   - (giunti al portone si tira indietro pru­dentemente) Un'altra volta; tornerò qui. Adesso vo­stro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vostri, don Diego.

Rubiera                         - Oh, quel figlio mio! Tale e quale a suo padre, buon'anima! Senza darsi un pensiero al mondo della mamma o dei suoi interessi!... (Porge da sedere a Trao, il poveretto vi si lascia cadere, quasi abbia le gambe rotte, sudando come Gesù nell'orto; si cava allora il cappellaccio bisunto, passandosi il fazzoletto sulla fronte). Avete da dirmi qualche cosa, cugino? Parlate, dite pure. (Egli stringe forte le mani una nell'altra, dentro il cappello, e balbetta colla voce roca, le labbra smorte e tremanti, gli occhi umidi e tristi che evitano gli occhi della cugina).

Don Diego                    - Sissignora... Ho da parlarvi...

Rubiera                         - (accosta la seggiola sua a quella di lui, per fargli animo) Parlate, parlate, cugino mio... Quel che si può fare... sapete bene... siamo parenti... I tempi non rispondono... Ma quel poco che posso.- Fra parenti... Parlate pure...

Don Diego                    - (colle fauci strette, la bocca amara, alzando ogni momento gli occhi su di lei, e aprendo le labbra senza che ne esca alcun suono, infine, cava di nuovo il fazzoletto per asciugarsi il sudore, se lo passa sulle lab­bra aride e balbetta) E' accaduta una disgrazia!... Una gran disgrazia!...

Rubiera                         - (con la inquietudine del contadino che teme per la sua roba) Cioè!... Cioè!...

Don Diego                    - Vostro figlio è tanto ricco!... Mia sorella no, invece

Rubiera                         - (irrigidita nella maschera dei suoi progenitori, improntata della diffidenza arcigna dei contadini, si alza) Ma spiegatevi, cugino. Sapete che ho tanto da fare...

Don Diego                    - (scoppia a piangere come un ragazzo, na­scondendo il viso incartapecorito nel fazzoletto di cotone, con la schiena curva e scossa dai singhiozzi) Bianca! Mia sorella!... E' capitata una disgrazia alla mia povera sorella!... Ah, cugina Rubiera!... Voi che siete madre!...

Rubiera                         - (le labbra strette per non lasciarsi scappar la pazienza, e una ruga nel bel mezzo della fronte. In un lampo le tornano in mente tante cose alle quali non aveva badato nella furia del continuo da fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; le chiacchiere che an­dava spargendo don Luca, il sagrestano; certi sotterfugi del figliolo. Si sente la bocca amara come il fiele) Non so, cugino, non so come ci entri io in questi discorsi...

Don Diego                    - (cercando le parole, guardandola fisso negli occhi che dicono tante cose, in mezzo a quelle lagrime di onta e di dolore, nasconde di nuovo il viso fra le mani) Sì!... Sì!... Vostro figlio Nini!...

Rubiera                         - (stavolta rimane lei senza trovar parola, con gli occhi che le schizzano fuori dal faccione apoplettico fissi sul cugino Trao, quasi volesse mangiarselo balza in piedi come avesse vent'anni) Rosaria! Alessi, venite qua!

Don Diego                    - Per carità! Per carità! (A mani giunte correndole dietro) Non fate scandali, per carità! (e tace soffocato dalla tosse, premendosi il petto).

Rubiera                         - (fuori di sé, come un terremoto, a Rosaria che accorre) Dov'è mio figlio, infine? Cosa t'hanno detto alla Vignazza? Parla, stupida!

Rosaria                          - (dondolandosi ora su di una gamba ora sull'altra) Il baronello non era alla Vignazza. Vi aveva lasciato il cane, « Marchese », la sera innanzi, ed era par­tito: a piedi, sissignora. Così mi ha detto il fattore. Il baronello, allorché andava a caccia di buon'ora, soleva uscire dalla porticina della stalla, per non svegliar nes­suno. La chiave?... Io non so... Ha minacciato di rom­permi le ossa... La colpa non è mia, «ignora baronessa!... (sgattaiola. Nella scala si odono le scarpacce a precipizio).

Don Diego                    - (cadaverico, col fazzoletto sulla bocca per frenare la tosse) Era lì... dietro quell'uscio!... Meglio m'avesse ucciso addirittura... allorché mi puntò le pistole al petto... a me! Le pistole al petto, cugina Rubiera!...

Rvbiera                         - No! Questa non me l'aspettavo!... Dite la verità, cugino don Diego, che non me la meritavo!... Vi ho sempre trattati da parenti... E quella gattamorta di Bianca che me la pigliavo in casa giornate intere... Come una figliola...

Don Diego                    - Lasciatela stare, cugina Rubiera!

Rubiera                         - Sì, sì, lasciamola stare! Quanto a mio figlio ci penserò io, non dubitate! Gli farò fare quel che dico io, al signor baronello... Birbante! Assassino! Sarà causa della mia morte!... (e le spuntano le lagrime. Don Diego, avvilito, non osa alzare gli occhi. Sospirando) Sia fatta la volontà di Dio! Anche voi, cugino Trao, dovete aver la bocca amara! Che volete! Tocca a noi che abbiamo il peso della casa sulla spalle!... Dio sa se della mia pelle ho fatto scarpe, dalla mattina alla sera! Se mi son levata il pan di bocca per amore della roba! E poi, tutto a un tratto, ci casca addosso un negozio simile... Ma questa è l'ultima che mi farà il baronello!... L'aggiusterò io, non dubitate! Alla fin fine non è più un ragazzo! Lo mari­terò a modo mio... La catena al collo, là! Quella ci vuole!... Ma voi, lasciatemelo dire, dovevate tenere gli occhi aperti, cugino Trao!... Quando si ha in casa una ragazza... L'uomo è cacciatore, si sa!... A vostra sorella avreste dovuto pensarci voi... O piuttosto lei stessa... Quasi quasi si direbbe... colpa sua!... Chissà cosa si sarà messa in testa? Magari di diventare baronessa Rubiera...

Don Diego                    - Signora baronessa... Siamo poveri... è vero... Ma quanto a nascita...

Rubiera                         - Eh, caro mio! La nascita... gli antenati….tutte belle cose... non dico di no... ma gli antenati che fecero mio figlio barone... volete sapere quali furono?... Quelli che zapparono la terra!... Col sudore della fronte, capite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo o di quello... ca­pite?... (bussano al portone col pesante martello di ferro che rintrona per tutta la casa).

Rosaria                          - (gridando dal cortile) C'è il sensale... quello del grano...

Rubiera                         - Vengo, vengo! Vedete quel che ci vuole a guadagnare un tari a salma, con Pirtuso e tutti gli altri! Se ho lavorato anch'io tutta la vita, e mi son tolta il pan di bocca, per amore della casa, intendo che mia nuora vi abbia a portare la sua dote anch'essa...

Don Diego                    - (sgambettando più lesto che può dietro alla cugina Rubiera) Mia sorella non è ricca... cugina Rubiera... Non ha la dote che ci vorrebbe... Le daremo la casa e tutto... Ci spoglieremo per lei... Ferdinando ed io...

Rubiera                         - Appunto, vi dicevo!... Voglio che mio figlio sposi una bella dote. La padrona son io, quella che l'ha fatto barone. Non l'ha fatta lui la roba! En­trate, entrate, mastro Lio.

Don Diego                    - Vostro figlio però lo sapeva che mia sorella non è ricca!...

Rubiera                         - (si volta come un gallo, coi pugni sui fian­chi, in cima alla scala) A mio figlio ci penso io! Voi pensate a vostra sorella... L'uomo è cacciatore... Lo man­derò lontano! Lo chiudo a chiave! Lo sprofondo! Non tornerà in paese altro che maritato! Colla catena al collo! Ve lo dico io! La mia feroce! La mia rovina!...

Alessi                            - (grida dalla porta del magazzino) Signora baronessa, dice che il farro non risponde al peso!

Rubiera                         - Che c'è? Cosa dice?... Anche il peso adesso? La solita! Per carpirmi un altro ribasso!... (Parte come una furia. Poscia vedendo passare il cu­gino Trao, il quale se ne va colla coda fra le gambe, la testa infossata nelle spalle, barcollando, lo ferma sull'uscio, cambiando a un tratto viso e maniere) Sì, sì, a Bianca le troveremo un galantuomo... Vi aiuterò anch'io come posso... Pazienza!... Farò un sacrificio...

Don ìDiego \                 - (a quelle parole si ferma cogli occhi spa­lancati, tutto tremante) No!... No!... Questo non può essere...

Pirtuso \                         - (viene dal magazzino, bianco di pula, duro, gli occhietti grigi sotto le sopracciglia aggrottate) Bacio le mani, signora baronessa.

Rubiera i                       - Come? Così ve ne andate? Che c'è di nuovo? Non vi piace il farro? (l'altro dice di no col capo). Come? Un negozio già conchiuso!...

Pirtuso                           - C'è forse caparra, signora baronessa?

Rubiera                         - Non c'è caparra; ma c'è la parola!...

Pirtuso                           - In tal caso, bacio le mani a vossignoria! (Esce).

Rubiera                         - (strillandogli dietro) Sono azionacce da pari vostro! Un pretesto per rompere un negozio... degno di quel mastro don Gesualdo che vi manda...

Pirtuso                           - (incontrando un uomo di don Gesualdo) Villano o baronessa la caparra è quella che conta, dico bene?

QUARTO QUADRO

Salone di Casa Sganci. In primo piano due balconi, a destra e a sinistra, larghi, con davanzale. Salone di tende indietro con quattro pilastri a mezza colonna in fondo, due a due, ai lati, vanno via con le tende. Tra le colonne telettoni dipinti. Sofà antichi, sedie e poltrone, ecc.

(La signora Sganci ha la casa piena di gente, venuta per vedere la processione del Santo patrono: i suoi balconi mandano fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo; don Giuseppe Barabba in gran livrea e guanti di cotone, annunzia le visite. Cè l'arciprete Bugno lu­cente di raso nero; donna Giuseppina Alosi carica di gioie; il marchese Limoli, vestito settecento con par­rucca).

Barabba                         - Mastro don Gesualdo! Devo lasciarlo en­trare, signora padrona?

Sganci                           - Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Motta, si dice! Bestia.

Limoli                           - Avanti, avanti, don Gesualdo! Non abbiate soggezione. (Mastro don Gesualdo però esita alquanto, intimidito, in mezzo alla gran sala tappezzata di dama­sco giallo, sotto gli occhi di tutti quegli Sganci che lo guardano alteramente dai ritratti, in giro alle pareti).

Sganci                           - (facendogli animo) Qui, qui c'è posto anche per voi, don Gesualdo.

                                      - (Nel balcone del vicoletto, che guarda di sbieco sulla piazza, per gli invitati di seconda mano ed i parenti poveri: donna Chiara Macrì, così umile e dimessa che pare una serva; sua figlia donna Agrippina, monaca di casa. In prima fila il cugino don Ferdinando, curioso più di un ragazzo, che s'è spinto innanzi a gomitate, e allunga verso la piazza grande il collo dal cravattone nero, al pari di una tartaruga, cogli occhietti grigi e stra­lunati, il mento aguzzo e color di fuliggine, il gran naso dei Trao palpitante, il codino ricurvo, simile alla coda di un cane, sul bavero bisunto che gli arriva alle orecchie pelose; e sua sorella donna Bianca, rincantucciata dietro di lui, colle spalle un po' curve, il busto magro e piatto, i capelli lisci, il viso smunto e dilavato, vestita di lanetta, in mezzo a tutto il parentado coi vestiti di gala).

Sganci                           - Venite qui, don Gesualdo. Vho serbato il posto per voi. Qui, vicino ai miei nipoti. (Bianca si fa in là, timidamente. Don Ferdinando, temendo d'essere scomodato, volge un momento il capo, accigliato, e ma­stro don Gesualdo si avvicina al balcone, inciampando, balbettando, sprofondandosi in scuse. Rimane lì, alzando il capo a ogni razzo per darsi un contegno meno imba­razzato).

Agrippina Macrì            - Scusate! scusate! '(Sbuffa arric­ciando il naso, facendosi strada coi fianchi poderosi, assettandosi sdegnosa il fazzoletto bianco sul petto enorme; e capita nel crocchio dov'è la zia Cirmena, sul balcone grande. Tutte si voltano a guardare verso il balcone del vicoletto). Me l’han messo lì... alle costole, capite! ... Un'indecenza!

Giuseppina Alosi          - Ah, è quello lo sposo? (Gli oc­chietti le sorridono in mezzo al viso placido di luna piena).

Zia Cirmena                  - Zitta! Zitta! Vado a vedere... (Attra­versa la sala per andare a fiutare che cosa si macchina nel balcone del vicoletto. Lì tutti sembrano sulle spine). Vi divertite qui, eh? Tu ti diverti, Bianca? (Don Fer­dinando volge il capo infastidito, ma poi):

Don Ferdinando           - Ah... donna Sarina... buona sera! buona sera! (e torna a voltarsi dall'altra parte. Bianca alza gli occhi dolci ed umili sulla zia e non risponde; la Macrì abbozza un sorriso discreto).

Zia Cirmena                  - (a don Gesualdo) Che caldo, eh? Si soffoca! C'è troppa gente questa volta... La cugina Sganci ha invitato tutto il paese... (Don Gesualdo fa per scostarsi). (No, no, non vi scomodate, caro voi... Sentite piuttosto, cugina Macrì...

Barabba                         - Signora! Signora! (facendo dei segni).

Sganci                           - No, prima deve passare la processione.

Limoli                           - Cugina, cugina, levatemi una curiosità: cosa state almanaccando con mastro don Gesualdo?

Sganci                           - Me l'aspettavo... cattiva lingua!... (e lo pianta ti, senza dargli retta, che se la ride fra le gengive nude, come una mummia maliziosa. Entra in quel punto il notaro Neri, piccolo, calvo, rotondo, una vera trottola, col ventre petulante, la risata chiassosa, la parlantina che scappa stridendo a guisa di una carrucola).

Il notaro Neri                - Signori miei... Quanta gente!... Quante bellezze!... (Poi, scoperto anche mastro don Gesualdo in pompa magna, finge di chinarsi per vederci meglio, come avendo le traveggole, inarcando le ciglia, colla mano sugli occhi; si fa il segno della croce e scappa in furia verso il balcone grande, cacciandosi a gomitate nella folla). Questa è più bella di tutte!... Com'è vero Dio! (La signora capitana, al sentirsi fru­gare nelle spalle si volge come una vipera). Scusate, scu­sate, cerco il barone Zacco. (Dalla via San Sebastiano, al disopra dei tetti, si vede crescere verso la piazza un chiarore d'incendio, dal quale di tratto in tratto scap­pano dei razzi, con un vocìo di folla che monta a guisa di tempesta).

I ragazzi                        - (pigiati contro la ringhiera strillano) La processione! la processione! (Gli altri si spingono innanzi; ma la processione ancora non spunta. Il cava­liere Peperito, che si mangia con gli occhi le gioie di donna Giuseppina Alosi - degli occhi di lupo affamato sulla faccia magra, folta di barba turchina sino agli occhi - , approfitta della confusione per soffiarle nell'orecchio):

 Peperito                        - Sembrate una giovinetta, donna Giusep­pina! Parola di cavaliere!

Giuseppina Alosi          - Zitto, cattivo soggetto! Racco­mandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per ar­rivare.

Peperito                         - Sì, sì, se mi fa la grazia...

Il barone Zacco             - (rosso come un peperone, rientra dal balcone, senza curarsi del Santo, sfogandosi col notaro Neri) Tutta opera del canonico Lupi!... Ora imi cac­ciano fra i piedi anche mastro don Gesualdo per concor­rere all'asta delle terre comunali!... Ma non me le to­glieranno! Dovessi vendere Fontanarossa, vedete! Delle terre che da quarant'anni sono nella mia famiglia... (Tutta un tratto, sotto i balconi, la banda scoppia in un passodoppio furibondo, rovesciandosi in piazza con un'onda di popolo che sembra minacciosa. La signora capitana si tira indietro arricciando il naso).

Zia Cirmena                  - (torna verso il balcone grande chiac­chierando sottovoce colla cugina Macrì, con delle scrol­latine di capo e dei sorrisetti) Però non capisco il mistero che vuol farne la cugina Sganci!... Siamo pa­renti di Bianca anche noi, alla fin fine!...

Giuseppina Alosi          - (torna a chiedere col sorriso ma­ligno di prima) E' quello? quello lì?

Zia Cirmena                  - (accenna di sì, stringendo le labbra sottili, cogli occhi rivolti altrove, in aria di mistero anch'essa. Infine non si tiene più) Fanno le cose sottomano... come se fossero delle sudicerie... Capiscono anche loro che manipolano delle cose sporche... Ma la gente poi non è così sciocca da non accorgersi... Un mese che il canonico Lupi si arrabatta in questo ne­gozio... un va e vieni fra la Sganci e la Rubiera...

