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MEDEA

Liberamente adattata dalla MEDEA di Euripide

Tragedia in due parti

di ROBINSON JEFFERS

Versione italiana di Gigi Cane

PERSONAGGI

LA NUTRICE –

IL TUTORE –

I FIGLI –

IL CORO –

MEDEA –

CREONTE –

GIASONE –

EGEO –

UN GIOVANE –

E uomini della guardia, di Creonte,

di Giasone e di Egeo; e schiave di Medea.

La scena rappresenta un tratto di strada dinanzi alla casa di Medea, a Corinto

PARTE PRIMA

La Nutrice                       - (scendendo la gradinata di fronte alla casa) Meglio sarebbe se mai la lunga nave Argo avesse superato l'arduo stretto in mezzo delle Simplégadi, meglio se ancora ondeggiassero nel vento del Pelio i pini onde fu costrutto il suo albero di maestra e i remi, e il grigio frosone ancora in essi nidificasse, e mai i grandi avventurieri avessero viaggiato nell'alba d'Asia verso le spiagge del mat­tino a ricercare il Vello d'Oro. Perché mai la mia signora, Medea, avrebbe visto Giasone, allora, e non l'avrebbe amato e non soccorso, né si sarebbe strap­pata alla sua casa per seguirlo in questa terra dei Greci che molto parlano e sorridono, in queste case di Corinto: sopra le quali sospeso io vedo il male come una nube. Perché  essa non è dolce ma fiera, e figlia di un re. Il popolo di Corinto era cortese verso a lei, e della sua bellezza traeva cagione d'orgoglio, e Giasone l'amava. Felice è la casa nella quale l'uomo e la donna si amano e mantengono fedeltà. Ora, tutto questo è mutato; tutto è nero odio. Perché Giasone si è distolto da lei; e chiama barbara unione l'antico legame, e non sponsale greco; e l'ha ripudiata e ha tratto in sposa una fanciulla dalla pallida chioma, la figlia di Creonte, quegli che qui comanda. Egli è ansioso di vantaggio mondano e di potenti amici e di un alto ufficio in Corinto. Son codeste le ragioni onde egli vuole scacciare Medea come una meretrice, e tradire i figli ch'essa gli partorì. Io dico che costui non è saggio. Ma Medea giace nella casa, rotta di dolore e d'ira, né vuol mangiare né bere altro che le sue lacrime; e inclina il volto verso terra ricor­dando la casa paterna e la patria ch'essa abbandonò per l'amore di quest'uomo: il quale la tiene ora in dispregio. E s'io m'attento a parlare per porgerle conforto essa soltanto mi guarda con grandi occhi come pietre. Come una pietra sulla spiaggia, essa è, o come un'onda nel mare, e io credo che i suoi figli stessi essa abbia in odio. È giunta ormai a imparare che cosa sia essere straniera e scacciata e sola e tenuta in dispregio. Ma non imparerà mai a essere umile, non imparerà a bere l'insulto come l'acqua che non fa male. Oh, io ho paura per lei: che si tra­figga con un pugnale il petto, o che perseguiti lo sposo e la sua nuova moglie oppure - cosa ch'è anche più spaventevole - che il male guati nella foresta della sua mente oscurata. Ho per certo che assai più saggio sarebbe stato Giasone se avesse tentato la leonessa o, con nude mani, sottratto i nati della tigre. (Vede i figli di Medea che, col tutore, vengono innan­zi) Ecco che or vengono i fanciulli. Pelici, che poco essi sanno del dolore della madre.

Il Tutore                          - (entrando con due fanciullini) Vecchia domestica della mia signora, a che te ne stai qui covando la solitudine con quegli occhi d'oscuro1? È una qualche tua pena che tu vai lamentando? Cre­devo che Medea avesse bisogno del tuo conforto.

La Nutrice                       - Per Medea è tutt'uno, ch'io sia là o qui. Sì, è mia. È una mia pena. Il dolore della mia signora è il mio dolore. E a tal punto mi angoscia che fui costretta a uscire per farne parte alla terra e al cielo.

Il Tutore                          - La tiene ancora tanto profonda disperazione?

La Nutrice                       - Tu sei fortunato, vecchio mastino dei figlioli di Giasone. Ti invidio, te che non la vedi. Questo male non tramonta, ma è appena al mattino. Io temo lo sguardo leonino del suo meriggio.

Il Tutore                          - Tanto è travagliata? E tuttavia non conoscete il dopo e il peggio, né tu né Medea.

La Nutrice                       - Che cosa? Che cosa?

Il Tutore                          - Vorrei non aver parlato. No, non è nulla.

La Nutrice                       - Dimmi la verità, vecchio. Siamo due schiavi, tu e io, bisogna che abbiamo fede l'un nell'altro; e sappiamo tenere i segreti.

Il Tutore                          - Li ho intesi che dicevano - mentre passeggiavano lungo la sacra fonte di Peirene dove i vecchi seggono al sole su seggi di pietra - dicevano che Creonte, il signore di questa terra, ha in mente di scacciare Medea e con lei i suoi figlioli, questi fanciulli innocenti, da questa casa e da Corinto. Ed essi dovranno andar errando per il fiero mondo senza casa e senza speranza.

La Nutrice                       - Non ci credo. Ah, no! Giasone può odiare la madre, ma non consentirebbe che siano scacciati i figli.

Ir, Tutore                         - Bene... egli ha stretto nuova alleanza. Non è amico a questa casa.

La Nutrice                       - Se ciò fosse vero!... Ascolta: odo la sua voce. Porta via i fanciulli, che siano lontani da lei. Esci con loro dall'altra porta. Presto. (Il tutore e i fanciulli escono da una porta posteriore. La nutrice li accompagna con gli occhi, torcendosi le mani).

Medea                             - (fuori scena. È donna d'Asia e il suo lamento risuona alto) Morte. Morte è il mio voto. Per me medesima, e i miei nemici e i miei figli. Distruzione. Questa è la parola. Stritolare, schiacciare, ardere. Distruzione. Ahi... Ahi...

La Nutrice                       - (torcendosi le mani) Questo è il mio terrore: udirla che di continuo urla dei suoi figli, come un bracco alla caccia. Oh, infelicissima: non essi sono in colpa.

Medea                             - (fuori scena) Se un dio m'ascolta: lasciate ch'io muoia. Ah, sventurata, sventurata, sventurata: la morte è sola fra le acque quella che lavi questa macchia. (Entra il coro: a due a tre donne alla volta, ma la nutrice non avverte la loro presenza. E intenta ai gridi di Medea e ai propri pensieri).

La Nutrice                       - Oh, è pessima cosa esser nati di gente illustre e cresciuti nella potenza e nella ric­chezza di una grande casa, non comandati ma tali da comandare a molti: perché allora la sventura -quando giunga - è grande da non potersi reggere e reca alla pazzia. Io dico che più felici sono i poveri: la gente comune e gli umili e i poveri di spirito: essi possono piegarsi massimamente sotto il vento e tut­tavia vivere; mentre le alte querce e i pini di monte che raggiungono le nubi impazzano nella tempesta e si contorcono e gemono e strepitano. Questa è la fiera e terribile volontà di Dio: la quale porta alle crea­ture più alte le maggiori sventure. (Si rende conto della presenza delle donne che son venute entrando e si riscuote dalla propria meditazione) A che siete venute"?

La Prima Donna              - Di nuovo l'ho intesa che urlava: è spaventevole.

La Seconda Donna          - Il suo lamento. Essa è bella nell'ambascia e appassionata: non potevamo far a meno di venire.

La Terza Donna               - Siamo amiche di questa casa, e ci opprime la sua sventura.

La Nutrice                       - Non più casa è questa, amiche. Tutto rovina in questa dimora di affanno e pianto.

Medea                             - (fuori scena) Ascoltami, o Dio, e con­cedi ch'io muoia. Questo mi si addice: che io sia morta, morta, morta sotto i grandi gelidi sassi. Per un anno e mille anni e mille anni ancora: fredda come i sassi, fredda ma nobile ancora, fiera, retta e silenziosa, rossovestita nel sangue delle nostre ferite.

La Prima Donna              - O lucido cielo, divina terra, non date orecchio al canto che la donna alza a voi. Non è musica della sua ragione, poiché la sua ragione non è qui. Essa non sa per che cosa supplichi. Ambascia e ira sono le voci del suo canto.

La Seconda Donna          - Non pregare mai per la morte, sventuratissima, non pregare mai per la morte, che anche troppo presto sopraggiunge. Al modo del falco essa piomba dal limpido cielo, si nasconde dietro le verdi foglie o attende all'angolo del muro. O non pregar mai per la morte, non pre­gare per la morte... perché la tua preghiera potrebbe essere accolta.

Medea                             - (Vintensità alterna della sua voce - più o meno percettibile - indica ch'essa misura il corridoio avanti e indietro, come una fiera nella gabbia) Conosco i veleni. Conosco i denti del balenante acciaio. Il fuoco conosco. Ma non posso sopportare che i miei nemici mi facciano vilipendio e non voglio accettare la pietà. Pietà e disprezzo sono sorella e fratello, insieme nati. Non morirò sottomessa. Non consentirò che stillino la loro rugiada sui sassi del mio sepolcro né la pietà dagli occhi e né il disprezzo. Poiché io non sono una donna di Grecia.

La Terza Donna               - No, ma una donna dei bar­bari che è giunta in mezzo a noi dalla selvaggia Colchide, alla salsa estremità del Mar Nero. Ha da menar vanto di questo?

La Seconda Donna          - Essa non sa che cosa si va dicendo.

Medea                             - (fuori scena) I veleni. La morte magica. La spada aguzza. La corda di canapa. La morte magica. La morte...

La Seconda Donna          - Io lo odio, Giasone, che di questo dolore è cagione.

La prima Donna              - (alla nutrice) Vecchia e ono­rata ancella di una grande casa, pensi tu che sia saggio lasciar la tua signora sola - tranne forse poche schiave - nelle sue stanze a costruire la tremenda acropoli dei pensieri di morte? Noi greci stimiamo molto pericolosa la solitudine, e le grandi passioni crescono mostri nella mente oscurata; ma quando siano divise con amici devoti esse rimangono umane e tali da essere sopportate. Io penso che tu dovresti persuadere Medea a uscire dalla negra dimora e parlare con noi, prima che il suo cuore sia schian­tato o prima ch'essa si faccia alcuna offesa. È vissuta in mezzo a noi e noi abbiamo imparato ad amarla e siamo contente di dirle queste cose. Le quali pos­sono dar conforto al suo spirito.

La Nutrice                       - Questo voi credete? Essa non ascolterebbe... Oh, oh, eccola che ora viene! Parlatele con cautela; siano le vostre parole dolce musica a lei. (Medea esce sulla soglia e, appoggiandosi contro una delle colonne, rimane immobile con gli occhi fissi in avanti) Oh, mia cara, mia povera figlia. (Si affretta verso Medea).

La seconda Donna          - (bisbigliando) Dicono ch'essa sia pericolosa. Guardate i suoi occhi.

La Prima Donna              - È una maga, ma non cattiva. Può richiamare i vecchi alla gioventù: e ciò ha fatto per il padre di Giasone.

La Terza Donna               - Tutti son maghi al suo paese. Ed esperti di filtri e di incantesimi. Sono selvaggi, ma posseggono una rozza sapienza.

La Seconda Donna          - Povera anima, ciò non le è stato di molto soccorso.

Medea                             - (senza vedere le donne che, parlando, la fissano) Voglio guardare la luce del sole, quest'ultima volta. E magari balzasse dall'azzurro cielo il bianco lupo della saetta a incendiare la mia testa e con essa il suo cervello, e come un pargolo di fiamma ad attaccarsi a questo seno... (S'interrompe e volge uno sguardo fiero alle donne radunate ai piedi della scalinata) C'è qualcuno qui? (Percorre lo spazio con ocelli ostili; discerne ormai chiaramente le donne e riprende pieno controllo di sé. La voce le si fa guar­dinga e insincera) Non sapevo di aver visite... Donne di Corinto: se qualcosa qui è stata detta con soverchia fierezza, considerate ch'io credevo d'esser sola; e ne ho pur qualche ragione. Voi siete venute - consentite ch'io pensi, con amore e simpatia - per assistere al mio dolore. Io mi so bene che nulla di privato c'è mai in una città dei Greci; chiunque nasconda qual­cosa è ritenuto d'indole cattiva e superba... (Con ironia) Non democratico dite ch'è il suo agire, credo. Ciò non è giusto ogni volta ma sappiamo che la giustizia, almeno sulla terra, è un nome e non un fatto e, per quanto è in me, desidero evitare anche l'apparenza di essere... superba. Di che, superba! Del mio dolore? Vi mostrerò nudo il mio cuore. Voi sapete che il signor mio, Giasone, mi ha lasciata e s'è unito in nuove nozze con la pallidochiomata, la figlia della ricchezza e del potere. Ero figlia anch'io della potenza, ma non in questo paese; e la mia potenza spesi per l'amore di Giasone. Davanti a lui la versai come' l'acqua, gliela porsi che la bevesse come vino. Gli diedi vittoria e rinomanza; gli salvai la sua vita preziosa; e non una volta ma molte volte. E forse vi è giunto all'orecchio ciò che io feci per lui: che tradii il mio padre per lui, e uccisi il mio fratello per salvare lui e mi ridussi per sempre odiata dalla mia terra; e navigai verso l'occidente con Gia­sone nella nave dei Greci, piangendo e ridendo, in quell'immenso viaggio attraverso il Mare Nero e il Bosforo dove i sassi insieme cozzando strepitano e attraverso il Mare di Marmara e attraverso l'Elle­sponto guardato dalle scolte della potente Troia e nelle acque della patria Grecia: la sua patria e il mio esilio, il mio esilio senza fine. E qui lo amai e partorii figlioli a lui; e quest'uomo... mi ha lasciato e ha preso la figlia di Creonte, per godere della sua fortuna e accarezzare la sua morbida pallida chioma e baciare la sua giovane bocca. (S'irrigidisce cercando di non perdere il controllo di sé).

