Medea

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MEDEA

MEDEA

di Euripide

NUTRICE: Come vorrei che la nave di nome Argo non avesse oltrepassato mai le ombrose Simplegadi, volando verso la Colchide; e che l’albero di pino non fosse mai caduto, reciso dalla scure nelle valli del Pelio, per fornire i remi a quegli eroi che, per il re Pelia, andarono a cercare il Vello d’oro. Medea, la mia padrona, non avrebbe preso il mare verso Iolco e le sue torri, con il cuore sconvolto dall’amore per Giasone; non avrebbe persuaso le figlie di Pelia ad uccidere il padre, non sarebbe venuta ad abitare in questo paese di Corinto, con il marito e i figli. Esule, e tuttavia gradita ai cittadini, viveva in perfetto accordo con Giasone: ed è una gran fortuna quando la donna è in armonia con l’uomo. Ora invece tutto le è contro, è ferita nell’affetto più grande: Giasone ha tradito la mia padrona e i figli e si è unito a una principessa: ha sposato la figlia di Creonte, che regna su questa terra. E Medea, infelice, offesa, invoca i giuramenti, le solenni promesse e chiama a testimoni gli dei di ciò che ha ricevuto in cambio da Giasone. Non mangia, si consuma nel dolore, passa tutto il suo tempo a piangere da quando ha conosciuto l’oltraggio subìto dallo sposo. Non alza gli occhi, non solleva il volto da terra. Come scoglio, come onda del mare, è sorda ai consigli degli amici. A volte, piegando il collo candido, tra sé e sé piange suo padre, la sua terra e la casa, tutto ciò che ha tradito per seguire un uomo che oggi la disonora. Sotto il peso della sua sventura ha ben compreso, l’infelice, cosa vuol dire perdere la patria. Odia anche i figli, non prova gioia a vederli. Ho paura che mediti qualcosa di tremendo. Il suo cuore è violento, non sopporterà di essere offesa; io la conosco e ho paura che silenziosamente entri nella casa, raggiunga il talamo e immerga la spada acuta nel suo petto oppure uccida gli sposi, attirando su di sé sciagure ancor più grandi. E’ una donna terribile: chi si scontra con lei non canterà vittoria così facilmente.

Ma ecco i figli, hanno finito di giocare. Del dolore della madre non si curano: i giovani non conoscono il dolore.

PEDAGOGO: Schiava della mia padrona, vecchia fedele, perché te ne stai sulla porta di casa a lamentarti? E Medea, come mai permette che tu la lasci?

NUTRICE: Vecchio custode dei figli di Giasone, le sventure dei padroni toccano il cuore dei servitori onesti. Il mio dolore si è fatto così grande da spingermi a venire qui e a gridare alla terra e al cielo la disgrazia della mia padrona.

PEDAGOGO: Non ha finito ancora di piangere?

NUTRICE: Ma che dici? Il suo dolore è solo all’inizio!

PEDAGOGO: Povera donna, se mi è concesso dirlo!, delle nuove sciagure non sa nulla.

NUTRICE: Che dici, vecchio? Parla!

PEDAGOGO: No, mi pento anche di quel che ho detto.

NUTRICE: Ti supplico, non nascondere nulla a una compagna di schiavitù; se è necessario tacere, io manterrò il silenzio.

PEDAGOGO: Mi trovavo nel luogo dove si gioca ai dadi, là, presso la fonte sacra di Pirene, dove siedono di solito gli anziani; fingendo di non prestare ascolto, ho udito un tale dire che Creonte, il re di questa terra, vuole scacciare da Corinto la madre e i figli. Non so se sia vero: vorrei che non lo fosse.

NUTRICE: E Giasone lascerà che i suoi figli subiscano questa sorte, anche se è in disaccordo con la madre?

PEDAGOGO: Nuovi legami si sostituiscono ai vecchi, e lui non ha più amore per questa casa.

NUTRICE: Ma se una nuova disgrazia si aggiunge a quelle antiche prima che siano superate, è davvero la fine.

PEDAGOGO: Tu però calmati e taci: non è il momento che la padrona sappia queste cose.

NUTRICE: Sentite, figli, come vi tratta vostro padre? Non vorrei augurargli la morte, è il mio padrone: ma come è crudele con le persone care!

PEDAGOGO: Chi non lo è? Ora ti accorgi che ognuno ama se stesso più del prossimo, chi giustamente, chi per interesse, ora che il padre, a causa di una donna, non ama più i suoi figli?

NUTRICE: Rientrate in casa, bambini, sarà meglio. E tu tienli lontani il più possibile, che non vadano vicino alla madre esasperata. Ho già visto il suo sguardo posarsi su di loro, torvo, come se si preparasse a qualcosa; la sua collera non sbollirà se non si scaglia contro qualcuno: spero almeno che si scateni contro i nemici e non contro gli amici.

MEDEA: (dall’interno) Sciagurata che sono, infelice, quanto soffro! Ahimè, vorrei morire!

NUTRICE: Ecco, figli cari, è vostra madre con l’animo sconvolto dal furore. Presto, entrate in casa, state lontano dai suoi occhi, non vi avvicinate a lei, badate, ha il carattere fiero e la natura tremenda degli orgogliosi. Andate, entrate in casa, presto. I suoi lamenti, che ora si levano appena, come una nuvola, tra poco esploderanno con la violenza di un uragano. Che farà mai un’anima così superba e implacabile, stretta nella morsa del dolore?

MEDEA: Ahimè infelice, io soffro, soffro pene strazianti. Maledetti figli di una madre odiosa, possiate morire insieme a vostro padre e che questa casa precipiti in rovina.

NUTRICE: Povera me! Che cosa centrano i figli con la colpa del padre? Perché li odi? Io temo, figli, che vi accada qualcosa. Tremenda è la volontà dei re: obbediscono poco, comandano molto, difficilmente mutano d’animo. Vivere alla pari con gli altri è meglio; io vorrei invecchiare con tranquillità, senza grandezze. Misura è un nome che vince solo a pronunciarlo; misura è la scelta migliore per gli uomini. L’eccesso non reca alcun vantaggio, provoca sciagure più grandi ancora quando un demone infuria contro una casa.

CORO: Ho udito la voce, ho udito il grido

dell’infelice donna della Colchide;

non ha dunque pace? Parla, vecchia nutrice.

Ho sentito dei gemiti provenire dalla casa.

Il dolore di una famiglia, che mi è cara,

non mi rallegra certo, donna.

NUTRICE: Questa famiglia non esiste più, è finita. Lui si è legato alla figlia del re, lei, dentro le stanze, consuma la sua vita e non ha nessuno accanto a sé, nessuno che la conforti con parole amiche.

MEDEA: Perché, perché non mi colpisce il fulmine celeste? Quale senso ha per me vivere ancora? Vorrei lasciare questa vita odiosa, vorrei dissolvermi nella morte.

CORO: O Zeus o Terra o Luce

Sentite risuonare il grido

della sposa infelice?

Che cos’è questo desiderio

folle di un abbraccio mortale?

Non invocare la morte,

perché vuoi affrettarla?

Se il tuo sposo onora un’altra donna

non adirarti per questo;

non consumarti in lacrime

per lui: Zeus saprà vendicarti.

MEDEA: O grande Temi e tu, divina Artemide, vedete quel che soffro. Avevo legato a me con giuramenti solenni quest’uomo maledetto: vorrei vederlo annientato, lui, sua moglie, con la casa intera, loro che per primi osarono recarmi offesa. O padre mio, mia patria, che ho lasciato dopo aver ucciso mio fratello in modo indegno.

NUTRICE: Sentite quel che dice e come grida invocando Temi, la dea delle promesse, e Zeus, il dio che garantisce i giuramenti degli uomini? Placare la sua collera non sarà facile.

CORO: Perché non viene qui, davanti a noi,

e non ascolta le nostre parole?

Mitigherebbe forse quest’ira cupa,

questi folli propositi.

Non farò mancare il mio affetto

alle persone che amo.

Va’ dunque, falla venire qui,

fuori dalla casa, dille che le vogliamo bene.

Ma affrettati prima che faccia del male

a qualcuno, là dentro; con violenza

cresce il suo dolore.

NUTRICE: Lo farò; anche se temo di non persuadere la mia padrona, mi sforzerò tuttavia, per amor tuo. Se qualcuno dei servi si avvicina a lei per dirle una parola, con sguardo feroce essa lo fulmina, come una leonessa che ha appena partorito.

