Stampa questo copione


METROPOLI

Commedia in tre atti

di ALESSANDRO DE STEFANI

PERSONAGGI

OTTAVIO DELLERA

TEOCRITO DELLERA

SERAFINO VITI

RICCARDO REVINE

VANNA DELLERA

PIERA VITI

DIANA CHELIO

GINA, cameriera

PAOLO, cameriere

FELICE, usciere di studio

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

La scena rappre­senta lo studio di Ottavio Dellera: grande scrivania, telefono, molti scaf­fali con libri, pol­trone: a destra la comune che dà in anticamera, a sinistra, dietro la scri­vania, la porta che dà nell’appartamen­to. Il fondo è occu­pato da una grande vetrata. (Quando si alza il sipario Ottavio è in piedi e pas­seggia. Diana, giovane ed elegantissima signora, è se­duta in poltrona).

Duna                             - Se lei vuole aiutarmi davvero... basta una parola sua...

Ottavio                          - Cara signora, ha torto. E quand'uno ha torto bisogna che eviti di mettersi nei pasticci.

Diana                            - Io sono sicura di aver ragione, intanto. E poi sono convinta che la giustizia non sia una cosa così rigida, precisa ed infallibile. Si vedono tanti casi discu­tibili. Naturalmente occorre che un uomo influente prenda a cuore la cosa: e chi meglio di lei?

Ottavio                          - (Lei è carina, ha un profumo persuasivo, una giovinezza prepotente, ma la sua causa è sbagliata.

Diana                            - Insomma, no?

Ottavio                          - No.

Diana                            - Peccato. (Si alza). Se lei fosse il giudice, po­trei anche comprendere tanta inflessibilità, ma come av­vocato... Alla peggio, avrebbe perduto.

Ottavio                          - Non mi piace perdere.

Diana                            - Capisco. Ma sono molto avvilita.

Ottavio                          - Senta: si rivolga all'avvocato Centi.

Diana                            - No: rinuncio.

Ottavio                          - Ora esagera. Non si sa mai. Io ho dato il mio parere così, senza avere studiato a fondo il problema. Nelle questioni di successione ci possono essere tanti elementi incerti che mutano totalmente la fisio­nomia della causa. Rinunciare a un milione, così, senza lotta, è eccessivo.

Diana                            - Io avevo fiducia in lei, onorevole. Lei rifiuta. Evidentemente ha le sue buone ragioni per farlo. E come vuole che in tali condizioni io conservi delle spe­ranze, inizi delle pratiche tanto incerte, faticose, lunghe e costose? No.

Ottavio                          - Lei lo fa per obbligarmi ad accettare...

Duna                             - Davvero acconsente?

Ottavio                          - E' un dovere, in questo caso. Bisogna che lo confessi: il quaranta per cento del mio scetticismo, nei suoi riguardi, era dato dalla stanchezza. Sono stanco. Ma non abbiamo diritto di far perdere milioni alla gente perché siamo stanchi. (Diana torna a sedere; Ottavio va alla scrivania).

(Duna                            - Ecco tutti i documenti.

Ottavio                          - Accidente automobilistico? Come mia mo­glie. La mia prima moglie. Ventisei anni!

Duna                             - . Ricordo.

Ottavio                          - L'ha conosciuta?

Duna                             - Una volta, ad un ricevimento.

Ottavio                          - La copia del testamento. (Legge piano). Un po' ingenuo, come testamento! E avrebbe avuto delle ragioni intime per agire così? Insomma, lei, come mo­glie, aveva avuto delle distrazioni? Sia sincera con me.

Diana                            - Ho tutti i motivi per credere che, comunque, egli non abbia mai saputo nulla.

Ottavio                          - Alle volte ci si illude, poi si trova in un te­stamento la prova di una insospettata consapevolezza. E come spiegherebbe lei altrimenti?

Diana                            - Non è stato redatto in condizioni normali. La data è quella di un mio viaggio in Norvegia. E' in quel periodo che l'hanno suggestionato con delle pra­tiche medianiche. Risultato: quel testamento!

Ottavio                          - (alzandosi) Va bene. Faremo una piccola istruttoria privata, intanto. Ma vede che rischi si cor­rono ad andare in Norvegia senza marito?

Duna                             - Se l'avessi saputo!

Ottavio                          - Com'era l'uomo dei fiordi? Valeva un mi­lione?

Duna                             - Com'è perfido, lei!

Ottavio                          - Le pare? Mi lasci il numero di telefono.

Duna                             - Gliel'ho già scritto, lì, sulla sua rubrica. Ar­rivederci. E mi raccomando.

Ottavio                          - Faremo di tutto. Ma ho più fiducia in lei che in me. Come Frine. Chi è capace di darle torto?

Duna                             - Quella aveva un sarto speciale! E' stata una beneficata della moda... (Ottavio le bacia la mano, h riaccompagna fino alla porta di destra. La apre, saluta, ritorna alla propria scrivania. Suona il campanello).

Ottavio                          - (o Felice che è comparso) Chi è di là?

Felice                            - Due signori... Avevo portato il biglietto...

Ottavio                          - (trovandolo sulla scrivania) Ah, sì: ec­colo. Bè, che tornino domattina. Alle dieci. Oggi ho' fatto tardi. Di che sono chiamato d'urgenza. Di' quello che vuoi.

Felice                            - Va bene. (Esce. Rimasto solo, Ottavio ha un gesto di stanchezza infinita. Poi si riprende con un evidente sforzo di volontà. Forma un numero al tele­fono).

Ottavio                          - (al telefono) Il direttore c'è? Si. Dellera. Ciao. Novità? Duecentomila? Bene, allora. Domattina alle undici sono da te. Prepara tutto se vuoi. (Dalla porta dietro la scrivania fa capolino Piera, vede che Ottavio è solo, entra. W una donna sui cinquanta, ma ancora piacente, vivacissima e combattiva), pi: per la firma. E non mollare con le assicurazioni. Va ' bene. (Riappende) Come va?

Piera -                            - La grande giornata sarebbe oggi. .

Ottavio                          - (distratto) Ah, sì? Che c'è, quaterna secca al lotto?

Piera                              - No: quella non ancora.

Ottavio                          - Scusa. (Rifa un numero al telefono).

Piera                              - Non hai ricevuto il barone Vercelli.

Ottavio                          - No. Domattina. (Al telefono) Pronti. Sono io. Marciate per i terreni. Il piano regolatore è approvato. Subito. Prima di domani vi saranno altri dieci concor­renti. Va bene. (Riappende).

Piera                              - E' venuto da me a protestare. T'avevo detto che era un mio raccomandato.

Ottavio                          - Lo ricevo domattina.

Piera                              - Domattina poi avrai il Ministero, la Commis­sione, il Consiglio superiore e si rinvierà ancora. Ti co­nosco! Dammi la tua unghia di leone.

Ottavio                          - Quale?

Piera                              - Ma andiamo! Nel cassetto centrale. Presta­mela! Per oggi...

Ottavio                          - Ah! (Apre il cassetto) Questa? (Le dà un'unghia di leone montata in oro) A che ti serve?

Piera                              - E' oggi che... Tre chiromanti, tutt'e tre han trovato che oggi io avrei dovuto incontrare una persona dalla quale avrebbe dipeso la mia vita futura. Straordi­nario, no, che in tre abbiano stabilito, senza saper niente una dell'altra, che oggi, proprio oggi...? Stamane sono andata ai giardini. Niente. Ora vado a un « garden party ».

Ottavio                          - Io, se fossi in te, sarei rimasto a casa.

Piera                              - Non bisogna chiuder le porte del destino. Sarà un uomo o una donna? Sarà una vita futura favo­revole o infausta? Tutto è mistero. Nessuna delle tre ha saputo dirmelo. Allora oggi mi son premunita. Ecco il corno di zio Donato, il chiodo di Vanna, il pelo d'ele­fante di Ughetta, la tua unghia di leone. Le cose do­vrebbero andar bene. Ieri sera poi ho perduto a « po­ker »: anche questo sarebbe buon segno.

Ottavio                          - Quanto?

Piera                              - Millecento. Le cento le ho pagate. Le mille le devo. Fabrizi.

Ottavio                          - Va bene: penso io.

Piera                              - Se tardo a pranzo, non mi aspettare. Vuol dire che la mia vita futura avrà avuto inizio.

Ottavio                          - Pensa a tua figlia.

Piera                              - Ah no, caro. A quella ora ci devi pensare tu: te la sei sposata... Io oramai sono libera. Senza più catene. Che gioia per una donna! E sai perché? Perché pensa che può ancora fabbricarsi una catena! E' tutto lì. Romperne una per mettersene un'altra. Ma nuova. Ma sconosciuta.

Ottavio                          - Non mi compromettere soltanto: ricorda che tuo genero è un uomo politico!

Piera                              - Dio!

Ottavio                          - Che c'è?

Piera                              - Vanna aveva quello scarabeo egiziano... Au­tentico. Della Valle dei Re.

Ottavio                          - E allora?

Piera                              - Mi occorre. Oggi me lo deve prestare. (Dalla stessa porta dalla quale era entrata Piera, entra Vanna, 29 anni, magrolina, tutt'occhi) Presto, Vanna: lo sca­rabeo.

Vanna                           - Che scarabeo?

Piera                              - Quello vero che ti ha portato Fanti dall'Egitto. Poi te lo restituisco: è solo per oggi. (Vanna torna ad uscire) E' una debolezza: lo ammetto. Ma ognuno ha le sue. Bisogna aver pazienza. Oh, compero un biglietto della lotteria di Tripoli, oggi. Potrebbe anche esser questa l'eventualità, no?

Ottavio                          - Compera, compera.

Piera                              - Che hai? Sei preoccupato? Bada: il barone Vercelli è un uomo influente. Non lo trattare male: ti può essere utile.

Ottavio                          - Io non tratto male nessuno.

Piera                              - Bugiardo: me. Sempre. Ma io ho un buon carattere e non me la prendo. (Rientra Vanna che por­ge alla madre lo scarabeo). Grazie. Sei un tesoro! E ora, avanti! L'avvenire non mi fa paura... (Esce da destra).

Ottavio                          - (scuotendo il capo) E' fissata.

Vanna                           - Non fa male a nessuno.

Ottavio                          - D'accordo. Ma sarebbe meglio che vivesse per conto suo. Due volte al giorno mi fa le carte!

Vanna                           - Per la verità, in genere sei tu che glielo chiedi.

Ottavio                          - Si capisce. Chi non ha, nel suo intimo, un rimasuglio di superstizione primitiva? Ma in tua madre la superstizione ha proporzioni preoccupanti.