Peperito                         - Non me lo dite! Una Trao che sposa mastro don Gesualdo!... (E volge le spalle soffiandosi il naso come una trombetta nel fazzoletto sudicio, fre­mendo d'indignazione per tutta la personcina misera, dopo aver saettato un'occhiata eloquente a donna Giu­seppina).

Zia Cirmena                  - Chi volete che la sposi?... senza dote!... Poi dopo quello ch'è successo!...

Chiara Macrì                 - (sottovoce) Almeno si metterà in grazia di Dio! (La sua figliuola sta ad ascoltare senza dir nulla, fissando in volto a chi parla quegli occhioni ardenti. Scuote la tonaca, quasi avesse temuto d'insudi­ciarla fra tante sozzure, e mormora colla voce d'uomo, colle grosse labbra sdegnose sulle quali sembra veder fremere i peli neri).

Acrippina Macrì            - Santo Patrono! Guardatemi voi!

Zia Cirmena                  - Queste sono le conseguenze!... La ra­gazza si era messa in testa non so che cosa... Tutti così quei Trao... Degli stupidi!... gente che si troveranno un bel giorno morti di fame in casa, piuttosto di aprir bocca per...

Il Notaro                       - (mentre s'avvicina al balcone discorrendo sottovoce col barone Zacco) Il canonico, no! Piut­tosto la baronessa... offrendole un guadagno... Quella non ha puntiglio!... Del canonico non ha paura... (Tutto sor­ridente poi colle signore) Ah!.... donna Chiara!... La bella monaca che avete in casa!... Una vera grazia di Dio!...

Zacco                            - Eh, marchese? eh? Chi ve l'avrebbe detto, ai vostri tempi?... che sareste arrivato a vedere la pro­cessione del Santo Patrono spalla a spalla con mastro don Gesualdo, in Casa Sganci! (Non può mandarla giù; guarda di qua e di là cogli occhiacci da spiritato, ammic­cando alle donne per farle ridere).

Limoli                           - (impenetrabile) Eh, eh, caro barone! Eh, eh!

Il Notaro                       - Sapete quanto ha guadagnato nella fab­brica dei mulini mastro don Gesualdo? Una bella somma! Ve lo dico io!... Si è tirato su dal nulla... Me lo ricordo io manovale, coi sassi in spalla... sissignore!... Mastro Nunzio, suo padre, non aveva di che pagare le stoppie per far cuocere il gesso nella sua fornace... Ha le mani in pasta in tutti gli affari del Comune... Dicono che vuol mettersi anche a speculare sulle terre... L'ap­petito viene mangiando... Ha un bell'appetito... e dei buoni denti, ve lo dico io!... Se lo lasciano fare, di qui ad un po' si dirà che ,mastro don Gesualdo è il pa­drone del paese!

Limoli                           - Per me... non me ne importa. Io sono uno spiantato.

Zacco                            - Venderò Fontanarossa; ma le terre del Co­mune non me le piglia, mastro don Gesualdo! (Né solo, né coll'aiuto della baronessa Rubiera!

Voci                              - Donna Bellonia!... donna Fifì!... che piacere, stasera!

Madre Margarone         - (a don Nini che entra) Fifì vi ha scoperto per la prima in mezzo alla folla!... Che folla, eh! Fifì ci ha detto: «Ecco lì il baronello Rubiera, vi­cino al palco della musica... ». (Don Nini guarda intorno inquieto. Ad un tratto vede la cugina Bianca rincantuc­ciata in fondo al balcone del vicoletto, smorta in viso, si turba, smarrisce un istante il suo bel colorito fiorente, e risponde balbettando):

Nini                               - Sissignora... infatti... sono della Commis­sione...

Madre Margarone         - Bravo! bravo! Bella festa dav­vero! Avete saputo far le cose bene!... E vostra madre, don Nini?...

Sganci                           - (chiamando dal balcone) Presto! presto! Ecco qui il Santo!

Limoli                           - (afferrando la mamma Margarone pel suo vestito di raso verde fa il libertino) Non c'è furia, non c'è furia! Il Santo torna ogni anno. Venite qua, donna Bellonia. Lasciamo il posto ai giovani, noi che ne abbiamo viste tante delle feste! (E continua a bia­scicarle delle barzellette salate nell'orecchio, diverten­dosi alla faccia seria che fa don Filippo sul cravattone di raso; mentre la signora capitana, per far vedere che sa stare in conversazione, ride come una matta, chinandosi in avanti ogni momento, riparandosi col ventaglio per nascondere i denti bianchi, il seno bianco, tutte quelle belle cose di cui studia l'effetto colla coda dell'occhio).

Madre Marcarono         - Mita! Mita!

Limoli                           - No! no! Non mi scappate, donna Bello­nia!... Non mi lasciate solo con la signora capitana... alla mia età...

Il Notaro                       - Dunque ce li mangeremo presto questi confetti pel matrimonio di donna Fifì?

Madre Margarone         - Nulla di serio. Nulla di positivo... (Ma le si vede una gran voglia di non esser creduta)

La Capitana                  - Sarà una bella coppia!

Peperito                         - Però la baronessa Rubiera non è venu­ta!... Come va che la baronessa non è venuta dalla cu­gina Sganci? (Un istante di silenzio. Solo il barone Zacco, da vero zotico, per sfogare la bile risponde ad alta voce, quasi fossero tutti sordi).

Zacco                            - E' malata!... Ha mal di testa!... (E intanto fa segno di no col capo. Poscia, ficcandosi in mezzo alla gente, a voce più bassa, col viso acceso) Ha mandato ma­stro don Gesualdo in vece sua!... il futuro socio!... Sis­signore!... Non lo sapete? Piglieranno in affitto le terre del Comune... quelle che abbiamo noi da quarant'anni... tutti gli Zacco di padre in figlio!... Una bricconata! fra loro tre: Padre, Figliuolo e Spirito Santo!

Limoli                           - (alla nipote, vedendola così pallida) Cos'hai? Ti senti male?

Bianca                           - Non è nulla... E' il fumo che mi fa male... Non dite nulla, zio! Non disturbate nessuno!„. (Di tanto in tanto si preme sulla bocca il fazzolettino di falsa ba­tista ricamato da lei stessa, e tossisce, adagio, adagio, chinando il capo. Non dice nulla, sta a guardare i fuo­chi, col viso affilato e pallido, come stirato verso l'an­golo della bocca, dove sono due pieghe dolorose, gli occhi spalancati e lucenti quasi umidi. Soltanto la mano con la quale si appoggia alla spalliera della seggiola è un po' tremante, e l'altra distesa lungo il fianco si apre e chiude macchinalmente: delle mani scarne e bianche che spasimano).

Voci                              - Viva il Santo Patrono! Viva San Gregorio Magno!

                                      - (Dall'uscio spalancato a due battenti entrano don Giuseppe e mastro Titta, il barbiere di casa, carichi di due gran vassoi d'argento che sgocciolano, e cominciano a fare il giro degli invitati, passo passo. La Sganci e Bianca aiutano. Il ragazzo dei Margarone ficca le dita dappertutto. Movimento generale, un manovrar di seggiole per schi­vare la pioggia di sciroppo, un acciottolìo discreto di piattelli, lavorar guardingo e tacito di cucchiai. Il baronello Rubiera discorre in un cantuccio del balcone grande, naso a naso con donna Fifì, guardandosi negli occhi, che si struggono come i sorbetti, egli si scosta bru­scamente al veder comparire la cugina, scolorandosi un po' in viso. Donna Bellonia prende il piattino dalle mani di Bianca, inchinandosi goffamente).

Fifì                                - (finge di accorgersi soltanto allora della sua ami­ca) Oh, Bianca... sei qui?... che piacere!... M'avevano detto ch'eri ammalata...

Bianca                           - Sì... un po'... Adesso sto bene...

Fifì                                - Si vede... Hai bella cera... E un bel vestitino anche, semplice!... ma grazioso!...

Bianca                           - E' di lanetta... un regalo della zia...

Fifì                                - Ah!... ah!...

Nini                               - (sulle spine, per rientrare) Comincia ad esser umido... Piglieremo qualche malanno...

.Madre Margarone        - Sì!... Fifì! Fifì! (Donna Fifì se­gue la mamma, coll'andatura cascante che le sembra molto sentimentale).

Bianca                           - (posa la mano sul braccio del cugino, il quale stava per svignarsela anche lui dal balcone, dolcemente, come una carezza, come una preghiera; tremando tutta, colla voce soffocata nella gola) Nini!... Senti, Nini!... fammi la carità!... Una parola sola!... Son venuta ap­posta... Se non ti parlo qui è finita per me... è finita!...

Nini                               - (sottovoce, guardando di qua e di là cogli occhi che fuggono) Bada!... c'è tanta gente!...

Bianca                           - (gli tiene fissi addosso i begli occhi suppliche­voli, con un grande sconforto, un grande abbandono do­loroso in tutta la persona, nel viso pallido e disfatto, nell'atteggiamento umile, nelle braccia inerti che si aprono desolate) Cosa mi rispondi, Nini?... Cosa mi dici di fare?... Vedi... sono nelle tue braccia... come l'Addo­lorata!...

Nini                               - (comincia a darsi dei pugni nella testa, com­mosso, col cuore gonfio anch'esso, badando a non far strepito e che non sopraggiunga nessuno nel balcone. Bianca gli ferma la mano) Hai ragione!... siamo due disgraziati!... Mia madre non mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!... Capisci? capisci? Ti pare che non ci pensi a te?... Ti pare che non ci pensi?... La notte... non chiudo occhio!... Sono un povero disgraziato!... La gente mi crede felice e contento... (Guarda giù nella piazza, ora spopolata, onde evitare gli occhi disperati della cugina che gli passano il cuore, addolorato, cogli occhi quasi umidi anch'esso). Vedi? Vorrei essere un povero diavolo... come Santo Motta, laggiù!... nell'oste­ria di Pecu-Pecu... Povero e contento...

 Bianca                          - La zia non vuole?

Nini                               - No, non vuole!... Che posso farci? Essa è la padrona! (Si ode nella stanza la voce del barone Zacco, che disputa, alterato; e il cicaleccio delle signore, come un passeraio, con la risatina squillante della signora capitana, che fa da ottavino).

Bianca                           - Bisogna confessarle tutto, alla zia!...

Nini                               - (guardingo, abbassando ancora la voce) Gliel’ha detto tuo fratello... C'è stato una casa del diavolo!...

Bianca                           - E' vero che ti sposi?

Nini                               - Io?...

Bianca                           - Tu... con Fifì Margarone...

Nini                               - Non è vero, chi te l'ha detto?...

Bianca                           - Tutti lo dicono.

Nini                               - Io non vorrei... E' mia madre che si è messa in testa questa cosa... Anche tu... dicono che vogliono farti sposare don Gesualdo Motta...

Bianca                           - Io?...

Nini                               - Sì, tutti lo dicono... la zia... mia madre stessa... Vedi? vedi? Abbiamo tutti gli occhi addosso!... Rien­triamo anche noi, per allontanare i sospetti... (Ma Bianca non si muove. Piange cheta, nell'ombra; e di tanto in tanto si vede il suo fazzoletto bianco salire verso gli occhi). Ecco!... Sei tu che fai parlare la gente!

Bianca                           - Che te ne importa? Che te ne importa?... Oramai!...

Nini                               - Sì! sì!... Credi che non ti voglia più bene?... (Bianca è ritta contro il muro, immobile; le mani e il viso smorti di lei sembrano vacillare al chiarore incerto che sale dal banco del venditore di torrone. Il cugino sta appoggiato alla ringhiera, fingendo di osservare nella piazza deserta).

Limoli                           - Eh, eh, ragazzi!... benedetti voialtri!... Sono venuto a veder la festa... ora ch'è passata... Bianca, ni­pote mia... bada che l'aria della sera ti farà male...

Bianca                           - No, zio, si soffoca lì dentro.

La Capitana                  - Oh, Dio mio! (si abbandona sul ca­napè con gli occhi chiusi, le signore si mettono a vo­ciare impressionate).

Il Notaro                       - La vogliamo slacciare?

La Capitana                  - Vi pare? (Balzando in piedi infuriata) Per chi mi avete presa, don asino?

Sganci                           - Bianca, Bianca, le mantiglie a queste signore. Don Gesualdo, fate il favore... accompagnate i miei ni­poti Trao... Don Ferdinando non ci vede bene la sera.

Limoli                           - Tu, Nini, bada che le signore Margarone stanno per andarsene.

Il Canonico                   - Eh? Eh? Don Gesualdo? Che ve ne pare? (L'altro accenna col capo lisciandosi il mento duro di barba con la grossa mano). Una perla; una ragazza che non sa altro che casa e chiesa... Economa... non vi costerà nulla... ma di buona famiglia!... Vi porterebbe il lustro in casa!... V'imparentate con tutta la nobiltà... L'avete visto, eh, stasera?... Che festa v'hanno fatto?... I vostri affari andrebbero a gonfie vele... Anche per quell'affare delle terre comunali è meglio aver l'appoggio di tutti i pezzi grossi.

Don Gesualdo               - (a capo chino riflettendo) Sì, sì... non dico di no... è una cosa da pensarci. Temo d'imbar­carmi in un affare troppo grosso, caro canonico... Quella è sempre una signora... Bisogna dormirci sopra... la notte porta consiglio, canonico mio...

QUINTO QUADRO

Fuori della porta dei magazzini di don Gesualdo. Fon­dale con porta che fa da sipario alla scena seguente scen­dendo dalla soffitta.

(I manovali vi si sono riparati per la pioggia. Un ra­gazzo entra correndo e addentando un pezzo di pane).

Un Ragazzo                  - U padrone!... Ecco il padrone!

Don Gesualdo               - (entra subito, bagnato fradicio) E bravi! mi piace! divertitevi! Tanto la paga corre lo stesso. Corpo di!... Sangue di!...

Agostino                       - Che s'aveva a fare? bagnarci tutti?... La burrasca è cessata or ora... Siamo cristiani o porci?... Se mi coglie qualche malanno mia madre non lo fa più un altro Agostino!

Don Gesualdo               - Sì, sì, hai ragione!... Ho fatto bene a mandare qui mio fratello per badare ai miei interessi!... Si vede!... Sta a passare il tempo anche lui giuocando, sia lodato Iddio!... (Santo, ch'è rimasto a bocca aperta, coccoloni, si rizza in piedi tutto confuso, grattandosi il capo).

Don Gesualdo               - (intanto che gli altri si danno da fare, mogi mogi, misura il muro nuovo colla canna, si arram­pica sulla scala a piuoli; pesa i sacchi di gesso, sollevan­doli da terra. Il tempo s'è abbonacciato. Entra un raggio di sole dall'uscio spalancato sulla campagna che or sem­bra allargarsi ridente, col paese sull'altura, in fondo, di cui le finestre scintillano) Lesti, lesti, ragazzi! sul ponte, andiamo! Guadagniamoci tutti la giornata... Met­tetevi un po' nei panni del padrone che vi paga!... L'osso del collo ci rimetto in quest'appalto!... (Bada ad ogni cosa, girando di qua e di là, rovistando nei mucchi di tegole e di mattoni, saggiando i materiali, alzando il capo ad osservare il lavoro fatto, colla mano sugli occhi, pel gran sole che s'era messo allora). Spicciamoci, ragazzi! Badate che vi sto sempre addosso come la presenza di Dio! Mi vedrete comparire quando meno ve lo aspet­tate! Sono del mestiere anch'io, e conosco poi se si è lavorato o no!...

Il Canonico                   - (accaldato, col nicchio sulla nuca, sof­fiando forte) Ah, ah, don Gesualdo!... andate a man­giare un boccone?... Io no, per mia disgrazia! Sono a bocca asciutta sino a quest'ora...

Don Gesualdo               - Ho paura che mi giuochino qualche tiro, riguardo a quell'appalto delle strade comunali, si­gnor canonico. Vossignoria che vi fate sentire in paese... ci avete pensato? So poi l'obbligo mio!...

Il Canonico                   - Ma che dite?... fra di noi!... ci sto la­vorando... A proposito, che facciamo per" quell'altro af­fare? ci avete pensato? che risposta mi date?

Don Gesualdo               - Che affare? Ne ho tanti!... Di quale affare parlate, vossignoria?