Non ha torto chi dice che gli uomini di un tempo furono degli stolti: per le feste, i banchetti ed i conviti inventarono gli inni che rallegrano la vita; ma non c’è musica né canto di molte voci che plachi i dolori crudeli degli uomini, causa di morte e di sventure tremende che annientano le case. Eppure sarebbe utile ai mortali curare le sciagure con i canti; le tavole imbandite non hanno bisogno di canzoni: il ricco banchetto basta a rendere lieti i convitati.

CORO: Ho udito risuonare gemiti e lamenti;

è lei che grida il suo dolore acuto

contro lo sposo crudele, traditore.

Ha subito ingiustizia e invoca

Temi, figlia di Zeus,

Temi che veglia sui giuramenti

Temi che l’ha spinta sulle rive dell’Ellade,

di notte, attraverso le onde salmastre,

fino allo stretto dove si apre il mare.

MEDEA: Donne di Corinto, ecco, sono uscita di casa perché non abbiate da ridire. So che vi sono molti uomini superbi, in pubblico e in privato; e altri che, per i loro modi riservati, si sono procurati la cattiva fama di persone insensibili. Ma non c’è giustizia negli occhi di coloro che, solo a vederlo, odiano un uomo prima di conoscere il suo cuore e senza averne ricevuto offesa. Certo è necessario che uno straniero si adatti alla città che lo accoglie; ma non apprezzo neppure il cittadino arrogante che per la sua ignoranza si rende odioso agli altri.

La sciagura che mi ha colpito all’improvviso mi ha spezzato il cuore; è finita, ho perduto la gioia di vivere, voglio solo morire. Lui, che era tutto per me, si è rivelato il peggiore degli uomini.

Di tutte le creature che hanno anima e cervello, noi donne siamo le più infelici; per prima cosa dobbiamo, a peso d’oro, comprarci un marito, che diventa padrone del nostro corpo – e questo è il male peggiore. Ma c’è un rischio più grande: sarà buono o cattivo? Separarsi è un disonore per le donne, e rifiutare lo sposo è impossibile. Se poi vieni a trovarti tra nuove usanze e abitudini diverse da quelle di casa tua, dovresti essere un’indovina per sapere come comportati con il tuo compagno. Se ci riesci e le cose vanno bene e il marito sopporta la convivenza di buon grado, la vita è bella; se no, meglio morire. Quando si stanca di stare a casa, l’uomo può andarsene fuori e vincere la noia in compagnia di coetanei o di amici: noi donne invece dobbiamo restare sempre con la stessa persona. Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra: che follia! E’ cento volte meglio imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola.

Ma questo vale per te e non per me; tu vivi nella tua città, nella casa paterna, hai una vita serena, l'affetto dei tuoi cari; io sono sola, senza patria, e l'uomo che da terra straniera mi ha rapito come una preda, ora mi oltraggia; non ho una madre, un fratello, dei parenti da cui trovar rifugio in questa mia sciagura. Da te vorrei una cosa sola: se mai trovassi un modo, un mezzo per far pagare a quell’uomo il male che mi ha fatto, a lui, alla fanciulla che ha sposato e all’uomo che gliel’ha data in sposa, tu non parlare, taci! Di solito una donna è piena di paura, non sa usate la forza, trema al vedere un’arma; ma quando è offesa nei suoi diritti di moglie, non vi è cuore che sia più sanguinario del suo.

CORO: Tacerò, Medea. E’ giusto che tu voglia vendicarti del tuo sposo, e non mi meraviglio se piangi sulle tue sventure.

Ma ecco Creonte, il re di questa terra, che viene ad annunciare le sue nuove decisioni.

CREONTE:  Tu, che inveisci contro tuo marito, piena di furore e con lo sguardo torvo, Medea, parlo con te: ti ordino di andartene in esilio, via da questa terra, con i tuoi figli, subito! arbitro di quest’ordine sono io, e non mi muoverò, non tornerò a palazzo, prima di averti gettata fuori dal paese.

MEDEA: Disgraziata che sono, ahimè, è finita. A vele spiegate i miei nemici avanzano su di me ed io non ho un luogo sicuro dove approdare in questa mia sventura. Mi sento morire. E tuttavia voglio domandarti: Creonte, perché mi scacci da questa terra?

CREONTE: Ho paura di te – non userò pretesti – ho paura che tu faccia a mia figlia un male irreparabile. Ho molte ragioni per temerti: sei abile, esperta in malefici, e soffri perché sei rimasta priva del tuo uomo. Dicono che minacci di fare del male a me che ho dato in sposa mia figlia, a mia figlia stessa e al suo sposo. Non voglio che questo accada. E’ meglio che mi faccia odiare da te ora, piuttosto che rimpiangere poi di essere stato buono.

MEDEA:  Non è la prima volta , ahimè, che la mia fama mi reca danno e mi procura grandi sciagure. Un uomo saggio non dovrebbe mai istruire i suoi figli oltre misura: si guadagnano fama di perditempo oltre all’invidia e all’odio dei concittadini. Se proponi qualche cosa di nuovo agli ignoranti diranno che sei un uomo inutile, non che sei una persona saggia; e se ritengono che tu sia superiore a coloro che sembrano avere molte conoscenze, sarai detestato nella tua città. Ecco, questa è la mia sorte. Per il mio sapere, c’è chi mi invidia e chi invece mi odia, chi mi ritiene innocua, e chi pericolosa; eppure non sono poi così sapiente! Tu hai paura di me; hai paura di subire un’offesa: non temere, Creonte, non sono in grado di nuocere ad un re. E poi, tu quale torto mi hai fatto? Hai dato tua figlia all’uomo che ti piaceva: io lo detesto ma tu, credo, hai agito con saggezza. Non provo invidia per la tua fortuna: godetevi le nozze e siate felici, ma lasciate che io rimanga in questa terra. Sopporterò l’offesa in silenzio: mi hanno vinto i più forti.

CREONTE: Le tue parole suonano miti, ma io temo che tu mediti qualcosa di male. Mi fido ancora meno di prima. E’ più facile guardarsi da una donna irascibile che da una persona accorta, che sa tacere. Vattene al più presto e non aggiungere parola; ho deciso così e non esiste artificio che ti faccia rimanere presso di noi, tu che ci sei nemica.

MEDEA: Per le tue ginocchia, per la giovane sposa, ti supplico!

CREONTE: Perdi il tuo tempo, non potrai convincermi.

MEDEA: Non ascolti le mie preghiere, mi scacci?

CREONTE: Più di te, io amo la mia casa.

MEDEA: Patria mia, come ti rimpiango!

CREONTE: E’ quanto ho di più caro, dopo i figli.

MEDEA: Che sciagura, per gli uomini, l’amore!

CREONTE: Dipende, credo, dai casi della vita.

MEDEA:  Che non ti sfugga, Zeus, il colpevole di tutto questo.

CREONTE: Vattene, sciagurata, liberami da questa pena.

MEDEA: La pena è mia, di altre non ho bisogno.

CREONTE: Tra poco le mie guardie ti cacceranno a forza.

MEDEA: No, non farlo, Creonte, io ti chiedo…

CREONTE: Vuoi darmi altre  noie, a quanto pare.

MEDEA: Me ne andrò, non è questo che domando.

CREONTE : Perché insisti, allora, perché ti aggrappi alle mie mani?

MEDEA: Per un giorno solo, per questo giorno lascia che rimanga: voglio pensare a dove rifugiarmi, a come mantenere i miei figli, poiché dei figli il padre non si cura. Abbi pietà di loro, sei padre anche tu. Non puoi non essere clemente. Di me e dell’esilio non mi importa, è per loro che piango, per la loro sorte.

CREONTE: Non ho davvero il cuore di tiranno e spesso la mia pietà mi ha rovinato; anche ora so di sbagliare, donna, e tuttavia avrai quello che chiedi: ma ti avverto, se all’alba di domani tu e i tuoi figli sarete ancora entro i confini di questa terra, morirai: ti giuro che non mento. Ora però, se vuoi, rimani, per un giorno solo: non avrai il tempo di commettere le azioni terribili che temo.

CORO: Infelice, sventurata donna!

Dove andrai, adesso? Chi ti ospiterà?