Vanna                           - Povera mamma! E' tanto cara... Gli affari?

Ottavio                          - Bene, bene. Cioè...

Vanna                           - Che c'è che non va?

Ottavio                          - Sai chi faranno ministro? Cesauri! Il colmo! Cesauri! Due anni fa se non è finito in prigione è stato un miracolo! E chi l'ha salvato? Io. E ora, mi­nistro!

Vanna                           - I? nominato?

Ottavio                          - No.

Vanna                           - E allora? Da chi l'hai saputo?

Ottavio                          - Così. Voci. Alla Camera.

Vanna                           - M'hai detto tu che alla Camera non sanno mai niente: non ne azzeccano una.

Ottavio                          - Va bene: ma che si parli, che si possa solo ammettere come possibile la candidatura di Cesauri è inverosimile!

Vanna                           - Non dubitare: se è così, nessuno penserà davvero a nominarlo.

Ottavio                          - Come, se è così? Quando io ti dico che è così, è così. La prigione meritava!

Vanna                           - Due anni fa mi pare che dicessi che era vit­tima di manovre indegne e che era più che innocente!

Ottavio                          - Lo difendevo io; bisogna bene che soste­nessi la sua causa. Ma la verità è che... Ma tu non sei mia moglie? E allora perché prendi le parti dei miei avversari? Se debbo avere i nemici in casa!

Vanna                           - Tuoi avversari? Ma chi? Quali?

Ottavio                          - Credi che non abbia nemici, io?

Vanna                           - Oh Dio, tutti noi abbiamo. Ma l'importante è di non inventarceli da noi!

Ottavio                          - Inventarli? Io? Li conosco uno per uno.

Vanna                           - E metti anche me nel numero?

Ottavio                          - Vanna! Tu? No. Tesoro. Tu sei l'angelo della mia vita. Sei tutto. Io vivo per te. Solo per te. (La stringe a sé. Bussano alla porta di destra: Ottavio non ode. Entra Felice).

Felice                            - Onorevole...

Ottavio                          - Chi t'ha permesso di entrare? (Urlando) Chi t'ha detto, senza bussare...?

Felice                            - Avevo bussato!

Ottavio                          - Non è vero.

Felice                            - Le giuro...

Ottavio                          - Se ho detto che non è vero, non voglio contraddizioni. Via! Va via! Va via! (Felice, dopo aver tentato di resistere, si allontana).

Vanna                           - Non fare così. Forse avrà bussato davvero. Puoi non aver udito.

Ottavio                          - Non sono sordo.

Vanna                           - Chi dice questo? Ma non lasciarti traspor­tare dai nervi in questo modo!

Ottavio                          - I nervi! Cosa? E poi i miei nervi sono sanissimi, forti, obbedienti. Ma quando si hanno mille cose in testa: e ogni una è vitale, guai perdere un istante propizio, avere un istante di stanchezza, di di­strazione. E' la vita moderna. II logorio quotidiano. La tensione. (Con improvviso collasso) Sì: sono stanco. Terribilmente stanco. Mai un istante di serenità, di soddisfazione, di riposo spirituale. Alle volte mi pare di non poter giungere all'indomani.

Vanna                           - (senza troppo allarmarsi, oramai abituata a queste crisi subitanee) Sono istanti di crisi che at­traversano tutti. Passano.

Ottavio                          - Tutti? Credi?

Vanna                           - Per forza, ma le nascondono. Come fai tu, del resto. Chi sa che hai di questi abbattimenti? Nes­suno, tranne io. Così gli altri. Tutti coloro che lottano hanno dei momenti di scoramento. Bisogna non lasciarsi sopraffare. Reagire. E tu hai meno diritte di chiunque a lamentarti. Sei giovane, ricco, hai una moglie che ti vuol bene, una posizione brillantissima, un avvenire che tutti ti invidiano.

Ottavio                          - Sei sicura che mi invidiano?

Vanna                           - Ma certo! Di te si parla come dell'uomo « felice » in senso assoluto.

Ottavio                          - (alzando le spalle) Felice! Lasciamo an­dare... Non sono ministro. Ho già quarantadue anni e non sono ministro.

Vanna                           - Credi che sarebbe la felicità?

Ottavio                          - Vorrebbe dir molto... Con gli altri bisogna mascherarsi, mentire, fingere che. la cosa abbia un'im­portanza relativa. E invece no. La verità vera è diversa: sono ambizioso. Voglio arrivare. Presto. Per godere del mio trionfo. Per te, in ispecie.

Vanna                           - Non è vero.

Ottavio                          - Ti giuro...

Vanna                           - Non è ne per ambizione ne per me. E' soltanto perché aspiri a quello che non hai. Appena tu fossi ministro, vorresti essere ambasciatore. O tremeresti di dover lasciare il tuo portafogli da un istante all'altro. In pace tu non sarai mai.

Ottavio                          - Può darsi. Ma chi è in pace al giorno d'oggi. con la vita che viviamo? Ti garantisco che sono lieto di non aver figli per non dover moltiplicare le mie ansie per ciascuno di essi.

 Vanna                          - Hai torto. Invece è il mio grande dolore, questo. Si capisce che dovrebbero lottare anch'essi. E con questo? Dar loro la sicurezza assoluta è un inviarli al letargo morale. Lasciamo andare: non è colpa mia né tua, «e il destino ha voluto così.

Ottavio                          - Sei molto infelice di questo?

Vanna                           - Ti ho mai detto niente?

Ottavio                          - Ti tieni tutto per te. E io finisco coll'igno-rare quello che pensi. Non devi, Vanna!

Vanna                           - Un mese, ti chiedo solo un mese, ma tutto per noi due, lontano da questa vita turbinosa, lontano dal telefono. Quattro settimane.

Ottavio                          - Dove?

Vanna                           - Dove vuoi tu. Ma che nessuno sappia il nostro indirizzo. Una crociera per mare, se vuoi. Ma c'è già troppa gente. In capo a due settimane avresti organizzato chissà che consorzio con i tuoi compagni di piroscafo. Meglio la montagna.

Ottavio                          - La tenda! Campeggio a due.

Vanna                           - Torneresti giù abbronzato dal sole e rin­novato.

Ottavio                          - Tu credi che tutto si possa riparare con un po' d'aria buona. La vita moderna è già troppo piena di sport.

Vanna                           - Ma tu sei di quelli che assistono allo sport degli altri, di quelli che urlano alle partite di calcio, ma non fai un passo a piedi.

Ottavio                          - Non ho tempo: fretta, sempre fretta.

Vanna                           - Allora, la montagna?

Ottavio                          - L'anno venturo. Ti prometto l'anno ven­turo di fare quello che vorresti tu. Quest'anno ancora non posso: ho troppo da fare. Impegni d'importanza capitale. Se io mi allontano, tutto si ferma. Vedi che quando devo fare una corsa all'estero è necessario che viaggi in aereo per far presto. Sii ragionevole. Non in­sistere. Pensa invece che bisognerà invitare a pranzo Cellina e Ramioli. Occupati tu della cucina: è neces­sario che siano soddisfatti.

Vanna                           - Va bene.

Ottavio                          - Telefona loro per chiedere che cosa prefe­riscono mangiare.

Vanna                           - Devo telefonare, io?

Ottavio                          - Sì: questo li lusingherà. La cortesia d'una donna, tanto più giovane, lusinga sempre.

Vanna                           - Come vuoi. Non mi sembra una cosa molto simpatica.

Ottavio                          - (alzando le spalle) Non comprometterai la tua reputazione chiedendo per telefono a due senatori che cosa desiderano a pranzo. Non esagerare col tuo puritanismo, va! Mi pare che sia più innocente una te­lefonata che un giro di « fox ».

Vanna                           - Ti dispiace anche che balli?

Ottavio                          - Che è il tuo « anche »? Sembrerebbe che io fossi il tuo aguzzino e ti torturassi con le mie impo­sizioni. E' così? (Squilla il telefono). Non ci sono per nessuno.

Vanna                           - (rispondendo al telefono) Pronto... Mi pare che sia uscito... Attenda... (Piano a Ottavio) Vossi... (Ot­tavio allora si avvicina e prende il ricevitore).

Ottavio                          - (al telefono) Sono io... Sì. No. Riunisci il Consiglio. Non si può domani stesso? Alle sei del po­meriggio. Telefona anche a Genova, subito. Va bene. (Riappende). Siamo a posto.

Vanna                           - Che c’è?

Ottavio                          - Pare che sia scappato Bolgheri.

Vanna                           - Con Parisina?

Ottavio                          - Delinquente... Tocca a noi pagare le sue aberrazioni amorose. Tutta la società andrà a rotoli. Era l'anima di tutto, Bolgheri. E non basta: ci saranno due branche che risentiranno il contraccolpo e tre società. E io ero dentro in tutte. Fra tre giorni, mia cara, tuo marito può essere rovinato, a terra. E per i begli occhi di una donna! Che piace a un altro. Inaudito!

Vanna                           - Non esagerare. La cosa non sarà cosi grave. Perché vuoi che nasca uno spavento per la fuga di Bolgheri?

Ottavio                          - E' una catena, tutta una catena. Animale!

Vanna                           - Ma che t'ha detto Vossi? Come ha saputo?

Ottavio                          - Ha mandato una lettera. Di dimissioni. Dalla frontiera. Le chiama dimissioni!

Vanna                           - Chi dice che abbia portato via dei fondi non suoi?

Ottavio                          - Ci mancherebbe altro! Ma era indispen­sabile, Bolgheri. Era la testa competente, la forza della società.

Vanna                           - Aveva domandato un aumento due mesi fa?

Ottavio                          - Già.

Vanna                           - E tu avevi rifiutato.

Ottavio                          - Si capisce. Non subisco ricatti.

Vanna                           - E allora se n'è andato.

Ottavio                          - Difendilo. Io sono a terra e tu difendi chi mi rovina. Parola d'onore, sono cose da pazzi.

Vanna                           - Non sei affatto a terra. Ma trovo che c'era da aspettarselo. Faceva tutto Bolgheri e prendeva un quarto di quel che prendevi tu.