Il Canonico                   - Ah! Ah! La pigliate su quel verso?... Scusate... scusate tanto!... (Cambiando discorso) C'è altre novità... Il notaro Neri ha fatto lega con Zacco... Ho paura che... Temo che ci cambino la baronessa!... Ho visto il barone a confabulare con quello sciocco di don Nini... ieri sera, dietro il Collegio... Finsi d'entrare nella farmacia per non farmi scorgere. Capite? Un affare grosso!... Son circa cinquecento salme di terra... C'è da guadagnare un bel pezzo di pane, su quell'asta. (Don Ge­sualdo ci si scalda lui pure: gli occhi accesi dall'afa che gli brillano in quel discorso. E il canonico viceversa raf­freddandosi di mano in mano, aggrottandosi in viso, stringendosi nelle spalle guardandolo fisso di tanto in tanto, e scrollando il capo di sotto in su, come a dargli dell'asino). Per questo dicevo!... Ma voi la pigliate su quel verso!... Scusate, scusatemi tanto!... Volevo con quell'affare procurarvi l'appoggio di un parentado che conta in paese... la prima nobiltà... Ma voi fate l'indiffe­rente... Scusatemi tanto allora!... Anche per dare una risposta alla signora Sganci che ci aveva messo tanto impegno!... Scusatemi, è una porcheria...

Don Gesualdo               - Ah, parlate dell'affare del matri­monio?...

Il Canonico                   - (finge di non dar retta lui stavolta) Ah! Ecco vostro cognato! Vi saluto, massaro Fortunato!

 

 Diodata                        - Il padrone mi ha dato il pane, sarei una birbona...

Don Gesualdo               - Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t'ho voluto bene! Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all'erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa!... (Cambiando tono) Sai? Vogliono che prenda moglie. Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all'occasione... Eh? che te ne pare?

Diodata                         - (col viso nelle mani e con un tono di voce che rimescola il sangue a lui pure) Vossignoria siete il padrone...

Don Gesualdo               - Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?.., Non ho figli... Perché piangi, bestia?

Diodata                         - Niente, vossignoria!... Così... Non ci badate...

Don Gesualdo               - Cosa t'eri messa in capo, di'?

Diodata                         - Niente, niente, don Gesualdo...

Don Gesualdo               - Santo e santissimo! Santo e santis­simo!

Carmine                        - (al rumore leva il capo sonnacchioso) Che c'è? S'è slegata la mula? Devo alzarmi?...

Don Gesualdo               - No, no, dormite, zio Carmine.

Diodata                         - (seguendolo passo passo, con voce umile) Perché v'arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?...

Don Gesualdo               - M'arrabbio colla mia sorte!... Guaie seccature da per tutto... dove vado!... Anche tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?...

Diodata                         - Nossignore... non è per me... Pensavo a ' quei poveri innocenti...

Don Gesualdo               - Poiché v'è il Comune che ci pensa!... Deve mantenerli il Comune a spese sue... coi denari di tutti... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!... Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla... (Seguita a brontolare, passeggiando per l'aia, su e giù dinanzi alla porta. Poi vedendo che la ragazza piange ancora, cheta per non infastidirlo, le torna a sedere allato di nuovo, rabbonito). Che vuoi! Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercare gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m'aiuta, saran nati sotto la buona stella!...

Diodata                         - Vossignoria siete il padrone...

Don Gesualdo               - (ci pensa un po' su, perché quel di­scorso lo punzecchia peggio di una vespa) Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancato, di' pure?

 Diodata                        - Nulla, grazie a Dio!

Don Gesualdo               - Il Signore c'è per tutti... Non ti la­scerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no... Ti cercherei un marito...

Diodata                         - Oh... quanto a me, don Gesualdo!...

Don Gesualdo               - Sì; sì, bisogna maritarti!... Sei gio­vane, non puoi rimaner così... Ti troverei un buon gio­vane, un galantuomo... Nanni l'Orbo, guarda! Ti darei la dote...

Diodata                         - Il Signore ve la renda...

Don Gesualdo               - Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti? Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!... e questo cogli altri!... Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane... una bella giovane... Sì, sì, bella!... lascia dire a me che lo so! Roba fine!... sangue di barone sei, di certo!... (Ora la piglia su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicano. Le stringe con due dita il ganascino. Le solleva a forza il capo, che ella si ostina a tener basso per nascondere le lagrime). Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!... Su quel capo, adesso, scioc­ca!... sciocca che sei... (Come vede che seguita a pian­gere, testarda, scappa a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato) Santo e santissimo! Sorte male­detta!... Sempre guai e piagnistei!...

Buio.

SECONDO MOMENTO

(Sono in scena don Gesualdo, tornato dal ponte, e il canonico).

Il Canonico                   - Eh? eh? don Gesualdo? Eccovi qua... eccovi qua!... Don Gesualdo s'è fatta una faccia allegra per quanto può, colla febbre maligna che ci ha nello stomaco).

Don Gesualdo               - Sissignore, eccomi qua! (Risponde con un sorriso che cerca di fare allargare per tutta la faccia scura). Sono ancora in piedi! Mi chiamo mastro don Gesualdo!... Finché sono in piedi so aiutarmi!

Il Canonico                   - Eh, don Gesualdo?... che disgrazia al ponte! Ma come è stato? E quel povero Nardo che vi è rimasto sotto... Cadere un ponte!

Don Gesualdo               - (duro come un sasso, col sorriso amaro) Eh, cose che accadono. Chi va all'acqua si bagna, e chi va a cavallo cade. Ma sinché non v'è uomini morti, a tutto si rimedia. Eccomi qua, come volete voi... ai vostri comandi... Però, dite la verità, voi parlate col diavolo, eh?

Il Canonico                   - (finge di non capire) Perché, pel ponte? No, in fede mia! Mi dispiace anzi!...

Don Gesualdo               - No, no, non dico pel ponte!... Col mio denaro, capite, vossignoria? col sangue mio! So io quel che mi costa! Quando ho lasciato mio padre nella fornace del gesso in rovina, che non si sapeva come dar da mangiare a quei quattro asini del carico, colla sola camicia indosso sono andato via... e un paio di pantaloni che non tenevano più, per la decenza... senza scarpe ai piedi, sissignore. La prima cazzuola per incominciare a fare il muratore dovette prestarmela mio zio il Mascalise... E mio padre che strepitava perché lasciavo il me­stiere in cui ero nato... E poi, quando presi il primo la­voro a cottimo... gridava ch'era un precipizio! Ne ho avuto del coraggio, signor canonico! Lo so io quel che mi costa! Tutto frutto dei miei sudori, quello che ho... E quando lo vedo a buttarmelo via, chi da una parte e chi dall'altra!... che volete, vossignoria! il sangue si ribella!... Ho taciuto sinora per aver la quiete in fa­miglia... per mangiare in santa pace un boccone di pane, quando torno a casa stanco... Ma ora!... Voglio finirla!... Ciascuno per casa sua. Dico bene, canonico mio? Se non mi date retta, vossignoria, è inutile che parli!

Il Canonico                   - Sì, sì, vi ascolto. Che diavolo! non ci vuole un sant'Agostino a capire quel che volete!... In conclusione si tratta di salvare la cauzione, non è così? di avere qualche aiuto dal Comune?

Don Gesualdo               - Sissignore... la cauzione... (gli pianta addosso gli occhi grigi e penetranti). E un'altra cosa an­che... Vi dicevo che voglio far casa da me... per conto mio... se trovo la moglie che mi conviene... Vi ricor­date?... quel discorso che mi faceste la sera della festa del Santo Patrono?... Ma se fate le viste di non capire, perché sono venuto qui da voi... quando vi ho detto per prima cosa... Vi ho detto: « Eccomi qua, come volete voi... ».

Il Canonico                   - Ah!... ah!... (risponde alzando il capo come un asino che strappi la cavezza). Sentite, don Ge­sualdo... questo non è discorso che venite a farmi adesso, a questa maniera! Allora vuol dire che non conoscete chi vi è amico e chi vi è nemico, benedetto Dio! Ho piacere che abbiate toccato con mano se il consiglio che vi ho dato era tutt'oro! Una giovane ch'è una perla, avvezza ad ogni guaio, che l'avreste tutta ai vostri co­mandi, e di famiglia primaria anche!... Lo vedete adesso di che aiuto vi sarebbe? Avreste dalla vostra i giurati e tutti quanti. Anche per l'altra faccenda della gabella, poi, se volete entrarci insieme a noi...

Don Gesualdo               - (vagamente) Sissignore. Tante cose si potrebbero fare. Si potrebbe parlarne...

Il Canonico                   - Si dovrebbe parlarne chiaro, amico mio. Mi prendete per un ragazzo? Una mano lava l'altra. Aiutami che t'aiuto, dice pure lo Spirito Santo. Voi, caro don Gesualdo, avete il difetto di credere che tutti gli altri sian più minchioni di voi. Prima fate lo gnorri, non ci sentite da quell'orecchio, e poi, al bisogno, quando vi casca la casa addosso, mi venite dinanzi con quella faccia.

Don Gesualdo               - Sarà il caldo... (balbetta un po' scom­bussolato). Vorrei vedervi nei miei panni, signor cano­nico!

Il Canonico                   - Nei panni vostri... sicuro... mi ci metto! Voglio farvi vedere e toccar con mano chi vi vuol bene o no! Eccomi con voi. Pensiamo a quest'affare del ponte prima... a salvare la cauzione... con un sussidio del Co­mune. Andremo adesso dal capitano... e dai giurati che non ci sarebbero contrari... Peccato che il barone Zacco abbia già dei sospetti per l'affare della gabella!... La­sciatemi pensare... (Mentre termina di legarsi il man­tello al collo raccogliendo le idee, colle sopracciglia ag­grottate) Ecco! lo vo' prima dalla signora Sganci... no! no! non le dico nulla per adesso! qualche parola così in aria... in via accademica... Mi basta che donna Giu­seppina scriva due righe al capitano. Quanto alla baro­nessa Rubiera posso dormire fra due guanciali... è come se fosse la vostra stessa persona, se mi promettete... Ma badiamo, veh!... (Il canonico sgrana gli occhi. Don Ge­sualdo gli stende la mano). No, dico per l'altro affare, quello della gabella. Non vorrei che giuocassimo a sca­rica barile fra di noi, caro don Gesualdo!

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

7° Quadro carrello - Sposalizio di don Gesualdo. Gran camera da pranzo con porta in fondo, in una casa antica. 8° Quadro - Studio notarile. Tendaggio, librerie duttili lateralmente. Scrivania su pedana mobile. 9° 'Quadro carrello - Ritorna la casa di don Gesualdo del quadro n. 7. 10° Quadro carrello - Siamo in tre palchetti di un teatro e vediamo un pezzo di palcoscenico che è nel fondo. 11° Quadro - Strada plastico duttile del n. 1°. Al posto del portone è stato applicato un altro pezzo di pla­stico. 12° Quadro carrello - Vecchia casa della baronessa Rubiera.

SETTIMO QUADRO

Casa di don Gesualdo.

(Stanzone di palazzo nobiliare antico con pilastri a muro e capitello; balcone a sinistra; gran porta in fondo alta tre metri dalla quale si vede il comò di una camera da letto. Nel primo stanzone da pranzo è una gran tavola carica, di dolci e di bottiglie di rosolio avvolte di carta ritagliata. In mezzo due doppieri accesi. Sul tavolo ga­rofani e gelsomini d'Arabia. Tovaglioli arrotolati in punta che portano ciascuno un fiore in cima. Alle pareti specchi con cornici dorate, « consolles » con candelabri accesi e campane di cristallo e fiori finti, sedie imbottite. E' notte. Entrano Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l'Or­bo, il manovale Agostino, Santo Motta, il cognato Fortu­nato Burgio, il massaro Carmine, il sagrestano, Limoli e gente di Casa Motta).

Limoli                           - Bello! bello! Una cosa simile non l'ho mai. vista! ...

                                      - (In questo momento si ode un baccano in strada. Santo corre al balcone per vedere arrivare le carrozze degli sposi. Entrano a braccetto gli sposi. Dietro di loro la zia Cirmena, il canonico e il notaio. La sposa salutando col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, quasi sbi­gottita, tutte quelle sue nudità che arrossiscono di mo­strarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tanti lumi).

Il Canonico                   - (sventolando il fazzoletto) Evviva gli sposi! Evviva gli sposi! (In allegria. Bianca prende il braccio della zia Cirmena, il bacio dello zio marchese ed entra sola nelle stanze).

Limoli                           - Ehi? ehi? bada che perdi il marito! (Ri­sate generali).

Zia Cirmena                  - Ci siamo tutti?

Il Canonico                   - Sissignora. Poca brigata, vita beata! (Entra Alessi con la berretta in mano intimidito).

Il Notabo                      - A proposito la signora baronessa Ru­biera... mi fa dire che non può venire perché le duole il capo... Manda a salutare la nipote e don Gesualdo, anche...

                                      - (La zia Cirmena si impadronisce della sposa, nelle sue stanze, e torna con aria matronale che la fa sembrare in collera. Dopo che ciascuno ha preso posto nella bella sala cogli specchi, si fa silenzio; ciascuno guardando di qua e di là per fare qualche cosa ed ammirando coi cenni del capo).

Zia Cirmena                  - (con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile) Ho visto al balcone la cugina Sganci... (Con intenzione) Credevo che venisse, anzi!...

Limoli                           - Chissà? Chissà? Quella pioggerella ch'è caduta ha ridotto la strada una pozzanghera!...

Il Notaro                       - Io stavo per rompermi il collo. Però di­cono che fa bene alle vigne. Eh? eh? massaro Fortu­nato?... Bisogna condurre la sposa a Giolio per la ven­demmia, don Gesualdo!... Vedrete che vigne, signora Bianca!

Don Gesualdo               - Certo!..; è la padrona!... certo!...

Limoli                           - (fingendo) Belli!,Belli!... Una casa signo­rile! Eh! eh!... se ne videro qui delle feste... in questo stesso luogo!...

Il Notabo                      - Già! «Mors tua vita mea... ».

Limoli                           - Qui starete da principi. Eh! eh! son vecchio e la so lunga!... Ci staremo bene anche noi, eh, donna Sarina?... eh?

Zia Cikmena                 - (si dimena sulla seggiola per tener la lingua in freno) Quanto a me!... Grazie a Dio!...

Limoli                           - No, no, è meglio star seduti in una bella sedia soffice come questa. E avere una buona tavola ap­parecchiata, e la carrozza per far quattro passi dopo, e la vigna per la villeggiatura, e tutto il resto!... La buona tavola soprattutto!... Son vecchio e mi dispiace che il marchesato non possa servirsi in tavola... Se torno a na­scere voglio chiamarmi mastro Alfonso Limoli, ed esser ricco come voi, nipote mio... (Torna il canonico Lupi, rosso ire viso, sbuffando, asciugandosi il sudore. E a pre­venire ogni domanda, si rivolge subito al padrone di casa, sorridendo, coll'aria indifferente).

ÌIl Canonico                  - Don Gesualdo... se avete intenzione di farci fare la bocca dolce!... Mi pare che sia tempo!... All'alba ho da dir Messa, prima di andare in campagna.

Santo                             - Mettiamo mano? (E si prepara con altri ad aiutare per il rinfresco).

Il Canonico                   - Credereste?... Fa la sdegnosa anche la capitana! Lei che non manca mai dove c'è da leccare i piatti! Fa la sdegnosa anch'essa. Come se non si sapesse donde viene quella gran dama!...

Santo                             - (offre qualche cosa alla sposa che rifiuta) Non vuol nulla!... (Quasi togliendosi un gran peso dallo stomaco) Io, per me, gliel'ho offerto!...

Il Canonico                   - (con galanteria) Neanche un bicchie­rino di « perfetto amore »? (La zia Cirmena si mette a ridere, e Santo guarda il fratello, per vedere cosa deve fare).

Bianca                           - Qualcosa, zio?

Limoli                           - Grazie, grazie, cara Bianca... Non ho più denti né stomaco... Sona invalido... Sto a vedere sol­tanto... Non posso fare altro... (Il canonico si fa pregare un po', quindi trae di tasca un fazzoletto che sembra un lenzuolo. Intanto la zia Cirmena s'empie il borsone che porta al braccio, dov'è ricamato un cane tutto intero, e ce n'entra della roba! Il canonico invece, che ha le ta­sche sino al ginocchio, sotto la zimarra, delle vere bi­sacce, può cacciarvi dentro tutto quello che vuole senza dare nell'occhio. Bianca pure regala con le sue mani stesse una scatola di confetti al cognato Santo).

Bianca                           - Per vostra sorella e i suoi ragazzi...

Don Gesualdo               - Di' che glieli manda lei stessa... la cognata... (Tutto contento con un sorriso di gratitudine per lei. A Bianca) Brava! mi piaci perché sei giudiziosa, e cerchi di metter pace in famiglia... Non sai quel che c'è stato!... Mia sorella specialmente!... E' hanno fatto andare tutto in veleno, anche il giorno delle nozze!...

Zia Cirmena                  - Par d'essere appestati!... (Borbotta al canonico). Neppure i suoi fratelli son venuti!... avete visto?...