In quale casa, in quale terra troverai riparo

dalle tue sventure?

O Medea, in quale tempesta di mali

senza scampo ti hanno gettato gli dei!

MEDEA:  Si, la mia sorte è disperata, chi potrebbe negarlo? Ma non finirà così, credetemi. Gli sposi novelli avranno da lottare e non poco attende il suocero. Pensi davvero che lo avrei blandito se non per tramare a mio vantaggio?  Non gli avrei rivolto nemmeno la parola, non lo avrei toccato con le mani. E’ stato tanto sciocco da concedermi di rimanere un altro giorno, eppure poteva scacciarmi dal paese e stroncare così i miei piani; ebbene, in questo giorno io farò morire tre dei miei nemici, padre, figlia e marito. Posso farli morire in molti modi e non so quale scegliere: potrei dare fuoco alla casa oppure penetrare furtiva nella stanza nuziale e affondare una spada affilata nel cuore degli sposi. Ma c’è un ostacolo: se mi sorprendono mentre varco la soglia con intenzioni ambigue, mi uccideranno: che gioia per i miei nemici! E’ meglio scegliere un’altra via, quella in cui sono più esperta: sì, li ucciderò con il veleno.

Ecco, sono morti. E dopo? Dove andrò? In quale città? Chi mi ospiterà, chi mi offrirà rifugio e una casa sicura e protezione per la mia persona? Nessuno. Se, nel breve tempo dell’attesa, troverò una via di salvezza, allora li ucciderò di nascosto, con l’inganno. Ma se, per disgrazia, sarò costretta ad andarmene, impugnerò la spada e, a costo di morire, li ucciderò entrambi, con la forza dell’audacia. In nome della dea che venero più di ogni altra e che ho scelto come mia alleata, per Ecate, che siede al mio focolare, io giuro che nessuno di loro riderà per avermi fatto soffrire. Saranno amare le loro nozze, amara la nuova parentela e l’esilio mio da questa terra. Coraggio, Medea! Non risparmiare nessuna delle arti, nessuno degli espedienti che conosci; affronta questo atto spaventoso, è il momento di mostrare il tuo coraggio. Guarda che cosa ti hanno fatto! Non devono ridere di te questi discendenti di Sisifo alle nozze di Giasone: tuo padre è un uomo nobile, tu discendi dal Sole; sai molte cose, e poi, sei una donna, e noi donne per natura siamo incapaci di belle azioni ma nelle arti del male siamo molto esperte.

CORO: Le acque dei sacri fiumi

risalgono alle sorgenti,

stravolta è la giustizia,

sconvolto ogni valore.

Gli uomini meditano inganni,

vacilla la fede negli dei;

ma la fama muterà la mia vita: io avrò gloria

e tutto il sesso femminile sarà onorato;

nessuna voce infamante

colpirà più le donne.

Le muse dei poeti finiranno

di cantare la nostra infedeltà.

A noi non ha concesso Apollo,

signore delle melodie,

il suono divino della lira:

avremmo fatto risuonare un inno

contro la razza dei maschi.

Sulla sorte delle donne e degli uomini

il tempo, nel suo lungo cammino,

molte cose potrebbe raccontare.

Folle d’amore hai lasciato la casa

del padre e hai navigato sul mare, oltrepassando

le rocce gemelle; vivi

in terra straniera, hai perduto

il tuo sposo – il letto è vuoto -,

e tu, infelice, sei cacciata in esilio

in modo indegno.

Non c’è più rispetto per i giuramenti

e il Pudore, nell’Ellade gloriosa,

non esiste più, è volato via.

Non hai più, sventurata Medea,

la casa di tuo padre,

dove trovare scampo dalle pene;

un’altra regina è padrona del tuo letto

e governa la tua casa.

GIASONE: Un' indole selvaggia è un male senza rimedio, l’ho constatato spesso, questa non è la prima volta. Se ti fossi piegata al volere dei più forti potevi rimanere qui, in questa casa, e invece, per i tuoi discorsi folli, ti fai scacciare dal paese. Continua pure a dire che Giasone è il più infame degli uomini: non mi importa; ma per quello che hai detto contro il re e sua figlia, è una fortuna che ti sia toccato solo l’esilio. Sempre ho cercato di placare l’ira dei sovrani furenti, non volevo che te ne andassi, ma tu, ostinata nella tua follia, non smetti di parlare male di loro: perciò sarai cacciata.

E tuttavia io non rinnego la mia famiglia ed ecco, sono qui per provvedere a te, donna, perché non debba andartene con i figli senza denaro, senza mezzi; dura è la strada dell’esilio, e anche se tu mi odi io non potrei mai volerti male.

MEDEA: Infame! Non trovo parola peggiore per definire la tua viltà. Osi presentarti a me, a me, essere odioso, il più odioso a me, agli dei e a tutto il genere umano. Non è segno di coraggio né di audacia guardarmi in faccia dopo tutto il male che mi hai fatto: è impudenza soltanto, il peggiore dei vizi umani. Ma hai fatto bene a venire: mi sentirò più leggera dopo averti detto quello che penso di te, mentre per te sarà un tormento ascoltarmi.

Incomincerò dal principio.  Io ti salvai – lo sanno tutti i Greci che insieme a te salirono sulla nave Argo – quando fosti mandato ad aggiogare i tori che soffiavano fuoco e a seminare il campo della morte. E il serpente che sorvegliava insonne il Vello d’oro e nel groviglio delle sue spire lo teneva avvinto, fui io ad ucciderlo, e ti salvai per la seconda volta. Per te tradii mio padre, la mia famiglia, e con te venni a Iolco, seguendo il cuore più che la ragione: ho ucciso Pelia nel modo più crudele, per mano delle sue figlie: ho annientato la sua casa. E dopo tutto quel che ho fatto per te, tu mi hai tradito, infame, con una nuova donna. E avevi dei figli. Se non fossero nati avrei potuto perdonare questa nuova unione. Non c’è più fede nei giuramenti; forse gli dei di un tempo non esistono più per te o pensi che tra gli uomini regnino oggi nuove leggi? Io non lo so, ma  tu sai bene di avermi giurato il falso. Quante volte hai stretto la mia mano, quante volte hai toccato le mie ginocchia, infame,era tutto vano, le mie speranze sono state tradite.

Ora voglio rivolgermi a te come a un amico (non mi aspetto di ottenere niente di buono ma le mie domande ti faranno apparire ancora più spregevole): dimmi, dove vado, adesso? Nella mia patria, forse, da mio padre, che ho tradito per te? Dalle sventurate figlie di Pelia? Sarebbero felici di accogliere colei che le spinse a uccidere il padre! Ecco come stanno le cose: sono nemica alla mia famiglia e, per causa tua, ho nemici coloro a cui non era necessario che facessi del male. In cambio di tutto questo, per molte donne greche sono una moglie felice: e davvero ho un marito meraviglioso e fedele, se devo andarmene in esilio, via da questa terra, priva di amici, sola con i miei figli soli; che vergogna per il novello sposo: i suoi figli vanno a mendicare per il mondo ed io con loro, io che ti ho salvato. O Zeus, perché mai ci hai concesso di capire con certezza se l’oro è falso e tra gli uomini invece non esiste un marchio che segni il corpo del malvagio?

CORO: Tremenda è l’ira e irrimediabile, quando tra congiunti scoppia una contesa.

GIASONE: Devo esibire la mia eloquenza, a quanto pare, e, come un bravo timoniere, ammainare alte le vele per sfuggire alla tempesta della tua lingua.

Esageri i tuoi meriti: io credo che per la mia impresa devo la salvezza ad Afrodite, ad Afrodite sola, fra gli dei e fra gli uomini. Sei una donna intelligente, ma non vuoi ammettere che Eros, con le sue frecce infallibili, ti costrinse a salvarmi. Ma non voglio insistere su questo: il tuo aiuto, comunque, non è stato vano. Dalla mia salvezza però hai ricevuto più di quanto hai dato; ascolta: prima di tutto, non vivi più in una terra di barbari ma in Grecia; conosci la giustizia, non usi più la forza ma le leggi; per la tua sapienza sei nota a tutti gli Elleni: se abitassi ancora laggiù, ai confini del mondo, nessuno parlerebbe di te. Io, per me, non vorrei una casa piena d’oro né una voce più dolce di quella di Orfeo, se fossi destinato ad una sorte oscura. Per quanto riguarda le mie imprese, questo è tutto: e sei stata tu a provocarmi a parlare.