La Prima Donna              - Essa è terribile. Pietra con occhi di pietra.

La Seconda Donna          - Guardate: la schiuma sulle labbra, che tremano al suo respirare.

La Terza Donna               - Essa è degna di pietà: poiché soffre grande vilipendio.

Medea                             - (a bassa voce) Io non so che cosa le altre donne... io non so quanto una donna di Grecia possa sopportare. La gente della mia razza è un poco scon­siderata e impetuosa. Quanto a me, voglio soltanto morire. Ma Giasone non ha da sorridere alla sua sposa sopra il mio sepolcro, né dovrà il gran Creonte appen­dere ghirlande e comandare un giorno di festa a Corinto. Oppure diventino vampe tortuose le ghir­lande e alti lamenti i canti e sangue il vino.

La Prima Donna              - Piglia del dolore, stai in guardia. È pericoloso sognare del vino, è peggio parlare di lamenti e sangue: perché le immagini che la mente produce trovano via per uscire e operano sulla vita.

Medea                             - E tu lascia ch'esse operino sulla vita!

La Prima Donna              - Ci sono sventure che la sven­tura non guarisce. La pazienza resta, e gli dèi tengon mente di tutto.

Medea                             - (cupa, senza speranza) Tengan mente dei miei nemici sprofondati nel sangue.

La Seconda Donna          - Medea, stai in guardia! Qualcuno dei grandi si avvicina... È Creonte in persona!

La Terza Donna               - Viene Creonte.

La Nutrice                       - Egli è scuro di collera. 0 mia signora... figlia mia... piegata dal vento e che pur non ti spezzi! (Entra Creonte con uomini che gli fanno cerchio. Le donne si aggruppano da una parte. Egli parla a Medea, con un gesto d'ira verso il coro).

Creonte                            - Tu hai delle ammiratrici, vedo. Abbassa il tuo orgoglio: questa è gente che non sarà con te dove tu stai per andare. (Una pausa. Medea non risponde. Creonte scatena la sua collera incontrol­lata) Medea, donna dalla fronte di pietra e dagli occhi colmi d'odio: ho preso la mia decisione. Ho risolto che tu debba lasciare all'istante questa terra e vada al bando, tu con i tuoi figlioli. È mio volere che sia scavata dal suolo di Corinto una radice di disordine. E sono qui per vedere che ciò sia fatto. Né, prima che sia fatto, tornerò alla mia casa.

Medea                             - Vuoi dire... bando?

Creonte                            - Esilio: bando: vattene dove tu puoi andare, Medea, ma qui non ti è lecito vivere più a lungo.

Medea                             - ... E i miei figli con me!

Creonte                            - Non te li voglio strappare.

Medea                             - Poiché noi abbiamo sofferto il male e maggior male siamo per soffrire.. La morte era il mio voto.

Creonte                            - Ah? Parole. Ma non ne sarai tratte­nuta: potrai darti la morte dovunque ci siano corde onde appenderti o flutti nei quali annegarti. Fai presto, soltanto, e lascia questa terra.

Medea                             - I fanciulli, mio signore... (Si muovono in collera le sue labbra, ma non giunge il suono della voce).

Creonte                            - Che vai tu mormorando?

Medea                             - Nulla... Prego i miei dèi che mi con­cedano la saggezza. E supplico te che mi conceda pietà. I miei figli son molto giovani tuttavia, teneri e senz'aiuto. Tu sai, signore, ciò che l'esilio voglia dire, in mezzo alle crudeli bufere d'inverno e nell'ira del sole; e chiedere una crosta di pane e averne dispregio; ed essere accolti con scagliati sassi nei villaggi, e tenuti in minor conto del cane dello spaz­zaturaio, e percossi e vituperati e tratti in schiavitù... i fanciulli, signore, sono figli di Giasone. Il tuo amico eletto, credo, e ormai anche più stretto congiunto. Quanto a me, la tua serva, o signore di Corinto, che cosa io ho fatto? Perché ho da essere cacciata?

Creonte                            - Ti dirò francamente: perché tu nutrì astiosa collera verso persone che io ho in animo di proteggere: e ti scaccio prima che tu abbia il tempo di recar loro offesa. Poiché tu sei risaputa esperta di scienza occulta: d'incantesimi, di veleni e di magìa. Dicono che col canto tu sappia puranco svellere la luna dal cielo e arrestare il corso delle sacre stelle e volgerlo all'indietro, contro l'intenzione e la dire­zione della natura. Ah! Non so quanto sia di verità in queste cose: so che sei pericolosa. Tu minacci la mia figlia: e dunque hai da andartene.

Medea                             - Ma al contrario io voglio il suo bene, mio signore! Voglio ch'essa goda di ogni gioia. E spero che Giasone possa essere amoroso con lei come... con me.

Creonte                            - (in tono di minaccia) È questo il tuo desiderio?

Medea                             - Ho detto male. Intendevo... i vecchi giorni... (Par che sia per piangere).

Creonte                            - Mi rendo conto, Medea, che tu hai qualche ragione alla tua ambascia. Ma pure io mi debbo guardare dalla negra scienza e dal tuo cuore amaro.

Medea                             - Mi giudichi crudelmente. È vero ch'io ho qualche nozioni di erbe e di medicamenti: e posso talvolta curare la malattia: ma ciò è delitto? Queste voci oscure, signore, sono l'eco soltanto della rico­noscenza popolare. È cosa che tu devi aver osservato sovente: se alcuno sa un poco più che l'uomo comune, ecco che il popolo lo tiene in sospetto. E s'egli mostra nuovo ingegno, ecco che subito s'alza il mormorio astioso. Ma tu non sei l'uomo comune, signore di Corinto, tu non hai paura della sapienza.

Creonte                            - No. E non muto la mia risoluzione. Sono qui per vederti che lasci questa casa e la città: e in tempo non lungo. E dunque, fai presto, raduna le cose tue e vattene, lo ho pena di te, Medea, ma tu devi andare.

Medea                             - Tu hai pietà di me? Tu... hai pietà di me? (Gli si fa vicina, tremante d'ira) Sopporterò dunque la pietà di un cane o la pietà di un verme? Possa l'Iddio che mi ascolta... Vedremo alla fine chi sarà più degno di pietà.

Creonte                            - (colpito, riassumendo un atteggiamento dignitoso) Così va bene. Questo è quel che desi­deravo. Scopri il volto livido del tuo odio che io veda con chi ho da trattare. Serpente e lupa: lupa venuta dall'Asia: preferisco aver ora la tua collera piuttosto che rechi danno più tardi. Ed ora, Medea: fuori di qui. Prima che ti caccino i miei uomini.

Medea                             - (contiene la propria ira, poi parla) Tu vedi una donna che il dolore ha quasi tratto a uscir dì senno, la quale lotta per salvare i suoi piccoli figli. Non lupa, mio signore. E quanto all'esser io nata nella lontana Asia: chiama ciò sfortuna, non colpa. Le razze d'Asia sono anch'esse umane così come lo sono i greci brillanti. E altrettanto fragile è il nostro cuore: e quando è ferito noi ci lamentiamo. E noi abbiamo figli e li amiamo, così come i greci amano i loro figli. Tu hai una figlia, signore...

Creonte                            - Sì, e la terrò difesa dal tuo odio di femmina: e perciò ti mando via da questa terra.

Medea                             - Non è vero, io non sono gelosa, né mai ho portato odio. Gelosa per l'amore di Giasone? Ho cessato da tempo di desiderare Giasone, signore. Tu me l'hai preso e l'hai dato alla tua figlia e io ti dirò che bene hai fatto e forse hai agito saggiamente. La tua figlia è amata da tutti: essa è bella, e se io le fossi vicina le vorrei presto bene.

Creonte                            - Puoi parlare dolce, tu; puoi far miele della tua bocca come l'ape, quando ciò serva a tuo fine.

Medea                             - Non miele: la verità.

Creonte                            - Verità o no, tu devi lasciare questa terra, Medea. Ciò che ho risolto riman fermo; come le salde rocce dell'Acrocorinto che né il terremoto può far vacillare né possono sciogliere le lacrime. E preparati presto: un ospite m'attende nella mia casa. E io debbo tornare a lui.

La Nutrice                       - (si fa vicina a Medea e le parla) Quale ospite? O signora, domandagli chi sia quest'ospite. Il quale se è potente e generoso ci potrà esser d'asilo nell'amaro esilio...

Medea                             - (non le dà ascolto. S'inginocchia davanti a Creonte) So che la tua volontà è granito. Ma anche sul duro fianco del monte di granito può, nella stagione, sbocciare qualche fiore di pietà. E tu abbi pietà dei miei piccoli figli, Creonte, se pure non di me. (Cerca di abbracciargli le ginocchia. Ma Creonte fa un passo indietro).

Creonte                            - A che indugi, donna? Questa cosa è decisa; fatta; finita.

Medea                             - (levandosi in piedi e volgendogli in parte le spalle) Io non sono una che mendichi. Io non ti voglio importunare. Non vivrò più a lungo. (Gli si ferma di fronte) Signore: concedimi poche ore ancora, un giorno per prepararmi, un solo breve giorno prima ch'io lasci Corinto per sempre.

Creonte                            - Che cosa? No! Te l'ho detto. Il giorno è oggi, Medea, questo giorno. E l'ora è ora.

Medea                             - Non ci sono fiori su questa montagna: non viola e non anemone. Il tuo volto, signore, è come un selce. Se io potessi trovare le parole adatte, se un dio mi prestasse l'ala dell'eloquenza io mostrerei a te il mio cuore. Lo svellerei dal petto e te lo pre­senterei sulle mani onde tu vedessi coni'esso sia puro di intenzione di offesa o danno verso a te e verso alla tua casa. (Tende le mani verso di lui) Guardale: non c'è macchia: guardale, signore. Esse invocano pietà, questo gioiello dei re. Io prego te come uno degli dèi: non ci distruggere nel profondo. Che tu ci scacci senz'asilo, senza che nulla sia preparato è morte sicura: avrei più caro uccidermi subito e qui. Se soltanto avessi il tempo di interrogare gli schiavi e gli accattoni vaganti dove debbo andare, come posso vivere: e devo radunare qualche mezzo: uno o due gioielli e i piccoli oggetti d'oro ch'io posseggo, per barattarli con pane e latte di capra. Sventurata, sventurata, sventurata io sono, io con i miei figli. (S'inginocchia di nuovo) Io ti supplico, Creonte, per la pallida morbida chioma e la fresca liscia fronte e le bianche ginocchia della fanciulla ch'è ora sposa a Giasone: concedi a me quest'obolo di tempo: una giornata... mezza giornata per costei che a metà è già andata... e io prenderò la mia triste strada e mi perderò nel mattino silenziosa come la rugiada che goccia sui sassi al tramonto e dilegua nell'alba. Non sarai più importunato da parole o atti di me. E a ciò ti supplico per amore della tua cara figlia. Oh Creonte, che cos'è mezza giornata nella ricchezza degli anni di Corinto?

Creonte                            - Ti credo. Io non sono un tiranno. Ho avuto misericordia a mio stesso danno, molte volte. Sembrerei insensato a me stesso se ti conce­dessi ciò... No, Medea, non te lo concedo. (Medea è rimasta in ginocchio, col capo chino. Silenziosa, alza verso di lui il viso implorante) Bene... ti guarderemo a vista: come il falco guarda la vipera. Che danno può far costei in un brandello di giorno ? Chi comanda dovrebbe essere spietato, ma io non lo sono. Io appaio insensato ai miei occhi medesimi, qualunque cosa ne pensi il mondo. Posso essere aspro con; sol­dati: una donna che piange mi svia dalla mia natura. E dunque, sia. Fai i tuoi preparativi. Ma se il sole che sorge domani ti trova qui ancora, Medea, tu morrai... E basta con le parole. Non ringraziarmi. Voglio che le mie mani siano nette di questo fatto. (Si allontana rapidamente, seguito dai suoi uomini. Medea si leva in piedi).