Il Canonico                   - Poveretti!... Poveretti!... Sembrava che piangessero il morto quando siamo andati a prendere la sposa!... due gufi, tale e quale!... (Fa un altro segno con l'indice e il pollice in croce sulla bocca. E sbircia con la coda dell'occhio che rientrano in sala anche Bianca, suo marito e tutti gli altri. Gli sposi entrano nella stanza interna; appena sono usciti gl'invitati, si ode un baccano indiavolato. Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l'Orbo, una turba famelica piomba sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbranca quel che può e se lo ficca dappertutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si arrampica sulla tavola e s'arrabatta a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri mo­nelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, vuole cor­rere col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo ferma pel braccio!...).

Limoli                           - Lasciali fare... tanto!... (La zia Cirmena che si è divertita almeno un po', si pianta nel bel mezzo della stanza, guardando in faccia la gente, come a dire ch'era ora d'andarsene. In quel frattempo torna di corsa il sagrestano, ansante, con un'aria di gran mistero).

Il Sacrestano                 - C'è qui tutto il paese!... Il barone Zacco, i Margarone, Mendola anche... Tutti i primi si­gnori del paese!... Fa chiasso il vostro matrimonio, don Gesualdo!... (E se ne va com'era venuto, frettoloso, in­fatuato).

Zia Cirmena                  - Che seccatura!... Ci fosse almeno un'altra uscita!... (// canonico, curioso, va al balcone dietro i vetri).

Voce di Ciolla               - (dalla strada) « Amore, amore, che mi hai fatto fare?... ». (Donna Sarina e il marchese Li­moli si avvicinano anch'essi al balcone).

Limoli                           - Potrete andarvene, donna Sarina, quando non ci sarà più nessuno laggiù!...

Zia Cirmena                  - (scattando come una molla) lo non ho paura, don Alfonso!... Io fo quel che mi pare e piace!... Son qui per far da mamma a Bianca... pel decoro della famiglia almeno!...

Il Canonico                   - Ah! ah!... Ah! ah!

                                      - (Bianca s'è fatta pallida come un cencio lavato. Si alza anche lei, con un lieve tremito nei muscoli del mento, coi begli occhi turchini che sembrano smarriti, incespi­cando nel vestito nuovo).

Limoli                           - E fra nove mesi, ricordati bene, voglio essere invitato di nuovo per il battesimo... il canonico Lupi ed io... noi due soli... Non ci sarà neppure bisogno della cugina Cirmena!...

Il Canonico                   - Poca brigata vita beata! (Don Gesualdo li accompagna sino all'uscio, solleticato internamente dai complimenti del canonico). Peccato che non siano venuti tutti gl'invitati! Avrebbero visto che spendete da Ce­sare. Che non siete di quelli che hanno il pugno stretto... giacché dovete esser soci fra poco.

Don Gesualdo               - Eh! eh!... C'è tempo, c'è tempo! Ne deve passare prima dell'acqua sotto il ponte che non c'è più... Diteglielo pure alla signora baronessa...

Il Canonico                   - Come? Come? Se era cosa intesa! Se dovete esser soci!

Don Gesualdo               - I miei soci son questi qua. Non vorrei che la signora baronessa Rubiera avesse a vergognarsi d'avermi per compagno... diteglielo pure!

Limoli                           - Ha ragione! Ha l'amor proprio dei suoi de­nari, che diavolo!... (Via tutti).

Pon Gesualdo               - Ah! se Dio vuole è finita! Ce n'è voluto... ma è finita se Dio vuole. (Prende alla vita Bianca e le fa intendere con gli occhi che è arrivato il momento. Egli guarda la porta della stanza da letto senza parlare e sorridendo. Lei avvampa in viso. Indi si fa smorta più di prima). Ehi?... Perché non dici nulla?... Cos'hai?... (Rimane un momento imbarazzato senza sa­per che dire neppure lui). Senti... s'è cosi... se la pigli su quel verso anche tu... Allora ti saluto e resto qui a dormire su di una sedia com'è vero Dio!...

Bianca                           - (balbetta qualche parola inintelligibile, e china il capo, ubbidiente, per cominciare a togliersi il pettine di tartaruga, colle mani gracili).

Don Gesualdo               - Brava! brava! Così mi piaci!... Se andiamo d'accordo come dico io, la nostra casa andrà avanti... avanti assai. Te lo dico io! Faremo crepare gl'invidiosi... Hai visto stasera che non son voluti venire alle nozze?... Quante spese buttate via!... (Essa torna a balbettare qualche parola indistinta, che le spira di nuovo sulle labbra smorte, e alza per la prima volta il capo e gli occhi su di lui, quegli occhi turchini e dolci che gli promettono la sposa amorevole e ubbidiente che gli avevano detto. Allora egli tutto contento ha una risata larga, che gli spiana il viso ed il cuore. Essa rannicchia il capo sulle spalle, simile a una colomba trepidante che sta per essere ghermita). Ora ti voglio bene davvero, sai!... Ho paura di toccarti con le mani... Ho le mani grosse perché ho tanto lavorato... non mi vergogno a dirlo... Ho lavorato per arrivare a questo punto. Chi me l'avrebbe detto?... Voglio farti come una regina... (Ma essa ha l'orecchio altrove).

Bianca                           - (con un filo di voce) No!... sentite... devo dirvi una cosa... (Sembra che non abbia più goccia di sangue nelle vene, tanto è pallida e sbattuta. Muove le labbra tremanti due o tre volte. Don Gesualdo si toglie la giacca aspettando. Ella si tira indietro bruscamente, quasi abbia ricevuto un urto in pieno petto; e s'irrigi­disce tutta bianca, con gli occhi cerchiati di nero. Don Gesualdo ride tutto contento con la risata grossolana, nell’impeto caldo che comincia a fargli girare il capo, balbettando e affannando, in maniche di camicia, strin­gendosi sul cuore che gli batte fino in gola quel corpo delicato che sente rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le solleva il capo dolcemente si sente cascar le braccia. Ella si asciuga gli occhi febbrili, col viso tuttora contratto dolorosamente).

                                      - (Canto di Ciolla).

Don Gesualdo               - Ah! quel Ciolla!... Ancora!... Com'è vero Dio, gli tiro addosso un vaso di fiori!... Voglio far la festa anche a lui, la prima notte di matrimonio!

OTTAVO QUADRO

Municipio. Colle tende del quadro secondo senza i quadri del quadro secondo). In mezzo un gran tavolo a cattedra. Altissimo finestrone con balcone a destra dal quale entra la luce. Vecchie sedie, campanello a molla che suona fuori ma che ha il suo cordone col fiocco vi­cino alla cattedra dove sono seduti i giurati. In primo piano, e ai lati, della folla voltata di schiena che assiste all'asta.

Zacco                            - Tre onze e quindici... Uno!... due!...

Don Gesualdo               - (impassibile) Quattr'onze!

Zacco                            - (si alza rosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspa alquanto per cercare il cappello e fa per andar­sene. Ma giunto sulla soglia torna indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé) Quattro e quindici!... (E si ferma ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando' il suo contraddittore cogli occhi ac­cesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipio che presiedono all'asta delle terre comunali si parlano all'orecchio).

Don Gesualdo               - (tira su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che tiene aperto sulle ginocchia. Indi alza il capo e ribatte con voce calma) Cinque onze! (Il barone diventa a un tratto come un cencio lavato. Si soffia il naso; calca il cappello in testa e poi infila l'uscio sbraitando).

 Zacco                           - Ah!... quand'è così!... giacche è un punti­glio!... una personalità... Buongiorno a chi resta!... (/ giurati si agitano sulle loro sedie quasi abbiano la co­lica. Il canonico Lupi si alza di botto e corre a dire una parola all'orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo).

Don Gesualdo               - Nossignore. (Ad alta voce) Non ho di queste sciocchezze... Fo' i miei interessi e nulla più. (Nel pubblico che assiste all'asta corre un mormorio. Tutti gli altri concorrenti si tirano indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alza in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scar­sa, senza badare ai segni che gli fa da lontano don Fi­lippo e lascia cadere la sua offerta, coll'aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro).

Nini                               - Cinque onze e sei!... Dico io!...

Il Notaro                       - Per l'amor di Dio. (Soffiandogli nelle orecchie e tirandolo per la falda) Signor barone, non facciamo pazzie!

Nini                               - Cinque onze e sei! (replica senza dar retta, guardando in giro trionfante).

Don Gesualdo               - Cinque e quindici. (Don Nini si fa rosso, apre la bocca per replicare, ma il notaro gliela chiude con la mano. Don Filippo Margarone stima giunto il momento di assumere l'aria presidenziale).

Filippo                           - Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scher­zare!... Avrete denari non dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l'altro portava i sassi sulle spalle, sia detto senza offendervi... Onestamente... Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno, fanno... (E si mette gli occhiali scrivendo cifre sopra cifre).

Don Gesualdo               - So quello che faccio. (Ridendo) Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse! (Don Filippo posa gli occhiali sullo scartafaccio; volge un'occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra e tace rimminchionito).

Filippo                           - Va bene!... Va benissimo!... Ma intanto la legge dice... (Seguita a tartagliare. Quella faccia gialla di Canali, il banditore, gli suggerisce, fingendo di soffiarsi il naso). Sicuro... Chi garantisce per voi?... La legge dice...

Don Gesualdo               - Mi garantisco da me. (E posa sulla ''scrivania un sacco di doppie che cava fuori dalla caccia­tora. A quel suono tutti spalancano gli occhi. Don Fi­lippo ammutolisce).

Zacco                            - (strillando infuriato) Signori miei... Signori miei... guardate un po'... a che siamo giunti...

Don Gesualdo               - Cinque e quindici! Offro cinque onze e quindici tari a salma per la gabella delle terre comu­nali. Continuate l'asta, signor don Filippo... (Il baronetto Rubiera scatta come una molla, con tutto il sangue al viso).

iNinì                              - A sei onze. (Borbottìo). Fo' l'offerta di sei onze a salma.

Filippo                           - Portatelo fuori! Portatelo fuori. (Alzandosi a metà alcuni battono le mani. Ma don Nini si ostina, pallido come la sua camicia, adesso).

Nini                               - Sissignore a sei onze la salma! Scrivete la mia offerta, segretario!

Il Notaro                       - Alto! (Levando tutte e due le mani in aria). Per la legalità dell'offerta fo' le mie riserve!... (E si precipita sul baronetto. Lì nel vano del balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuori dell'orbita, soffiandogli in viso l'alito infuocato) Signor barone!... quando volete buttare il denaro dalla finestra!... andate a giuocare a carte!... giuocatevi il danaro di tasca vostra soltanto!...

(Don Nini sbuffa peggio idi un toro infuriato. Peperito ha chiamato con un cenno il canonico Lupi, e si sono messi a confabulare sottovoce, chinati sulla scrivania, agitando il capo come due galline che beccano nello stesso tegame. E' tanta la commozione che le mani del canonico tremano sugli scartafacci. Il cavaliere lo prende per un braccio e vanno a raggiungere il notaro e il ba­ronetto che disputano animatissimi in un canto della sala. Don Nini comincia a cedere col viso floscio e le gambe molli. Il canonico allora fa segno a don Gesualdo d'accostarsi lui pure).

Don Gesualdo               - (senza muoversi) No.

Il Canonico                   - Sentite!... C'è quell'affare della cau­zione!... Il ponte se n'è andato, salute a noi!... C'è modo d'accomodare quell'affare della cauzione adesso...

Don Gesualdo               - No. L'affare del ponte... una miseria in confronto.

Zacco                            - Villano! Mulo! Testa di corno! (Don Filippo dopo il primo momento di agitazione è tornato a sedere, asciugandosi il sudore gravemente. Intanto che il cano­nico parla sottovoce a mastro don Gesualdo il notaro da lontano comincia a far dei segni. Don Filippo si china all'orecchio di Canali).

Il Banditore                  - (replica in falsetto, sottovoce) L'ul­tima offerta per le terre del Comune! A sei onze la salma!... Uno!... due!...

Don Gesualdo               - Un momento, signori miei! Chi ga­rantisce quest'ultima offerta? (A quest'uscita rimangono tutti a bocca aperta. Don Filippo apre e chiude la sua senza profferir parola. Infine risponde).

Filippo                           - L'offerta del barone Rubiera!... Eh! Eh?

Don Gesualdo               - Sissignore. Chi garantisce pel ba­rone Rubiera? (Il notaro si getta su Nini che sembra voglia fare un massacro. Peperito si dimena come se l'avessero schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibisce, don Filippo balbetta stralunato).

Filippo                           - Chi garantisce pel barone Rubiera?.... Chi garantisce?... (A un tratto muta tono, volgendo in burla). Chi garantisce pel barone Rubiera!... Ah! ah!... Oh bella! questa è grossa. (E molti si tengono i fianchi dalle risate).

Don Gesualdo               - (imperturbabile) Sissignore. Chi garantisce per lui? La roba è di sua madre. (A queste parole cessano le risate, e don Filippo ricomincia a tar­tagliare. La gente si affolla sull'uscio come ad un teatro. Il canonico tira il suo compagno pel vestito. Il notaro è riuscito a cacciare il baronetto contro il muro).

Nini                               - Becco!... cuor contento... redentore!

Filippo                           - La parola al barone! La parola del barone Rubiera vai più delle vostre doppie!... don... don...

Don Gesualdo               - (senza perdere la sua calma) Don Filippo. Ho qui dei testimoni per mettere tutto nel verbale.

Filippo                           - Va bene! Si metterà tutto nel verbale!... Scrivete che il baronello Rubiera ha fatto l'offerta per incarico di sua madre...

Don Gesualdo               - Benone! Quand'è così scrivete pure che offro sei onze e quindici a salma.

Nunzio                          - Pazzo assassino! nemico di Dio! (grida nella folla dell'altra sala. Succede un parapiglia. Il no­taro e Peperito spingono fuori dall'uscio il baronello che strepita, agita le braccia in aria. Dall'altro canto il canonico, convulso, si getta su don Gesualdo, stringendoglisi addosso sedendogli quasi sulle ginocchia, colle braccia al collo scongiurandolo sottovoce, in aria disperata, con parole di fuoco ficcandoglisi all'orecchio, scuo­tendolo pei petti della giacca, quasi volesse strapaz­zarlo, per fargli sentir ragione).

Il Canonico                   - Una pazzia!... Dove andiamo, caro don Gesualdo! ?

Don Gesualdo               - Non temete, canonico. Ho fatto i miei conti. Non mi scaldo la testa io. (Don Filippo Margarone suona il campanello da cinque minuti per avere un bicchiere d'acqua. 1 suoi colleghi si asciugano il sudore anch'essi, trafelati. Solo don Gesualdo rimane seduto al suo posto, come un sasso, accanto al sacchetto di doppie. A un certo punto, dalla baraonda ch'era nell'altra stanza, irrompe nella sala mastro Nunzio Motta, stralunato, rimorchiandosi dietro il genero Burgio che tenta di trat­tenerlo per la manica della giacca come un pazzo).

Nunzio                          - Signor don Filippo!... sono il padre, sì o no?... Comando io sì o no?... Se mio figlio Gesualdo è matto... Se vuol rovinarci tutti!... c'è la forza, signor don Filippo?... (Mandate a chiamare don Licio Papa... (Speranza dall’uscio col lattante al petto, che si strappa i capelli e urla quasi l'accoppassero).

Il Canonico                   - Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio (supplica correndo dall'uno all'altro).

Nunzio                          - I denari del ponte!... Vuole la mia rovina!... Nemico di suo padre stesso...

Il Canonico                   - Erano forse denari vostri? Non era san­gue del figlio vostro? non li ha guadagnati lui col suo lavoro? (Tutti quanti sono in piedi, vociando. Si ode Canali strillare più forte degli altri per chetare don Nini Rubiera. Il barone Zacco, avvilito, se ne sta colle spalle al muro e' il cappello sulla nuca. Il notaro esce).

Nunzio                          - Com'è vero Dio!... Io l'ho fatto e io lo disfo!...

Il Banditore                  - Largo! largo! (E s'avanza verso don Gesualdo sorridente) C'è qui il baronello Rubiera che vuole stringervi la mano.

Don Gesualdo               - Padrone! padronissimo! Io non sono in collera con nessuno!

Il Banditore                  - Dico bene! Che diavolo! Oramai siete parenti! (E tirando pel vestito il baronello li stringe entrambi in un amplesso costringendoli quasi a baciarsi. Il barone Zacco corre a gettarsi lui pure nelle loro brac­cia, coi lucciconi agli occhi).

Zaccs                             - Maledetto diavolo!... Non sono di bronzo!... Che sciocchezza!... (Il notaro sopraggiunge in quel punto. Va prima a dare un'occhiata allo scartafaccio del segretario, e poi si mette a battere le mani).