Ottavio                          - E' stata quella donna a sobillarlo: voleva pellicce, viaggiare, avere dei vestiti da milionaria. E lui, idiota, per accontentarla... Perché Bolgheri, in so­stanza, è sempre stato modesto. Aveva ragione Vossi: sarebbe stato prudente portargliela via, Parisina. Inca­ricare qualcuno di portargliela via. Tutto sarebbe tor­nato normale, e non saremmo oggi a questo punto. Ma io non ho voluto. Sono stato io! Era così innamorato che mi faceva pena. Ecco che si guadagna ad aver com­passione. Bastava dare diecimila lire a un bel giovanotto disoccupato e Bolgheri non si sarebbe più mosso dalla sua scrivania, per tutta la vita. Bè, ora preparati. Biso­gnerà cominciare a fare economie.

Vanna                           - Lo dici a me?

Ottavio                          - Naturale. Venderò l'automobile.

Vanna                           - Per comprarne un'altra. E' un'idea che avevi già. (Dalla porta che dà nell'interno compare una ca­meriera).

Gina                              - C'è il dottor Revine.

Ottavio                          - Il tuo Riccardo. Non lo voglio vedere.

Vanna                           - Che t'ha fatto?

Ottavio                          - Non lo voglio vedere.

Vanna                           - (a Gina) Va bene: digli che aspetti di là. Vengo subito. (Gina esce). Non fare così davanti alla servitù, ti prego.

Ottavio                          - E' qui tutti i momenti. Ho come la sen­sazione che mi spii.

Vanna                           - Spii? Ma che vuoi che spii?

Ottavio                          - E' un dottore: io diffido dei dottori. (Di colpo). Un momento. Digli che venga. Che venga da me, subito.

Vanna                           - Che vuoi?

Ottavio                          - Un'idea. Presto. Che venga qui.

Vanna                           - Non posso sapere, io...?

Ottavio                          - Sentirai anche tu: fallo venir qui intanto. (Vanna esce da dove era uscita la cameriera. Ottavio va al telefono, forma un numero). Vossi... Dopodomani il Consiglio, non domani. Bene: non importa. Se arriva domattina avrò io da parlargli prima. Le altre telefonate per dopodomani alle diciotto. (Da sinistra entra il dottor Revine accompagnato da Vanna). Addio. Siedi, siedi. Ho da parlarti.

Riccardo                       - E' un onore insolito farmi entrare nel tuo studio!

Ottavio                          - Già. Ho bisogno di te.

Riccardo                       - Hai bisogno del medico?

Ottavio                          - Guadagni molto tu facendo il medico?

Riccardo                       - E' il fisco che ti ha incaricato di indagare?

Ottavio                          - Non fare lo spiritoso. Rispondi.

Riccardo                       - Non molto, ma sto facendomi una clien­tela e spero a poco a poco-

Ottavio                          - Quanto?

Riccardo                       - Ora... Tra le quaranta e le sessantamila...

Ottavio                          - Te ne offro novantamila l'anno.

Riccardo                       - Per far che?

Ottavio                          - Dirigere il mio stabilimento di prodotti chimici. La competenza generica l'hai: lo so. Quella spe­cifica te la fai in un mese. L'importante è l'uomo, la sua attività, lo spirito organizzativo, l'energia. Ti conosco: sei l'individuo adatto. Avanti. Accettato?

Riccardo                       - Ma come? Vuoi che uno cambi mestiere così in cinque minuti, senza riflettere?

Ottavio                          - Rifletti. Ma entro stasera voglio una ri­sposta. Il posto di Bolgheri. Ti dò il posto di Bolgheri!

Riccardo                       - E Bolgheri?

Ottavio                          - In viaggio di nozze. Ha preferito la luna di miele ai gas tossici. (Telefono. Vanna va a rispon­dere).

Vanna                           - Pronto. Sì. Attenda. (Piano al marito) E' il Ministero. Corporazioni. Gabinetto del Ministro.

Ottavio                          - (al telefono) Sono io... Sì. Il tempo di fare la strada. Dieci minuti. Va bene. (Riappende) Mi vuole il Ministro. Allora rifletti e poi accetta. Intesi? (A Vanna) Ciao. (Esce da destra).

Riccardo                       - Ho già deciso. Dirò di no.

Vanna                           - Perché?

Riccardo                       - Non voglio essergli debitore di niente.

Vanna                           - Credi che sia un favore che fa a te? Sei an­cora ingenuo. Se ti dà novantamila lire vuol dire che tu gli renderai duecentomila almeno.

Riccardo                       - Non m'importa. Questo riguarda lui. Io so che raddoppierei la cifra dei miei introiti. Quindi, comunque, per me sarebbe una fortuna, oggi, e la dovrei a lui. No.

Vanna                           - Lo odii sempre molto?

Riccardo                       - E poi io amo la mia professione. La faccio con entusiasmo, con fede. Rinunciare così, bruscamente, mi sembrerebbe un tradimento: vendermi. No.

Vanna                           - Hai ragione. Farei così anch'io.

Riccardo                       - Come mai gli è sorta, tutt'a un tratto, quest'idea di rivolgersi a me?

Vanna                           - E' nel suo ordine di idee: sfruttare sempre tutte le persone che avvicina, in un modo o nell'altro. Se no, sarebbero conoscenze inutili.

Riccardo                       - Ne parli così. E lo ami?

Vanna                           - Già. Lo amo. (Pausa). Finora ti aveva chiesto solo dei consigli terapeutici. Ma avrà pensato che la bi­lancia non era equilibrata. Tante visite tue qui, tanto mio tempo dedicato a te e in compenso solo qualche consiglio. Troppo poco. Partita passiva. Ecco l'occasione per rifarsi. Adoperarti nello stabilimento. Tu almeno non saresti fuggito: finché fossi rimasta io, saresti ri­masto anche tu. E senza pretendere eccessivi aumenti.

Riccardo                       - Credi che egli sappia...?

Vanna                           - Che cosa? Non c'è niente da sapere.

Riccardo                       - Infatti.

Vanna                           - Che siamo stati quasi fidanzati, lo sa. Che tu mi ami ancora, lo si vede dal come mi guardi. Lo ca­piscono tutti.

Riccardo                       - Davvero?

Vanna                           - Sì, Riccardo. E che tu venga spesso qui, mi stia vicino, gli fa piacere. Sei il documento vivo della sua vittoria. Mi ha strappato a te: mi ha portato via. Tu, per lui, sei la documentazione del suo trionfo. E se tu soffri ancora, maggiore è la sua soddisfazione.

Riccardo                       - Vanna! Dimmi la verità. Se tu lo conosci a fondo, se lo osservi con occhi così spietati, come fai ad amarlo ancora?

Vanna                           - Ma! E' amore? Non lo so neanche più. De­v'essere un po' quello che prova la tigre verso il doma­tore. Un po' di odio, ma un'impotenza assoluta a ri­bellarsi.

Riccardo                       - Paura.

Vanna                           - No: è soggezione, è schiavitù. Non lo so. E poi no: è amore, è amore. Se riuscissi a portarlo via, con me, a staccarlo per poco tempo dai mille tentacoli che lo avvolgono, sono certa che saprei fare di lui un altro uomo. Così invece... Lo perdo ogni giorno più. Anch'io passo nel numero degli strumenti che devono servire. E lo servirei con gioia, se il risultato non fosse spaventoso...

Riccardo                       - Che c'è che ti spaventa?

Vanna                           - La sua salute.

Riccardo                       - Sta benissimo.

Vanna                           - Ti pare? Allora, caro, come medico non sei un asso. E' vero che con te si maschera più che con tutti: ha paura che tu scopra la verità; si sorveglia, si domina. Oh, solo con me, a tu per tu, è veramente lui. La sola persona che lo conosce sono io.

Riccardo                       - Di che malattia si tratta?

Vanna                           - Della peggiore che esista al mondo. Gli scorpioni.

Riccardo                       - Cioè?

Vanna                           - Io li chiamo scorpioni: i tarli velenosi che rodono il sistema nervoso.

Riccardo                       - Nevrastenia?

Vanna                           - Se vuoi definirla così... E’ la piaga oscura, segreta, delle famiglie moderne, il prodotto della velo­cità, dell'ansia moltiplicata, dell'organismo dell'esistenza. Qualcuno, pochi, resistono. Gli altri: come Ottavio.

Riccardo                       - Sintomi?

Vanna                           - Improvvisi sbalzi d'umore, depressioni in­giustificate, esaltazioni febbrili, mania di persecuzione, egocentrismo, paure, invenzioni di malattie senza scampo, idolatria di se stesso, disprezzo...

Riccardo                       - Perché non mi hai detto niente?

Vanna                           - Perché speravo che, quant'era possibile fare, potessi farlo io, da sola. Ho letto di nascosto dei libri: ho tentato senza ch'egli se ne accorgesse, di curarlo. Tutto quel che posso ottenere, la vita che lo' circonda me Io distrugge. E peggiora ogni giorno.

Riccardo                       - E perché oggi ti sei decisa?

Vanna                           - Perché non ne posso più. Erano vari giorni che volevo parlartene. Stanotte non ho fatto che pian­gere, di disperazione. Da sola non riesco più a reggere il peso del mio compito.

Riccardo                       - Che posso fare io? Dimmi.

Vanna                           - Aiutarmi. Bisogna ad ogni costo che venga via.

Riccardo                       - Se non dà retta a te...

Vanna                           - Occorre spaventarlo. Ha una paura fanciul­lesca del male, ma del male definito, localizzato. Un dolor di denti lo atterrisce, mentre la diagnosi dei suoi nervi lo farebbe sorridere. Bisogna che tu gli trovi qual­cosa di specifico che lo decida a riposarsi.

Riccardo                       - Dovrei mentire...

Vanna                           - Per il suo bene.

Riccardo                       - Non basta per giustificarmi.

Vanna                           - Vuoi che renda pazza anche me? Di'! E' questo il tuo amore?

Riccardo                       - Vorrei che tu aprissi gli occhi un po' di più. Hai commesso un errore. Perché persistere?

Vanna                           - Riccardo, ti prego. Non devi in nessun modo parlare così. Non te lo permetto e ferisci anche l'amicizia profonda che ho per te.

Riccardo                       - Avanti, allora. Ordina.

Vanna                           - Sei offeso.

Riccardo                       - Tutti hanno il proprio egoismo, e si eser­cita sull'inferiore. Tu subisci tuo marito. Io subisco te. A mia volta mi rifarò su qualche altro: su mia sorella, su mia madre. C'è caso poi che l'ultimo della serie si rifaccia su tuo marito: circoli viziosi. Sono gli anelli della vita. Quindi non avere esitazioni: ordina. Senza rimorsi. Vuoi che gli trovi un'insufficienza cardiaca? Che gli ordini il riposo assoluto in qualche luogo isolato?

Vanna                           - - Gli altri medici ti smentirebbero.

Riccardo                       - Appunto.