Medea                             - Io ti renderò grazie. E ne avrà notizia il mondo intero.

La Prima Donna              - Io ho veduto l'arroganza di quest'uomo; io ho posto orecchio e l'ho inteso. Io sono di Corinto, e dico che Corinto è governata non bene.

La Seconda Donna          - La città dove anche una donna, anche una straniera, soffre con ingiustizia sotto la verga della potenza, è governata non bene.

La Prima Donna              - Sventurata Medea, a quale asilo, a qual santuario, dove volgerai tu i tuoi passi? Quale degli dèi, Medea, ti condurrà attraverso le onde del dolore, spezzate ormai le gomene e divelta senza speranza l'ancora dal porto?

Medea                             - ... Quest'uomo... questo cane urlante... questo pazzo insensato... dèi della mia patria, m'avete veduta piegata sulle ginocchia dinanzi al gran cane di Corinto, umile, tenendo fra le mani il mio cuore che un cane lo addentasse... cibo per i denti d'un cane! Donne: amara cosa è esser nata donna. Perché la donna è inabile alla guerra, essa ha da adoperare la scaltrezza. Gli uomini menan vanto delle loro battaglie; questo io vi dico, e noi sappiamo: ch'è più facile regger tre volte il combattimento in prima linea, nella furia delle vibrate lame, che partorire un sol figlio. E la donna, essi dicono, non altro di buono può fare che la nascita. Questo può essere. Essa può fare male, può fare male. Io ho pianto davanti all'alto cane, ho pianto le mie lacrime davanti a lui, ho degradato a lui le mie ginocchia, e l'ho blandito e adulato; o tre volte insensato che m'ha concesso ciò di cui abbisognavo: un poco di tempo, un piccolo spazio di tempo. La morte mi è più cara di quanto, ora, io non mi sia; e se oggi al crepuscolo il mondo non si sarà rivolto e rivolto in amarezza... ebbene, che il vostro cane Creonte mandi due o tre schiavi a uccidermi e una corda a strangolarmi: e io tenderò ad essa il mio collo. Ma conservo un'amara speranza, donne. Comincio a vedere la luce attra­verso il negro bosco, fra i tronchi mostruosi degli alberi, all'estremità dell'intricata foresta uno spi­raglio, un barlume di luce: io non morirò, forse, come muore la piccioncina. Non come l'innocente agnello, il quale sente sul capo una mano e alza gli occhi dal coltello al viso dell'uomo, e muore. - No, come la fiera dagli occhi gialli che ha ucciso i suoi persecutori fate ch'io m'abbandoni sul corpo dei cacciatori e le spezzate lance. - E dunque come col­pirli? Quali mezzi usare? Tante son le porte attra­verso le quali la dolorosa morte può scivolare affer­rando... Quale, quale? (S'arresta, meditando. Alle sue spalle avanza la nutrice e parla rivolgendosi alla prima donna del coro).

La Nutrice                       - Dimmi: sai tu chi sia l'ospite della casa di Creonte?

La Prima Donna              - Che dici? Oh! Una nave d'Atene giunse la notte scorsa da settentrione: è Egeo, signore d'Atene.

La Nutrice                       - Egeo! La mia signora lo conosce: io credo ch'egli ci darà aiuto. Un dio l'ha guidato qui, un dio di salvezza.

La Prima Donna              - Egli ripartirà, io credo, oggi stesso.

La Nutrice                       - (indietreggiando affannosamente verso Medea) Mia signora! Il re Egeo è qui a Corinto, ospite di Creonte. Egeo di Atene. (Medea la guarda in silenzio, senza interesse) Se tu vorrai vederlo e apertamente parlargli, noi abbiamo un asilo.

Medea                             - Io ho cose alla mano che debbono essere fatte. E tu chetati.

La Nutrice                       - Oh, dammi ascolto! Tu sei scac­ciata da Corinto, tu devi trovare rifugio. Egeo di Atene è qui. (Medea le volge le spalle e s'avvia per rientrare in casa. La nutrice s'aggrappa alla sua tunica, rispettosa ma ferma, schiava e madre nel medesimo tempo).

Medea                             - (rivoltandosi a lei, in collera) E che cosa può importare a me?

La Nutrice                       - Ti ho cullata fra queste braccia quando tu... non più lunga di così. Da questi seni che son foglie ormai morte ti ho dato il latte. Ho veduto crescere e farsi robusto il tuo piccolo bellis­simo corpo. Oh... figlia... tu che sei quasi mia figlia... come posso non tentar di salvarti? La vita è miglior cosa che la morte...

Medea                             - Non ora...

La Nutrice                       - Il tempo corre via.

Medea                             - Io ho tempo. Oh, io ho tempo. Buona cosa sarebbe sedere qui mille anni e nient'altro pen­sare che la morte di tre creature.

La Nutrice                       - Ahi! Non c'è speranza, allora. Ahi, figlia, se avessi a compiere la rossa azione che tu sogni, Corinto intera si leverebbe contro a te.

Medea                             - Dopo che siano castigati i miei nemici e io abbia inteso l'ultimo rotto lamento... Corinto? Che cosa importa? Io dormirò. Dormirò bene. Sono sola contro tutto; e così stanca ch'è un'angoscia. (La nutrice immobile si torce le mani. Medea sale len­tamente verso la porta della casa. Alcune delle donne di Corinto la guardano; altre tengono fissi gli occhi lontano).

La Prima Donna              - Guardate: chi è che viene? Vedo i raggi del sole balenanti sulla punta di aste.

La Seconda Donna          - Oh, è Giasone!

La Terza Donna               - Giasone! Il nemico di Medea più crudo e colui che avrebbe dovuto essere di lei il protettore più caro. (Medea si appoggia stanca­mente a una delle colonne sulla soglia, volgendo le spalle al palcoscenico, senza avvertire ciò che le donne dicono. Di furia entra Giasone, seguito da uomini in armi, e farla in tono irato).

Giasone                           - A che faccende siete voi qui, donne, aggrappolate come ronzanti api all'apertura dell'arnia? Dov'è Medea? (Per un attimo non segue risposta, ma gli sguardi si dirigono involontariamente verso Medea, e Giasone la vede. Essa ha un sussulto, ma non si volge).

La prima Donna              - (accennando col dito) Là: nell'ambascia di ciò che tu hai fatto.

Giasone                           - Ah? Ciò che lei ha fatto. Non io. Non per mia volontà essa è i miei figlioli sono esiliati. (Medea si volge lentamente a fronteggiarlo, alto il capo).

Medea                             - C'è qui un altro cane?

Giasone                           - E dunque, Medea, tu hai una volta ancora affrontato e vilipeso il capo di Corinto. Non è questa la prima da che io ho visto quale insensata collera sia. Avresti potuto vivere qui in felicità, sicu­rezza e onore. Io ho sperato che così potesse essere... se soltanto tu avessi mostrato un poco del dovuto rispetto verso quelli che sono in potenza. Ma al con­trario, tu sei impazzita nell'ira e con parole ti sei meritato l'esilio. Di poca offesa è ciò che tu dici di me, ma quelli che comandano sono suscettibili. Già e ancora avevo mitigata l'indignazione di Creonte, ma poi tu al pari di una pazza, al pari d'una donna senza senno hai scosso il capo liberando il flusso delle parole, tu non hai cessato di parlar male contro a lui e contro alla sua famiglia. Giudicati fortunata, Medea, che tu non abbia avuto di peggio che l'esilio. A dispetto di tutto ciò, io tengo a cuore il tuo inte­resse e qui sono per recarti soccorso. Amara cosa è l'esilio. E io voglio apprestarti qualche aiuto perché tu non patisca alcun male, sebbene tu mi abbia in odio. (Attende un attimo ch'essa parli, ma la donna rimane in silenzio) E in particolare i fanciulli; miei figli, nostri figli. Qualche poco di misura avresti dovuto tenere, almeno nel pensiero dei nostri figli.

Medea                             - (lentamente) E tu hai avuto pensiero di loro quando tradisti questa casa?

Giasone                           - Per certo, che ho avuto pensiero di loro. Ed era mia speranza ch'essi qui crescessero e io, come colui che ha tratto in sposa la figlia di quello che comanda, avrei potuto dar loro protezione e favore. E se poi, dopo molt'anni, io divenissi Dinasta di Corinto - perché questo è il pensiero di Creonte, di far di me il suo erede - i nostri figli sarebbero stati i figli di un re... Io spero di dar loro aiuto, dovunque essi vadano: ma ora - e si capisce - è necessità che si guardi avanti, a più giovani figli.

Medea                             - (tremante) Ah... è abbastanza. Qualcosa potrebbe accadere. È come... se qualcosa... potesse accadere. Alla sposa e agli sponsali.

Giasone                           - Me ne terrò in guardia. Ma evidente­mente Creonte ha ragione a volersi sbarazzare di te.

Medea                             - E ora hai tu finito? Credevo di doverti parlare avanti, finché tu versassi la piena della tua spudoratezza dinanzi a queste donne: al modo che un mercante di Tiro dispiega i suoi tessuti: « E questo, donne, vi piace? ». È lo sposo della figlia del cane. È un giovane prode: il quale ha infine raccolto il proprio coraggio - con la scorta di lance - per venire a guardarmi in viso. Oh, Giasone: come hai potuto gettarmi cosi in basso, nell'inferno di questi pensieri di viltà? Io non sono usata a parlare come donna comune. Ti amavo, una volta: ed ora ne provo ver­gogna: ma ci sono altre cose che dovrebbero ricordarsi da te e da me. Quel giorno d'azzurro quando trapas­sammo dall'Ellesponto al mare di Grecia, e i grandi eroi dall'ampio petto sedevano cantando ai remi, e quegli uccelli sfioravano volando le gonfie schiume: troppo era bello quel giorno - io credo - perché l'uomo della figlia di Creonte lo ricordi, ma tu puoi ricordare come io defraudai per te il mio padre e domai i tori che avevano nari di fiamma e zoccoli di bronzo; e come nel campo dei denti salvai la tua vita, e puoi ricordare come avvelenai il gran ser­pente e ti procurai il Vello d'Oro; e con te navigai e uccisi il mio fratello quand'egli ci perseguitava e mi ridussi oggetto d'abominio alla mia casa mede­sima; e poi - già con la tua gente - ridussi a morte il tuo nemico Pelia per mano della sua figlia stessa.[1].. qualunque cosa questi illustri di Corinto, amici tuoi, possano dire contro la mia rapida e occulta scienza, a te essa è servita, a te è servita bene: per cinque le volte, se il conto è esatto e non è un conto com­pleto, la tua avventura inclinava a non egregia morte se io non t'avessi dato soccorso... ma tu ora pensi che le tue avventure siano finite; tu sei salvo a Corinto e in ben alto ufficio e non hai bisogno di me più oltre. Egli è un piccolo cane, donne, non è vero? Egli ha ben diritto di dormire con la figlia del cane. Ma a me, Giasone, a me, trascinata per il sommo dei capelli giù dal letto nuziale, quale asilo consiglia la tua circospetta generosità? Tornerò alla mia casa di Colchide a infilare il mio collo nella cuffia d'annodata corda, a castigo dei delitti onde t'ho servito? Ovvero andrò a piegare il ginocchio dinanzi alle figlie di Pelia? Liete esse sarebbero, in verità, di mettere le loro mani sul mio capo: armate dei pugnali stessi e delle asce che trassero di vita il loro re. Il mondo mi è un poco vietato, eh? A cagione di ciò che per te ho commesso. (Frattanto la nutrice si è venuta facendo avanti sulla scena. E ora parla).

La Nutrice                       - Io andrò al palazzo e cercherò Egeo. Perché non c'è altra speranza. (Esce).

Giasone                           - (lentamente) Capisco, Medea: tu sei stata un avveduto mercante di benefici. Nessuno ne dimentichi, ma anzi ne tieni calcolo esatto. Ma ta­lune piccole cose, che da parte mia io ho pur fatto per te, dovrebbero egualmente trovar posto nel tuo elenco: che, per esempio, io ti strappai dalla super­stiziosa ignoranza della Colchide d'Asia per recarti al ragionante sole della Grecia e all'armonico marmo dei templi della Grecia: e non è un beneficio, questo* E ora, questa greve azione onde tu mi odi: che io ho tratto in sposa la giovane figlia di Creonte, la piccola Creusa: credi tu che ciò mi piaccia come un fanciullo o una donna, nella cecità della passione? Questo io ho fatto per aver qui potenza: e la potenza ho volto a proteggere te e i nostri figli, ma la tua gelosia pazza ha conturbato ogni cosa. E infine: di quegli atti di beneficio di cui tu così gran vanto meni... chi ho io da ringraziare? La divina Venere, io ringrazio, la dea che induce la fanciulla in peccato d'amore. Tu li compisti, quegli atti, perché avevi da compierli; Venere te ne obbligava; e io ho goduto del suo favore. L'uomo teme le cose, tu lo sai, compie le sue gesta sotto il freddo occhio della morte; e se gli dèi hanno cura di lui gli apprestano uno strumento perché egli se ne salvi; altrimenti, egli muore. Tu fosti quello strumento.