Il Notaro                       - Viva la pace! Viva la concordia!... Se ve l'ho sempre detto! ...

Il Canonico                   - Pace! Pace!... Siete tutti in famiglia!... (Corre a prendere per forza mastro Nunzio, Burgio, per­fino Santo Motta, scamiciato, e li spinge nelle braccia dei nuovi parenti. Il canonico abbraccia anche comare Spe­ranza e il suo bambino) Per parte di moglie... siamo cugini...

Nini                               - Siamo cresciuti insieme con Bianca... come fratello e sorella. Caro don Nunzio!... Vi rammentate la fornace del gesso... vicino Fontanarossa? (Il vecchio, burbero, fa una spallata per levarsi di addosso la manaccia del barone Zacco; e risponde sgarbatamente).

Nunzio                          - Io mi chiamo mastro Nunzio, signor barone. Non ho i fumi di mio figlio...

Il Banditore                  - (infervorato) E perché poi? A van­taggio di chi vi fate la guerra?... Chi ne gode di tanto denaro buttato via?...

Il Notaro                       - Pazzie, ragazzate!... Un po' di sangue alla testa!... La giornata calda!... Un puntiglio sciocco... un malinteso... Ora tutto è finito! Andiamo via! Non facciamo ridere il paese!... (Cerca di condurli a spasso tutti quanti).

Don Gesualdo               - Un momento!... Vediamo prima se hanno scritto l'ultima offerta mia

Voci                              - Come, come? Che discorsi!... Cosa vuol dire?... Torniamo da capo? (Di nuovo s'è levato un putiferio). Non siamo più amici? Non siamo parenti?...

Don Gesualdo               - (ostinato) Sissignori, siamo parenti. Ma qui siamo venuti per la gabella delle terre comunali. Io ho fatto l'offerta di sei onze e quindici tari a salma.

Voci                              - Villano, testa di corno! (Don Filippo in mezzo a quel trambusto è costretto a sedere di nuovo sul seg­giolone, sbuffando. Vuota d'un fiato il bicchiere d'acqua, e suona il campanello).

Il Banditore                  - Signori miei! L'ultima offerta... a sei onze e quindici! (Tutti se ne vanno a discutere in un angolo, lasciando solo don Gesualdo alla scrivania. In­vano il canonico inquieto gli soffia all'orecchio).

Il Canonico                   - Non la spuntate no!... Si son dati l'in­tesa fra di loro!...

Il Banditore                  - A sei onze e quindici la salma!... Ul­tima offerta!...

Il Notaro                       - Don Gesualdo!... Don Gesualdo!... (Il canonico e Canali ragionano fra di loro a bassa voce; don Nini più restio, in coda agli altri. Il notaro con le braccia fa un gesto circolare per radunarli tutti intorno a sé). Don Gesualdo! Sentite qua! (Volge in giro una occhiata da cospiratore e abbassa la voce). Una proposta seria! (Pausa significativa). Accomoderemo la cosa!... Voi signor barone Zacco, vi rincresce di lasciare le terre che sono da quarant'anni nella vostra famiglia?... E va bene!... La baronessa Rubiera adesso vuole la sua parte anche lei?... Ha più di tremila capi di bestiame sulle spalle... E va bene anche questa. Don Gesualdo ha qui denari da spendere lui pure; vuol fare le sue specula­zioni sugli affitti... Benissimo! Dividete le terre fra voi tre... Senza liti, senza puntigli, senza farvi la guerra a vantaggio altrui.... A vantaggio di chi, poi?... del Co­mune! Vuol dire di nessuno! Mandiamo a monte l'asta... il pretesto lo trovo io!... Fra otto giorni si riapre sul prezzo di prima: si fa un'offerta isola... Io no... e nem­meno loro... il canonico Lupi!... in nome vostro don Gesualdo... Ci fidiamo... Siamo galantuomini!... Un'of­ferta sola sul prezzo di prima; e vi rimangono aggiudi­cate le terre senza un baiocco d'aumento. Solamente una piccola senseria per me e il canonico... E il rimanente lo dividete fra voi tre alla buona... d'amore e d'accordo. Vi pare? Siamo intesi?

Don Gesualdo               - Nossignore, le terre le piglio tutte io. (Quella risposta cade come una secchia d'acqua. Il notaro per il primo rimane sbalordito; indi fa una gira­volta e s'allontana cantarellando. Don Nini scappa via senza dir nulla. Il barone Zacco stavolta finge di cal­carsi il cappello in capo per davvero. Lo stesso cano­nico salta su inviperito).

Il Canonico                   - Allora vi pianto anch'io!... Se volete rompervi le corna, il balcone è lì bell'aperto!... Vi of­frono dei buoni patti!... Vi stendono le mani!... Io vi lascio solo com'è vero Dio!

Don Gesualdo               - (si ostina col suo risolino sciocco, è il solo che non perde la testa in quella baraonda) Siete una bestia!... (Il canonico spalanca gli occhi e torna docile a vedere quel che sta macchinando quel diavolo di mastro don Gesualdo. Il notaro prudente, sa dominarsi prima degli altri, e torna indietro col sorriso sulle labbra e la tabacchiera in mano).

Il Notaro                       - Dunque le volete tutte?...

Don Gesualdo               - Eh... eh... cosa stiamo a farci qui dunque!

 Il Notaro                      - (in confidenza) Che diavolo volete far­ne?... Circa cinquecento salme di terra!...

Don Gesualdo               - (stringendosi nelle spalle) Caro no­taro, forse che voglio ficcar il naso nei vostri libracci io?

Il Notaro                       - Quand'è cosi, don Gesualdo, state a sen­tire... discorriamo fra di noi... Il puntiglio non conta... e nemmeno l'amicizia, badiamo agli interessi... (A ogni frase piega il capo ora a destra e ora a sinistra con un fare cadenzato che vuole essere molto persuasivo). Se le volete tutte ve le faremo pagare il doppio, ed ecco sfumata subito la metà del guadagno... senza contare i rischi, le malannate... Lasciateci l'osso, caro don Ge­sualdo! Tappateci la bocca... Abbiamo denti e sappiamo mordere! Andremo a rotta di collo noialtri e voi pure!

Don Gesualdo               - Nossignore! Andrete a rotta di collo voialtri soltanto! Vi spiego il mistero in due parole. Pi-glierò in affitto le terre del Comune... e quelle della con­tea pure... tutte quante, capite?... Signor notaro? Allora comando ai prezzi e all'annata... capite?... Perciò spingerò l'asta .sin dove voialtri non potete arrivare. Ma badate! A un certo punto, se non mi conviene, mi tiro indietro, e vi lascio addosso il peso che rompe la schiena...

Il Notaro                       - E questa è la conclusione?...

Don Gesualdo               - Eh! Eh!... Vi piace?...

Il Notaro                       - (uscendo) Salute a chi rimane!... Ce ne andiamo... Non abbiamo più nulla da fare.

Il Canonico                   - Che botta, eh? Don Gesualdo! Che tomo che siete voi!... La mia mezzeria ci sarà sempre?

Don Gesualdo               - (rassicura il canonico con un cenno del capo e dice a Margarone) Signor don Filippo, an­diamo avanti...

Filippo                           - Io non vo niente affatto! (Adirato) La legge dice... Non c'è più concorrenza!... Non trovo ga­ranzia!... Devo consultare i miei colleghi (e si mette a raccogliere gli scartafacci in fretta e furia).

Il Canonico                   - Ah! così si tratta?... E' questa la ma­niera?... Va bene! Va benone! Ne discorreremo poi si­gnor don Filippo... Un memoriale a Sua Maestà... (Il canonico, col suo mantello sul braccio come un oratore ro­mano, perora la causa dell'amico, minaccioso).

Don Gesualdo               - (calmo riprende il suo denaro e il taccuino) Signor don Filippo, quando aprite l'asta io sarò sempre qua.

NONO QUADRO

Casa di don Gesualdo.

 (Donna Giuseppina Sganci è seduta con Bianca).

Sganci                           - Nipote mio l'avete fatta grossa! Avete su­scitato l'inferno à tutto il parentado!... Sicuro! La mo­glie del cugino Zacco è venuta a farmi vedere i livi­dori!... Sembra ammattito il barone!... Prende a sfo­garsi con chi gli capita... Vediamo…..Bianca, aiutami tu, Cerchiamo d'accomodarla. Voi don Gesualdo, le farete questo regalo, a vostra moglie. (Bianca guarda timidamente ora lei e ora il marito, rannicchiata in un can­tuccio, colle braccia sul ventre e il fazzoletto di seta in testa che s'era messo in fretta onde ricevere la zia. Apre la bocca per rispondere qualche cosa, messa in sogge­zione da donna Giuseppina, la quale continua) Che ne dici? Adesso sono anche affari tuoi. (Bianca torna a guardare il marito, e tace imbarazzata).

Don Gesualdo               - lo dico di no.

Sganci                           - (stupita) Ah? Ah? Dite così? (Diventa rossa come un gallo) Ah! dite di no?... Scusatemi... Io non c'en­tro... Ero venuta a parlarne con mia nipote, perché non vorrei liti né questioni fra parenti... Sia per non detto. Non ne parliamo più. Ho fatto il mio dovere da buona' zia, per cercare di mettervi d'accordo... anche oggi laggiù, al Municipio, avete visto?... Quello che vi feci dire dal P. canonico Lupi?...

Il Canonico                   - (entrando come in casa propria, col cap­pello in testa, il mantello ondeggiante dietro, fregandosi p le mani) Lupus in fabula! Sparlavate di me, eh? Mi sussurravano le orecchie...

Don Gesualdo               - Si discorreva della gabella delle terre... (tranquillamente tirando su una presa) così per discorrere...

Sganci                           - Sai, Bianca? Tuo cugino si marita. Ora non c'è bisogno di far misteri perché tutto è combinato. Don Filippo dà la tenuta alla Salonia, trenta salme di terra! Una bella dote. (Bianca ha un'ondata di sangue al viso, indi diviene smorta come un cencio; ma non si muove e non dice verbo).

Il Canonico                   - (masticando ancora l'amaro) Lo sap­piamo! Lo sappiamo! L'abbiamo capita oggi, al Municipio!... (Infine non sa più frenarsi) La baronessa Rubiera ha cercato di dare il gambetto a me pure!... A me che le avevo proposto l'affare!...

 (Donna Giuseppina diventa di cento colori, e si morde le labbra per non spifferare il fatto suo. Don

Gesualdo invece se la ride tranquillamente sdraiato sul suo bel canapè soffice, e a un certo punto chiude anche la bocca colla mano al canonico).

Il Canonico                   - Si sono pure messi d'accordo per vendere il grano a rotta di collo, e far cascare i prezzi. Una camorra! Il baronello Rubiera ha detto che non gliene importa di perdere cent'onze, pur di farne perdere mille a don Gesualdo che ha i magazzini pieni... Al marito di sua cugina! Vergogna! Ce n'ho venti salme anch'io, capite, vossignoria! Una birbonata!... (Il canonico va scaldandosi maggiormente di mano in mano, rivolto a mastro don Gesualdo).

Sganci                           - (alzandosi) Ma il mondo non finirà per ' questo. (Come la nipote s'è alzata anch'essa dal canapè mortificata da tutti quei discorsi, colle braccia incro­ciate sul ventre, donna Giuseppina se ne va).

Il Canonico                   - C'è una casa del diavolo. Cercano di aizzarvi contro tutto il paese, dicendo che avete le mani lunghe, e volete acchiappare quanta terra si vede con gli occhi, per affamare la gente... Quella bestia di Ciolla va predicando anche contro i villani... a voi e a me, caro mio! Dicono che io tengo il sacco... Non posso uscir di casa...

Don Gesualdo               - (scrollando le spalle) Ah, i villani? Ne riparleremo poi, quando verrà l'inverno." Voi che paura avete ?

Il Canonico                   - Che paura ho, per... mio!... Non sapete che a Palermo hanno fatto la rivoluzione? (Va a chiu­dere l'uscio in punta di piedi, e torna cupo). La Carbo­neria, capite?... l'ho avuta sotto il suggello della con­fessione, voglion buttar giù coloro che hanno coman­dato sino ad ora. Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra!!! Dicono che vi è pure il figlio del Re, niente­meno! il Duca di Calabria...

Don Gesualdo               - S'è così ci sto anch'io! Non cerco altro! ...

Il Canonico \                 - (a bocca aperta) Che scherzate? O non sapete che voglia dire rivoluzione? Quel che hanno fatto in Francia, capite? Ma voi non leggete la storia...

Don Gesualdo               - Me ne importa poco. Il Canonico             - Rivoluzione vuol dire rivoltare il cesto e quegli che erano sotto salire a galla: gli affamati, i nullatenenti! ...

Don Gesualdo               - Ebbene, cos'ero io venti anni fa?

 Il Canonico                  - Ma adesso no! Adesso avete da per­dere, cristiano santo! Sapete com'è, oggi vogliono le terre del Comune; e domani poi vorranno anche le' vostre, le mie!

Don Gesualdo               - Appunto! Se non vogliamo che il villani si servano, colle loro mani. Bisogna cavar le castagne dal fuoco con le zampe del gatto; e dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi che non sono riuscito ad ingraziarmi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nulla. (Girando in quel momento gli occhi su Bianca che sta rincantucciata sul canapè, smorta in viso dalla paura) Non parlo per te, sai. Non me ne pento di quel che ho fatto. Non è stata colpa tua. (Rivolgendosi al canonico) Voi dovreste farne una!... Parlare con chi ha le mani in questa faccenda, e dire che vogliamo esserci anche noi.

Il Canonico                   - Eh? Che dite?... un sacerdote!...

Don Gesualdo               - Lasciate stare, canonico!... Poi se vi è il figlio del Re, potete esserci anche voi!

Il Canonico                   - Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testa, se mai!

Don Gesualdo               - Non temete, che non ve la tagliano la testa! Già se è come avete detto, dovrebbero tagliarla a un paese intero. Bisogna veder quel che bolle in pentola... Bisogna mettersi vicino al mestolo... con un po' di giudizio... e col denaro... So io quello che dico.

Bianca                           - (balbettando) Oh! Signore Iddio!... Cosa pensate di fare?... Un padre di famiglia! (Il canonico indeciso, la guarda turbato, quasi sentisse il laccio al collo).

Dòn Gesualdo               - No, no. Mia moglie non sa cosa dire... Parla per soverchia affezione, poveretta. (Mentre lo ac­compagna alla porta) Lo vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i figliuoli sono un gran legame.

DECIMO QUADRO

Il teatro.

 (In primo piano siamo in due palchetti con porticine di lato a destra e a sinistra nonché comunicazione nel mezzo. Nel palco sono donna Fifì, sua madre, don Fi­lippo Margarone e il resto della famiglia. Nel secondo, Giuseppina Alosi e le sue conoscenze, nel terzo, la capi­tana col marito. A sinistra in fondo si vede un pezzo di palcoscenico con una primadonna che si agita melodram­maticamente, tutta bianca, implorata da un mingherlino amoroso).

Titta                              - (a parte, sulla ribalta, mentre donna Fifì apre una lettera) Sicuro me l'ha data lui stesso, il baro­nello, per darla di nascosto alla prima donna, ma, per carità! Son padre di famiglia!... Non mi fate perdere il pane. (Donna Fifì legge mentre nel palco ciarlano) «Se agglomerate cerimonie tema non forman delle mie verghe non ne traligna l'ossequio. Se che sorgenti non fallaci e più stabili le sole preci ne reputo. Il favor d'un vostro sguardo è quel che anelo e, lo ambisco mercè delle melenzose mie riga. Barone Antonino Rubiera ». (Donna Fifì, gialla di bile, spiegazza con mano febbrile la lettera e torna verso sua madre).

Madre Margarone         - Ma che dice? (Nicolino caccia il capo fra di loro, e si busca una pedata. Agli strilli accorre don Filippo, che sta passeggiando nel corridoio).

Filippo                           - Che c'è?... Al solito! Facciamo ribellare tutto il teatro...

Canali                            - Si soffoca! Mi fate un po' di posto?... (La signora capitana, nel palco dirimpetto, minaccia di sve­nirsi ogni momento, colla boccetta di acqua d'odore sotto il naso. Il barone Mendola, il quale sta facendo visita a donna Giuseppina Alosi nel palco accanto, fa sentire la sua risata sciocca chesi ode per tutta la sala. Donna Giovannina si fa rossa. Mita sgrana tanto d'occhi e la madre spinge Canali fuori dell'uscio. Dalla platea in­timano il silenzio. Donna Bellonia allora cava fuori gli occhiali per leggere il biglietto, dietro le spalle di Fifì).

Madre Margarone         - Ma che dice? Io non ci capisco niente!...