Vanna                           - Bisogna che tu lo controlli, qui, per qualche tempo: che cerchi di conquistare la sua fiducia. Forse, se riesce ad averne in te, può darsi che acconsenta ad uscire dall'ingranaggio. E allora...

Riccardo                       - E allora tu te lo riconquisti totalmente: ricomincia l'idillio, senza più scorpioni.

Vanna                           - Non vorresti? Egoista anche tu.

Riccardo                       - Uomo. Non si può essere sempre e tutti eroi. Tu non hai la minima idea di quello che m'hai fatto subire. Attirandomi, oltre tutto, per assistere alla tua felicità con un altro!

Vanna                           - Sei tu che hai voluto venire...

Riccardo                       - Avresti dovuto vietarmelo. Voi donne avete il pudore fisico, ma questo, il pudore morale, non l'avete. E invece no: ti sei compiaciuta di farmi vedere quanto, come fossi felice, senza di me. E ora che la tua felicità è minacciata, ti rivolgi proprio a me perché ti aiuti a riconquistarla.

Vanna                           - Non vuoi? Va bene. Ti giudicavo migliore.

Riccardo                       - E non avresti paura di mettermi tra le mani Ottavio? Di'. Non avresti proprio nessuna paura?

Vanna                           - No.

Riccardo                       - Allora, mi occuperò di lui.

Vanna                           - Per conquistare la sua fiducia dovresti co­minciare coll'accettare il posto che ti ha offerto.

Riccardo                       - Alleati. Malgrado tutto, malgrado le ribel­lioni, le paure, le frustate e i ringhi, ecco che cosa siete voi due: alleati. E' quello che nel matrimonio è vera­mente indissolubile: l'alleanza pratica. Anche senza vo­lerlo, tu mi conduci a fare quello che voleva lui. No. Non accetto. Sono medico. Rimango medico. Lo curerò, perché questo fa parte del mio dovere; ma servirlo, no. Ecco. Davvero hai pianto tutta notte?

Vanna                           - Sì.

Riccardo                       - Tuo marito se n'è accorto?

Vanna                           - Dormiva. Mi sono alzata per prendere una compressa... L'ho svegliato: mi ha detto qualche mala parola. Ma, se se ne ricordasse, oggi ne sarebbe già pentito.

Riccardo                       - E oggi non hai riposato un po'?

Vanna                           - No. Andrò a letto presto stasera. (Da destra rientra Ottavio).

Ottavio                          - Ancora qui? Bravo! Si vede che hai riflettuto ed hai accettato. Ho parlato col Ministro. Hanno bisogno di me. Vogliono affidarmi un incarico di carat­tere finanziario. E' stato gentilissimo. C'erano tre sena­tori che avevano udienza e aspettavano: io, invece, ap­pena giunto, sono stato introdotto subito. Quando una persona serve... Allora, Riccardo?

Riccardo                       - No: non mi sento di assumere responsa­bilità così differenti da quella che è la mia attività quo­tidiana. Ti ringrazio, ma non posso accettare.

Ottavio                          - Vanna, e tu non sei riuscita a persuaderlo? Non mi posso congratulare con la tua capacità di per­suasione!

Riccardo                       - Tua moglie non ha insistito affatto ed ha avuto ragione.

Ottavio                          - Come vuoi, come vuoi. Ci rimetti tu. Pren­derò Baraccheschi. Ha il vizio del gioco: ma conosce bene la partita. E faremo in questa occasione un au­mento di capitale. Le banche saranno lietissime... Hanno piena fiducia...

Vanna                           - Hai parlato anche di questo col Ministro?

Ottavio                          - No. Perché?

Vanna                           - Perché prima sembravi pieno di timori e ora hai tutt'altra opinione sulle conseguenze di questo mutamento...

Ottavio                          - Timori, io? Quando mai? E perché dovrei avere timori? Non c'è ragione. Vanna, preparati. Stasera andiamo a teatro. Vuoi venire anche tu, Riccardo? Io non serbo rancore: se ci tieni a continuare il tuo apo­stolato             - olio di ricino ed emorroidi   - nessuno ti può biasimare. Andiamo a vedere i francesi.

Riccardo                       - Stasera sono impegnato, grazie.

Ottavio                          - Ma non ha proprio mai un istante libero questo nostro amico. Sembra che lo faccia apposta. No: non dico questo. Ma insomma.»

Riccardo                       - Senti: dato che sono un competente in olio di ricino, permetti che ordini anche a te...?

Ottavio                          - No: niente medicine, caro. Io, un bicchiere d'acqua minerale ogni mattina e niente altro.

Riccardo                       - Ho partecipato all'ultimo congresso inter­nazionale di medicina: l'argomento principe è stato il sistema nervoso in rapporto al moltiplicato ritmo della vita moderna.

Ottavio                          - E io che c'entro con questo? Vanna, sei stata tu a dirgli...?

Riccardo                       - (interrompendolo) Tua moglie non c'entra. Tu sei un esempio tipico di uomo del nostro secolo dall'attività multiforme, dalle responsabilità continue, dall'ambizione impaziente...

Ottavio                          - Lavoro, come tutti.

Riccardo                       - Molto. Troppo, forse.

Ottavio                          - Il lavoro- non nobilita più, allora? Faccio quello che fai tu, nel tuo campo. Anzi, ti dirò, io se avessi tra le mie mani una vita umana non so se avrei la forza di agire, di decidere. Dev'essere terribile...

Riccardo                       - Io cammino per una strada diritta. Tu segui dieci strade: sei avvocato, industriale, finanziere, uomo politico... E che altro?

Ottavio                          - Basta.

Riccardo                       - In ognuna di queste attività sprechi ener­gie per dieci. Come vuoi che il tuo organismo resista?

Ottavio                          - Oramai sono allenato.

Riccardo                       - Credi di esserlo. Si; sei allenato. Ma il consumo c'è anche con l'allenamento. Basta guardarti negli occhi.

Ottavio                          - Che hanno i miei occhi?

Riccardo                       - Hanno sempre la febbre. Non li ho mai visti splendere d'una luce normale.

Ottavio                          - Ma che febbre!! Tocca il polso...

Riccardo                       - (esaminandogli il polso) Lo so che la febbre non c'è. Ma gli occhi bruciano lo stesso.

Ottavio                          - (ridendo) E le belle donne allora? Occu­pati delle belle donne, va! Quelle sì vanno curate, con tutte le fiamme che gettano dagli occhi!

Riccardo                       - Hai controllata la tua pressione?

Ottavio                          - Normalissima. Ho fatto proprio una nuova assicurazione sulla vita in questi giorni. Sono venuti in tre. Normale la pressione, normale il cuore, normali i polmoni, tutto sanissimo. Abbi pazienza, caro, io non posso essere un cliente utile: niente da fare. E con questo si cambia argomento. La salute è un capitolo esaurito, nei miei riguardi. Inteso? A proposito, Ric­cardo, avrei un'altra proposta da farti, dato che hai ri­fiutato la prima. Ti vuoi sposare?

Riccardo                       - Lasciami in pace, senti...

Ottavio                          - Bella figliola, ricca, giovane. Guida benis­simo l'automobile. Ti può accompagnare nei tuoi giri.

Riccardo                       - Smettila, ti prego.

Ottavio                          - Intrattabile, assolutamente intrattabile il nostro Riccardo. Io gli consiglierei un mese di riposo assoluto, magari in montagna! Devi aver lavorato troppo: scommetto che sei un po' esaurito. Che ne dici, Vanna? Vuoi che lo visitiamo?

Vanna                           - Non lo tormentare. (A Riccardo) Allora, stasera, niente?

Riccardo                       - No, grazie. Arrivederci, Vanna.

Vanna                           - Non ti accompagno...

Riccardo                       - Ci mancherebbe altro. (A Ottavio) Mi ral­legro di vederti tanto di buon umore...

Ottavio                          - Sicuro. Cosa t'avevano detto invece? Il contrario, vero? Calunnie. I soliti denigratori...

Riccardo                       - Meglio così. Arrivederci. (Vanna avrà suonato il campanello: Riccardo esce da sinistra. Ap­pena è uscito, il contegno di Ottavio muta di colpo: egli diventa cupo, aggressivo; si avvicina alla moglie con gesto brutale, l'afferra per un braccio).

Ottavio                          - Diventi pazza, di'? Diventi pazza?

Vanna                           - Io, perché? Che hai? Mi fai male!

Ottavio                          - Bisogna essere pazzi per andare a dire a un medico le sciocchezze che hai dette tu, sul mio conto!

Vanna                           - Che cosa ho detto?

Ottavio                          - Per chi mi prendi? Per un idiota?

Vanna                           - Ti giuro, Ottavio...

Ottavio                          - Sta zitta. Tieni i tuoi giuramenti per altre menzogne, più verosimili!

Vanna                           - Insomma...

Ottavio                          - Insomma, basta! Sei andata a raccoman­darti al caro amico d'infanzia perché si occupi della mia salute, vero? Quello non è commediante, come siete voi donne. Non ha saputo fingere, si è scoperto con un'in­genuità fanciullesca: il congresso, la vita moderna, i miei occhi febbricitanti. Tutte parole tue. Vuoi rovinarmi, di'? Vuoi che la gente cominci a diffidare di me? E' questo?

Vanna                           - Voglio che tu stia bene.

Ottavio                          - Bel modo di guarirmi! Sei tu che mi esa­speri, tu, con le tue fissazioni! Io sto benissimo. E guai a chi ne dubita. Hai capito?

Vanna                           - Ho capito.

Ottavio                          - E se non fosse così, se avessi anche un segreto malanno, nessuno deve conoscerlo, tranne io e tu, noi due: e basta!

Vanna                           - Il medico è come un confessore.

Ottavio                          - Il medico è un uomo: è un estraneo. Nes­suno. Noi due siamo una cosa sola, una persona sola. Siamo legati. Abbiamo gli stessi interessi, le stesse aspi­razioni. Insomma, dovrebbe essere così. Quindi tra noi due ci si può smascherare. Ma altri, no, nessuno. Ric­cardo, poi! Il tuo ex fidanzato. Che mi vorrebbe morto per poter riavere quello che io gli ho portato via!

Vanna                           - Ma che dici, Ottavio?

Ottavio                          - Si capisce. Io, al suo posto, avrei le stesse aspirazioni. Una donna è un piccolo scopo, nella vita. Lo scopo, in fondo, di tutti:.dal contadino più umile al­l'impiegato più borghese. Egli non aveva altro. Te. Non è riuscito neanche in questo. Figurati l'odio che ha ac­cumulato nelle vene. Ed è proprio con lui che ti con­fidi, che mi tradisci? Moralmente, s'intende.