Ed ora, le mie nozze con la figlia del re: ti dimostrerò che sono stato abile, e saggio, e infine anche amico, molto amico per te e per i miei figli. Calma! Quando giunsi qui da Iolco, trascinandomi dietro sciagure irrimediabili, quale fortuna migliore per me, esule, se non sposare la figlia del re? Non perché ti odiassi – è questo il tuo tormento – non per desiderio di una moglie nuova o per smania di avere molti figli: mi bastano quelli che ho, non mi lamento. Volevo la cosa più importante: vivere bene, con larghezza - la povertà non ha amici -, e poter allevare i figli in modo degno del mio rango, dar loro dei fratelli, fare di tutti una famiglia sola e poi, così riuniti, vivere felici. Tu, che bisogno hai di altri figli? Io posso aiutare quelli che ho con quelli che verranno. Ho ragionato male? Non lo diresti certo, se la gelosia non ti mordesse. Siete fatte così, voi donne: tutto funziona se funziona il letto, ma se qualcosa va male, ciò che era bello e buono diventa detestabile. Sarebbe meglio che gli uomini generassero i figli in altro modo, che le donne non esistessero: così non ci sarebbe più guai.

CORO: Hai fatto un bel discorso, Giasone; e tuttavia io penso – e ti deluderò di certo – che hai fatto male a tradire la tua sposa.

MEDEA: Certo, in molte cose io sono diversa dagli altri. Per me, se uno ha la lingua pronta ma non è un uomo giusto, merita la più dura delle pene, perché crede di nascondere i misfatti con le parole ed è capace di qualunque cosa. Ma non sempre riesce. Come te, ad esempio: non venirmi di fronte con la tua aria onesta e la tua lingua sciolta. Mi basterà dirti una cosa: se non eri un vile, dovevi celebrare queste nozze col mio consenso, e non a mia insaputa.

GIASONE: Mi avresti dato proprio un bel consenso se fossi venuto a parlare delle nozze a te, a te che neppure adesso sei capace di placare la furia del tuo cuore!

MEDEA: Non per questo hai taciuto: il matrimonio con una donna barbara non avrebbe dato lustro alla tua vecchiaia.

GIASONE: Cerca di capire: non è per amore di una donna che ho sposato la figlia del re, ma per salvare te – te l’ho già detto – per dare ai miei figli dei fratelli di sangue regale che fossero il sostegno della nostra casa.

MEDEA: Non voglio una felicità così amara e una ricchezza che mi strazi il cuore!

GIASONE: Cambia l’augurio e mostrati più saggia: non chiamare dolore la prosperità e non ritenerti sfortunata, nella tua fortuna.

MEDEA: Insulta pure: tu sei al sicuro; io invece dovrò andarmene in esilio, sola.

GIASONE: Nessuno è colpevole: sei tu che l’hai voluto.

MEDEA: Che cosa ho fatto? Sono io che ho preso moglie, sono io che ti ho tradito?

GIASONE: Hai scagliato maledizioni empie sul re.

MEDEA: Anche per te io sono una maledizione.

GIASONE: Non voglio più discutere. Se per i figli, per te, vuoi del denaro che vi sia di aiuto nell'esilio, parla: sono pronto a donare con mano generosa, ti darò anche dei segni di riconoscimento per i miei antichi ospiti, che ti tratteranno bene. Se rifiuti, sei pazza: sarà meglio per te se plachi il tuo furore.

MEDEA: Dei tuoi ospiti non ho bisogno, non voglio nulla, non devi darmi nulla. I doni di un vile non portano fortuna.

GIASONE: Gli dei mi siano testimoni: voglio essere d'aiuto a te e ai figli, ma tu rifiuti il bene e con arroganza respingi chi ti è amico; così, soffrirai di più.

MEDEA: Vattene: ti prenderà la voglia della novella sposa se resti troppo tempo via da casa. E dunque godi! Ma, se un dio mi ascolta, sono nozze, le tue, di cui dovrai pentirti.

CORO: L’amore, quando è troppo violento,

non procura agli uomini

né fama né virtù.

Ma se Afrodite giunge con moderazione

è una grazia divina senza pari.

O dea, non colpirmi mai

con la freccia del desiderio,

la freccia del tuo arco d’oro

che non lascia scampo.

Mi protegga il pudore

Che è il dono più bello degli dei.

O dea tremenda, non sconvolgere il mio cuore

con la brama di letti altrui,

non suscitare liti furiose,

discordie senza fine:

abbi rispetto per le unioni pacifiche

e vigila con saggezza sui letti delle spose.

O patria mia, mia casa!

Che io non debba lascIarti mai

per condurre una vita miserabile

nel pianto, nel dolore.

Morire vorrei, vorrei morire

prima di vedere questo giorno.

Non c’è pena più grande

che essere privati dalla patria.

Quello che dico

l'ho visto coi miei occhi,

non l’ho udito

raccontare da altri;

nessuno, in città, fra gli amici,

ha pietà di te che patisci

le pene più crudeli.

Muoia senza amore colui

che dopo aver conquistato

l’animo puro degli amici,

non ha rispetto di loro e li tradisce.

Non potrà mai essermi caro.

EGEO: Salute a te, Medea; credo che questo, per gli amici, sia il saluto più bello.

MEDEA: E a te salute, Egeo, figlio del saggio Pandione. Come mai sei qui, da dove vieni?

EGEO: Vengo dall’antico oracolo di Apollo.

MEDEA: E per quale responso sei andato fino all'ombelico del mondo?

EGEO: Per sapere in che modo posso avere dei figli.

MEDEA: Non ne hai avuti, in tutti questi anni?

EGEO: Non ne ho avuti: così ha voluto il dio.

MEDEA: Hai moglie o non ti sei sposato?

EGEO: Sono legato al vincolo del matrimonio.

MEDEA: E che cosa ti ha risposto, Apollo?

EGEO: Parole troppo ardue per la mente umana.

MEDEA: Posso conoscere l’oracolo del dio?

EGEO: Certo: una mente sottile è quello che ci vuole.

MEDEA:  Che cosa ha detto dunque? Se è lecito di saperlo.

EGEO: “Non liberare il piede che dall’otre sporge…”

MEDEA: Prima di fare cosa, di arrivare dove?

EGEO: “…prima di aver fatto ritorno al focolare paterno”.

MEDEA: E perché sei sbarcato in questa terra?

EGEO: C’è un tale Pitteo che regna su Trezene…

MEDEA: Sì, è il figlio di Pelope, un uomo molto pio.

EGEO: A lui voglio riferire l’oracolo di Apollo.

MEDEA: E’ un uomo sapiente, infatti, ed esperto in queste cose.

EGEO: Ed è anche il più caro fra tutti i miei amici.

MEDEA: Buona fortuna, allora, e possa tu ottenere ciò che desideri.

EGEO: Ma tu, perché hai quegli occhi tristi e il viso così afflitto?

MEDEA: O Egeo, ho un marito che è l’uomo peggiore della terra.

EGEO: Che dici? Spiegati meglio.

MEDEA: Giasone mi reca offesa, senza che io gli abbia fatto alcun male.

EGEO: Che cosa ha fatto? Parla più chiaramente.

MEDEA: Ha un’altra donna che oggi è padrona in casa mia.

EGEO: Ha osato davvero un’azione così infame?

MEDEA: Prima mi amava e adesso mi disprezza.

EGEO: Ti ha preso in odio, o si è innamorato di un’altra?

MEDEA: Ha un grande amore: e ha tradito la sua famiglia.

EGEO:  Vada in malora, se è vile come dici.

MEDEA: Vuole imparentarsi con la famiglia del re: questo è il suo amore.

EGEO: E chi gliela concede? Parla, dunque!

MEDEA: Creonte, il re di questa terra Corinzia.

EGEO: Comprendo e compatisco il tuo dolore, Medea!

MEDEA: Sono perduta: e per di più mi cacciano da questa terra.

EGEO: Una sciagura dopo l’altra! E chi ti scaccia?

MEDEA: E’ Creonte che mi esilia da Corinto.

EGEO: E Giasone acconsente? Non è una bella azione!