Fifì                                - Ah, non capite?... Non me ne ha scritta mai una così bella. L'infame!... Il traditore!...

Filippo                           - Che c'è... Si può sapere?

(Sulla scena la prima donna pugnale il mingherlino amoroso. Cala la tela e scoppiano gli applausi).

Filippo                           - Che comica eh? Che talento! (Smanac­ciando lui pure) Peste!... Maleducato!... (Nicolino im­paurito sgambetta strillando che vuole andarsene. Un terremoto. Tutti in piedi vociando e strepitando. La prima donna ringrazia di qua e di là, dimenando i fian­chi, saettando il collo a destra e a sinistra al pari di una testuggine, colle labbra cucite dal rossetto, il seno che le scappa fuori tremolante ad ogni inchino).

Canali                            - (tornando ad applaudire) Sangue di!... corpo di!... Son maritato!... Son padre di famiglia!... Ma farei uno sproposito!...

Fifì                                - Papà mio!... papà mio!... (Scoppiando a pian­gere addosso al genitore) Se mi volete bene, papà mio, fatemi bastonare a dovere quella sgualdrina!...

Filippo                           - Eh!... (A bocca aperta e con le mani in aria) Che ti piglia adesso?... (Donna Bellonia, Mita, Giovannina, tutte insieme si alzano per calmare Fifì, circondandola, spingendola in fondo, verso l'uscio per nasconderla. Nei palchi dirimpetto, già in platea, c'è un ondeggiare di teste, e di risate, dei curiosi che ap­puntano il canocchiale verso il palchetto dei Margarone. Don Filippo onde far cessare lo scandalo si mette in prima fila, insieme a Nicolino, appoggiandosi al para­petto, salutando le signore col sorriso a fior di labbra, mentre borbotta sottovoce). Stupida!... Tuo fratello, così piccolo, ha più giudizio di te, guarda!... (Anche nel palco accanto si ode un tramestìo. La signora Alosi tutta affaccendata, con la boccettina d'acqua di odore in mano, e il barone Mendola voltando la schiena al teatro, scuo­tendo per le braccia un ragazzetto bianco al par della camicia, abbandonato sulla seggiola. Il fanciullo pal­lido, con grandi occhi intelligenti e timidi guarda an­cora la scena a sipario calato. Donna Giuseppina, dopo che il nipotino si è riavuto alquanto, offre per cortesia la sua boccetta d'odore a Margarone. Don Filippo se­guita a brontolare sottovoce. Ma tace vedendo entrare Mendola che viene a far visita, vestito in gala, colla giamberga verde bottiglia, i calzoni fior di pomo, sol­tanto il cravattone nero pel lutto del cugino Trao).

Mendola                        - Non vi scomodate... un posticino in un cantuccio... Che produzione, eh? La donna special­mente!... M'ha fatto piangere come un bambino!...

Filippo                           - (fingendo di volgerla in burletta) Anche qui!

(Il capitan d'arme, dal palco dirimpetto, credendo di non esser visto, dietro le spalle della capitana, fa segno verso di loro, col fazzoletto bianco, fingendo di soffiarsi il naso, Mendola nel voltarsi sorprende pure donna Giovannina col fazzoletto al viso. Ella abbassa subito gli occhi e si fa rossa come un peperone).

Mendola                        - Una bella compagnia! Fortuna che sia capitata da queste parti! La prima donna specialmente, sta lì di faccia a casa mia, nella locanda di Nanni Ninarò. Bisogna vedere ogni sera dopo la recita!... (E ter­mina la frase nell'orecchio di don Filippo, il quale risponde):

Filipfo                           - Ehm!... Ehm!...

Madre Margarone         - Ti dò uno sgrugno. (Minac­ciando sottovoce, mangiandosi con gli occhi Giovannina) Ti fo' venire adesso il raffreddore!...

Mendola                        - (ad alta voce, perché le ragazze non capi­scano) Sicuro! (Poi piano a don Filippo) Padrone del campo veramente è il padre nobile. Finta che liti­gano ogni sera sul palcoscenico... Ma poi a casa bisogna vedere!... Non vi dico altro!... Ho fatto un buco apposta nell'impannata del granaio che guarda appunto in ca­mera sua. Però ci sono gli avventizi, i devoti spiccioli, capite? quelli che vanno a portare la loro offerta... (Frat­tanto nell'intervallo, qualcuno è uscito dal palco e vi sono entrati il capitano e la capitana, il ragazzo La Gurna e don Peperito).

Nini                               - (entra di nascosto per non destar i sospetti della fidanzata, vestito di nero, con un mazzolino di rose in mano e rimane un po' interdetto trovando tanta gente nel palco. Donna Fifì gli rivolge un'occhiataccia, men­tre risponde al capitano con un sorriso civettuolo, pro­prio sotto gli occhi del fidanzato).

Peperito                         - (guardando donna Giuseppina che è nell'altro palco, dice ad alta voce per farsi sentire da lei) Che aria distinta, donna Giuseppina! Tutta l'aria dei Trao!...

La Capitana                  - E' sorprendente l'aria di famiglia che c'è fra loro. (Con intenzione) Avete visto come somiglia a don Nini la bambina di donna Bianca?

Canali                            - (all'orecchio della capitana) Ma che storia andate pescando?

Madre Margarone         - (al baronetto) Vi metterete in fondo al palco, insieme a Fifì, giacché siete in lutto, Nessuno vi vedrà. Levati di lì, Giovannina.

Giovannina                   - Sempre così. (Furiosa contro la so­rella) Mi tocca sempre cedere il posto, a me!...

Fifì -                              - Mamma lascialo andare, se è in lutto!... La commedia potrà vederla dal palcoscenico!.. (Sogghigna). Già lo sappiamo! Le agglomerate cerimonie!.;. Le me­lenzose righe...

Ninì!                              - Io... le melenzose?...

Fifì                                - (inferocita) (Ci vuole una faccia tosta! Sissi­gnore! La lettera con le melenzose!... eccola qua! (e gliela frega sotto il naso, scoppiando a piangere di rab­bia. Don Nini dapprima rimane sbalordito. Indi scatta su come una furia e fa per uscire. Sull'uscio s'imbatte con don Filippo, che entra).

Nini                               - Siete uno stupido!... un imbecille!... La bella educazione che avete dato a vostra figlia!... Grazie a Dio, non ci metterò più piede a casa vostra! (Esce in­furiato).

Filippo                           - (contro la moglie) Siete una stupida!... Non avete saputo educare le vostre figliole. Vedete cosa mi tocca sentirmi dire!... Non dovevate portarmelo in casa quel facchino!

UNDECIMO QUADRO

Esterno dopo teatro. La strada della scena n. 1.

Nini                               - Bella figura m'avete fatto fare colle vostre melenzose!... La sa a memoria tutto il paese, la vostra lettera!...

Ciolla                            - Ebbene? Cosa vuol dire? Segno che è pia­ciuta, se la sanno tutti a memoria!...

Nevi                              - E' piaciuta un corno! Lei dice che gliene importa assai di me!

Ciolla                            - Oh! oh!... E' impossibile!... La lettera avreb­be sfondato un muro! Vuol dire che la colpa è vostra, don Ninì... (Non parlo idei vostro fisico... Bisognava ac­compagnarla con qualche regaluccio, caro barone! La polvere spinge la palla! Credevate di far colpo per la vostra bella faccia?... Con due baiocchi di carta rosata?... Giacche a me non mi avete dato nulla, veh!... (Escono insieme e s'incontrano col canonico e mastro don Gesualdo salutandosi cerimoniosamente).

Il Canonico                   - Insomma il barone ha rotto il fidan­zamento. Donna Fifì non si placa, dice di non volerne sapere più di colui, uno «ciocco, un avaraccio, il barone Melenzoso. Don Ninì per spuntarla ad ogni costo ad avere la prima donna le ha mandato a regalare salsic­ciotti, caciocavalli, bottiglioni di vino. Ha empito la ta­vola della locanda. Non si parla di altro in tutto il paese. Il barone Mendola narra che ogni sera si vedono le nozze di Cana. (Regali sopra regali, tanto che la baro­nessa ha dovuto nascondere la chiave della dispensa. Finalmente mastro Titta il parrucchiere ha annunziato a don Nini che la prima donna ha perso la testa per lui. In conclusione il povero barone distinto cultore è caduto nella trappola del signor Fallante celebre ar­tista. Insomma l'ha stregato!... E il giovanotto ha bi­sogno di denaro. Vuol fare un mutuo. Don Nini è pieno di debiti sino al collo, e non sa più dove battere il capo... La 'baronessa giura che sinché campa lei non paga un baiocco. Ma non ha altri eredi, e un giorno o l'altro deve lasciargli tutto il suo. Come vedete, un buon affare, se avete coraggio...

Don Gesualdo               - Quanto? Quanto gli occorre? S'è una cosa che si può fare son qua io.

Il Canonico                   - Sarà certo una grossa somma. Ma non sarà una pazzia dargliela. Non temete.

Don Gesualdo               - Sto tranquillo. Non li perdo i de­nari. II barone è un galantuomo... e il tempo è più ga­lantuomo di lui...

Il Canonico                   - Dice bene il proverbio che la donna è causa di tutti i mali! Commediante poi!

DODICESIMO QUADRO

Casa della baronessa Rubiera.

Rubiera                         - (seduta fa la calza) Non mi posso dar pace! Perché è mutato, dispettoso, sempre sopra pen­siero, e quel viso acceso, e tutte quelle cure e la barba rasa ogni mattina. Non lo riconosco più, no! nemmeno io che l'ho fatto... Ti rammenti che figlio d'oro... do­cile amoroso, ubbidiente... Adesso si rivolterebbe anche a tua madre, per quella donnaccia forestiera... una com­mediante. Deve avergli fatta qualche malìa! Spende l'osso del collo... I birboni l'aiutano... Ma io non pago no!.... Oh, questo poi, no! La notte non chiudo occhio almanaccando dove questo ragazzo può trovare i de­nari per tutti quei fazzoletti di seta e quelle boccettine d'acqua d'odore.

Alessi                            - Io ho parlato pure col fattore e la gente di campagna... Niente.

Rubiera                         - E quello, il cugino Limoli, mentre quella commediante passava tutta in fronzoli, m'ha detto: « La vedete? Che ve ne sembra, eh, di vostra nuora? ».

Ciolla                            - Non ne nascono più delle padrone di casa come voi, signora baronessa! Ecco, ecco, siete sempre lì, a sciuparvi la vista nel lavoro. Ne hanno fatta della roba quelle mani!... Non ne hanno scialacquata, no! (Intanto Rosaria ha sbarazzato una seggiola del canovaccio che vi era ammucchiato sopra, e sta ad ascoltare grattandosi il capo).

Rubiera                         - Va per le tue faccende.

Ciolla                            - Benedetta voi che ve ne state in casa, a badare ai vostri interessi. Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dico per lodarvi! Vostro marito buon'anima!... Via non parliamo dei morti... Le mani le aveva bucate... come tutti i Rubiera... I fondi coperti di ipoteche... e la casa... infine cos'era il palazzetto Ru­biera?... Quelle cinque stanze lì... (La baronessa finge di gradire le lodi). Tutto il resto è roba vostra! Una casa che è Tina vera reggia! Vasta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortale, se riuscissero a smembrar-vela i vostri nemici! che ne abbiamo tutti de' nemici!...

Rubiera                         - (si sente impallidire, finge di mettersi a ri­dere; una risata da far montare la mosca al naso a quell'altro) Chi sa cosa volete dire!

Ciolla                            - Cosa? Ho detto una minchioneria? Nemici ne abbiamo tutti. Mastro don Gesualdo, esempigrazia!... Quello non vorrei trovarmelo mischiato nei miei inte­ressi... (Finge di guardarsi intorno sospettoso, quasi ve­dendo dappertutto le mani lunghe di mastro don Ge­sualdo) Quello, se si è messo in testa di ficcarvisi in casa... a poco a poco... da qui a cent'anni... come fa il riccio... (La baronessa è andata sul balcone a prendere aria, senza dargli retta, per cavargli di bocca il rima­nente. Egli nicchia ancora un poco, cavandosi il cap­pello per darvi una lìsciatina, cercando la canna d'India che ha in mano) Che avete da fare, eh? Dovete vestirvi per andare al battesimo della figliuola di don Gesualdo? Sarà un battesimo coi fiocchi... in caso Trao!... Ci sa­ranno tutti i parenti... una pace generale. Siete parente anche voi... (La baronessa continua a ridere). No? Non ci andate? Avete ragione! Guardatevi da quell'uomo! Non vi dico altro! Vostro figlio è una bestia!... Non vi dico altro...

Rubiera                         - Mio figlio ha la sua roba ed io ho la mia... Se ha fatto delle sciocchezze mio figlio pagherà, se può pagare... Io no però... pagherà lui, col fatto suo, con quelle cinque stanze che avete visto... Non ha altro per disgrazia... Ma io la mia roba me la tengo per me... Sono contenta che mio figlio si diverta... è giovane... Bisogna che si diverti... Ma io non pago, no!... (Rientra Rosaria per pigliare la tela).

Ciolla                            - Quello che dicono tutti. Mastro don Ge­sualdo crede d'essere furbo. Ma stavolta, se mai, ha trovato uno più furbo di lui. Sarebbe bella che gli man­tenesse l'amante a don Nini! Gli parrebbe di fare le sue follie di gioventù anche lui!...

Rubiera                         - (dal gran ridere, va tenendosi ai mobili per non cadere) Ah! ah!... questa è bella!... Questa l'avete detta giusta, don Roberto!... (Ciolla finge di ridere an­che lui, spiandola di sottecchi indispettito. A Rosaria) Bestia, cosa fai? Perché rimani lì impalata? Accompagna don Roberto, piuttosto! (Ciolla si persuade ad andar­sene).

Ciolla                            - (a Rosaria, mentre esce) Com'è allegra la tua padrona! Ho piacere, sì! L'allegria fa buon sangue e fa vivere lungamente. Meglio! Meglio!...

Rubiera                         - (uscito Ciolla, fa un viso spaventevole, fru­gando nei cassetti e negli armadi, colle mani che non trovano nulla, gli occhi che non ci vedono, la schiuma alla bocca) Sì, ci andrò... Sentiremo cos'è... E' meglio sapere la verità... Razza di serpi, sono! Cime di bir­banti! Se lo mangiano in un boccone quello scomu­nicato di mio figlio. Ma prima l'ha da fare con me.

 (Buio).

 (Si spegne la luce, si riaccende. Nella stessa scena sono don Gesualdo e Bianca con la baronessa).

Rumerà                         - Sentite don Gesualdo; vi ho fatto chia­mare perché volevo parlarvi di quello scapestrato di mio figlio. Aiutami tu, Bianca.

Bianca                           - Io, zia?

Rubieka                         - Scusatemi, io so parlare così col cuore in mano... Ora che siete padre anche voi, don Gesualdo, capirete quel che devo averci in cuore... che spina... che tormento.... (Guarda ora la nipote ed oro suo marito cogli occhi acuti, col sorriso semplice e buono che le avevano insegnato i genitori pei negozi spinosi. Don Gesualdo sta a sentire tranquillamente. Bianca imba­razzata da quell'esordio, colla figliuoletta in grembo, sembra una statua di cera). Saprete le chiacchiere che cor­rono, di Nini con quella comica. Bene. Di ciò non mi da­rei pensiero. Non è la prima né l'ultima. Suo padre, buo­n anima, era fatto anch'esso così. Ma sinora gli ho im­pedito di commettere qualche sciocchezza. Adesso però ci sono di mezzo i birboni, i cattivi compagni...

Bianca                           - (sbigottita, muove le labbra smorte senza ar­rivare a trovar parole. Don Gesualdo invece ha fatto la bocca al riso).

Rubiera                         - Ditemi la verità. V'ha fatto chiedere del denaro in prestito, eh?... Gliene avete dato?...

Don Gesualdo               - (ride più forte) Scusate... scusate…..Se mai... Perché non lo domandate a lui?... Questa è bella!... Io non sono il confessore di vostro figlio...

                                                                     Fine del secondo atto

ATTO TERZO

 13° Quadro carrello      - Campagna con alberi e casa in fondo.

14° Quadro                   - Interno di tende.

15° Quadro                   - Strada di telettoni plastici come al n. 11.

16° Quadro carrello      - Casa di don Gesualdo del n. 7

17° Quadro carrello      - Casa del duca. Letto su pedana con baldacchino, montato sul carrello n. 13 liberato mentre si recitano i n. 14, 15, 16, 17.

TREDICESIMO QUADRO

Scena di campagna con alberi e casa in fondo. (Gran casamento annidato fra gli ulivi, Budarturo bello e sassoso nel cielo che sembra di smalto. La sola pen­nellata gaia è una siepe di rose canine sempre in fiore all'ingresso del viale, dimenticato per incuria).