Vanna                           - Se credi che sia così, perché lo ricevi? Gli sei amico?

Ottavio                          - (con un gesto vago) Perché non lo temo. Un infelice. Ti vuol vedere: è tutta la sua gioia. Perché negargliela? Ma mettergli anche in mano un'arma perché mi possa colpire, sarebbe follia. Per fortuna egli si sarà reso conto subito che nelle tue accuse non c'è ombra di fondamento. Hai sentito che ha detto, andandosene? Che si rallegrava del mio buon umore. Quindi, nel caso, la nevrastenica, che inventa i fantasmi, saresti tu! Sta in guardia.

Vanna                           - Io desideravo solo che tu ti decidessi a ri­posare un po', null'altro.

Ottavio                          - Non è possibile. Te l'ho già detto. Non insistere. E non fare giri viziosi per indurmi a quel che ho già rifiutato. Con me, è inutile. (Affettuoso, vicino alla moglie) Sai che m'ha detto il Ministro? Che debbo andare all'estero per trattare un affare finanziario mine­rario di grandissima responsabilità. Hanno scelto me. E' molto importante. Ti regalerò una collana. Scegli tu quella che vuoi.

Vanna                           - Quando dovresti partire?

Ottavio                          - Il mese venturo, pare. Vieni anche tu, na­turalmente.

Vanna                           - Dove?

Ottavio                          - Stati Uniti. Staremo laggiù due o tre set­timane. Sarà un soggiorno un po' faticoso, per forza. Ri­cevimenti, riunioni, visite; ma vedrai che riuscirò.

Vanna                           - Non dubito.

Ottavio                          - (con aria indifferente) E che t'ha detto Riccardo, a proposito dei tuoi dubbi...?

Vanna                           - Che dubbi?

Ottavio                          - Sì, insomma... delle tue invenzioni sulla mia salute...?

Vanna                           - Che non s'era mai accorto di niente.

Ottavio                          - Lo vedi? Per forza, E tu, allora, che dimo­strazioni gli hai dato? I miei mutamenti d'umore? I miei scatti, vero? (Vanna tace). Chi se n'è mai accorto? Neanche tua madre! Del resto, chi non ha qualche istante di malumore? Chi? Io, anzi, son più spesso gaio che triste. (Bussano a destra) Avanti! (Entra Felice).

Felice                            - Un telegramma.

Ottavio                          - Metti lì. (Addita la scrivania. Felice posa il telegramma sulla scrivania, poi esce). Ti parla ancora del suo amore, Riccardo Ortis?

Vanna                           - Non mi piace che tu scherzi su questo.

Ottavio                          - Che è sacro ed intangibile?

Vanna                           - Ho un po' di rimorso, nell'intimo. Non sono stata molto leale con lui.

Ottavio                          - Che colpa ne hai se ti sei innamorata di un altro? Anzi, toccava a lui mantenere, sorvegliare, di­fendere il tesoro che possedeva.

Vanna                           - Allora neanche tu eri libero. C'era Teresa. Io non avrei mai dovuto sperare... Che dico sperare? Credere possibile.

Ottavio                          - Il destino ha voluto così.

Vanna                           - Eppure...

Ottavio                          - Che cosa?

Vanna                           - Tu non hai mai avuto rimorsi?

Ottavio                          - Rimorsi, di che?

Vanna                           - Hai mai ripensato alla frase che io ti ho detta quel pomeriggio di ottobre? «Per noi non c'è via di uscita. Bisognerebbe che tua moglie non esistesse e che potessi sposarti io ».

Ottavio                          - Oh, la ricordo.

Vanna                           - Quello stesso pomeriggio Teresa ha avuto l'accidente d'auto che...

Ottavio                          - Una disgrazia.

Vanna                           - Lo so. Ma la coincidenza non mi è più uscita di mente. E' stato come se quella disgrazia l'avessi provocata io con l'espressione di quel desiderio insensato.

Ottavio                          - Perché insensato? Mi amavi.

Vanna                           - Amarti, allora, era peccato. Una morte ha reso il nostro amore legittimo. Alle volte mi sembra che ora si sconti questa colpa originaria.

Ottavio                          - Ma che idee! Vedi che ho ragione io? La malata sei tu... (Intanto è andato alla scrivania: ha aperto e letto il telegramma. Di colpo consulta un orario ferroviario, prende degli appunti, poi forma un numero del telefono. Vanna si alza e si avvia).

Vanna                           - Allora vado a vestirmi.

Ottavio                          - Non usciamo più. (Al telefono) Pronto. Vagone letto? Un singolo per Trieste. Sì. Dellera. Va bene. Grazie. (Riappende).

Vanna                           - Devi partire?

Ottavio                          - Sì. (Rifa un altro numero).

Vanna                           - Qualcosa di spiacevole?

Ottavio                          - Non mi seccare. (Al telefono) Pronto. Lei parte stasera con me. Per Trieste. Alle nove e mezzo. Alla stazione. (Riappende e forma un altro numero) Pronto. Sono io. Domani sono fuori. Ci rivediamo dopo domani mattina. (Riappende. Preme il campanello).

Vanna                           - Ma si può sapere?

Ottavio                          - (irritato) Che vuoi sapere? Pensa al tuo innamorato... Alle tue fisime idiote. Lascia a noi le cose serie. Per carità! Sì: vado a Trieste. Torno dopodomani. (Compare la cameriera) La mia valigia, subito. La piccola.

Vanna                           - Non pranzi in casa?

Ottavio                          - No, devo ancora vedere uno. Pranzerò alla stazione. (La cameriera intanto è uscita. Ottavio raduna delle carte in una cartella) Ah, tu credi che la vita sia semplice? Ministri che ti dicono: «Vada a fare un viaggetto di piacere in America? Assista a dieci ban­chetti, pronunci dieci brindisi »? Per voi, donne, tutto si limita a questo, si capisce. Non vedete più in là del vostro naso. Ma c'è ben altro. Si cammina su un ter­reno seminato di mine: ogni istante un trabocchetto. E ogni attenzione non basta. Bisogna essere armati fino ai denti. E soli! Senza compagni. Ogni compagno è un traditore possibile. Probabile. Bisogna ingannare anche gli alleati, anche i fratelli: è il solo modo per riuscire. (Rimane perplesso) Riuscire? E' poi sicuro? Basterebbe che uno, uno solo di quegli altri sapesse quello che c'è in questa cartella, basterebbe che io la perdessi: ed ecco saprebbero con esattezza dove colpirmi. A morte. Ma forse... (Riguarda il telegramma) M'hanno tradito. Sì. Hanno saputo... E' evidente. ('Fruga nella cartella) No: c'è. Ma che vuol dire? Bastava essere a conoscenza. Non c'è dubbio. Vanna! Sono perduto. Hanno scoperto il mio tallone d'Achille. Quest'improvvisa riunione del Co­mitato...

Vanna                           - Hai fatto qualcosa di compromettente?

Ottavio                          - Ma che! Tutto chiaro, tutto limpido... Ma ogni uomo d'affari, ogni giorno, arrischia dieci volte la propria posizione; se no, non sarebbe un uomo d'affari. Tutta l'abilità è nel far credere che si arrischia sul bianco quand'è sul nero che sei esposto. Se è così, è la fine... Ma che America, fiducia del Governo! Ci può es­sere anche la prigione. Se va bene è il Senato, gli onori, la ricchezza: se va male, l'inchiesta, la prigione.... Vanna! Dammi un cognac. (Essa va ad un armadietto, gli versa un liquore: egli bene d'un fiato).

Vanna                           - Non sarà come credi. Tu vedi o tutto nero o tutto rosa.

Ottavio                          - E' strano. E' strano». Dovevamo riunirci solo a fine mese. Ma mi batterò, comunque. Non si ha la mia pelle a buon prezzo. Ne trascino almeno venti, e che uo­mini, nel crollo. Mi sono legato a gente che non dovrebbe vacillare. (Di colpo, abbattuto) No: se sono in queste stato, mi hanno per un pezzo di pane. Come faccio a resistere? Ci vogliono muscoli, denti, artigli... Non ho più niente. Niente. 'Chiederò che mi salvino per pietà. Tutti, tutti avrebbero fatto quello che ho fatto io: vendere quel che non s'era ancora comprato. E' l'anima del commercio. Dell'industria. Di tutto. Che vuol dire? Quando va male, va male. E uno paga per tutti. Vanna! Allora, li vedrai... Mi abbandoneranno tutti. Non più un amico. Nessuno. Soli. Io e tu. Tu? Mi abbandonerai anche tu... Ne sono certo.

Vanna                           - Ma perché dici questo? Sono bestemmie!

Ottavio                          - Se non mi abbandonassi, saresti idiota. Alle volte però le donne sono idiote... (La cameriera porta la valigia).

La Cameriera                - Devo far salire l'autista?

Ottavio                          - No. (Suona. La cameriera esce da sinistra. Entra da destra Felice) Porta giù la valigia in macchina. E il soprabito. (Felice prende la valigia ed esce)

Vanna                           - Vuoi che t'accompagni alla stazione?

Ottavio                          - No, no. Non voglio nessuno.

Vanna                           - Sono sicura che tutto andrà bene.

Ottavio                          - Ecco a che servono le donne: a illuderci che siamo forti. Se ho tempo, da Trieste ti telefonerò. (Esce).

Fine del secondo atto

ATTO SECONDO

.

 La stanza di soggiorno, in casa Dotterà: ampia camera, arredata con un modernismo degno di riproduzione su una rivista d'ammobiliamento: gran finestrone rettango­lare con tutta una ringhiera di fiori. Un divano, una scansia di libri; due tavolini da gioco, un piccolo bar, sedie a sdraio. A una parete tutto un acquario con una infinità di pesci. Porte a destra e a sinistra.

(Quando il sipario si alza, Teocrito è seduto al tavolo da gioco davanti a una piccola « roulette »: la fa andare da solo, annota i punti usciti su dei quaderni. Serafino sta facendo degli esercizi ginnastici con dei manubri: è in maglietta e pantaloni del pigiama. Vanna è seduta in una poltrona a sdraio e sta           - (leggendo un libro).

Serafino                        - Mi accendi una sigaretta? (Teocrito al quale si era rivolto non gli bada).

Teocrito                         - Tre, rosso, dispari.

Serafino                        - E' una commedia.

Teocrito                         - Sta zitto: mi confondi.