MEDEA: A parole no, ma è disposto a tollerare. Ed ora mi rivolgo a te, e, per il tuo volto, per le tue ginocchia, ti prego, ti supplico: abbi pietà di me e della mia sventura, non lasciarmi andare, sola, in esilio, accoglimi nella tua terra, in casa tua. E che gli dei ti concedano i figli che desideri, possa tu stesso vivere felice! Non sai quale fortuna hai trovato in me, la tua sterilità avrà fine, ti nasceranno dei figli: io conosco farmaci potenti.

EGEO: Quello che chiedi io te lo concedo, Medea, e per molte ragioni: gli dei, innanzi tutto, e poi i figli che mi prometti e che sono ormai il mio unico pensiero. Ma a questi patti: quando sarai giunta nella mia terra, io ti ospiterò, come è giusto. Ma prima devo dirti questo: da Corinto non sarò io a portarti via. Se arriverai alla mia casa, ti darò asilo e non ti consegnerò a nessuno. Ma da Corinto devi andartene da sola: verso i miei ospiti non voglio essere in colpa.

MEDEA: E così sia. Ma sarei più contenta se tu me lo giurassi…

EGEO: Non hai fiducia in me? Temi qualcosa?

MEDEA: Ho fiducia. Ma la casa di Pelia mi è nemica e mi è nemico Creonte. Se ti leghi a un giuramento, non permetterai che mi portino via dalla tua terra, ma se ti impegni solo a parole e non in nome degli dei, potresti diventare loro amico e cedere alle loro richieste: io sono una donna debole e loro sono ricchi e potenti.

EGEO: Parole avvedute e previdenti, le tue. Se così vuoi, farò come desideri. Avrò un pretesto di fronte ai tuoi nemici: è il modo più sicuro per me, e più sicura sarai tu stessa. Dimmi su quali dei devo giurare.

MEDEA:  Giura sulla Terra, e sul Sole, che è padre di mio padre, e su tutta la stirpe degli dei.

EGEO: Giuro di fare o di non fare che cosa? Dillo.

MEDEA: Giura che non mi scaccerai mai dalla tua terra e se qualcuno dei miei nemici vorrà portarmi via, giura che di tua volontà non mi consegnerai, finché sei vivo.

EGEO: Per la Terra e per la fulgida luce del Sole, per gli dei tutti, io giuro: farò quello che dici.

MEDEA: E che cosa ti accadrà, se tradisci il giuramento?

EGEO: Quello che accade agli empi e agli spergiuri.

MEDEA: Ora tutto va bene, prosegui dunque in pace. Raggiungerò la tua città al più presto, dopo aver fatto ciò che devo e ottenuto ciò che voglio.

CORO: Ti accompagni fino a casa il figlio di Maia, guida dei viandanti, e possa tu ottenere quello che desideri poiché a me sembri un uomo davvero nobile, Egeo. 

MEDEA: O Zeus, Giustizia di Zeus, luce del Sole! Ho imboccato la strada che mi darà la vittoria sui nemici, ora c’è speranza che paghino le loro colpe. Nel momento della mia angoscia più grande, quest’uomo è apparso: è lui il porto dove getterò gli ormeggi, giungendo alla città e alla rocca di Pallade.

Ora ti rivelerò tutti i miei piani: non ti farà piacere quello che dico. Manderò a Giasone uno dei miei servi per pregarlo di venire da me; e quando sarà giunto, gli parlerò con gentilezza, gli dirò che sono d’accordo con lui, che ha fatto bene a tradirmi per sposare la figlia del re; è una decisione utile e saggia. Ma gli chiederò che i miei figli rimangano a Corinto, non perché voglia abbandonarli in un paese ostile, esposti agli oltraggi dei nemici, ma perché penso di uccidere la figlia del re con un inganno. Li manderò da lei a portarle dei doni, li manderò dalla sposa, perché non li scacci da Corinto, con un peplo sottile e una corona d’oro; se prende questi doni e se ne adorna, morirà in modo atroce e insieme a lei chiunque la tocchi, perché saranno intrisi di veleni potenti.

Ma ora basta. Se penso a quale azione compirò dopo questa, scoppio in pianto: ucciderò i miei figli, nessuno potrà salvarli. E dopo aver distrutto tutta la casa di Giasone me ne andrò da Corinto, via da quest’atto empio che ho osato compiere, la strage dei miei figli amatissimi. Sia come sia: a che serve vivere? Non ho più patria, non ho più casa e alle sventure non c’è rimedio. Ho sbagliato allora, quando abbandonai la casa di mio padre fidando nelle parole di un greco: che me la pagherà, se dio mi aiuta! I figli che ha avuto da me non li vedrà più vivi per il resto della vita, e dalla giovane sposa altri non ne avrà perché, coi miei veleni, io la farò morire in modo atroce. Non crediate che sia sciocca oppure debole o mite: altra è la mia natura, coi nemici crudele, buona con gli amici. E’ un carattere che procura gloria e fama nella vita.

CORO: Questo è dunque il tuo piano. Ma io - che voglio aiutare te e difendere le leggi degli uomini – io ti dico: non farlo!

MEDEA: E’ impossibile; e tu parli così perché non soffri quel che soffro io.

CORO: Avrai il coraggio di uccidere i tuoi figli?

MEDEA: Solo così Giasone sarà ferito a morte.

CORO: Ma anche tu, donna infelicissima!

MEDEA: Basta. Ormai ogni parola è vana. Tu ora va’ e porta qui Giasone; a te ricorro sempre quando devo fidarmi. Ma dei miei piani non devi dire nulla, se mi vuoi bene davvero e se hai cuore di donna.

CORO: Fin dai tempi più antichi la fortuna

accompagna i discendenti di Eretteo:

figli degli dei beati, vivono

in una sacra, mai violata terra,

possiedono la sapienza più nobile,

si muovono leggeri nell’aria luminosa

della città dove un tempo – si dice –

le nove, sacre Muse della Pieria

generarono la bionda Armonia.

E narrano che Afrodite attinga

alle belle acque del Cefiso

e diffonda su questa terra

brezze miti e leggere.

Fiori di rosa profumati

le cingono i capelli,

e alla Saggezza manda compagni

i suoi Amori, perché insieme a lei

siano artefici di ogni virtù.

Questa città dei fiumi sacri,

questa terra ospitale per gli amici

come potrà accogliere te,

l’empia assassina dei figli?

Prima di colpirli, pensa,

pensa a quale delitto stai per compiere.

No, per le tue ginocchia ti imploriamo,

ti supplichiamo, non uccidere

i tuoi figli.

Dove troverai nella mani il coraggio

e nell’animo l’audacia spaventosa

di colpire al cuore i figli?

Come potrai posare

lo sguardo su di loro

e condannarli a morte

senza lacrime?

Quando si getteranno ai tuoi piedi

per supplicarti

tu non potrai

con animo fermo

bagnare le tue mani

col loro sangue.

GIASONE: Mi hai mandato a chiamare. Eccomi qui. Non posso rifiutarmi, anche se mi sei nemica. Dunque ti ascolto: che cosa vuoi ancora da me?

MEDEA: Per le cose che ho detto prima, Giasone, io ti prego di perdonarmi; devi sopportare i miei furori in nome delle prove d’amore che ci siamo scambiate fra di noi. Ho riflettuto fra di me e mi sono detta:”stupida che sono, cos’è questa follia, perché mi oppongo a coloro che prendono sagge decisioni, perché mi metto contro i sovrani di questa terra e contro mio marito? Lui fa quello che per noi è più utile, sposa la figlia del re, vuole dare dei fratelli ai miei figli; perché serbar rancore, perché rifiutare la provvidenza degli dei? Ho figli, sono esule dalla mia terra, ho pochi amici”. Così pensavo ed ho compreso la mia stupidità grande, il mio inutile furore. Ora invece ti approvo e penso che fai bene a procurarci questa parentela; sono io la sciocca che dovevo condividere i tuoi piani, aiutarti, favorire le tue nozze, occuparmi della tua sposa con gioia. Ma noi donne siamo quel che siamo, siamo donne, per non dir di peggio. E tu non dovevi abbassarti al mio livello e ribattere sciocchezze alle sciocchezze. Ti chiedo perdono: riconosco che prima ragionavo male, ma adesso ho preso la giusta decisione.