Nanni l'Orbo                 - (coll'aria misteriosa) Signor don Ge­sualdo... Se permettete... ho da parlarvi.

Don Gesualdo               - T'ho detto tante volte di non la­sciarti vedere da queste parti! Che diavolo!... Se lo fai apposta...

Nanni l'Orbo                 - Nossignore, appunto, vi chiamato qui fuori. Dobbiamo parlare da solo a solo, per quel che ho da dirvi... Don Gesualdo, che c'è stato vossi­gnoria, lassù?... alle volte... per far quattro passi... l'erba sulla spianata è tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri no, eh?... Ho paura di quelli del colera piuttosto

 Don Gesualdo              - No... di giorno?... che diavolo!... Bestia che sei!... non temere, qui stiamo con gli occhi aperti.

Nanni l'Orbo                 - (sotto la finestra di donna Isabella ad­dita in silenzio l'erba tutta pesta) Quella è la fine­stra di donna Isabella. I cani poi come avessero preso l'oppio. (Con quel fare misterioso) Se non ero io, che ho l'orecchio fino... dicevo a Diodata: finché manca il padrone bisogna stare con l'orecchio teso per guardargli le spalle... allora ho mandato Nunzio sul ponticello, mentre io con Gesualdo arrivavo dalla parte del pal­meto... sissignore, dov'è alloggiata donna Sarina col ni­pote... se i cani sono stati zitti, dicevo fra me... non può essere che persona conosciuta. Quel ragazzo...

Don Gesualdo               - Va bene. Adesso taci. Di lassù po­trebbero udirti. (Si avviano).

Zia Cirmena                  - Son frasche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. E' ritroso quel benedetto figliuolo. Così timido! Uno che ha bisogno d'aiuto, col talento che ha, peccato! Alla sua età... non può vivere sempre alle spalle dei pa­renti!... E' superbo come Lucifero per giunta, ma che talento, eh! come amministratore... che so io... per so­printendere ai lavori di campagna... dirigere una fattoria quel ragazzo varrebbe tant'oro. Il cuore mi dice che se voi, don Gesualdo, trovaste da collocarlo in alcuno dei vostri negozi, fareste un affare d'oro!...

Don Gesualdo               - (fare canzonatorio, raccoglie in un mucchio libri e giornali che sono sul tavolino e glieli caccia in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spìngendola per le spalle quasi voglia mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negozio, vociando così forte che sembra in collera, fra le risate. Tutti si guardano negli occhi. Isabella appare senza dire una parola ed esce di nuovo) Sapete, donna Sarina?... il servizio che dovreste farmi, sarebbe d'andarvene. Patti chiari e amici cari, non è vero? Ho bisogno di quelle due stanze...

Zia Cirmena                  - (diventa verde. S'aggiusta il vestito, sor­ridendo, pigliandola con disinvoltura) Bene, bene... ho capito. Una volta che vi servono quelle due stanzucce... Se avete i vostri motivi... anche subito, su due piedi... colera o no! La gente non ha da dire se mi mandate via in mezzo al colera... Siete il padrone. Cia­scuno sa i fatti di casa sua. (Brontolando, mentre rac­catta in furia, i ferri da calza e gli occhiali, ecc.) Guar­date se è questa la maniera, così si ringraziano i parenti della premura? Io me ne lavo le mani... come Pilato... Ciascuno a casa sua...

Don Gesualdo               - Ecco la parola giusta, donna Sa­rina, ciascuno a casa sua... (Appare un uomo e fa dei cenni a don Gesualdo). Eh? Eh?... Che c'è? (Va a par­lare un momento con l’uomo). Vengo, vengo, aspet­tate un momento.

Zia Cirmena                  - Che c'è? Che c'è?...

Don Gesualdo               - Nulla... Le stoppie lassù avran preso fuoco... (E' un po' turbato) Nulla... nulla... (Si vede però che è turbato. Grossi goccioloni gli colano dalla fronte. Donna Sarina si ostina ad aver paura, piantandosi su due piedi, frugando di qua e di là cogli occhi curiosi, fissandoli in viso a lui per scovar quel che c'è sotto).

Zia Cirmena                  - Un caso di colera, eh? Ce l'han por­tato sin qui? Qualche briccone? L'han colto sul fatto?

Don Gesualdo               - (le mette le mani sulle spalle, guar­dandola fissamente nel bianco degli occhi) Donna Sarina, a che gioco giochiamo? Lasciatemi badare agli affari di casa mia! (La mette bel bello sulla strada, verso il ponticello. Tornando indietro se la prende con tutta quella gente che sembra ammutinata, comare Lia che ha lasciato d'impastare il pane, sua figlia accorsa anche lei colle mani intrise dì farina. Chiamando) Eh!... Bian­ca... (Appare). Bada alla casa. Bada alla ragazza. Io vo" e torno. Il tempo di arrivare alla Salonia per mio padre che sta poco bene. Gli occhi aperti finché non ci sono io, intendi? (Bianca ha il viso attonito). Tua fi­glia ha la testa sopra il cappello, te ne sei accorta? Ab­biamo fatto un bel negozio a metterle in capo tanti grilli! Chissà cosa s'immagina?... E gli altri pure... Donna Sarina e tutti gli altri! Serpi nella manica! Dun­que niente visite, finché torno... E gli occhi aperti sulla tua figliola. (Bianca, ritta accanto all'uscio, col viso scialbo, spalanca gli occhi, dove in fondo un terror vago, uno sbalordimento accorato, l'intermittenza dolo­rosa della ragione annebbiata ch'era negli occhi di don Ferdinando). Ah, hai capito finalmente! Te ne sei ac­corta anche tu! E non mi dicevi nulla!... Tutte così! voialtre donne... A tenervi il sacco l'una con l'altra!... (Bianca viene avanti e, sulla porta, appare Isabella im­mobile).

Bianca                           - No!... vi giuro! Non so nulla!... Non ci ho colpa, che volete da me?... Vedete come sono ridotta!...

Don Gesualdo               - Non lo sapevi? Cosa fai dunque? Così tieni d'occhio tua figlia... E' questa una madre di famiglia?... (Bianca allora si rivolta inferocita, simile a una chioccia che difenda i pulcini, col viso che nes­suno le aveva mai visto; il viso stralunato dei Trao, in cui gli occhi luccicano come quelli di una pazza sul pallore e la magrezza spaventosa).

Bianca                           - Ah! me la volete uccidere dunque? Non vi basta? Me la volete uccidere?... (Non si riconosce più, tanto che lo stesso don Gesualdo rimane sconcer­tato. Ora cerca di pigliarla con le buone, vinto da uno sconforto immenso, dall'amarezza di tanta ingratitudine che gli sale alla gola, colle ossa rotte, il cuore nero come la pece)

Don Gesualdo               - (Bianca vuole balbettare qualche pa­rola. Allora egli si volta infuriato contro di lei, con le mani in aria, la bocca spalancata. Ma non dice nulla. Guarda la figliola che e apparsa tutta tremante, col viso gonfio, le trecce allentate; allora lascia cadere le brac­cia e si mette a passeggiare innanzi e indietro picchiando le mani una sull'altra, soffiando e sbuffando, cogli occhi a terra, quasi cerchi le parole, cercando le maniere che ci voglion per far capire la ragione a quelle teste dure) Ancora sei giovane... Certe cose non le capisci... Il mondo vedi è una manica di ladri... Tutti che fanno: levati di lì e dammi il fatto tuo... ognuno cerca il suo guadagno... te lo dico? Se tu non avessi nulla, nessuno ti seccherebbe... E' un negozio capisci?... Il modo di as­sicurarsi il pane per tutta la vita. Uno che è povero, uomo o donna, sia detto senza offendere nessuno, s'in­dustria come può... Gira l'occhio intorno; vede quello che farebbe al caso suo... E allora mette in opera tutti i mezzi per arrivarci, ciascuno come può... Ma chi ha giudizio, dall'altra parte, deve badare ai suoi interessi... (Il discorso gli muore in bocca dinanzi al viso pallido e agli occhi stralunati coi quali lo guarda la figliola. Anche la moglie non sa dir altro).

Bianca                           - Lasciatela stare!... Non vedete come è?...

Don Gesualdo               - Come una sciocca è... (Uscendo fi­nalmente fuori dai gangheri) Come una sciocca che non sa e non vuol sapere!... Ma io non sarò sciocco, no!... Io lo so quello che vuol dire!... (E se ne va in­furiato).

 

QUATTORDICESIMO QUADRO

Interno di tende fiorate a Mangalavite.

Bianca                           - Volete farla morire la mia creatura? Non vedete com'è ridotta? Non vedete che vi manca di giorno in giorno? Me ne vo a stare da mio fratello! Io e la mia figliola! Che vi pare? (Ha gli occhi di brace) Sentite... Io ho poco da penare. Ma lasciatemi la mia figliola, fino a quando avrò chiuso gli occhi.

Don Gesualdo               - No! Non ha neppure compassione di te quell'ingrata! Ci siamo ammazzati tutti per farne un'ingrata! Ha perso l'amore ai parenti... Lontana da casa sua! Quell'assassino! Quel briccone!... In galera voglio farlo morire!... Tutti e due!...

Zia Cirmena                  - (col libro da Messa in mano, il sorriso placido, vestita di seta) Chetatevi don Gesualdo, che­tatevi!... Non fate scandali, ch'è peggio. Vedete vostra moglie, che pare stia per rendere l'anima a Dio, pove­retta! Sono venuta apposta per accomodar la frittata. Non so tener rancore. Mi avete messa sulla strada... col colera... con un orfanello sulle spalle... Ma non im­porta. Ho il cuore buono, tanto peggio! Mio danno! Ma non so che farci! Ora bisogna pensare al riparo. Bisogna maritar quei due ragazzi, ora che il male è fatto. Non c'è più rimedio.

Don Gesualdo               - (con tanto di bocca aperta quasi vo­lesse mangiarsela) Con quel pezzente?... Dargli la mia figliola?... Piuttosto la chiudo in convento! Bel negozio che mi portate!... Da pari vostra!... Ci vuole una bella faccia tosta!... Mi fate ridere con questa bella nobiltà... So quanto vale!... Tutti quanti siete!...

Zia Cirmena                  - (rossa al pari di un gallo) Parlate da quello che siete! Almeno dovevate tacere per riguardo a vostra moglie, villano! Mastro don Gesualdo! Siete la vergogna di tutto il parentado!...

Don Gesualdo               - Senti chi parla di vergogna. Voi!... mezzana! Ci avete tenuto mano anche voi! Siete la com­plice di quel ladro!... Bel mestiere alla vostra età! Vi farò arrestare insieme a lui, donna Sarina dei miei sti­vali! Donna... cosa, dovrebbero chiamarvi!

Limoli                           - (sopraggiunge con Isabella, pel decoro della famiglia, per cercare di metter pace anche lui, colle buone o colle cattive) Non fate scandali! non stril­late, ch'è peggio! I panni sporchi si lavano in casa. Vediamo piuttosto d'accomodare questo pasticcio. Bianca! Bianca, non far così che ti rovini la salute... Non giova a nulla... Infine vi ho scovato io chi fa al caso: un gran signore di cui il notaro amministra i possessi, alquanto dissestato, è vero, nei suoi affari, ingarbugliato fra liti e debiti, ma di gran famiglia, che darebbe un bel nome alla discendenza di mastro don Gesualdo.

Don Gesualdo               - Se mai io non voglio lasciarmi mangiar vivo. Neanche un baiocco! Il mio denaro me lo sono guadagnato col sudore della fronte, la vita intera, non mi piace di lasciarmi aprir le vene per uno che deve venire da Palermo a bersi il sangue mio.

Limoli                           - Di dove volete che venga dunque, dalla luna?... Insomma, volete capirla? Vostra figlia dovete maritarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c'è tempo da perdere, avete capito?

Don Gesualdo               - (sbiancandosi in viso balbetta) Eh?... Come?...

Limoli                           - Sicuro!... Avete trovato un galantuomo che se la piglia... In buona fede... Ma non potete preten­dere troppo infine da lui!...

Don Gesualdo               - Me l'ha fatta grossa! Questa non me la meritavo. (Esce turbatissimo).

Limoli                           - (a Isabella che si è rifugiata presso di lui) Hai ragione! Piangi pure che hai ragione! Sfogati con me che capisco queste cose... Un bruciare, una cosa che sembra di morire! Tuo padre non ne capisce nulla, poveretto. Capisco quello che devi averci adesso nel tuo cuoricino. Ma tuo padre ha preso la via storta-Se lui ha detto di no, non lo sposerai! Morirai qui, in questa specie d'ergastolo; ci consumerai i tuoi begli anni. Corrado rimarrà in esilio, ad arbitrio della Po­lizia, finche vorrà tuo padre, egli ha le braccia lunghe adesso... Invece potresti sposare un gran signore. Un gran signore, capisci? 'Nel monastero, sai, creperebbero d'invidia... Saresti principessa o duchessa! Altro che donna tal dei tali! Carrozze, cavalli, palco a teatro tutte le sere, gioielli e vestiti 'quanti ne vuoi... con quel bel vi­setto so io quante teste farai girare in una gran città! Quando si entra in una sala da ballo, scollacciata, co­perta di brillanti tutti che domandano: chi è quella bella signora?... E si sente rispondere: la duchessa o la prin­cipessa tal altra!... Tutte quante si maritano come vo­gliono i genitori! Figliola mia, quando uno non è ricco, non può darsi il gusto di innamorarsi come vuole. Voialtri siete giovani tutti e due. Non vedete altro che una cosa sola! Invece puoi fare un gran matrimonio, sfoggiarla da gran signora, in una città!... Dopo, quando avrai il cuoco in cucina, la carrozza che t'aspetta e le tue buone rendite garantite nell'atto dotale, potrai darti il lusso di pensare alle altre cose...

QUINDICESIMO QUADRO.

Strada della scena n. 1.

 (Due o tre capannelli di gente che confabula anima­tamente a soggetto. Gridano: a Pio IX». «Libertà». « Papa Re ». « Borbone ». « Italia ». Preti e frati con cro­cifisso sul petto, la coccarda di Pio IX e lo schioppo ad armacollo sono infervorati a difesa della libertà. Si vede don Nicolino Margarone vestito da capitano con gli speroni e il berretto gallonato. La signora capitana vestita di tre colori, il casacchino rosso, la gonnnella bianca e un cappellino calabrese con le penne verdi, va da un gruppo all'altro raccogliendo danaro per la com­pra dei fucili. Passano altre dame che portano sassi alle barricate in Canestrini pieni dì nastri. Bandiere trico­lori. Grida di « evviva » e di « abbasso » lontane, ogni momento. Scampanio).

Carmine                        - Un brigante quel don Gesualdo, un as­sassino! Uno che s'è arricchito, mentre tanti altri sono rimasti poveri e pezzenti peggio di prima.

Titta                              - Uno che ha i magazzini pieni di roba, e manda ancora l'usciere in giro per raccogliere dagli altri.

Bbasi Camauro             - E' il più tenace a non voler che gli altri si piglino le terre del Comune, ciascuno il suo pezzetto. (Il canonico Lupi armato sino ai denti, il ba­rone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come un po­vero diavolo. Sono continuamente in mezzo ai capan­nelli, alla mano e bonaccioni, col cuore sulle labbra).

Ninì                               - Quel mastro don Gesualdo sempre lo stesso! Ha fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che l'aveva messo all'onore del mondo! A che l'era giovato essere tanto ricca?

Il Canonico                   - (in confidenza) Le stesse Messe in suffragio dell'anima avevano lesinato alla poveretta! Se non ha cuore neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlare, che domattina devo dir Messa!

 (Alcuni sconosciuti si sfogano a chiacchierare scal­dandosi il capo a vicenda).

 Giacalone                     - Ricordiamo le soperchierie patite piut­tosto.

Pirtuso                           - Le invernate di stenti.

Nanni l'Orbo                 - Mentre c'era gente che aveva i ma­gazzini pieni di roba.

Agostino                       - Pazienza ai signori che c'erano nati...

Mastro Cola                  - Oh, quel don Gesualdo Motta che è nato povero e nudo come noi.

Alessi                            - Io me lo rammento povero bracciante.

Giacalone                      - A me mi ha fatto pignorare la mula.

Speranza                       - (aizzando i suoi stessi figlioli) Dovete far valere le vostre ragioni se non siete due capponi come vostro padre che si è acquetato non appena il cognato gli ha mandato il gruzzoletto, perché Bianca stava male, e lui voleva fare la pace con tutti quanti. (Entra la capitana con la bandiera).

SEDICESIMO QUADRO

Casa di don Gesualdo Carrello N. 1.