Serafino                        - (continuando nei suoi esercizi, a Vanna) Me l'accendi tu? Guarda: sono lì. No, quelle senza «bout dorè ». Ecco. Io non posso interrompere gli esercizi. (Vanna gli mette in bocca la sigaretta, poi gliel'accende). Grazie.

Teocrito                         - (o Serafino) Non potresti restare in spo­gliatoio a fare le tue amenità ginnastiche? Qui stoni. Specialmente alle cinque del pomeriggio.

Serafino                        - (imperturbabile) L'igiene è la base del saper vivere.

Teocrito                         - Zero. Dopo duecentoventisei colpi. Ieri è uscito due volte, al ventitreesimo e al diciassettesimo. Vedi, Vanna, che ha una frequenza inferiore a un tren­taseiesimo?

Vanna                           - (che è tornata a sedere e ha ripreso la lettura) Davvero?

Teocrito                         - Tutta la statistica da che cosa è nata? Dalla « roulette ». Dalle probabilità rosse e nere, pari e dispari, decine e via dicendo. Infatti prima che ci fosse la « rou­lette » non c'era statistica. Vanna, prova: prendi dieci­mila lire e gioca col mio sistema. Prova.

Vanna                           - Ma io non ho diecimila lire.

Teocrito                         - Nominali, si capisce, a titolo di studio. (Vanna non gli dà retta). Non importa: gioco io per te. Punto: sta a vedere. Si comincia con duecento lire sul rosso e duecento lire sulla colonna centrale. (Prosegue da solo, tutto assorto a puntare, segnare le eventuali vin­cite e perdite).

Serafino                        - (deponendo gli attrezzi) Ecco fatto. Ora il bagno. E dopo altra mezz'ora di flessioni. (Va al mobi­letto bar e si fabbrica un cocktail).

Vanna                           - Fa parte del sistema igienico anche quello?

Serafino                        - Tonico ricostituente.

Vanna                           - Io credo che se andassi a letto un po' prima, la sera, ti gioverebbe di più. Ti sei guardato allo spec­chio? Sei giallo.

Serafino                        - Sì: dormo poco. Ho torto.

Vanna                           - Fino alle quattro del pomeriggio.

Serafino                        - Ma stanotte ho ballato fino alle sei di stamattina. Ho avuto un successo! Non ero mica giallo, sta­notte.

Vanna                           - Sarai stato brillo.

Serafino                        - Non credo. Conosci Diana?

Vanna                           - Sì: perché?

Serafino                        - Dovresti invitarla a un tè.

Vanna                           - Per farti piacere?

Serafino                        - Farebbe piacere anche a lei, credo. Al­meno... Ha ballato anche lei fino a stamattina. A un tratto ci siamo accorti che non c'era più la musica, che avevano spenta la luce, e noi ballavamo ancora.

Vanna                           - In un bello stato dovevate essere.

Serafino                        - Paradiso. Ma c'era la luce del giorno, e un organetto mattutino che era venuto in nostro soc­corso. Credo che Diana abbia dato cento lire di mancia a quello dell'organetto. Che matta! Figurati che a un tratto, stamane, ha esclamato: « Ma lei è cognato dell'ono­revole Dellera! ». E io: «Per servirla». Non ha più voluto saperne di me: neanche che l'accompagnassi. E' scappata via come un fulmine. Però è un donna di primo ordine! Non trovi?

Vanna                           - Credo che Ottavio si occupi della sua causa di successione.

Serafino                        - Allora me la inviti?

Vanna                           - Per me!

Teocrito                         - Per ora avresti perso duemila e seicento lire. Ma vedrai, adesso. E' questo il momento buono. Per vincere, bisogna sempre cominciare coi perdere. E' il solo mezzo sicuro. (Entra Piera).

Piera                              - (a Serafino) Non sei ancora vestito?

Serafino                        - Vado ora in bagno.

Piera                              - (senza nessuna energia) Senti: bisogna che te lo dica una volta per sempre, non sono contenta di te,

Serafino                        - Va bene, mamma. Lo so. Cambierò.

Piera                              - Ma quando? Hai già ventisei anni!

Serafino                        - E non faccio niente... La solita musica. Hai torto. Stanotte invece qualcosa ho fatto. Son piaciuto a Diana Cheli. Vero, Vanna?

Vanna                           - Smettila. Non fingerti peggiore di quello che sei.

Piera                              - Ma no: è una cosa seria. Diana Cheli è vedova e mi par d'aver sentito dire che è anche ric­chissima...

Serafino                        - Ti dirò poi io in un orecchio che è de­liziosa.

Vanna                           - Io mi vergognerei, se fossi in te, di far nomi a proposito di quattro salti senza importanza.

Piera                              - (orgogliosa) Oh, per questo, Serafino balla divinamente. Io capisco che su quel terreno lì abbia ra­gione tu. Comunque, Ottavio m'ha detto che è ora di farti mettere giudizio.

Serafino                        - Ottavio dovrebbe pensare invece a ren­der felice mia sorella.

Vanna                           - (scattando, indignata) Non ti permettere...

Serafino                        - E' stato offeso il nome della famiglia? Domando perdono e mi tuffo nell'acqua per lavarmi dai miei peccati. Mamma, però tu che capisci devi favorire i contatti con Diana e il sottoscritto. (Esce).

Vanna                           - Che ragazzaccio...

Piera                              - Ha ragione, però. Un bel matrimonio risol­verebbe la situazione!

Vanna                           - (alzando le spalle) Ma figurati, mamma, se Diana sposa una nullità danzante come Serafino. E' una donna che la testa sulle spalle. Al massimo, un capriccio, così... Ma, per sposare, quella vuole o un titolo o un uomo con una posizione brillante: insomma, che sia qualcuno.

Piera                              - Può darsi. Comunque, tentar non nuoce. Si può fare una gita con lei. Si vede come si mettono le cose.

Vanna                           - (un po' brusca) No.

Piera                              - Ma perché?

Vanna                           - Perché no. Lascia Diana ai fatti suoi, credi a me. Non complichiamo le cose.

Teocrito                         - Ecco: ora hai vinto cinquemila. E' sorto l'istante favorevole. Un po' tardivo. Avevi perso il ca­pitale e fatto tredicimila lire di debiti. Ma ora ti rifai...

Piera                              - Straordinario quel ragazzo! Ancora lì?

Teocrito                         - Senza riposare un istante.

Piera                              - D'una costanza. Così devono essere gli uomini. E il sistema?... Il controllo odierno?

Teocrito                         - Siamo quasi a posto. Ancora qualche ri­toccatura e poi... Guardi, ora si mette ventisei, «en plein», a cavallo, «carré»... Attenta...

Piera                              - Sì: gioco anch'io ventisei.

Teocrito                         - « Rien ne va plus ».

Piera                              - Cento. Io ho puntato cento.

Teocrito                         - Undici. Vede? Era vicino al ventisei! C'è mancato poco.

Piera                              - Ha ragione. Qualche ritoccatina ancora ci vuole. (Torna accanto a Vanna) Si può sapere che hai contro Diana? «

Vanna                           - Non hai ricevuto stamane una lettera an­che tu?

Piera                              - Quale? Ah, già. Non l'ho aperta. (Fruga nella borsetta) Ma tu come fai a sapere...?

Vanna                           - L'ho vista. Ne avevo ricevuta io una eguale, stessa carta, stessa macchina da scrivere. Deve essere iden­tico anche il contenuto.

Piera                              - Eccola.

Vanna                           - Buttala via. Non leggere.

Piera                              - Ah, no, cara. (La apre e legge) Oh, infami!

Vanna                           - Anonima, vero?

Piera                              - Che calunnie! Non ci avrai creduto, spero? (Vanna non risponde) Non bisogna mai credere alle let­tere anonime. T'eri accorta di qualcosa, tu? Ma allora, scusa, a maggior ragione... Se c'è davvero qualcosa (ab­bassando la voce) tra Diana e tuo marito, a maggior ra­gione bisogna favorire gli approcci di Serafino con Diana. Senza volerlo, Serafino salva la situazione.

Vanna                           - (scuotendo il capo) No. Credi a me... Se la cosa è vera, guarda, io compiango quella donna.

Piera                              - Come?

Vanna                           - Sì. E per questo le può essere apparso inte­ressante Serafino. Per disperazione. Oh, come la capisco.

Piera                              - Vanna, ma che hai?

Vanna                           - Ho... che alle volte non ne posso più!

Piera                              - Sta attenta. C'è lì suo fratello.

Vanna                           - Figurati, se bada a noi!

Piera                              - Che altro c'è di nuovo?

Vanna                           - Manca una sola cosa a completare il quadro: che mi picchi. Poi saremo al completo. Ma lo farà. Farà anche questo.

Piera                              - Bisogna avere un po' di pazienza... Soppor­tare...

Vanna                           - E che altro faccio? Ma resisterò? Mamma, credi che potrò resistere?

Piera                              - Che altre soluzioni ci sono?

Vanna                           - Alla fine potrei anche dividermi. Piuttosto di morire.

Teocrito                         - (Svoltandosi, con voce melliflua) Non ti lasciano, Vanna.

Vanna                           - (sorpresa ch'egli abbia udito) Che cosa?

Teocrito                         - Non ti lasciano dividerti. Sei tu che paghi per tutti, d'accordo. Ti picchiere, lo conosco. Magari, un giorno, ti ucciderà. Ma anche davanti a questo pericolo non ti lasceranno scappare.

Vanna                           - Chi?

Teocrito                         - La gente. Le apparenze. Come? Un marito invidiabile come Ottavio! La sua posizione, il suo denaro, il suo avvenire! Saresti proprio sciocca lasciarlo! E come vivrebbe dopo il tuo serafico fratellino? E come vivrebbe la tua esuberante genitrice?

Piera                              - Teocrito!

Teocrito                         - Mi voglia scusare. Ma anche questo fa parte del «sistema ». Ormai l'ingranaggio è quello. Tutto funziona a perfezione. Perfino io, vedi, cognatina cara, vivo sul tuo sacrificio. Se non ci fossi tu, la vittima sua sarei io. Così invece tutto procede a meraviglia. E tu ci rimetti gioventù, illusioni, salute, tutto. Ma qual­cuno deve scontare il benessere generale? Tu, cara. La moglie. Sempre la moglie, in questi casi.

Piera                              - Vanna, vieni via.

Teocrito                         - Ma crede che non le sappia già, queste cose? E' in gabbia, chiusa. E non si esce più. Non c'è scampo.

Piera                              - Vieni via!