Medea                             - Ecco: il fondo. L'oscena feccia; la melma e il fango; il lubrico rigurgito: quando lo scellerato comincia a invocare gli dèi. Meglio è che tu vada, Giasone. La bassezza è morbo di contagio: e d'im­provviso che cosa potrei io fare se non sputarti come un bifolco in viso, o maledirti come uno schiavo ubriaco? Meglio che tu rivolga i tuoi passi a... alla « piccola Creusa ».

Giasone                           - Son venuto ad aiutarti e salvarti, se ciò è possibile.

Medea                             - Il tuo aiuto non è richiesto. Va. Va.

Giasone                           - Se potessi vedere i miei figli...

Medea                             - Vattene subito.

Giasone                           - E sia dunque tuo il rimpianto. (Esce. Guardandolo mentre si allontana, Medea si sfrega la mano dal polso alla punta delle dita, come a scuotere da essa fango o lordume).

Medea                             - Questo egli è. Per certo io non lo cono­scevo: e non è che fango. Questa carne egli ha toc­cato e lordato. Queste mani che hanno lavorato per lui, queste ginocchia che hanno diviso il suo andare. Questo corpo che fermò... ciò che chiamano amore, e per lui ha partorito figli. Potessi io annullare questa carne, questi figli, questa memoria delle cose... (Di nuovo si sfrega l'una contro l'altra le mani, che poi si guarda) Povere mani maltrattate; povere braccia macchiate: le ossa vostre non senza forma sono. Potessi io con lacrime tergere da esse la carne e lasciarle ossa, nude ossa; ossa che il salmastro con­suma lungo la spiaggia della patria in Colchide... (S'arresta, lo sguardo in avanti, forse nel pensiero della patria).

La Prima Donna              - Il dio mi protegga dal fuoco e dalla furia della spada, mi salvi dall'irato mare e dal frangiato baleno, e dalla violenza dell'amore.

La Seconda Donna          - Un modesto amore è una gioia nella casa, un fuoco modesto è un gioiello contro il gelo e l'oscurità.

La prima Donna              - Un grande amore è fuoco che incendia le travi del tetto. E ardono gli stipiti delle porte e la casa rovina. Un grande amore è leone nel recinto degli armenti, e il custode impaz­zisce e le giovenche si agitano muggendo e gli artigli straziano i loro fianchi. L'amore soverchio è l'armato brigante nel tesoro, il quale ha ucciso le guardie e cammina nel sangue.

La Seconda Donna          - Ed ora io vedo la negra fine, la fine del grande amore; e l'iddio mi tenga lontana da esso: l'insepolto orrore e lo sfrenato odio e gli avvoltoi che lacerano un cadavere: Dio con­servami intatta dai becchi malvagi.

La terza Donna                - Che cosa fa, quella donna, fissa gli occhi come sasso, fissa gli occhi? Oh, ora si è mossa.

Medea                             - Annientare. La parola è dolce musica: annientare. Annientare il passato non è possibile: ma i suoi frutti nel presente... si possono staccare. Dovrò io guardare negli occhi dei miei figli e vedervi Gia­sone in eterno? Come potrei reggere l'onta senza fine, di queste vite che ripetono Giasone e me uniti? Meglio essere scarnite ossa sulla spiaggia. Le ossa non hanno occhi, e come dunque potrebbero pian­gere? Bianche ossa sulla spiaggia del Mar Nero... Oh, ma esso è lontano. Non ancora. Prima ha da urlare Corinto. (8'interrompe e medita).

La prima Donna              - Le sacre fonti zampillano dalla terra, il fumo dei sacrifici s'eleva dalla terra, l'aquila e il cigno selvatico volano dalla terra, e la giustizia del pari s'alza dalla terra ai piedi di Dio. Essa è là, la giustizia, e non è qui: pace e pietà sono dipartite e qui è l'odio; l'odio è greve, e s'abbarbica alla terra. L'amore svola, l'odio resta.

La

Seconda Donna               - Le donne odiano la guerra, ma gli uomini ancora la ripeteranno. Le donne pos­sono odiare i loro sposi, e i figli i loro padri, ma le donne non odieranno mai i loro figli.

La prima Donna              - Ma quanto a me, io benedico al mio sposo e amo i miei figli e le figlie, e adoro gli dèi.

Medea                             - Potessi con un aguzzo coltello penetrare nella casa, presso all'uomo e alla sua sposa... o potessi incendiare la stanza nella quale essi dormono, e udirli mentre si destano nel bianco del fuoco e chia­marsi l'un l'altra, e guaire come cani, e guaire e morire... Ma potrei mancare; potrei cadere prima; potrebbe girare il coltello nella mia mano, o non ardere il fuoco, e i miei nemici potrebbero ridere di me. No: io ho mezzi più sottili e più mortalmente crudeli: io ho la mia oscura arte che gli sciocchi chiamano stre­goneria. Non è per nulla che io ho adorato la fiera grigia dea che muove nelle tenebre, la saggia, la terribile, la dolce cacciatrice, Ecate, nella casa del mio cuore.

La Nutrice                       - (entra e di fretta s'avvicina a Medea) Mia signora: stava varcando la soglia di Creonte: ed è qui che viene. (Medea non le dà ascolto; e la nutrice s'inginocchia e le prende la mano) Egeo è qui che viene! Il potente di Atene.

Medea                             - Non voglio vederlo. Torna e digli questo. (La nutrice si ritrae dietro il coro. Medea prega) Antica Dea alla quale io e la mia gente facciamo il sacrificio di neri agnelli e nere cagne, tu santa, esperta dei quadrivi, regina della notte, Ecate, ora tu aiutami: che io ricordi nella mia mente l'uso del velenoso fuoco, la magica canzone, e le lucide gemme. (Siede sugli scalini in profonda meditazione. Entra Egeo con i suoi uomini i quali non portano armi; ed hanno apparenza come di gente di mare).

La

Prima Donna                   - Eccolo, Medea. È qui Atene. (Medea non dà ascolto).

Egeo                                - (facendosi vicino a lei) Rallegrati, Medea! Nessun saluto migliore che da amico a amico. (Essa lo ignora. Ed egli parla più alto) Saluta e rallegrati, Medea! (Essa volge il capo, e lo guarda).

Medea                             - « Rallegrati? ». Può essere che io sia... rallegrata prima che il sole cali.

Egeo                                - Medea! Che cosa dunque t'è accaduto?

Medea                             - Nulla!

Egeo                                - I tuoi occhi sono fondi! E le tue labbra tremano.

Medea                             - Nulla: io sto perfettamente bene...: certi sciocchi mi mettono in ambascia. E tu, donde vieni, Egeo ?

Egeo                                - Da Delfi, dove andai a consultare l'antico oracolo di Apollo.

Medea                             - (in tono distratto) Oh... Delfi... E hai avuto buona risposta?

Egeo                                - Oscura risposta. Un qualche dio vieta ch'io possa aver figli: e questa è la mia pena; ma l'oracolo non dà mai chiare risposte. A te dico queste cose perché tu sei esperta di misteri, e potresti soccorrermi ch'io intenda il significato del dio.

Medea                             - (in tono stanco) Tu vuoi un figlio. Che cosa ti disse Apollo?

Egeo                                - Che io non debbo sciogliere il pendente piede dell'otre finché non sia tornato alla terra dei padri.

Medea                             - (senz'interesse, ma penetrando l'allusione anatomica) Il pendente piede dell'otre. Hai tu mai avuto un figlio?

Egeo                                - No. Ed è cosa di molta amarezza.

Medea                             - Ma quando sopravvenga la sventura, cosa di molta amarezza è aver figli, e vedere i loro stellanti volti coprirsi d'oscuro per sopportarla.

Egeo                                - Quando sopravviene la morte, Medea, è per l'uomo senza figli disperazione profonda, oscu­rità e fine. I figli di uno sono vita dopo la morte.

Medea                             - (eccitata) Tu senti che questo è così? Tu senti che questo è così? Allora - se tu avessi un nemico con occhi di cane e assolutamente tu volessi vendetta - tu prima uccideresti i figli dell'uomo? Lo priveresti dei figli, eh? E allora avresti privato colui della vita.

Egeo                                - Io non giungo a pensare tali orrori. Io non ho nessuno che così profondamente mi sia nemico. (La fissa, poi fa qualche passo indietro) Che è questo? Che cosa accade, Medea? Tu tremi; selvaggia febbre t'incendia gli occhi.

Medea                             - Io sto bene... Certi sciocchi mi mettono in ambascia e cani; ma non è che... Oh... (Si abban­dona sugli scalini, e piange).

Egeo                                - Che cosa dunque t'è accaduto.

La Nutrice                       - (si accoscia accanto a lei, cercando di confortarla) Mia cara... mio amore...

Medea                             - (la respinge dolcemente, e alza gli occhi ad Egeo) Non io farei male ai miei figli. Ma il loro padre.

Egeo                                - Che vuoi tu dire, Medea? Che cosa ha fatto Giasone?

Medea                             - Egli ha tradito e ripudiato insieme me e loro.

Egeo                                - Giasone ha fatto questo? Perché? Perché?

Medea                             - Egli mi ha ripudiata e ha tratto in sposa la giovane figlia di Creonte. E Creonte, questo giorno stesso, ci ha cacciati in nero esilio.

Egeo                                - E Giasone consente a ciò?

Medea                             - Di ciò egli è contento.

Egeo                                - Ma... è atroce, è cosa oltre ogni credere.

La Nutrice                       - (parla all'orecchio di Medea) Doman­dagli asilo! Domandagli che ti accolga in Atene!

Medea                             - (si leva in piedi, ferma e rigida) Non credi che tali uomini dovrebbero essere castigati, Egeo?

Egeo                                - Tu vuoi dire che sei cacciata in esilio?

Medea                             - In esilio, senza speranza di casa.

Egeo                                - Ma la ragione di questo?

Medea                             - La nostra presenza qui mette a disagio la giovane sposa. Non credi tu che tali uomini dovreb­bero essere castigati, Egeo?

Egeo                                - Io credo che questa sia cosa spregevole. Essi, nulla me ne hanno detto.

Medea                             - Non credi tu che tali uomini dovreb­bero essere castigati Egeo?

Egeo                                - È una cosa malvagia. Dove andrai?

Medea                             - (in tono solenne) Se c'è qualche giu­stizia in terra o nel cielo, essi saranno castigati.

Egeo                                - Dove andrai, Medea?

Medea                             - Dove? A morte, s'intende.

La Nutrice                       - Oh... Essa è tutta sconvolta, signore: nell'alto oceano tempestoso del dolore. Che, se no, ti chiederebbe asilo in Atene.

Medea                             - (in tono amaro di scherno, poiché vede Egeo esitante) Ah? Questo io chiederei. Cosa che intriga l'uomo. Egeo: mi darai tu asilo in Atene ?

Egeo                                - Ma... sì. Sì... non ti porterò via con me da Corinto, poiché questa non sarebbe cosa lecita. Io non voglio offendere Creonte, del quale qui sono l'ospite. Se tu, con i tuoi mezzi, verrai ad Atene... ebbene, io avrò cura di te.

Medea                             - E io te ne potrei ripagare. Perché mi sono noti i rimedi onde un arido tronco sboccia in fiori e frutti.

Egeo                                - (ansiosamente) Tu guariresti la mia sterilità?

Medea                             - Potrei farlo.

Egeo                                - Tu hai gran fama per scienza profonda di erbe e incantesimi. (Ansiosamente) Verrai ad Atene?

Medea                             - Se mi piacerà. Se questa sarà la volontà degli dèi. Ma, Egeo, mi daresti tu protezione se io venissi? Io ho certi nemici. Se codesti nemici potenti sopraggiungessero, pretendendo il mio sangue, mi daresti tu protezione?

Egeo                                - Ma... sì. Quali nemici?... Sì. Atene protegge.

Medea                             - Io avrei bisogno di quiete, e aver sgombra la mente intanto che preparo le medicine del tuo bene.

Egeo                                - L'avrai, l'avrai, Medea. Tu hai veduto gli enormi massi che escludono la guerra dalla sacra di Atene. Vengano i quattro angoli del mondo, ed essi non li penetreranno: là tu sei salva e io me ne faccio mallevadore.

Medea                             - Vuoi tu giurare, Egeo?

Egeo                                - Ah? Perché? Ho promesso.

Medea                             - Ho fede in te: il giuramento è formale ma da esso dipende ch'io ti curi. Giura per la frut­tifera terra e l'alto lucente cielo che tu mi darai protezione in Atene contro tutti gli uomini. Giura.

Egeo                                - Io giuro per la fruttifera terra e l'alto lucente cielo che ti darò protezione in Atene contro tutti gli uomini.

Medea                             - E se tu avessi a rompere questo giu­ramento?