 (Dal balcone, in fondo alla stanza, si vede la folla urlante che s'è assembrata avanti alla casa di don Ge­sualdo. Rumore di voci interne).

Brasi Camauro              - Signori miei! Non c'è più reli­gione! Né Cristi ne santi! Vogliono lasciarci crepare di fame! (All'improvviso dal frastuono scappano degli urli da far accapponar la pelle. Santo Motta malconcio e insanguinato riesce a far fare un po' di largo dinanzi all'uscio del magazzino. Il canonico Lupi, aggrappato all'inferriata della finestra, tenta dì farsi udire).

Il Canonico                   - ...Maniera? Religione!... La roba al­trui!... Il santo Padre! Se cominciamo...

Una Serva                     - Badate, don Gesualdo! Ce l'hanno con voi perché siete borbonico. Fate qualche cosa! (Lui che ha tanti altri guai, si stringe nelle spalle. Ma al vedere adesso che fanno sul serio, balza dal divano così come si trova, col fazzoletto in testa e il cataplasma sullo sto­maco, mettendo da parte i suoi malanni).

Nardo                            - Don Gesualdo!... Presto!... Scappate!... (Don Gesualdo arruffato, scamiciato,, cogli occhi che luccicano, simili a quelli di un gatto inferocito, nella faccia verde di bile, va e viene per la stanza, cercando pistole e col­tellacci, risoluto a vender cara la pelle almeno; mastro Nardo e quei pochi dì casa che gli erano rimasti affezio­nati pel bisogno, si raccomandano l'anima a Dio. Final­mente il barone Mendola riesce a farsi aprire l'uscio del vicoletto. Don Gesualdo, appostato alla finestra col fucile, sta per tirare).

Mendola                        - Eh! Tirate ad ammazzarmi, per giunta? Questa è la riconoscenza?

Don Gesualdo               - Ah! Così? A questo punto siamo arrivati, che un galantuomo non è sicuro neppure in casa? Che la roba sua non è più sua? Eccomi! Cadrà Sansone con tutti i Filistei. (Zacco, e due o tre altri be­nintenzionati sopraggiungono intanto, sudano a persua­derlo, vociando tutti insieme).

Zacco e Altri                 - Che volete fare? Contro un paese intero? Siete impazzito? Bruceranno ogni cosa! (Don Ge­sualdo si ostina furibondo).

Don Gesualdo -------- - Quand'è così... giacche pretendono metterci le mani in tasca per forza!... Giacché mi pa­gano a questo modo!... Ho fatto del bene... ho dato da campare a tutto il paese... ora gli lo' mangiar la pol­vere, al primo che mi capita!... (E' risoluto di fare uno sterminio. Ma irrompe nella stanza il canonico Lupi, e gli si butta addosso senza badare al rischio, spingendolo e sbatacchiandolo di qua e di là, finché arriva a strappargli di mano lo schioppo).

Il Canonico ----------- - Che diavolo! Colle armi da fuoco non si scherza! (Ha il fiato ai denti, il cranio rosso e pelato che gli fuma come da giovane e balbetta) Santo diavolone!... Mi fate parlare come un porco, don Asino! Volete far mettere il paese intero a sacco e fuoco?

A soggetto (Il canonico è fuori della grazia di Dio. d Gli altri danno addosso su quella bestia testarda di mastro don Gesualdo che risica di comprometterli tutti quanti; lo mettono in mezzo; lo spingono verso il muro; gli rinfacciano l'ingratitudine; lo stordiscono. Il barone Zacco arriva a passargli un braccio al collo, in confidenza, confessandogli all'orecchio ch'è con lui, con­tro la canaglia; ma pel momento ci vuole prudenza; i lasciar correre).

Zacco                            - (Dite di sì... tutto quello che vogliono, adesso... non c'è lì il notaio per mettere in carta le vostre pro­messe... (Don Gesualdo, seduto su di una seggiola, asciu­gandosi il sudore colla manica della camicia, non dice più nulla, stralunato. Mendola va al balcone).

Mendola                        - Signori miei... avete ragione... si farà tutto quello che volete... abbiamo la bocca per mangiare tutti quanti... Viva!... Viva!... Tutti fratelli!... Una mano lava l'altra... domani... alla luce del sole... ora è tardi, e siamo tutti d'un colore... birbanti e galantuomini... Ehi! Ehi, dico!...

Il Canonico                   - (al balcone) Domani, tornate domani, ...adesso non c'è nessuno in casa... don Gesualdo è fuori, in campagna... Tornate domani...

Don Gesualdo               - Domani un corno! Mi pare che 1 vossignoria aggiustiate ogni cosa a spese mie, canonico!

Il Canonico                   - Volete star zitto! Volete farmi fare la figura di bugiardo?... Se ho detto che non ci siete, per salvarvi la pelle...

Don Gesualdo               - Perché? Che ho fatto? Io sono in casa mia!...

Il Canonico                   - (urlando) Avete fatto che siete ricco come un maiale! (Gli altri allora l'assaltano tutti in­sieme, colle buone e colle cattive).

Mendola                        - (intabarrandosi) Minacciano adesso di scassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa. Taceranno, per adesso. (Esce).

Il Canonico                   - Poi, se arrivano a pigliarsi le terre del Comune, voi ci mettete subito una bella ipoteca. I tempi torneranno a cambiare, e voi ci avrete messo sopra le unghie a tempo.

Don Gesualdo               - Non ne ho. Mio genero m'ha rovi­nato.

Mendola                        - (tornando, col cappello sugli occhi) Vo­gliono farvi gridare viva o morte insieme a loro?

Don Gesualdo               - No! So io quello che vogliono!

Mendola                        - Scusate, non si tratta soltanto di voi ades­so. E' che dietro di voi ci siamo tutto il paese!...

Il Canonico                   - M'avete messo in un bell'imbroglio, voi, don Gesualdo! (/ rumori e le grida vanno dimi­nuendo).

Mendola                        - Intanto voi levatevi di mezzo, causa causarum! Infondo a una cisterna, in un buco, dove diavolo volete; ma non è la maniera di compromettere tanti padri di famiglia!

Il Canonico                   - In casa Trao! Da vostro cognato. Nes­suno sa che c’è ancora lui al mondo, e non verranno a cercarvi sin lì.

Mendola                        - Benissimo. E' una bella pensata!

Don Gesualdo               - Cane e gatto chiusi insieme...

Il Canonico                   - Allora, io me ne lavo le mani come Pilato. (Escono. Don Gesualdo rivolge loro un'occhiata nera, ma non risponde. Le grida si sono allontanate. Egli si butta a giacere sul divano e rimane solo al buio coi suoi malanni, soffocando i lamenti, mandando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva salire alla gola. Ma preceduta dalla serva col lume e seguita dal marito e dai figli sopraggiunge Speranza, strepitando che vuole vedere suo fratello, quasi egli stesse per rendere l'anima a Dio).

Speranza                       - Lasciatemi entrare! E' sangue mio infine! Ora ch'è in questo stato mi rammento solo di esser sua sorella. (Don Gesualdo li accoglie sbuffando). Non vuol dire se siamo in lite. Al bisogno si vede il cuore della gente. Gli interessi sono una cosa, e l'amore è un'altra. Abbiamo litigato, litigheremo sino al giorno del giudizio, ma siamo figli dello stesso sangue! (Gli schiera dinanzi marito e figliuoli che girano intorno sguardi cupidi). Questo è il sangue vostro! Questi non vi tradiscono! (Lui, combattuto, stanco, avvilito, non ha neanche la forza di ribellarsi).

Don Gesualdo               - Non è niente... un po' di colica... Ho avuto dei dispiaceri. Domani mi alzerò. (Ma non ci crede più neppur lui, e non si alza mai. E' ridotto uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre è gonfio come un otre).

Speranza i                     - (velenosa) Ecco! Potreste andarvene all'altro mondo... solo e abbandonato, come uno che non ha né possiede!... Chi vi siete trovato accanto nel bi­sogno, ditelo? Vostra figlia non viene! Vi manda sol­tanto belle parole... Suo marito però va al sodo! (Don Gesualdo non risponde ma di nascosto, rivolto verso il muro, si mette a piangere cheto cheto. Sembra di­ventato un bambino. Non si riconosce più).

Don Gesualdo               - Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho tutti i miei interessi alla malora. Qui mi mangio il fegato. Lasciatemi andare, se no crepo! (Ci ha come una palla di piombo nello stomaco, che gli pesa, vuole uscir fuori, con un senso di pena continuo; di tratto in tratto, si contrae, s'arroventa, e martella, e gli balza alla gola, e lo fa urlare come un dannato, e gli fa mor­dere tutto ciò che capita. Egli rimane sfinito, anelante, col terrore vago di un altro accesso negli occhi stralu­nati. Entra il farmacista Bomma e, risoluto, va a bus­sare a don Gesualdo).

Bomma                         - Qui c'è roba.

Don Gesualdo               - (preoccupato) Che volete dire, vos­signoria?

Bomma                         - Don Gesualdo, siete un uomo... Non siete più un ragazzo, eh?

Don Gesualdo               - (con voce ferma, calmandosi a un tratto, col coraggio che ha sempre avuto al bisogno) Sissignore, parlate.

Bomma                         - Bene, qui ci vuole un consulto. Non avete mica una spina di fico d'India nel ventre! E' un affare serio, capite! Bisogna andare a Palermo a casa della duchessa vostra figlia e chiamare i migliori medici. I denari non vi mancano.

Don Gesualdo               - I denari!... Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ha guadagnato!... A che mi servono... se non posso comprare neanche la salute?... Il consulto? Che mi fa il consulto?

Bomma                         - (perde le staffe) Morto siete, don Minchionne! A voi dico!

Don Gesualdo               - (volge un'occhiata lenta e tenace in giro, si soffia il naso e si lascia andar giù supino. Di lì a un po', guardando il soffitto, aggiunge con un sospiro) Va bene. Andiamo a Palermo. Faremo il consulto.

DICIASSETTESIMO QUADRO

Casa del Duca di Leyra. Stanzone vasto, dappertutto cortinaggi e tappeti. Gran letto su pedana con quattro colonne, baldacchino e cortine. Guazzi ai muri. Campa­nello con cordone e fiocco accanto al letto.

 (Il domestico regge la tenda della porta e fa passare Isabella seguita dal duca in frach. Don Gesualdo è se­duto in una poltrona, dove gli hanno servito un ristoro).

Il Duca                          - Mia cara, abbiamo fatto bene a servire papà nelle sue stanze. Egli qui può osservare le sue abitudini... poi, con regime speciale che richiede il suo stato di salute...

Don Gesualdo               - (balbettando) Certo, certo! Stavo per dirvelo anch'io... non voglio essere d'incomodo...

Il Duca                          - No. Non dico per questo. Voi ci fate ogni modo piacere, caro mio. (Isabella accompagna con un sorriso timido e dolce). Avete migliore cera dacché siete arrivato a Palermo. Il cambiamento d'aria è una buona cura vi guariranno del tutto.

Don Gesualdo               - (approva con un sospiro che è quasi un gemito).

Il Duca                          - E poi non dovete pensare agli interessi. Queste cure sono lunghe e dovete provvedere ai vostri affari... Nel senso di farvi sostituire e non aver preoc­cupazioni. (Insinuante) Una procura generale... una specie d'alter ego.

Don Gesualdo               - (si sente morire il sorriso in bocca. Non risponde. Senso di gelo).

Il Duca                          - Vado nel salone a sentire il responso dei medici. (Esce).

Don Gesualdo               - Chiamatemi quell'uomo dell'altra volta... Portatemi le carte da firmare... E' giusto. Bi­sogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finché gua­risco... Se campo, ne guadagno ancora tanti dei denari... ma a che mi serve? a che giova tutto ciò? (Guardando Isabella così pallida) Cos'hai? Dimmelo... confidati a me che dei guai ne ho passati tanti e non posso tra­dirti... (Isabella ritira le corna come la lumaca. Don Ge­sualdo ricaccia indietro le parole buone e anche le la­grime. Torna il duca con viso di circostanza per la duchessa: don Gesualdo è spacciato. Tace).

Don Gesualdo i             - Parlate liberamente, tutto ciò che si deve fare si farà! Se un albero ha la cancrena ad­dosso, cos'è infine? Si taglia il ramo! (Isabella e il duca si guardano fra loro). Ah... (risponde don Gesualdo, fatto rauco a un tratto) Voglio sapere la verità... per regolare le mie cose... i miei interessi... è che ho tanto da fare laggiù al mio paese!... (Il duca ed Isabella tac­ciono pietosamente). Ho capito. (Col naso fra le co­perte) Devo far testamento... ho degli scrupoli di co­scienza... sissignore!... Sono il padrone, sì o no?... (Isa­bella va a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le coperte, singhiozzando e disperandosi).

Il Duca                          - (lo cheta dall'altra parte) Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c'è bisogno di far delle scene... ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!

Don Gesualdo               - Va bene! Va bene! Ho capito! (Il duca esce. Egli fa forza coi gomiti, e si rizza a sedere sul letto. Isabella gli prende la mano e riprende a singhiozzare. Don Gesualdo ansima perché ha il fiato corto, ed anche per l'emozione. Guarda intorno, sospettoso, e seguita ad accennare col capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volge verso l'uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alza la mano scarna, e trincia una croce in aria, per significare ch'è finita, e perdona a tutti, prima d'andarsene). Senti... ho da parlarti... intanto che siamo soli... (Ella gli si butta addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l'accarezzano. L'accarezza anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una pa­rola. Di R a un po' riprende) Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?... (La voce gli è intenerita anch'essa, gli occhi, tristi, si sono fatti più dolci, e qualcosa gli trema sulle labbra. L'attira a se lentamente, quasi esi­tando, guardandola fissa per vedere se vuole lei pure, e l'abbraccia stretta stretta, passando la guancia ispida su quei bei capelli fini. Si passa la mano sulla fronte per ricacciare i pensieri e cambia discorso) Parliamo dei nostri affari.

Isabella                          - (smania, si caccia le mani nei capelli) No, è malaugurio.

Don Gesualdo               - Ma no, parliamone! Sono discorsi serii, non ho tempo da perdere adesso. (Il viso gli si va oscurando, il rancore antico gli corrusca negli occhi. Lei si rassegna ad ascoltare, seduta a capo chino ac­canto al letto). Una cosa sola ho da dirti, di cominciare a proteggere la tua roba, di difenderla... piuttosto fatti tagliare la mano, vedi... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte! L'Alia, la Canziria... (Gli trema la voce, si commuove) Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... quaranta salme di terreni, tutti alberati, ti rammenti... I belli aranci?... Anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... Trecento migliaia l'anno, ne davano! circa trecento onze! (Per la tenerezza si mette a piangere come un bambino). Basta. Ho da dirti un'altra cosa... senti... (La guarda fissa negli occhi pieni di lagrime per vedere l'effetto che farà la sua volontà) ...Ho degli scrupoli di coscienza... vorrei lasciare qual­che legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non ;sarà molto per te che sei ricca... farai conto che sia una regalia che tuo padre ti domanda... In punto di morte... Se ho fatto qualcosa anch'io per te...

Isabella                          - Ah, babbo, babbo!... Che parole. (Sin­ghiozza). ,

Don Gesualdo               - Lo farai, eh? Lo farai?... Anche se tuo marito non volesse... (Le prende le tempie fra le mani e le solleva il viso per leggerle negli occhi se l'avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli preme proprio, e che ci ha quel segreto in cuore. E mentre la guarda, a quel modo, gli par di scorgere anche lui quell'altro segreto, quell'altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E vuole farle altre domande, in quel punto, ma ella china il capo, colla ruga osti­nata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiuden­dosi in se, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora si sente di tornare Motta, com'essa è Trao, dif­fidente, ostile, di un'altra pasta. Allenta le braccia, e non aggiunge altro). Ora fammi chiamare un prete. Vo­glio fare i miei conti con Domeneddio. (Termina con un altro tono di voce. Isabella esce lentamente. Don Gesualdo la segue con gli occhi, Com'è sparita stramazza mormorando rauco) Isabella! Isabella! (Il respiro s'è fatto rantolo. Entra un domestico col lume in mano e si accosta al letto per guardar bene).

Il Domestico                 - Che, che! che facciamo adesso?... (A poco a poco Don Gesualdo va calmandosi, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s'irrigidisce e si cheta del tutto. E' quasi giorno. Albeggia. Nel cortile s'odono gli zoc­coli dei cavalli che passano).

Lo Staffiere                  - (dal cortile, al domestico che s'è affac­ciato alla finestra) Come sta il vecchio?

Il Domestico                 - (facendo segno che se n'è andato) Grazie a Dio! (Entra la guardarobiera).

La Guardarobiera          - (intuendo dall'atteggiamento del do­mestico la fine di don Gesualdo) Poveretto! Ha cessato di penare.

FINE