Vanna                           - (avvicinandosi a Teocrito) Tu lo conosci fin da bambino. Di': è sempre stato così?

Teocrito                         - No. E' stata la città che l'ha avvelenato. In provincia, in campagna era un'altra cosa. Del resto, anch'io. Credi che laggiù mi occupassi di vincere alla « rou­lette»? Ma che! Studiavo il modo di moltiplicare la produzione del grano della nostra tenuta. Esperimentavo nuovi fertilizzanti, ero sempre tra i contadini. Allora, vogliamo ricominciare? Diecimila lire...

Vanna                           - Bada: finirai al manicomio, tu!

Teocrito                         - E gli altri? Ci si dovrebbe già essere tutti, da un pezzo. (Fa andare la «roulette»).

Piera                              - (quasi suo malgrado) Sette!

Teocrito                         - (osservando la pallina) No: trentuno. Guardate cosa c'era scritto! Guardate! Trentuno!

Piera                              - Per fortuna che son tutti calcoli ipotetici! (« si avvia).

Vanna                           - (a Teocrito) Non credere che l'egoismo degli altri possa costringermi...

Teocrito                         - Sst! Corri dalla mamma. Ti aspetta. (Vanna si stacca da Teocrito, raggiunge la madre).

Piera                              - Insopportabile quel pazzo...

Vanna                           - Ma non ha tutti i torti.

Piera                              - Vieni con me. (Le due donne escono. Teo­crito continua nei suoi esperimenti con la « roulette ». Da sinistra entra Diana, un po' nervosa, agitata).

Diana                            - Vanna non c'è?

Teocrito                         - (senz'alzarsi) Oh, buon giorno, Diana. Si accomodi. Viene subito. Ma come mai è entrata così?...

Diana                            - Ero nello studio: stavo aspettando l'onorevole.

Teocrito                         - A lei non interessa la «roulette», vero?

Diana                            - Poco.

Teocrito                         - Altre emozioni più intense, lei. Ha bal­lato fino a stamane, eppure non ha il viso stanco. Com­plimenti.

Diana                            - Che ne sa?

Teocrito                         - Tutto. E se vuole un consiglio, stia in guardia. Lei s'è messa in un brutto pasticcio.

Diana                            - Vuol avvertire Vanna?...

Teocrito                         - Ci tiene tanto a vederla?

Duna                             - Sì.

Teocrito                         - O preferisce che vada a chiamarle il fra­tello? Dev'esser uscito ora dal bagno.

Diana                            - Senta: io non so come lei si permette...

Teocrito                         - Io, niente. Ho molta simpatia per lei, molta. Ma io non attento alla proprietà altrui.

Diana                            - (con impeto) Io sono libera, libera, libera!

Teocrito                         - Beata lei! Sapesse come è dura la catena, quand'è catena! (Piano, avvicinandosi a lei) Hanno ri­cevuto due lettere anonime. Madre e figlia. Tutt'e due che accusavano lei, Diana.

Diana                            - Stia zitto. Non si sa mai quando parla sul serio o scherza, lei!

Teocrito                         - Non mi pare il momento migliore per parlare con Vanna, questo. Vuole che indaghi io, prima? Che senta come si mettono le cose?

Diana                            - La finisca. Pensi ai suoi numeri. Sa dove sia andato l'onorevole?

Teocrito                         - A me non dice mai nulla. A nessuno, del resto. Ne è molto innamorata?

Diana                            - Insomma...

Teocrito                         - Tanto sa che so. Sono entrato nello studio che stavate baciandovi, l'altro giorno. Lei mi ha visto, no?

Diana                            - Credevo che lei fosse un gentiluomo.

Teocrito                         - Infatti, ho chiesto scusa e mi sono ritirato...

Diana                            - E' stato un istante di smarrimento... Senza conseguenze. Suo fratello che le ha detto in merito?

Teocrito                         - Non ha aperto bocca. Gli ho chiesto tremila lire per andare a San Remo. Me le ha rifiutate lo stesso. Dica la verità: ne è innamorata?

Diana                            - E sua moglie?

Teocrito                         - (sogghignando) Comincia a capire d'aver commesso un errore a sposarlo.

Diana                            - Ha sofferto di quelle lettere anonime?

Teocrito                         - Se avesse dovuto soffrirne, non glie l'avrei scritte.

Diana                            - E' stato lei?

Teocrito                         - Si capisce.

Diana                            - Ma perché? Che anima malvagia ha lei?...

Teocrito                         - Sono il solo, io, che abbia un'anima pie­tosa, invece.

Diana                            - La lettera anonima è una tale viltà...

Teocrito                         - No. Intanto non è più anonima dal mo­mento che io mi confesso autore: la sottoscrivo. E poi, se l'avessi firmata, nessuno avrebbe creduto al suo con­tenuto. Io invece volevo che si credesse.

Diana                            - Ma lo scopo? Avanti, dica.

Teocrito                         - Salvare quel che è salvabile. Chi è sal­vabile. Dare un po' di coraggio alla mia infelice cognata. Persuaderla a insorgere. Ma non serve: nulla serve.

Diana                            - Non è più sola, Vanna.

Teocrito                         - Lo so. Ora siete in due nella ragnatela. Vittime tutt'e due. Ma che rivali, ma che odio! Pietà una per l'altra. Magari vi odiaste. E' tutto inutile. Ma lei, scusi, lei che non ha doveri, perché non se ne va, non va all'estero? Un lungo viaggio, una crociera?

Diana                            - Ho paura.

Teocrito                         - Fugga. Di nascosto.

Diana                            - Mi raggiungerebbe ovunque. Io non posso far niente. Bisogna che sia lui a stancarsi...

Teocrito                         - Non ho mai visto un carnefice stancarsi della propria vittima.

Diana                            - Ma non potrà guarire?...

Teocrito                         - Metta insieme Otello, Amleto, Macheti: ne faccia una persona unica e poi si domandi: potrà guarire? Non c'è che da aspettare la catastrofe. Non c'è scampo.

Diana                            - J? un uomo talmente superiore... (Entra, rivestito completamente, Serafino).

Serafino                        - Oh, Diana! Che brava...

Teocrito                         - (quasi tra sé) Dio ci scampi dagli uomini superiori!

Serafino                        - Come mai qui?

Diana                            - Mi chiami sua sorella.

Serafino                        - Ma perché? Ora che la sorte ci ha fatto trovar «oli... Insomma, quasi.

Diana                            - No, senta. Oggi è un'altra cosa. Non ho bevuto.

Serafino                        - (avvicinandosi ai bar) Rimediamo subito. Che preferisce?

Diana                            - Niente.

Serafino                        - Com'è nervosa!

Diana                            - Sì, mi scusi. Sono nervosa.

Serafino                        - Sarebbe indiscrezione chiederle...?

Diana                            - Non chieda niente.

Teocrito                         - (avvicinandosi) Avvertirò io la padrona di casa. (Esce).

Serafino                        - Quello non ne fa una di buona!

Diana                            - Forse lo giudicate male. Non è stupido.

Serafino                        - Diana, ieri sera ci si dava del tu verso le tre... Ricordi?

Diana                            - No. Non ricordo più niente.

Serafino                        - E' un vero peccato.

Diana                            - (un po' convulsa) Mi dica: sua sorella balla?

Serafino                        - Quando glielo ordina il consorte. Di rado.

Diana                            - (ridendo) Io adoro ballare. E me lo vogliono proibire.

Serafino                        - Chi?

Diana                            - Così! Ha ragione. Bisogna approfittare. La gioventù dura così poco. Guai a chi ha paura.

Serafino                        - Non mi sembra una donna che abbia paura!

Diana                            - Io? Ho sempre avuto tutti i coraggi. E' solo ora che...

Serafino                        - Che succede? Non vuole confidarsi con me?

Diana                            - No. (Breve pausa). Sì, mi dia un liquore, Quello che vuole.

Serafino                        - (prendendole una mano) Diana, ma lei trema.

Diana                            - Non ci badi. Non ha importanza. Paura? Sapesse che forza ci vuole per esser qui, ora. Eppure... Impossibile farne a meno, del resto.

Serafino                        - Diana, c'è un segreto che la tortura, che la fa soffrire.

Diana                            - Non ci vuol molto a capirlo. (Beve ti liquore che frattanto Serafino le aveva versato). Me ne libererò, a qualunque costo. Vanna ama molto suo marito?

Serafino                        - Perché?

Diana                            - Mi risponda.

Serafino                        - Lo amava. Chi ci capisce più niente? E' possibile continuare ad amare un uomo simile? Non dà nulla, neanche un pensiero di se: e pretende tutto. Mai visto un egoismo più brutale.

Diana                            - Sarebbe niente. Non ha mai saputo di qual­che sua crisi isterica in pubblico? Durante, una seduta? Un consiglio?

 Serafino                       - No, mai. Anzi, lo reputano un uomo fred­dissimo, d'acciaio. Sempre padrone di sé.

Diana                            - Infatti. Anche a me ha dato questa sensa­zione... Ma avevo sentito dire, da altri.

Serafino                        - No. Forse in famiglia, con sua moglie, è un po' irascibile. Da qualche tempo non sopporta più i minimi rumori. Guai se sente parlar forte, se uno mette in moto la radio. Bisogna camminare in punta di piedi quando c'è lui.

Diana                            - (aprendo la borsetta) Vuol vedere che cosa mi sono comprata oggi? Una rivoltella.

Serafino                        - Intenzioni omicide?

Diana                            - Difesa personale.

Serafino                        - Mi tengo a rispettosa distanza. La prefe­rivo armata solo di sorrisi.

Diana                            - Anch'io. Finora eran sempre bastati. Ma Vanna...

Vanna                           - (comparendo da destra) Eccomi. (Diana le va incontro con eccessiva premura).

Diana                            - Mi scusi, se...

Vanna                           - Teocrito è venuto solo ora ad avvertirmi... Prego.

Diana                            - Grazie. (Siede).

Serafino                        - Se avete qualcosa da dirvi che io non debba... Va bene. Mi permetterò di telefonarle  - (bacia la mano a Diana). Ciao, Vanna. Stasera pranzo fuori. (Esce da destra. Diana allora si avvicina un po' a Vanna, la fissa e poi, di colpo, scoppia a piangere: si nasconde il viso con le mani, e non riesce più a vincere il singhiozzo convulso che la scuote).

Vanna                           - Su, coraggio, andiamo: non faccia così. (Diana continua a singhiozzare. Sulla porta di sinistra campare Ottavio: si ferma ad osservare la scena).

Ottavio                          - Perché tanta disperazione? (Diana si volta di colpo, lo vede, si asciuga gli occhi).