Egeo                                - Non lo romperò.

Medea                             - Se tu avessi a romperlo, che la terra non ti dia cibo ma morte, e il cielo non luce ma tenebre.

Egeo                                - (visibilmente turbato) Non lo romperò.

Medea                             - Tu devi ripetere le parole, Egeo.

Egeo                                - Se io avessi a romperlo, che la terra non mi dia cibo ma morte, e il cielo non luce ma tenebre.

Medea                             - Hai giurato: gli dèi ti hanno inteso.

Egeo                                - (a disagio) Quando verrai tu ad Atene?

Medea                             - Ad... Atene? Oh, ad Atene. Ma: se vengo, se vivo... sarà presto. Il giogo è sul collo ai cavalli. Ho qualche cosa da fare della quale parle­ranno poi quegli uomini con sussurrante voce: mentre io e i miei figli sicuri in Atene rideremo. E così? Stai bene, Egeo. (Oli volge bruscamente le spalle; e s'avvia lentamente, immersa in profondi pensieri, per rientrare in casa).

Egeo                                - (seguendola con gli occhi) Possano gli dèi darti conforto, Medea. E statevi bene voi pure, donne di Corinto.

La

Prima Donna                   - Propizio ti sia il vento alle vele, signore, e aperto il cammino. (Si volge alle compagne) Che cosa va essa tramando nella profonda mente? Essa gioca con la morte e la vita, come una giocoliere con una palla nera e una palla bianca.

La Seconda Donna          - No: essa è come una città assorta che aguzzi le sue armi. La visita l'ambascia­tore; alla sua porta viene il capo dello Stato; ed essa li riceve cupamente.

La Nutrice                       - Io vi metto in guardia, donne, che non pronunciate parole contro alla mia signora che io amo. Voi conoscete la malvagia ingiustizia ch'essa ha sofferto. (Prega) 0 Dio, protettore degli esili, signore del sacro cielo, guidaci all'alta rocca che Atena predilige, e agli ulivi che fanno corona ad Atene.

La Prima Donna              - Atene è bella come un lampo sulla roccia. I templi vi sono di foggiato marmo; là essa leggera splende e indugia color del miele fra le aperte pietre e color d'argento sulla foglie degli ulivi. Le fanciulle sono coronate di viole; Atene e Corinto sono le due corone del tempo.

La Seconda Donna          - Micene per le lance e le corazze; Sparta per i duri maschi e le alte femmine bionde; e Tebe io ricordo, la vecchia Tebe e le sette porte nelle grigie muraglie... ma sopra tutte io lodo Atena, d'avorio e d'oro, la Vergine dai grigi occhi, la sua città. E ancora lodo Corinto dalle belle fon­tane, dalla bella pianura in mezzo ai due golfi.

La Prima Donna              - Le città del mondo greco che gli dèi prediligono. Fortunati coloro che in esse vivono, felice colui che le tiene.

La Seconda Donna          - Come può essere che uno voglia morire? Come può essere che quella donna sia immersa nel dolore e sconvolta dall'odio? (Non vede Medea che avanza dalla porta e si ferma fra le colonne) Perché solo che si sia vivi e si veda la luce è bello. Solo che si veda la luce; che si veda una lama di tenera erba sul grigio dorso di un sasso.

La prima Donna              - (indicando Medea) Taci!

Medea                             - (in tono fiero e falso) È così come tu dici. Qual privilegio meraviglioso è già soltanto che si sia vivi. E qual cosa insensata sarebbe che spen­dessi il solo giorno di vita che mi rimane, - almeno a Corinto - questa breve parte di giorno alla fine, nelle lacrime e nel rancore! Piuttosto mi dovrei ral­legrare, e cantare, e distribuire doni; e quanto ai miei nemici... riconciliarmi con essi.

La prima Donna              - (meravigliata) Riconciliarsi con essi!

Medea                             - Così come tu dici. Riconciliarmi. Perché essi mi dovrebbero odiare? Per certo io posso miti­garli. Essi dicono che l'oro è tale che ne è comprata ogni cosa: anche l'amicizia, anche l'amore: almeno in Grecia, in mezzo a voi gente coltivata, voi educati e civili Elleni. Infatti, abbiamo visto ch'è accaduto. Essi comprarono Giasone; l'amore di Giasone. Bene... io comprerò il loro. Ancora possiedo due o tre cose del tesoro che recai con me dalla mia casa, cose di puro prezioso oro, le quali diede un dio ai re miei padri. (La luce s'attenua: una nube è trascorsa a far velo al sole) È tardi? Mi sembra che la luce si diparta. (Alla nutrice) È sera?

La Nutrice                       - (tremando) No... No... Una nube...

Medea                             - Speravo il tuono; fate che infurii il cielo: più lucidi brilleranno i miei doni. Ascolta, vecchia: io voglio che tu ti rechi da Giasone e a lui dica... a lui dica... A lui dica ch'io sono sazia di odio, stanca di male! Desidero pace. Desidero inviare doni preziosi alla pallida fanciulla dai chiari capelli ch'egli ha tratto in moglie: digli che venga a prenderli e a baciare i suoi figli prima che noi andiamo in esilio. Digli che venga senza indugio. Ora corri, corri a cercarlo.

La Nutrice                       - Oh, vado. Corro. (Con voce tremula, al coro) Lasciate che io passi, ve ne prego. (Medea, immobile, la segue con gli occhi. La nutrice si volge al limite della scena e dice, torcendosi le mani) Ma io ho paura. Non so... ho paura. Pregate gli dèi, donne, che tengano gli uccelli del male lontano dal nostro capo! (Esce correndo, mentre Medea s'avvia per entrare in casa).

Fine prima parte

PARTE SECONDA

Medea siede sugli scalini più alti. Un drappo intes­suto d'oro le sta attraverso le ginocchia e ricade sui gradini di pietra. Alle spalle sono due cofanetti di cuoio scuro, aperti. Da uno di essi, Medea prende una piccola corona di auree foglie di vite, la guarda e poi la ripone. Dietro di lei, sulla soglia, stanno due schiave. Un poco più sotto, da una parte, è la nutrice. Dall'altro lato, a qualche distanza, sono aggruppate le donne di Corinto come pecore nella tempesta.

(La scena è alquanto più scura che nel primo atto).

Medea                             - Questi sono i doni che ho in mente di mandare alla giovane sposa: quest' aureo drappo e questo velo tramato d'oro. Essi non sono senza pregio; e non c'è nulla che li valga nel mondo intero, o almeno nel mondo d'occidente; lì recò al padre del mio padre il Dio del Sole e io l'ho conservati nel profondo cofano per un evento d'importanza-, che ora è giunto. Di molta gioia è per me offrire queste cose preziose alla figliola di Creonte, poiché la gloria della vita consiste in questo, che uno sia generoso con i suoi amici... e spietato con i suoi nemici... E voi sapete com'essa sia stata mia amica. Tutta Corinto lo sa. Ne discorrono gli schiavi. E hanno visto e ne hanno riso le vecchie pietre dei muri. (Medea abbassa gli occhi sul drappo d'oro e cautamente vi fa scorrere sopra la mano. Il tessuto sembra scottarle le dita. Il coro s'è fatto più vicino per vedere, e ora s'arresta) Guardate, par quasi che viva. L'oro è cosa vivente: l'oro quando come questo è puro. Ma quando il corpo di lei l'avrà fatto caldo, come brillerà! (Alla nutrice) Perché egli non viene? Che cosa lo trattiene?

La Nutrice                       - (con i segni del terrore in volto) Oh, mia signora: egli verrà fra un istante. Or ora l'ho lasciato. Era oltre la porta, ad assistere alle corse... quando una cosa mostruosa accadde: una giumenta si sciolse dal carro e si volse coi denti contro uno stallone. (Medea si leva in piedi e nel movimento il drappo manda bagliori. Essa lo ripiega con cura e quindi lo depone nel cofano di cuoio. La luce s'è un'altra volta oscurata; e Medea guarda ansiosamente il cielo).

Medea                             - Colui non si dà fretta, eh? Ed è cosa insopportabile sedere in attesa. (Alle schiave) Portate ogni cosa nelle mie stanze. E tenetele a mano per quando io le richiederò. (Le schiave eseguono. Medea si agita inquieta, in preda a estrema tensione nervosa. Si volge alla nutrice) Hai detto che una giumenta si volse coi denti contro uno stallone.

La Nutrice                       - Lo morsicò crudelmente. Io lo vidi quando lo portavano via: un corridore nero, e gli scorreva sangue dalla criniera allo zoccolo.

Medea                             - Sei certa ch'egli verrà? Ne sei sicura1?

La Nutrice                       - Così egli ha detto.

Medea                             - E che s'affretti, dunque!

La Seconda Donna          - Spaventevoli incompren­sibili cose sono dì recente accadute; il volto della natura è solcato di presagi.

La Prima Donna              - lersera uno schiavo giunse dal porto e portava un cesto di pesce dianzi pescato: e un dei pesci s'infiammò e arse nell'umido cesto con alta vampa: e a ciò assistevano numerose persone.

 La Terza Donna              - E un nero leopardo fu visto che s'aggirava lungo la piazza del mercato...

Medea                             - (bruscamente, avvicinandosi alle donne) Non m'avete detto ancora: credete voi che la figlia di Creonte sarà contenta a questi doni?

La Prima Donna              - 0 Medea, la soverchia libe­ralità può talvolta essere minacciosa.

Medea                             - Essa sarà contenta, tuttavia. Li accet­terà e l'indosserà, e se ne vestirà e ne menerà vanto e si pavoneggerà. Ecco, ora lo vedo che viene. Il palazzo intero l'ammirerà. Fatevi lontano da me, donne, intanto ch'io propongo la mia debole pace. (Attraversa la scena per andare incontro a Giasone, ma il suo passo è sempre più lento, finché s'arresta. Il suo atteggiamento dichiara avversione).

Giasone                           - (entrando) Bene, io sono venuto. Senz'ira ti parlo, non in grazia di te: ma dei figli. La tua donna mi ha detto che di nuovo hai la tua ragione e intendi veder le cose aldilà del tuo rancore. (Medea tace. Giasone l'osserva e prosegue) C'è qualcosa di dubbio. Dove sono i fanciulli? Me ne son dato pensiero: e posso trovare chi ha cura di loro in Epidauro; o in qualsiasi altra delle città che tengono gli amici di Creonte. Io farò loro visita di quando in quando, e baderò che siano educati come si conviene.

Medea                             - (con contenuta violenza) Vuoi dire... che hai in mente di portarli via da me? Bada a te, Gia­sone: io non sono più. paziente. (Con tono più calmo) Io son colei che si travagliò nella doglia per recarli in grembo, e non posso sorridere intanto che ne sono privata. Ma sto imparando; sto imparando. No, Gia­sone: io non affiderò i miei piccoli alla gelida cura di stranieri. Meglio per essi sarebbe essere som­mersi in mare piuttosto che vivere con altri che non li amino, volti d'indifferenza, mani d'asprezza. Meglio sarà per essi dividere l'errante oceano della mia miseria e il triste esilio: così avranno ancora amore e quando infieriscono i cieli conserverò il loro calore contro il mio seno. Io li amo, Giasone. Soltanto se tu ne avessi cura in Corinto, io potrei consentire.

Giasone                           - Volentieri... ma essi sono condannati all'esilio.

Medea                             - Nella tua stessa casa.

Giasone                           - Volentieri lo farei... ma tu capisci ch'essi son condannati all'esilio, al pari di te.

Medea                             - Innocenti: e ne è cagione il mio ribel­larmi. Questa è cosa empia. (Tende le mani verso Giasone) Perdonami, Giasone, così come io perdono a te.. Di troppa ira ci siamo nutriti e siamo prigio­nieri delle nostre azioni. Delle mie azioni, voglio dire. Il castigo procede dagli dèi, ed è tale che ci spezza il cuore: ma tu non avverti la colpa, tu nulla temi e nulla c'è che ti possa toccare. È mirabile cosa perdurare sereni sotto il fato mentre il timore tiene gli altri terrestri. Se ciò dura. Che ciò non sempre dura. Tu li ami, Giasone?

Giasone                           - Che dici? Per certo. I fanciulli? Per certo che li amo. Poiché io sono il loro padre,

Medea                             - Oh, ma ciò non basta. Se io a te li dovrò affidare - sii paziente con me - occorre prima che ti scruti dentro. E molto in profondo; nell'animo. Se dunque qualcosa accadesse a loro, ne avresti tu dolore?

Giasone                           - Nulla accadrà loro, Medea, se io ne avrò cura. Abbiti pace di questo.

Medea                             - Tu mi devi perdonare: non è possibile ch'io abbia questa certezza. S'essi fossero... uccisi e scorresse il loro sangue sul pavimento della casa o giù, lungo l'umile terra... ne avresti tu dolore?

Giasone                           - La tua mente è ottenebrata. Che debole cosa è la donna, che sempre al male va pensando.