Figli, venite qui, figli, uscite dalla casa, fatevi avanti, abbracciate vostro padre, salutatelo insieme con me e insieme a me dimenticate il rancore di prima. Ecco, la pace è fatta, la collera è svanita. Prendete la sua mano. Mio dio, perché mi angoscia il pensiero di sciagure occulte? O figli, per quanto tempo ancora potrete tendere le braccia a vostro padre? Ahimè, come sono facile al pianto e alla paura. La lunga contesa con vostro padre è finita ma i miei occhi si riempiono di lacrime.

CORO: Anche i miei sono gonfi di pianto; temo che accadano sciagure ancor più gravi.

GIASONE: Le tue parole mi piacciono, Medea, e per quello che hai detto prima, non ti biasimo. E’ naturale che una donna si infuri se il marito combina nuove nozze. Ma il tuo animo è mutato in meglio, hai capito, col tempo, qual è la decisione giusta: sei una donna saggia. E voi, figli: vostro padre ha cercato di darvi il maggior bene possibile, con l’aiuto di dio; in questa terra Corinzia sarete ancora i primi, io credo, insieme ai vostri fratelli. Crescete, intanto: al resto penserà vostro padre, col favore degli dei. Voglio vedervi giungere alla giovinezza, fiorenti e forti più dei miei nemici.

Ma tu, perché tante lacrime, perché distogli lo sguardo e impallidisci? Non ti fa piacere quel che dico?

MEDEA: Non è questo. Stavo pensando ai figli.

GIASONE: A loro penserò io. Fatti coraggio.

MEDEA: Si; mi fido delle tue parole; ma una donna è per natura debole e facile alle lacrime.

GIASONE: Ma perché piangi tanto sui tuoi figli?

MEDEA: Io li ho generati: e quando auguravi loro una vita felice, mi ha preso lo sgomento: sarà così davvero? Sei venuto a parlare con me per due ragioni: dell’una abbiamo detto, ora ti parlerò dell’altra. Il re vuole allontanarmi da Corinto (ed è meglio per me, lo riconosco, non vivere più qui, non essere di impaccio a te e ai sovrani che mi credono nemica). Me ne andrò dunque in esilio. Ma i figli…chiedi a Creonte che non debbano andarsene anche loro, in modo che tu stesso possa allevarli.

GIASONE: Non so se riuscirò a persuaderlo, però voglio provare.

MEDEA: Chiedi a tua moglie di supplicare il padre: che i figli non vadano in esilio!

GIASONE: Certo lo farò, e spero di convincerla; anche lei è donna.

MEDEA: E in questo anch’io ti aiuterò; manderò i bambini a portarle dei doni, fra i più belli che esistano oggi al mondo, un peplo sottile e una corona d’oro. Che un’ancella me li porti qui, presto! Lei sarà felice, mille volte felice, di aver trovato in te uno sposo così nobile e di possedere gli ornamenti che un tempo il padre di mio padre, il Sole, donò ai suoi discendenti. Prendete figli, questi doni di nozze, portateli alla figlia del re, sposa felice,metteteli nelle sue mani: non potrà disprezzarli.

GIASONE: Ma perché te ne privi? E’ una follia! Credi che non vi siano vesti, che manchi l’oro nella casa del re? Conservali tu, non darli via. Se la mia donna ha qualche stima di me, mi preferirà all’oro, ne sono certo.

MEDEA: Non parlare così. Si dice che i doni persuadano anche gli dei; e per gli uomini l’oro vale più delle parole. Il destino è con lei, con lei è la fortuna, è giovane, ha il potere; ed io, per salvare i miei figli dall’esilio, darei la vita, non oro soltanto. Ma ora andate, figli, entrate nella ricca dimora del re e pregate la nuova moglie di vostro padre – mia sovrana -, supplicatela di non mandarvi in esilio. E offritele questi doni, ma badate che li riceva lei nelle sue mani. Andate, fate presto; e poi tornate da vostra madre con la buona notizia che desidera: tutto è andato bene.

CORO: Non c’è più speranza

per la vita dei bambini,

non c’è più speranza;

vanno verso la morte.

La sposa infelice riceverà,

riceverà

il dono fatale

della corona d’oro.

Sui capelli biondi

con le sue stesse mani

le stessa poserà

il diadema della Morte.

Il peplo indosserà,

cingerà l’aurea corona,

sedotta dalla grazia 

e dal divino fulgore;

per i morti si veste

ormai la sposa.

Cadrà nella rete di morte,

l’infelice,

non sfuggirà al destino.

E tu, sventurato,

che con tristi nozze

ti sei legato alla famiglia del re,

tu non sai che porti

alla rovina i figli

e a una fine orrenda

la tua sposa.

Sventurato, non sai come t’inganni

sulla tua sorte.

Ma anche te compiango

e il tuo dolore,

madre infelice,

che i figli vuoi uccidere

per un letto nuziale,

il letto che il tuo sposo ha tradito

per unirsi con un’altra donna.

PEDAGOGO: Signora ecco i tuoi figli, liberi dall’esilio. E la sposa ha accolto lietamente i doni nelle sue mani: per i figli, nella reggia, è pace. Ma perché mai ti turbi ora che la fortuna è amica? Perché distogli il viso e non accogli con gioia quel che dico?

MEDEA: Mio dio!

PEDAGOGO: Non si accorda il tuo grido con le mie notizie.

MEDEA: Mio dio, mio dio!

PEDAGOGO: Ti ho forse annunciato una sventura, senza saperlo, credevo in un messaggio lieto, ed ho sbagliato?

MEDEA: Hai portato una notizia; non hai colpa.

PEDAGOGO: Perché allora abbassi gli occhi e piangi?

MEDEA: Non posso fare altrimenti, vecchio; gli dei e io, nella mia follia, abbiamo ordito tutto questo.

PEDAGOGO: Fatti coraggio: anche tu ritornerai, con l’aiuto dei figli.

MEDEA: Ma prima altri se ne andranno, per causa mia.

PEDAGOGO: Non sei la sola madre costretta a separarsi dai figli; dobbiamo sopportare le sventure con animo paziente, noi mortali.

MEDEA: E’ quello che farò. Ma tu rientra in casa e provvedi ai ragazzi, come fai ogni giorno.

Figli, miei figli, ora avete una città e una casa, dove vivrete per sempre senza vostra madre, abbandonata nella sua sventura. Me ne andrò, esule, in un'altra terra, non potrò godere di voi, non vi vedrò felici, non preparerò i lavacri di rito, e i letti nuziali, e le vostre spose non potrò adornarle né levare alte le fiaccole, il giorno delle nozze. Maledetto il mio orgoglio. Inutilmente vi ho allevato, figli, e ho penato e sofferto, dopo aver patito i dolori crudeli del parto, inutilmente. E quante speranze avevo riposto in voi: pensavo che mi avreste assistita nella mia vecchiaia e, quando fossi morta, mi avreste sepolto con le vostre mani: una sorte invidiabile! Dolci illusioni, ora svanite. Senza di voi vivrò una vita triste e dolorosa. Vostra madre, non la vedrete più, passerete anche voi ad altra vita.

Ma perché mi guardate così, figli miei? Perché mi sorridete, come per l'ultima volta? Mio dio, che devo fare? Mi manca il cuore se guardo gli occhi luminosi dei miei figli. No, non posso. Rinuncio ai miei progetti. Porterò i figli con me. Perché punire il padre facendo del male a loro e procurandone a me due volte tanto? No, non posso. Rinuncio.

Ma che cosa dico! Lascerò impuniti i miei nemici perché ridano di me? No, devo osare. Questa mia debolezza è una viltà. Figli, entrate in casa. E se qualcuno non può assistere a questo sacrificio, si allontani. La mia mano non tremerà. No, no, anima mia, non puoi far questo! Lasciali, sciagurata, risparmiali! Vivranno con te ad Atene, saranno la tua gioia. No, per i demoni infernali, per gli dei vendicatori, non sarà mai che io abbandoni i figli all’oltraggio dei nemici. Essi devono morire. E se così dev’essere, io li ucciderò, io che li ho messi al mondo. Tutto è deciso ormai, perché tutto è inevitabile. Ecco; sul capo ha la corona, è già avvolta nel peplo la giovane regina, e muore: io lo so. Ora mi avvio sulla strada del dolore e manderò i miei figli verso un destino più doloroso ancora. Voglio salutarli. Datemi la mano, figli, date la mano a vostra madre, perché la baci. Come amo questa mano, e questa bocca e la figura e il bel volto dei miei figli! Siate felici, ma non qui: qui vostro padre vi ha tolto tutto. Com’è dolce questo abbraccio e tenera la pelle e soave il respiro dei miei figli. Andate, andate via; non posso più guardarvi, le sventure mi vincono. So quanto male sto per fare ma la passione dell’animo – che è causa delle sciagure più grandi in questo mondo – la passione dell’animo è più forte in me della ragione.