Medea                             - Rispondimi!

Giasone                           - Sì, dopo che io avessi troncato in rossi brani il loro uccisore... sì, ne avrei dolore.

Medea                             - Questo è vero: la vendetta fa soppor­tabile l'ambascia. E la certezza... la figlia di Creonte, tua sposa... ti crescerà altri figli. Ma se qualcosa avesse ad accadere alla... figlia di Creonte...

Giasone                           - Basta, Medea. È troppo. Taci!

Medea                             - E dunque concluderò che tu ami... la figlia di Creonte... più che tu non ami i tuoi figli. Ed essi divideranno con me il triste viaggio. (Alla nutrice) Chiama i fanciulli che vengano fuori a dire l'addio al padre loro. (La nutrice entra nelle stanze).

Giasone                           - Li potrei strappare a te, Medea, con la forza.

Medea                             - (violentemente) E tu provati! (Conte­nendosi) No, Creonte ha deliberato che sia altrimenti: egli ha detto ch'essi hanno da dividere il mio esilio. E dunque, Giasone: siamo amici fino alla fine! Io so che tu li ami. E se fosse loro concesso di vivere qui in Corinto, io mi contenterei.

Giasone                           - Io l'ho chiesto, ed egli ha negato.

Medea                             - Tu gli hai chiesto che fossero tolti a me i figli! (I fanciulli accompagnati dal tutore escono, e la nutrice li segue) Ora ho molta pazienza: io ho imparato. Venite, fanciulli: venite e parlate col vostro padre. (I fanciulli indietreggiano) No, no, siamo ancora amici. Non c'è più collera fra noi. (Giasone è andato ansiosamente a incontrare i suoi figli sui gradini. Cade in ginocchio per esser meglio al loro livello, ma i bambini appaiono intimidi e riluttanti).

Giasone                           - Sono grandi. Sono alti, non è vero? Siete cresciuti da quando vi ho visti.

Medea                             - Sorridete a lui, fanciulli. E dategli la mano. (Si volge, e resta immobile).

La Nutrice                       - (a Giasone) Credo ch'essi abbian timore del tuo elmo, signore.

Giasone                           - (al più piccolo dei fanciulli) Che? Che cosa? Tu devi imparare, piccolo uomo, a non temere gli elmi. Ma il nemico dovrà fuggire alla vista del tuo, quando sarai in età di portarlo. (Al più grande) E a te, capitano, non piacerebbe un arco con estre­mità di corno per cacciare ì conigli? Voglio dire, i lupi? (Gioca con i suoi figli. I quali, ora, vengono perdendo la loro timidezza).

La prima Donna              - (avvicinandosi a Medea) Non lasciarli a lui, Medea. Se questo farai ne avrai tri­stezza in eterno.

La Seconda Donna          - Tu hai asilo: e dunque portali là. Atene è bella...

Medea                             - (aspramente) Tacetevi. E guardatelo: egli li ama... non è vero? E perciò i suoi cari figli non a quella città andranno ma a una città più negra, dove non giochi si fanno né musica si sente. Credete voi ch'io mi sia la giovenca la quale muggisce dietro il suo vitello? O la cagna con i cuccioli, la quale lecca la mano ond'è percossa? Guardate e vedete. Guardate quell'uomo, donne: egli sta per piangere. Io credo ch'egli sia per piangere sangue, e ben presto, e più che io non abbia pianto. Guardate e tacete. (S'avvicina al gruppo sugli scalini) Giasone, ti son cari i tuoi figli? Io credo d'esser contenta che tu li ami... (Piange, e si copre con le mani il volto) Oh, oh, oh... (Giasone si leva in piedi e si volge a lei e uno dei figli gli tiene la mano. Poiché, ora, i figli gli si son fatti amici).

Giasone                           - Questi due giovani eroi... In nome di Dio, Medea, che cos'hai? Che cosa è accaduto?

Medea                             - (fa con le due mani un gesto, come volesse respingere qualcosa, e spinge il capo fieramente indietro) Nulla. È duro lasciarli andar via. Essi ti sono molto cari? Tu li ami teneramente? A questo io ho pensato: che tu li rechi alla... figlia di Creonte, tua sposa... e li faccia inginocchiare davanti a lei, e la preghi di pregare il suo padre di concedere ch'essi restino in Corinto. Egli lo concederà, poiché si va facendo vecchio, e nulla le rifiuta. Anche quel duro sovrano ama la sua figlia che è sola. E ciò ch'essa chiede, è fatto. Tu andrai con i fanciulli, Giasone, e parlerai per loro - perché essi non sono esperti di suppliche - e io manderò i miei doni. Io metterò i miei doni nelle loro mani. Perché dicono che i doni persuadono gli' stessi dèi. Ho pensato bene? Essa ci ascolterà?

Giasone                           - Per certo, se son io a chiedere! Essa non mi sa rifiutare nulla. Ed io credo che tu sia nel vero, ed essa domini Creonte.

Medea                             - (alla nutrice) Portami dunque i doni d'oro. (Ai fanciulli) Miei cari, dolci falchi gentili... teneri pegni della mia agonia... Andate a sollecitare l'amara misericordia di quell'orgogliosa fanciulla senza seno, s'ella concede che sia qui il vostro padre intanto che vi crescono penne sulle ali e mentre la vostra madre vola lontano nella negra tempesta... (Piange).

Giasone                           - Mi dolgo per te. Andar via è cosa dura.

Medea                             - Io posso reggerla. E anche più dure. (La nutrice e le schiave recano i doni) Oh, ecco: ecco i doni: prendeteli, carissimi, nelle vostre piccole mani. (Porgendo i doni ai fanciulli) Teneteli con cura: e non toccate l'oro, che potrebbe... offuscarsi.

Giasone                           - Oh! Questi son tesori di re. Tu non devi, Medea: è troppo. E la casa di Creonte è abba­stanza ricca d'oro.

Medea                             - Oh, essa l'indosserà. Che cosa potrei far io di queste vanità tramate d'oro? Negro è il mio vestire. E la tua donna grande allegrezza dovrebbe avere da queste gioie... e da questo sposo... non è vero? Il suo sole si leva e il mio scende..., spero, in un tramonto scarlatto. Il piccolo drappo d'oro è grazioso, non è vero?

Giasone                           - (dubbioso) Sembra come il fuoco...

Medea                             - Foglie della vite: le fiammeggianti foglie aguzze come freccia e che pure hanno peso. (Toglie i doni dalle mani dei fanciulli e li consegna alla nutrice e al tutore) L'oro è carico troppo grave per le piccole mani. E dunque recate voi i doni fino al palazzo. Addio, dolci figli: coraggiosi piccoli pellegrini dall'onda nera al bianco deserto: portateli drappo tes­suto, assicuratevi che colei lo riceva con le sue mani. E poi tornate a riferirmi ciò che accadde. (Volge improvvisamente le spalle) Riferitemi ciò che accadde. (I fanciulli escono con riluttanza, tenuti per le mani da Giasone. La nutrice e il tutore li hanno preceduti. Medea nasconde il viso e piange: poi alza fieramente il capo e s'avvicina al coro) Rallegratevi, donne. I doni sono dati; l'esca è lanciata. Gli dèi volgono i loro grandi occhi sopra la casa di Creonte e quieta­mente ridono: perché né topo né coniglio cadrebbero nell'aperta smascherata trappola che coglie l'orgo­gliosa razza dell'uomo. Essi abboccano ad un amo luccicante; e prestan fede ad ogni cosa. Anch'io son stata ingannata una volta: ora è il mio trionfo. Quel drappo di lucido fluente oro, quel velo di sposa, quella rete per prendere il flessibile salmoncino... non muto, poiché essa canterà: il corpo di lei delicato si torce nelle maglie, il tessuto d'oro le fascia di luce la lucida testa; ed essa danzerà, essa canterà alto; e io vorrei essere là per ascoltarla, l'orgogliosa quando ulula. Guardate, il sole è di nuovo libero, e le nubi sono andate via e ogni cosa è netta e gaia. Oh, s'aprisse la terra e in essa fossimo tutti inghiot­titi prima ch'io faccia ciò che vien dopo. La vita intera vorrei che scomparisse e morissero in cielo i santi dèi, prima che i miei piccoli tornino a casa, nelle mie mani.

La Prima Donna              - Meglio sarebbe per te, Medea, se aprendo le grandi labbra la terra ti divorasse nella sua tempesta. Ma una cosa non farai, perché tu non puoi e perché tu non vuoi recar male ai tuoi figli, anche se l'ira ti tormenta come bubbone di peste, e la tua ragione nella nebbia del fuoco addenta i frutti purpurei del dolore... ma non v'è fiera di bosco bevitrice di sangue, orsa o leonessa o magra lupa, che rechi male ai suoi teneri figli; e neppure l'aquila dagli occhi gialli che abita la Seizia e conosce la tempesta e s'avventa sugli agnelli ha mai fatto rapina del frutto del proprio albero...

Medea                             - E come potrebbe saziarmi la morte di quella sola fanciulla?

La terza Donna                - (avanzando fra le altre) Io sono percossa d'orrore. Io corro al palazzo, ch'essi stiano in guardia.

Medea                             - Questo tu vuoi fare? E allora, va. Va, se così vuoi. L'iddio e le mia dea di vendetta com­mettono queste cose che avvengono: e tu non puoi prevenirle, ma facilmente cadere nel medesimo fuoco.

La terza Donna                - (indietreggiando) Ho paura d'andare.

Medea                             - Perché tu sei saggia. Chiunque si ponga fra me e la mia giustizia raccoglie messe che ogni uomo teme.

La prima Donna              - Non è giustizia, ma vendetta. Tu hai sofferto il male, e vuoi restituire il male.

Medea                             - Io faccio secondo natura ciò che ho da fare.

La Prima Donna              - Ho inteso il male rispondere il male così come il tuono risponde al lampo, una grande voce di desolazione nel fondo cielo, e tutto ciò che dicono è morte. Ho inteso la vendetta come un'eco da collina rispondere alla vendetta, grandi voci fonde: e tutto ciò che dicono è morte.

 La Seconda Donna         - La spada parla e risponde la lancia: la città è desolata. Le nazioni si sovvengono di antichi torti e l'un altra si distruggono, e non c'è uomo che curi le loro ferite.

La Prima Donna              - Ma la giustizia costruisce una casa che dura.

Medea                             - Le porte della sua casa sono la vendetta.

La Seconda Donna          - Ho sognato di qualcuno che ricambiava bene per male, e il mondo ne faceva meraviglia.

Medea                             - Solo il vile o il pazzo ricambiano bene per male. Non sentite una musica flebile, come di fanciulla che si lamenti? O io forse la immagino? Ascoltate, è musica.

La Terza Donna               - Lasciami andare, Medea! Io sarò muta, io non parlerò ad alcuno. Ma non posso reggere... lascia ch'io vada alla mia casa!

Medea                             - Tu resterai qui e aspetterai la fine. (Le donne cominciano ad agitarsi come animali impauriti) Chetatevi, donne. Voi state per vedere come la donna dei barbari sopporta il tradimento: guardate e saprete.

La Seconda Donna          - Il cuore mi è una intor­bidata coppa di terrore: il negro aspro vino trapela in tutto il mio essere.

La Prima Donna              - In una tempesta di sangue costei navigò dalla casa del suo padre, in una tem­pesta di sangue navigò dalla Tessaglia; ora è qui e cupa sopra Corinto essa apre le ali a valicare i ritorti vortici e artigli per afferrare e tenere... Lasciate ch'io mi distolga dalla colonnata soglia e da questo luogo d'oscurità.

La Seconda Donna          - Ho inteso l'uomo-lupo sulla collina di neve ululare all'aerea luna...

La Terza Donna               - Il demone entra attraverso le serrate porte e soffoca i fanciullini...

La Prima Donna              - Ho visto i vortici sospesi dal negro cielo come ritorta fune, come eretto serpente, e la loro coda che lacera la terra è tramata di polvere e di fuoco. E ohi oserà solcarli a volo? Lasciate ch'io mi nasconda alle colonne che sostengono la notte e all'oscura porta.

Medea                             - Siate pazienti, donne. Chetatevi. Io ho per certo che qualcosa è accaduta; e fra non molto qualcuno ci recherà le notizie.

La Terza Donna               - Guardate! Vengono i fanciulli.

La Seconda Donna          - Essi hanno lucide cose fra le mani; e i loro volti sono aperti e lieti: e dunque tutto il timore era un sogno, un sogno? (Entra il tutore con i due fanciulli. Il maggiore dei guati reca un arco lavorato e frecce; e il minore un bambolotto di legno vivacemente colorato che rappresenta un guer­riero. Medea, guardando i due fanciulli, indietreggia).

Il Tutore                          - Rallegrati, Medea, poiché io porto buone notizie. La principessa ha accolto di buon animo i tuoi doni ed ha sorriso: onde la pace è fra voi. Ha ricevuto con affetto i due fanciulli, i quali sono salvi dall'esilio. E saranno cresciuti qui. E il padre loro se ne compiace.

Medea                             - (freddamente, le mani strette a forza nell'ansia di dominarsi) Sì?

Il Tutore                          - Tutta la casa di Creonte ne è ral­legrata. Subito come entrammo le schiave si fecero intorno a noi ad accarezzare i fanciulli; era corsa la voce nel palazzo della recente pace ristabilita fra te e Giasone; al pari di una parola di vittoria che tra­scorre l'aperta città quando il popolo affolla le strade per rallegrarsi in compagnia: e accompagnammo i fanciulli nell'entrata e consegnammo alle loro mani i tuoi doni preziosi; e poi Giasone li recò dinanzi alla principessa. La quale li guardò dapprima con occhio d'ira e distolse il capo, ma disse Giasone, « Non nutrire ira contro i tuoi amici. Ma anzi ama coloro che io amo. Guarda, mia cara, che cosa essi ti hanno recato », ed essa guardò e vide nei cavi astucci il lucido oro; e allora sorrise e ne fece mera­viglia. E poi accarezzò i fanciulli; e anche disse al minore ch'egli aveva capelli come esili fili d'oro. E poi Giasone diede loro questi trastulli e tor­nammo via.

Medea                             - Sì. Se questo fosse tutto. Se questo fosse tutto, vecchio... farei frustare a sangue i tuoi fianchi d'ossa, per le buone notizie che tu rechi.

Il Tutore                          - Signora...!

Medea                             - Ma c'è dell'altro, ancora. E verrà presto. (Avanza inquieta nella direzione onde son giunti i suoi figli; poi si ferma guardando ansiosa, e toma verso i gradini. I fanciulli le si avvicinano timidamente e le fanno vedere i loro balocchi. Ed essa, vincendo la manifesta ripugnanza, li guarda; ma nasconde le mani in grembo, per non toccarli).

Il Figlio maggiore            - (mostrando il suo piccolo arco) Guarda, mamma.

Medea                             - (scoppiando improvvisamente in lacrime) Portalo via! Io non posso reggere. Io non posso reg­gere. (Siede sui gradini e si copre il volto con un lembo del mantello).

Il Tutore                          - Fanciulli, venite a me subito. (Li guida agli scalini e scompare in casa; ma i due fan­ciulli si volgono e si fermano sulla soglia).

La Prima Donna              - Se c'è in cielo misericordia o pietà, ch'essa scenda a toccare questa mente otte­nebrata a salvarla dai suoi sogni... (Un giovane schiavo entra di corsa, ansante e sconvolto. Giunge dalla casa di Creonte).

Lo Schiavo                      - Dov'è Medea?

La Seconda Donna          - Che cosa è accaduto! Quale orrore ti portai T'inseguono lance!

Lo Schiavo                      - (vede Medea, ancora seduta sui gradini, nascosto il viso e il capo) Fuggi perché la tua vita sia salva, Medea! Io appartengo a Giasone, ma tu fosti buona con me quand'ero nella tua casa. Mi ascolti! Fuggi, Medea!

Medea                             - (lentamente libera il capo dal mantello che lo nascondeva, ma non si alza) Ti ascolto. E tu prendi fiato; e racconta con calma ciò che hai veduto. Che dev'essere cosa memorabile, al modo come i tuoi occhi mostrano il loro bianco.

Lo Schiavo                      - Se tu hai cavalli, Medea, corri! O una nave sulla spiaggia, salpa!

Medea                             - Ma prima tu devi dirmi qualcosa della bella fanciulla che, or non è molto, è andata sposa: la sposa del tuo potente signore: essi stanno tutti bene!

Lo Schiavo                      - Mi tremano ancora di lamenti le orecchie, e mi dolgono d'orrore gli occhi. Essa indossò gli antichi vestimenti... Hai fatto tu questo, Medea!

Medea                             - L'ho fatto. Parla con calma.

Lo Schiavo                      - Tu sei vendicata. Tu sei orribil­mente vendicata. È troppo. Avrai l'odio degli dèi.

Medea                             - (ansiosa, ma senza alzarsi) Questo è il mio pensiero. Ed è morto qualcuno con lei!

Lo Schiavo                      - Creonte!

Medea                             - (solennemente, levandosi in piedi) Dov'è ora l'orgoglio! Dimmi tutto ciò che tu hai veduto. Parla lentamente.

Lo Schiavo                      - Egli tentò di salvarla... e morì! Corinto è priva del suo signore. Per tutto è stupore e tumulto, e alcuni si son dati al saccheggio, ma lo vendicheranno... (Ode il passo di qualcuno che l'ha seguito) Io vado avanti! Qualcuno sta per morire. (Si dirige di corsa verso il lato opposto della scena, ed esce mentre Medea comincia a parlare. Frattanto la luce è venuta mutando e il sole è presso al tramonto).

Medea                             - Ecco che viene un più saldo testimone. (Entra la nutrice) Vecchia amica: riprendi fiato, non affrettarti. Voglio che tu mi racconti ogni cosa, ogni gesto e ogni grido. Perché io a questo mi son data travaglio.

La Nutrice                       - La morte è scatenata! Io ho cam­minato e corso e sono caduta...

Medea                             - Ti prego, nutrice: io sono molto felice: racconta lentamente. Raccontami le cose nel loro ordine dal principio. Come quando mi consigliavi, bambina, nella casa del mio padre: e tu solevi dire: « Una cosa alla volta; una cosa e poi la seguente ». (La luce è mutata diventando vampa di tramonto).

La Nutrice                       - I miei occhi sono ottenebrati, la mia gola è come arida paglia... C'era un lungo specchio sulla parete, e quando gli occhi di lei lo videro -dopo che i fanciulli erano andati con Giasone - essa introdusse la mani nei cofani e ne estrasse quelle cose d'oro... e io guardavo, perché temevo che qual­cosa di male le potesse accadere, ma non avrei mai pensato che fosse così orribile. Ed essa si pose sul piccolo capo la lucida corona d'oro, raccolse il fluente manto d'oro attorno alle bianche spalle e gli esili fianchi e ammirò la fanciulla d'oro che lo specchio metallico rifletteva, andando avanti e indietro, quasi sulla punta dei piedi; e fece oscillare la gamba dall'anca, per vedere il flessibile oro modellarsi sulla coscia. Ma d'improvviso sopravvenne l'orrore. Io... oh... oh...

Medea                             - Tu non soffri pena. Tu hai visto, non hai provato. E dunque parla con calma.

La Nutrice                       - Il volto le si fece bianco; tentò qualche passo vacillante, e cadde sul gran trono; e allora una fantesca cominciò a gridare che fosse portata dell'acqua credendo ch'essa fosse venuta meno, ma vide la schiuma che le si formava sulle labbra e gli occhi rovesciati e alzò alte strida. Allora alcuni corsero a cercare Giasone e altri corsero a cercare Creonte: e la fanciulla condannata orribil­mente ululando si levò dal seggio; e corse; ed era simile a una torcia; e la corona d'oro al pari d'una cometa lasciava fuoco dietro di sé; essa tentò di strapparla ma troppo le aderiva al capo; l'aureo manto era incandescente e lacerava la carne dalle ossa vive; sangue misto a fuoco scorreva, ed essa cadde, essa arse sul pavimento, torcendosi. E poi giunse Creonte e si gettò sopra di lei, sperando di soffocare quella furia di fiamma ma ne fu anch'esso investito e la sua agonia gli fece dimenticare la figlia. Il fuoco aderì alla sua carne, lo saldò alla fanciulla; egli cercò di levarsi in piedi lacerando il corpo di lei e il suo medesimo. La carne arsa cadeva a brani dalle ossa. (Si copre gli ocelli con le mani) Ho finito. Essi giacciono là. Disocchiati, disfatti, intoccabili; miscuglio di carne fumante e d'oro liquefatto... Quasi gridando) No! Io ho finito. Non ho altro da dire.

Medea                             - Voglio sapere tutto. Erano già morti... quando tu te ne venisti?

La Nutrice                       - Non posso... abbi pietà... No, riarse onde di fiato ancora sibilavano sulle negre labbra. Nessuno potè toccarli. Giasone era immobile nel fumo che si levava dai loro corpi, e le sue mani tormentavano il nudo capo.

Medea                             - Tu hai recato ottime nuove: e te ne darò ricompensa. Quanto a coloro, essi non tarde­ranno a morire. I loro tormenti cessano troppo presto. Ma non i miei e non i tormenti di Giasone. (Le volge bruscamente le spalle, verso i figli che son rimasti sulla soglia, affascinati, senza comprendere ma attenti) I miei piccoli falchi! Ascoltate: ridete e siate con­tenti. Poiché abbiamo fatto ciò che doveva essere fatto. I nostri nemici erano grandi e potenti, erano colmi di gelido orgoglio, e le loro leggi regolavano questa terra... ed ora essi sono nella cenere. Ululanti come cani, coperti di cenere nelle loro ceneri stesse. Essi son caduti col sole, e il sole sorgerà ancora e non li vedrà un'altra volta. Esso penserà: « Forse coloro sono tuttavia addormentati, essi hanno fatto lunga festa, e a mezzogiorno passeggeranno nel giar­dino ». Oh, no, oh, no! Essi non passeggeranno nel giardino. Nessuno mi ha mai recato offesa senza aver più pena che io non avessi. (Distoglie gli occhi dai fanciulli) Perciò questo finale sacrificio onde mi lucevano gli occhi, come di leone sul monte. (Vol­gendosi di nuovo ai fanciulli) Ancora odio è in noi, sappiate: per qualcuno più prossimo di questi, più vile, più spregevole che io... io non posso. S'egli fosse le mie mani, ebbene lo mozzerei; o i miei occhi, e lo svellerei... Ma voi, no: era follia. (Distoglie gli occhi) Così Giasone potrà dire, « Molto io ho perduto, ma non tutto: io ho i fanciulli: e i miei figli sono salvi ». E ciò non è sopportabile. (Si arresta, gli occhi sbarrati e fissi, sconvolta, lacerandosi una mano con l'altra) Voglio che colui sia schiacciato, annientato, disfatto... E non ho scelta. (In tono risoluto, al coro) Voi! Voi stimavate me docile e sottomessa come una donna comune... che al primo soffio leva piccolo pianto e poi con viso asciutto corre nella sua casa, amante del padrone? Ebbene, io non sono tale donna.

La Prima Donna              - Destati, Medea! Destati dal sogno cattivo. Prendi i tuoi figli e fuggi. Più lontano che Atene, più lontano che Tracia o Spagna, fuggi all'estremità del mondo. Fuoco e morte hanno obbe­dito al tuo comando, e non sei tu sazia di male? Non è abbastanza?

Medea                             - No. L'odio non ha fine. Il rancore è una coppa senza fondo, e io mescerò e mescerò. (Si volge selvaggiamente ai bambini) Figli... (Con un improv­viso scoppio di lacrime) ... Oh, miei piccoli figli! Che cosa stavo io sognando? Miei piccoli, me stessa! (S'inginocchia accanto ai due fanciulli e prende loro le mani) Mai, mai, mai, mai sarà recato il male ai miei piccoli. Neppure se tutti i cani e i mercenari di questa Corinto senza più padrone ci fossero alle calcagna. (Sempre inginocchiata, al coro) Guardate, le loro dolci labbra tremano: guardate, donne, la piccola bocca: io li spaventavo con queste selvagge parole: ed essi non indietreggiarono. Guardate i loro fieri giovani occhi! I miei aquilotti, i miei piccoli d'oro! (Li bacia, poi tenendoli discosti da sé li guarda fissamente) O dolci piccoli volti... simili alla pallida rosa selvatica che fiorisce dove la balza rompe verso il brillante mare: la forma delicata e il colore, la cara, cara fragranza del vostro dolce respiro... (Seguita a guardarli con occhio fisso; e l'espressione del viso le si vien mutando).

La Nutrice                       - Affrettati, mia signora, affrettati! Prendi i fanciulli e fuggi. Fuggi via di qui! Perché presto sopravverrà qualcuno. (Medea continua a guar­dare i suoi figli, la nutrice la scuote per le spalle) Oh... dammi ascolto. Verranno lance, verrà la morte. Tutta Corinto è in tumulto e la scatenata anarchia la tiene, orbata del suo capo e stupefatta nel terrore che tu hai generato: e perciò essi esitano: ma nel breve giro d'istanti i vendicatori sopravverranno! (Medea distoglie gli occhi dai suoi figli, e il volto le si è mutato, e non c'è più traccia d'amore in esso. Essa parla con stanca voce incolore).