CORO: Tante volte ormai

ho intrapreso la via

dei ragionamenti sottili

e mi sono impegnata in discussioni

superiori alla capacità delle donne.

Ma anche noi abbiamo una Musa

che ama parlarci di sapienza;

certo non a tutte: sono poche le donne

- forse una fra mille -

che non siano estranee alle Muse.

E dunque io vi dico: tutti quelli

che non hanno mai generato

dei figli, sono più felici

di quelli che ne hanno avuti.

Chi non ha figli non può sapere

se procurano gioia o dolore

agli uomini, non può sapere

quante angosce gli sono risparmiate.

Chi invece ha in casa figli che crescono

si tormenta sempre, io lo vedo,

prima per allevarli bene,

poi per lasciar loro da vivere.

E mentre si affanna non sa, non può

sapere se saranno buoni o cattivi.

Infine, il male estremo,

il peggiore di tutti i mali:

sono giunti al fiore della giovinezza,

hanno quanto basta per vivere,

sono dei bravi giovani: eppure,

se un dio vuole così,

la Morte te li rapisce

e se li porta nell’Ade.

Che vantaggio c’è dunque ad aver figli

se a tutte le altre sciagure

gli dei aggiungono anche questo dolore,

il più tremendo?

MEDEA: Da tempo sono qui in attesa degli eventi e guardo, come andrà a finire laggiù… Ma ecco uno dei servi di Giasone: respira con affanno e certo viene ad annunciare qualche nuova sciagura.

MESSAGGERO:  Hai commesso un orribile delitto: fuggi, Medea, fuggi, o per terra o per mare, con qualunque mezzo!

MEDEA: Che cosa accade, perché dovrei fuggire?

MESSAGGERO: E’ morta la figlia del re insieme a suo padre Creonte: sono morti per i tuoi veleni.

MEDEA: Mi porti una bellissima notizia: sei un benefattore, un vero amico.

MESSAGGERO: Che dici? Sei impazzita forse? Hai distrutto la famiglia del re e ti rallegri alla notizia, non hai dunque paura?

MEDEA: Saprei come risponderti; ma ora parla, amico, e senza fretta; dimmi come sono morti: se la loro fine è stata atroce, mi renderai ancora più felice.

MESSAGGERO: Quando i tuoi figli giunsero insieme al padre alla casa degli sposi, ne fummo lieti noi servi che eravamo in pena per le tue sventure; di bocca in bocca correva la notizia che, fra te e il tuo sposo, l’antica contesa era finita. Baciavamo le mani, le bionde teste dei bambini, ed io, pieno di gioia, li seguii nelle stanze delle donne. La padrona, che oggi onoriamo al posto tuo, prima ancora di scorgere i tuoi figli, posò lo sguardo ardente su Giasone; ma poi si coprì gli occhi e distolse il volto pallido, turbata alla vista dei bambini. E il tuo sposo cercava di calmare la sua ira e diceva: ”Non essere ostile alle persone che amo, volgi la testa, placa il tuo furore, deve esserti caro chi è caro a tuo marito. Accetta i doni che ti portano e, per amor mio, chiedi a tuo padre che non condanni all’esilio questi piccoli”. Quando vide i gioielli lei non seppe resistere e tutto promise a suo marito.

Prima ancora che padre e figli fossero lontani dalla casa, prende il peplo ricamato e lo indossa, mette sul capo la corona d’oro e davanti allo specchio luminoso si acconcia i capelli, sorridendo alla sua muta immagine. Poi si alza dal seggio e se ne va per la stanza posando i piedi candidi, leggera: felice per i doni, si alza più volte sulle punte dei piedi per guardarsi indietro. Ma poi avviene qualcosa di terribile: impallidisce, retrocede obliqua, tremando in tutto il corpo, sta per cadere a terra e riesce appena ad accasciarsi sul suo seggio. Una vecchia ancella crede che sia un attacco di follia, un assalto di Pan o di qualche altro iddio, e innalza un grido di preghiera; poi vede la bava bianca che esce dalla bocca, le pupille stravolte, il corpo esangue. Allora emette un grido di dolore. Subito un’ancella corre dal padre un’altra dallo sposo, ad annunciare la sciagura. La casa risuona tutta di passi precipitosi. Nel tempo in cui un veloce corridore percorre lo spazio dello stadio e tocca il termine, ecco che l’infelice si risveglia, con gemiti strazianti, dal suo muto torpore. E’ doppio il tormento che la assale: dall’oro che le cinge i capelli scorre un prodigioso torrente di fuoco divorante, il peplo sottile, dono dei tuoi figli, morde la sua pelle candida. Avvolta dalle fiamme, balza dal suo seggio e fugge, scuotendo da ogni parte la testa e i capelli, per gettar via la corona. Ma l'aureo diadema resta inchiodato e ogni volta che lei scuote i capelli, il fuoco divampa più violento. Sopraffatta dal male, cade a terra. Solo suo padre ormai potrebbe riconoscerla: l’espressione degli occhi, il suo bel viso non si vedono più, e dal suo capo il sangue scorre mescolato al fuoco, sotto gli invisibili morsi del veleno la carne si stacca dalle ossa a brandelli che cadono come lacrime di pino. Era uno spettacolo orrendo. E noi, vedendo la sua sorte, avevamo paura di toccarla.

Ed ecco il padre infelice e ancora ignaro che all'improvviso entra nella stanza e si getta sul corpo con un grido, lo stringe fra le braccia, lo bacia e così dice:"figlia sventurata, quale degli dei ti ha fatto morire in modo così indegno? Chi ti ha tolto a questo vecchio così vicino alla morte? Con te, con te voglio morire, figlia!" Poi cessa di piangere e cerca di alzarsi, ma il suo vecchio corpo resta attaccato al peplo leggero, come l'edera ai rami dell'alloro. Fu una lotta atroce. Lui cercava di sollevare le ginocchia, lei lo teneva stretto a sé, e se tentava di staccarsi a forza strappava dalle ossa le sue carni di vecchio. Alla fine l’infelice non poté più resistere allo strazio e perdette ogni forza. Così spirò. Ora la figlia e il vecchio padre giacciono l’uno accanto all’altra, morti.

Per quanto ti riguarda, io non dico nulla, saprai tu stessa come sfuggire al castigo. La vita umana, lo so da tempo, è come ombra; coloro che credono di essere sapienti ed esperti di parole sono in preda alla follia più grande: non esiste al mondo un essere felice; se diventa ricco è forse più fortunato di un altro, ma felice, mai.

CORO: Sembra che in questo giorno un dio molte sventure infligga a Giasone, e giustamente. Ma della tua sorte ho pietà, sventurata figlia di Creonte, che scendi nelle dimore di Ade a causa delle tue nozze con Giasone.

MEDEA: Tutto è deciso. Ucciderò i miei figli, subito, e me ne andrò da questa terra; non voglio indugiare e abbandonare i figli ad altre mani, ben più nemiche delle mie. E’ necessario che muoiano, e se così dev’essere, io li ucciderò, io che li ho messi al mondo. Fatti coraggio, anima mia, che cosa aspetti a compiere questo gesto orrendo e necessario? Prendi, povera mano mia, prendi la spada, avviati sulla strada del dolore, non essere vile e cerva di dimenticare che sono figli tuoi e che li ami tanto; per questo breve giorno, scordati dei figli; dopo piangerai. Anche se li uccidi, tu li hai amati, sventurata Medea!

CORO:  O Terra, o luminoso raggio

del Sole, guardate, guardate

la sciagurata donna,

prima che alzi la mano assassina

sui suoi figli.

Dalla tua aurea stirpe

discendono, ed è cosa tremenda

che per colpa di un essere mortale

il sangue di un dio bagni la terra.

Ma tu, Luce divina, fermala, fermala,

e scaccia dalla casa la sanguinosa Erinni,

strumento di un dio vendicatore.