Medea                             - Io ho una spada nelle stanze. Vi posso difendere. (Si alza rigidamente e prende i suoi figli per le spalle, tiene il maggiore di fronte a se verso il coro; e parla con fredda intensità) Direste voi che questo fanciullo ha gli occhi di Giasone? (Le donne tacciono, e la fissano terrorizzate) Essi sono i suoi cuccioli. Essi hanno il suo sangue. E finché essi vivranno io sarò mescolata a colui. (Si china a guardare i fanciulli, e parla in tono tenero e dispe­rato) Fanciulli! è sera. Guardate, la sera è giunta. Venite, miei piccoli, nelle stanze. La sera guida ognuno alla sua casa. Essa guida l'uccello al ramo e l'agnello all'ovile... e il bimbo alla madre. Non dobbiamo darci troppo pensiero: le persone divengono pazze se si danno soverchio pensiero. (Intanto ha dolcemente sospinto i fanciulli nell'interno della casa. Sulla soglia, dietro a loro, alza le mani come a strapparsi i capelli; e poi entra quietamente. Le grandi porte si chiudono; echeggia il rumore metallico dei chiavistelli).

La Nutrice                       - No! No! (Corre verso la porta, ma cade sui gradini, disperata, e tende le mani e batte debolmente ai piedi della porta chiusa) No...

La Prima Donna              - Che cosa è accaduto?

La Seconda Donna          - Questa corona di orrori... (Esse parlano simili a sonnambule, e sono immobili nel terrore. Si fa un attimo di silenzio).

La voce di un Fanciullo   - (dalle stanze, acuta e rotta) Mamma, ahi...!

Le Donne                        - (s'accalcano contro la porta e gridano in coro discorde) Medea, no! Tenetela! Salvateli! Aprite la porta!... (Tacciono, in attesa che qualcuno risponda).

La voce del Figlio maggiore - Tu gli hai fatto male! Il sangue. Il sangue. Oh, mamma!

La terza Donna                - (sotto gli scalini, lontano dalla porta) Un dio è qui, Medea, ed egli ti chiama, egli ordina che tu t'arresti... (La nutrice si è alzata e batte debolmente alla porta, piegata quasi in due. La prima donna, eretta in tutta la sua statura, sta dinanzi a lei, la schiena appoggiata alla porta, e si copre con le mani le orecchie. Tacciono).

La voce del Figlio maggiore  - (chiara, ma come ipnotizzata) Essa m'insegue... essa m'insegue... essa m'insegue... Aah! (Gemiti acuti provengono dalle stanze. Si alzano e decrescono e continuano. È quasi il crepuscolo).

La Nutrice                       - (ridiscende incerta i gradini e parla) Non c'è speranza in cielo né in terra. È fatto. Ciò ch'era destinato quando essa nacque, ora è fatto (Gemendo) Oh, oh, oh.

La terza Donna                - (con voce di terrore, guardando nell'ombra) Chi sopravviene? Qualcuno giunge di corsa verso a noi.

La prima Donna              - (in tono staccato) L'uomo maledetto. Giasone.

La Seconda Donna          - Egli ha una spada!

La Prima Donna              - Io ho più grande paura del contagio delle sue sventure. Un uomo che gli dèi hanno intrapreso a distruggere.

Giasone                           - (entra rapidamente, fremente e con i capelli in disordine, una spada snudata nella mano) Dov'è l'assassina? È essa nelle stanze? 0 è fuggita? Si nasconda pur'essa nella profonda tenebra dei metalli e negli antri della terra... e là io strisciando la ritro­verò. (Non giunge risposta. Le donne si scostano al suo passaggio intanto ch'egli s'avvicina alla porta. Giasone si ferma e si volge a loro, e si passa la mano sinistra sul volto, come se i suoi occhi fossero otte­nebrati) E che vi siete fatte mute? 0 prendete le sue difese? Dov'è Medea?

La Prima Donna              - Tu sei stato cagione di tali cose. Essa aveva fede in te e tu hai spezzato la sua fede. E qui è l'orrore.

Giasone                           - Non cagione. Non c'è stata cagione... E dimmi alla fine se recò con sé i miei figli. La gente di Creonte li vuol uccidere per ciò ch'essa ha fatto: ma a me è più caro salvare loro che castigare colei. E in questo aiutatemi.

La Nutrice                       - (gemendo) Oh, oh, oh...

Giasone                           - (rivolgendole uno sguardo aspro) E dunque s'è uccisa. Bene. Non le è mai mancato il coraggio... E io porterò i miei figli alla lontana estre­mità della terra né mai più parlerò di queste cose.

La Nutrice                       - (gemendo) Oh, oh, oh... (Altri ge­miti dalle stanze le fanno eco).

Giasone                           - (cercando di distrarre se stesso dal pensiero che lo turba pauroso lancia un'occhiata alla porta, furti­vamente, al disopra delle spalle) E qui essa giace? Onorevole almeno nella morte. Avrei dovuto saperlo. (Le donne tacciono) E dunque rispondete.

La prima Donna              - (levando il braccio in direzione della casa di Creonte) Là è la morte; e qui è la morte. Ma tu sei cieco e sordo: come posso io parlarti?

Giasone                           - (rimane in silenzio per un attimo, poi parla lentamente) Ma... i... fanciulli...

La Prima Donna              - Io non so se Medea viva o sia morta.

 Giasone                          - (la guarda fisso; poi si volge d'improvviso verso la porta e la martella con l'impugnatura della spada) Apri! Apri! Apri! (Lascia cadere la spada e spinge con le spalle la porta, ma invano; e torna agli scalini, e dice in tono di disperazione) Donne, io sono solo. Aiutatemi. Aiutatemi a spezzare il chiavistello.

La Seconda Donna          - Le nostre spalle?

Giasone                           - Andate a cercar aiuto... (La porta alle sue spalle si apre. È quasi buio, ormai; ma l'in­terno della casa è illuminato. Due schiave escono a collocare due fiaccole tremolanti sulla soglia, alla base delle colonne e quindi si ritirano muovendosi simme­tricamente, come immagini riflesse da uno specchio. Il coro indietreggia, terrorizzato; e Giasone rimane fermo sui gradini, esterrefatto. Medea si fa sulla soglia; e le mani e l'abito ha macchiati di sangue).

Medea                             - Qual flebile uccello notturno sopraffatto dalla sventura viene a battere alla mia porta? Può essere egli quel grande avventuriero, il famoso signore dei mari e delizia delle femmine, l'erede della ricca Corinto, quest'ubriacone ululante sui negri gradini? E tuttavia non abbastanza tu hai avuto. Ma sei venuto a bere le ultime gocciole amare. E io te le mescerò.

Giasone                           - Che cos'è, sulla tua mano, quella macchia?

Medea                             - Il vino che attingevo per te s'è versato sulla mia mano. Erano cari i piccoli grappoli schiac­ciati per farlo; cari erano i vigneti.

Giasone                           - Io son venuto ad ucciderti, Medea, come una presa bestia, come una vipera strisciante. Dammi i miei figli ch'io li salvi dagli uomini di Creonte, e io me ne partirò senza guerra.

Medea                             - Taci, ch'essi dormono. Porse lascerò che tu li guardi: ma non puoi averli. Ma l'ora è tarda, e tu dovresti tornare alla tua casa dalla freschissima sposa; poiché la notte è scesa, ed essa per certo ti desidera. Per certo la sua carne non è negro-rugosa, né la sua bocca muove l'orrore. (Giasone s'inginocchia sugli scalini, cercando pietosamente a tastoni la sua spada) Essa è molto giovane, ma sarà feconda per certo. È la tua spada che tu cerchi? Eccola. Non su quel gradino, ma su quello più basso. No, quello più alto.

Giasone                           - (trova l'arma, e si leva in piedi) Io prima ti voglio uccidere, e poi troverò i miei figli.

Medea                             - Tu devi stare in guardia, Giasone. Hai veduto le due serpi di fuoco che vigilano questa porta? (Indicando le due fiaccole) Là e là: una da ciascuna parte: due serpenti. Le loro gole sono gonfie di veleno, i loro occhi ardono carbone e le loro lingue sono fuoco. Esse sono raccolte e pronte a scattare: se tu t'avvicini esse ti ridurranno così come Creonte è ridotto. Ma tu restati calmo dove sei e io lascerò che guardi i tuoi figli. (Parla a qualcuno eh'è in casa, dietro la porta di sinistra) Portateli sulla soglia ch'egli li possa vedere. (Indietreggia, e due schiave attraver­sano l'entrata da sinistra a destra, portando i due fanciulli esanimi sopra una barella. La quale s'arresta un attimo nell'apertura fra le due porte, e poi prosegue).

Giasone                           - (lasciando cadere la spada e portandosi le mani alle tempie) Io lo sapevo già. Io lo sapevo prima di vedere. Nessuna nera selvaggia l'avrebbe fatto.

Medea                             - Io l'ho fatto; perché odiavo te più di quanto amassi loro. Mio è il trionfo.

Giasone                           - Tuo è il trionfo. Neppure un demone dai fianchi di ferro, di quelli che il tuo padre adora nel tempio d'oro... Ma non hai tu sentimenti, non hai pietà, sei puro male? T'avrei dovuto uccidere il giorno che ti vidi.

Medea                             - - Ho fatto a brani il cuor mio, e ridevo: perché insieme laceravo il tuo.

Giasone                           - E tu riderai quando ti strozzerò?

Medea                             - Riderei ancora. Ma stai attento ai custodi della mia porta, Giasone! Questi avidi ser­penti. Io avrò gioia ancora sapendo che ogni osso della tua vita è spezzato; e che tu rimani senza speranza, senz'amici, senza compagni, senza figli, fuggito dagli dèi e dagli uomini, vietato dal tre­mendo eccesso di dolore... senza figli...

Giasone                           - (esausto) Non importa, ora, chi vive o chi muore.

Medea                             - Scendi alla tua nave Argo e piangi sopra essa, la marcia carcassa nel porto, abbando­nata sulla spiaggia, che non avrà più moto in eterno che anche le brutte erbe sulla chiglia ricurva sono morte e corrotte: e questa è la tua ultima compagna, e la sola speranza: e poi un albero infradiciato ti rovinerà in capo e ti ucciderà. Ma intanto qua siedi e piangi, ricordando l'infinito male, e il bene che in male s'è volto.

Giasone                           - Esulta nel male, grata nella tua sazietà, possiedi la tua gloria.

Medea                             - II sangue del mio cuore l'ha acquistato.

Giasone                           - E dunque rallegratene. Ma solo resti­tuisci i miei fanciulli: i piccoli corpi pietosi violati: ch'io possa dar loro sepoltura in un luogo gentile.

Medea                             - A te? Anche i piccoli corpi tu tradiresti: barattarli con argento, venderli per acquistar po­tenza. No.

Giasone                           - (inginocchiandosi) Concedi ch'io tocchi la loro cara carne, lascia ch'io tocchi loro i capelli!

Medea                             - No. Essi sono miei. E con me vengono: il carro è alle porte. Avevi amore e l'hai tradito; ora di tutti gli uomini tu sei il più profondamente miserabile. E così io delle donne. Ma io, una donna, una straniera, sola contro di te e la potenza di Corinto... ho restituito a te angoscia per angoscia, male per male. E ora vado, sotto i gelidi occhi delle stelle sprezzatici dei codardi: e non me esse vituperano. (Esce dalla porta di destra, seguendo i suoi figli morti. Giasone sale incespicando gli scalini e cade fra le fiaccole lampeggianti. La porta rimane aperta, le luci nella casa sono parzialmente spente. Una musica eh'è insieme di trionfo e di lutto giunge dall'interno e s'af­fievolisce e muore).

FINE


[1] Sono riferimenti agli aiuti dati da Medea a Giasone, quando costui procedeva alla conquista del Vello d'Oro, custodito da un drago nella Colchide su cui regnava Eeta, padre di Medea. Innamoratasi di Giasone, essa l'aiutò nell'impresa. Eeta aveva promesso a Giasone dì cedergli il Vello a patto ch'egli aggiogasse due tori che sbuffavano fuoco dalle narici e avevano unghie di bronzo e con essi arasse un tratto di terreno seminando nei solchi denti di drago e combattesse gli uomini armati che ne sarebbero nati. Medea che era maga e sacerdotessa di Ecate, diede a Giasone un nitro atto a difenderlo contro il fuoco dei tori e a dargli forza più che umana. Così l'eroe superò tutti gli ostacoli e quando dai denti di drago seminati balzarono su altrettanti guerrieri, egli - per consiglio dì Medea     - gettò fra loro un grosso sasso, ond'essi ciechi di furore volsero le armi uno contro l'altro e si trucidarono a vicenda. Erano in questo modo adempiute le volontà di Eeta; ma costui col pretesto che Giasone aveva ricevuto aiuto da Medea non voleva più cedere il Vello. Allora Giasone si decise a rapirlo; e addormentato con i farmachi dì Medea il vigile drago, prese il Vello e lo portò sulla nave, seguito da Medea; e salparono subita per tornare in Occidente. Invano Eeta mandò gente ad inseguirli; Medea trovò modo di trattenerli uccidendo e facendo a brani un fratellino che aveva portato con sé, Absirto, e gettandone i pezzi a uno a uno in mare; sicché quelli di Eeta si trattenevano a raccogliere quei brandelli per darvi onorata sepoltura, e i fuggiaschi guadagnavano terreno.