Furono vani i tuoi travagli di madre,

li hai generati invano

dopo aver superato

il varco inospitale

delle ombrose Simplegadi.

Quale furore ti sconvolge l’anima,

e perché strage si succede a strage?

Sono funesti sulla terra agli uomini i delitti

di sangue, e sugli assassini dei parenti

il dio fa ricadere pene

adeguate alla colpa.

FIGLI: (da dentro) Aiuto!

CORO: Le senti, le grida dei figli? O sventurata, sciagurata donna!

FIGLIO 1: Che debbo fare, come posso sfuggire alle mandi di mia madre?

FIGLIO 2: Non so, fratello mio, siamo perduti.

CORO: Devo entrare in casa? Bisogna salvare quei  bambini.

FIGLIO 1: Sì, salvateci, in nome degli dei, presto, salvateci!

FIGLIO2:  Ormai la spada è su di noi. Siamo in trappola.

CORO: Sei di pietra o di ferro,

sciagurata,

che stai per uccidere

con le tue stesse mani

i figli che hai partorito.

Una sola donna, una soltanto,

in tempi antichi

osò levare la mano

sui propri figli:

era Ino, colpita da follia

quando la sposa di Zeus

la scacciò dalla sua casa

e la costrinse a vagare.

Si gettò in mare, infelice,

dopo l’empia strage

dei figli: insieme ad essi trovò la morte.

Che cosa può accadere

di più tremendo ancora?

O letto di donna, letto di dolore,

quante sciagure procuri agli uomini!

GIASONE: Donne che state qui presso la casa, donne, dico a voi: dov’è Medea? Dopo il suo delitto orrendo, è ancora là dentro, o è fuggita? Sotto la terra dovrà trovar riparo, nell’alto dei cieli dovrà elevarsi in volo, per non pagare la sua colpa alla casa del re. O crede di poter fuggire impunemente, dopo aver ucciso i sovrani di questa terra? Ma di lei non mi importa, temo per i figli: a lei renderanno il male quelli a cui fece del male, io sono qui per salvare i miei figli, perché i parenti di Creonte non facciano pagare a loro l’empio massacro compiuto dalla madre.

CORO:  Infelice, tu non sai quanto è grande la tua sventura; altrimenti non parleresti così, Giasone.

GIASONE: Forse Medea vuole uccidere anche me?

CORO: I tuoi figli sono morti. E’ la madre che li ha uccisi.

GIASONE: Che cosa dici! Tu mi fai morire!

CORO: Sono morti i tuoi figli: non capisci?

GIASONE: Dove li ha uccisi. Dentro casa? Fuori?

CORO: Apri la porta e vedrai i tuoi figli morti.

GIASONE: Togliete i chiavistelli, presto, aprite, aprite la porta, servi, che io veda le mie due sciagure: i figli morti – e lei, che punirò con la morte.

MEDEA: Perché scuoti, perché forzi la porta? Cerchi i cadaveri, cerchi me, l’assassina? E’ una fatica inutile. Se hai bisogno di me, dimmi che cosa vuoi. Ma non potrai toccarmi: il padre di mio padre, il Sole, mi ha donato un carro che mi difende da tutti i miei nemici.

GIASONE: Donna maledetta, donna che sei in odio agli dei, a me, al mondo intero, hai osato levare la spada sui tuoi figli, tu che li hai generati li hai uccisi, e hai ucciso anche me. E dopo questo, dopo aver compiuto un atto così empio, guardi ancora il sole, guardi la terra: possa tu morire!

Ora capisco, non capivo allora, quando da un paese barbaro, da una barbara casa ti condussi in una dimora greca, donna funesta che hai tradito tuo padre e la tua patria terra. Contro di me gli dei hanno scagliato il demone vendicatore che ti apparteneva: non avevi forse ucciso tuo fratello presso il focolare domestico, quando salisti insieme a me su Argo, la nave dalla bella prora? Era solo l’inizio; poi mi hai sposato e mi hai dato dei figli, quei figli che hai ucciso per un matrimonio, per un letto. Nessuna donna greca avrebbe mai osato tanto e io ti ho preferito a loro, ti ho sposata - unione odiosa e a me funesta: non sei una donna, ma una fiera, più selvaggia di Scilla, il mostro del Tirreno.

Ma per quanto ti insulti non riuscirò a ferirti, la tua impudenza non ha limiti. Sii maledetta, donna sciagurata, assassina dei figli.

A me non resta che piangere sul mio destino: non avrò gioia dalle nuove nozze, e i figli, che ho generato e cresciuto, non li vedrò più vivi, li ho perduti.

MEDEA: Alle tue parole potrei ribattere a lungo, ma il padre Zeus sa bene quello che ho fatto per te e quello che da te ho subito. Non dovevi disprezzare il mio letto e vivere felice con la tua regina, ridendo di me; e Creonte, che ha combinato il matrimonio, non doveva cacciarmi da questa terra, impunemente. Chiamami pure belva, se ti piace, e Scilla, mostro del Tirreno: ti ho colpito al cuore, come meritavi.

GIASONE: La mia sventura è la tua: anche tu soffri.

MEDEA: Se non dovrai ridere di me, il mio dolore è gioia.

GIASONE: Che madre crudele vi è toccata, figli!

MEDEA: Per la follia di vostro padre siete morti, figli!

GIASONE: Non è mia la mano che li ha uccisi.

MEDEA: Li ha uccisi l’oltraggio delle tue nuove nozze.

GIASONE: Per questo li hai uccisi dunque, per le nozze?

MEDEA: Credi sia un dolore da poco?

GIASONE: Lo è, per una donna saggia: ma tutto, in te, è perverso.

MEDEA: Sono morti: questo sarà il tuo tormento.

GIASONE: Sono vivi, invece, e chiedono vendetta.

MEDEA: Gli dei sanno chi è la prima causa di tutte le sciagure.

GIASONE: Sanno anche com’è ignobile il tuo cuore.

MEDEA: Odiamo pure; le tue parole io le detesto.

GIASONE: E io le tue: è facile dirsi addio.

MEDEA: E’ quello che voglio anch’io. Ma come?

GIASONE: Lascia che seppellisca e pianga questi morti.

MEDEA: No. Io li voglio seppelire, con queste mani; li porterò nel tempio di Era Acraia, perché nessuno dei miei nemici possa recare loro oltraggio, profanare la loro tomba. E qui, nella terra di Sisifo, per i tempi a venire istituirò feste solenni e riti, ad espiazione di questo empio assassinio. Io invece me ne andrò nel paese di Eretteo per vivere con Egeo, figlio di Pandione. Tu morirai di mala morte, com’è giusto, colpito al capo da un rottame della nave Argo: questa sarà l’amara fine delle nostre nozze.

GIASONE: Ti possano annientare l’Erinni dei figli e la Giustizia del sangue.

MEDEA: Quale dio, quale demone può dare ascolto a te, traditore degli ospiti e spergiuro?

GIASONE: Assassina dei figli, donna infame!

MEDEA: Entra in casa, piuttosto, e seppellisci tua moglie.

GIASONE: Lo farò. Ma ho perduto i miei figli!

MEDEA: Aspetta di essere vecchio per piangere davvero!

GIASONE: O figli amatissimi!

MEDEA: Da me, non da te.

GIASONE: Perché li hai uccisi allora?

MEDEA: Per farti soffrire.

GIASONE: Vorrei baciare le labbra dei miei figli adorati.

MEDEA: Ora li chiami, ora li vuoi baciare, ma prima li scacciavi.

GIASONE: Lascia che tocchi i loro teneri corpi, per amor di dio!

MEDEA: No, mai. Tu parli al vento.

GIASONE: O Zeus, tu vedi come mi respinge e quali insulti devo sopportare da questa donna orrenda, da questa belva che ha ucciso i suoi figli? Che cosa posso fare? Io li piango e invoco gli dei: mi siano testimoni che tu li hai uccisi ed ora mi impedisci di toccarli e di seppellire i loro corpi. Vorrei non averli generati, per non vederli ora da te uccisi.

CORO: Zeus, nell’Olimpo, è arbitro

di molti eventi, e molti

si compiono, per volere degli dei,

contro ogni speranza.

Ciò che è atteso

non si avvera,

per ciò che non è atteso,

un dio trova la strada.

Così questa vicenda si è conclusa.