Diana                            - Mi scusi, onorevole. Niente.

Ottavio                          - (sempre immobile al suo posto) Mi ave­vano detto, di là, che lei era venuta. E poi era scomparsa. Ma se avete da parlare, voi due, fate pure. Io ho gente. La riceverò dopo, signora. (Esce da sinistra).

Diana                            - (rapida, febbrile) Sì, Vanna, ho da parlarle. Bisogna. Sono qui per questo. E' forse assurdo che mi rivolga a lei. Ma non c'è nessun altro che possa capire, che mi possa aiutare.

Vanna                           - (sempre guardinga e sulla difensiva) Non riesco a comprendere in che cosa...

Diana                            - No, la prego. Dimentichi anche lei i doveri di convenienza mondana, le ipocrisie obbligatorie... Io so che lei sa.

Vanna                           - Che cosa?

Diana                            - Sapeva anche prima. Comunque, non ha rice­vuto stamane una lettera...?

Vanna                           - L'aveva scritta lei?

Diana                            - No. Ma se non l'avesse ricevuta farebbe lo stesso: sarei venuta egualmente con la verità sulle labbra a confessarmi.

Vanna                           - Da me?

Diana                            - Sì.

Vanna                           - Che cos'è? Pentita di quello che ha fatto?

Diana                            - Pentita sarebbe niente. Ci tiene che faccia l'atto di contrizione? Va bene: non avrei mai dovuto avvicinarmi a un uomo già sposato. Ma ai nostri giorni, con la vita che viviamo, che vuole? Sì; sono sempre stata una donna che non ha dato troppo peso ai capricci, specialmente ai miei. Peccatrice? Come vuole: peccatrice.

Vanna                           - Lasci andare: non ha importanza per me il suo passato.

Diana                            - Io non conoscevo Ottavio... Suo marito. Se gli uomini si conoscessero bene, prima, finite le cu­riosità, finiti gli errori, finiti i peccati.

Vanna                           - Non vedo ancora che cosa posso farle io.

Diana                            - Non sia così ostile, chiusa. Quello che io patisco da un mese, lei lo patisce da anni.

Vanna                           - E se fosse? Io non sono mai andata a men­dicare soccorso da nessuno.

Diana                            - Non avrebbe servito. E' la moglie. Ma io... Dica, debbo rimetterci la vita perché ho commesso un errore? Ho ventisei anni. Devo morire? Badi: poi va in galera, lui.

Vanna                           - Ma non si esalti.

Diana                            - Esaltare? Stamattina mi voleva strozzare, ca­pisce, perché ieri sera ero andata a ballare.

Vanna                           - Tanto innamorato?

Diana                            - Ma no. Nemmeno questo. Gli sembra che io, oramai, sia cosa sua senza più possibilità di iniziativa indipendente. Lo ha offeso che, malgrado il suo divieto, avessi osato ballare. E questo lo ha reso come pazzo. Del resto l'avevo già conosciuto anche prima... Dio, Dio!

Vanna                           - Lei non ha nessun legame.

Diana                            - Non mi lascia. Non permette che nessuno si sottragga. Ho un'unica speranza: lei, signora.

Vanna                           - Io che ci posso fare?

Duna                             - Sembra grottesco, assurdo, vero?, andare a pregare la moglie che ci liberi dall'amante. Ma non c'è altro mezzo. Lei sola può... Non so, condurlo via in un viaggio. Durante la sua assenza io scompaio. Vado a vi­vere altrove per sempre. Se oggi mi muovessi, mi farebbe seguire da qualcuno. Credo di avere già delle spie che mi sorvegliano. E mi colpirebbe dovunque fossi.

Vanna                           - Ma andiamo! La sua paura le ingigantisce le cose. Non son più tempi di simili vendette...

Diana                            - Perché dice questo, lei che conosce e sa...? (Pausa). Mi odia molto?

Vanna                           - No. Non mi so mettere nei panni della mo­glie tradita. Una moglie è una creatura che ha dei di­ritti. Io non ne ho nessuno, con lui.

Diana                            - (prendendo una mano di Vanna e baciando­gliela) Ecco la donna. Malgrado tutta la sua rassegna­zione e la mia colpa, siamo donne tutt'e due, donne at­territe. Perché anche lei è spaventata. Io lo sento. (Vanna non risponde). E allora?

Vanna                           - Ho così poco potere io... (Vede la rivoltella di Diana rimasta sul tavolino) E' sua? Per carità,! No, no.

Diana                            - Lei malgrado tutto lo ama ancora! Io, non ho vergogna a dirlo, se avessi scoperto un'arma nella « sua » borsetta, avrei tremato, ma di speranza.

Vanna                           - Ah! Se ne vada...

Diana                            - Mi perdoni!

Vanna                           - Vada via. (Le voci si sono alzate. La porta di sinistra si apre e ricompare Ottavio).

Diana                            - I miei omaggi, signora. E mi scusi.

Ottavio                          - Non gridate così. Vanna, sai che mi dà noia sentir gridare... Vuol favorire, signora?

Vanna                           - Buongiorno. (Diana passa a sinistra, nello studio. Ottavio lancia un'occhiata alla moglie e poi scom­pare a sua volta. Vanna prende la rivoltella che ha te­nuto in mano durante questa ultima battuta e la esamina: poi la nasconde, quando ricompare a destra, furtivo, Teo­crito).

 

Teocrito                         - Se ìi'è andata? E' una povera donna di piacere, tutta pensierini frivoli, danze moderne, concorsi ippici e campionati di tennis: un uccellino colibri che s'è trovato impigliato con un'ala nell'ingranaggio d'una tragedia. Forse era la donna che andava proprio bene per Serafino. E invece... La donnetta da spiaggia bal­neare che vuol salire sul Monte Bianco! Eh, che squi­librio!

Vanna                           - Vuoi tacere? La vuoi finire?

Teocrito                         - Quella, in unmodo o nell'altro, sfugge. Si libera. Sei tu invece che non trovi scampo. Perché - mal­grado tutto - non avresti nemmeno voluto che essa te lo portasse via del tutto. Vero?

Vanna                           - Vuoi giocare anche tu con i miei nervi?

Piera                              - (comparendo) Lasciala un po' in pace. Vuoi aggiungerti anche tu, ora?

Teocrito                         - Per carità. Io voglio tanto bene alla mia cognatina... Vorrei tanto vederla sorridere contenta! (Esce dall’altra porta in fondo a destra).

Piera                              - Che voleva? Come ha avuto la sfaccia­taggine?...

Vanna                           - Non so. Son donne che osano qualunque cosa perché han sempre vissuto fuori delle regole nostre.

Piera                              - Ma cosa ti ha detto?

Vanna                           - Niente d'importante. Che avrebbe voluto re­stituirmi mio marito. Che non sapeva anzi come fare per restituirmelo, e mi chiedeva consiglio.

Piera                              - Beh, questo è un pensiero generoso.

Vanna                           - Sì, il ladro che restituisce il portafogli ap­pena s'accorge che è vuoto.

Piera                              - Non puoi dir questo di Ottavio.

Vanna                           - Lasciamo andare. Inutile spiegarti, mamma. Anzi, no. Meglio che tu sappia. Sai perché quella donna è venuta? Perché ha paura. Paura di Ottavio. Paura di essere uccisa. Questo ti prova, se ce n'era bisogno, il pericolo in cui vivo io. Perché la mia situazione è la stessa.

Piera                              - Tu non hai niente da rimproverarti. Sei una moglie modello. Che pericoli vuoi correre?

Vanna                           - Ah, credi che solo le colpe creino i pericoli? Sono le persone pericolose che li provocano, non altro. Tua figlia, da tempo e ogni giorno più, è minacciata.

Piera                              - Ma non è vero.

Vanna                           - Si capisce! Ha ragione Teocrito. Crederlo significherebbe disturbare il vostro egoismo assetato e pacifico. Poi, quand'una disgrazia accadesse, direste tutti con grottesca ingenuità: «Chi l'avrebbe creduto?».

Piera                              - Non parlare di disgrazie. Intanto porta iet­tatura.

Vanna                           - Scusa, mamma. Non è vero niente. Ho detto delle cose che non pensavo. Esagerazioni. La visita di quella pazza, per forza, mi ha un po' turbata...

Piera                              - Così mi piace.

Vanna                           - Non bisogna crearsi dei fantasmi.

Piera                              - Ecco. A proposito, hai accennato niente, di Serafino, lì, alla signora Cheli?

Vanna                           - Ah, avrei anche dovuto portarmela in casa?...

Piera                              - Chi dice in casa? Anzi: è lei che si sarebbe portato via Serafino. Così, idee vaghe. Ma se si piac­ciono... Perché tutti questi suoi pentimenti, credi a me, voglion dire che ora le piace un altro. Probabilmente è Serafino.

Vanna                           - E allora la dovrei eleggere a cognata?

Piera                              - Che c'entra eleggere? Non sei tu che la scegli. Bè, non hai aperto bocca, ho capito. Hai pensato solo ai casi tuoi. In fondo è quello che t'interessava di più. Hai ragione. Però non capisco perché, in queste con­dizioni, tu accusi gli altri di egoismo!

Vanna                           - Mamma, senti, io ti voglio molto bene, ma ora ti prego proprio di non insistere. Di non pretendere troppo dalla mia sopportazione.

Piera                              - Non sei più tu. Ti stai guastando il carattere. Ah! Mentre eri qui, in colloquio, ha telefonato Riccardo. Ho pensato di non disturbarti: non sarà stata una cosa importante.

Vanna                           - Che voleva?

Piera                              - Niente. Sentire la tua voce, probabilmente. Hai messo la polvere ai pesci?

Vanna                           - Sì.

Piera                              - Ti lascio. Oggi non si può contare su di te. Ho capito. Neanche per andare dai Morandi?

Vanna                           - No, neanche per andare dai Morandi!

Piera                              - Va bene. Arrivederci. Credo che resterò fuori a pranzo. Non ho voglia di veder lune, io.

Vanna                           - Allora di' a Teocrito, se lo vedi, che resti fuori anche lui.

Piera                              - Inutile. E' giovedì. Tutti i giovedì rimane fuori. Lo «ai.

Vanna                           - Così io resterò sola con Ottavio. Sola con mio marito.

Piera                              - Addio. Oh, scusa: puoi prestarmi trecento lire?

Vanna                           - In camera da letto: nel primo cassetto.

Piera                              - Grazie. (Esce da destra in fondo. Vanna resta sola; dopo un istante la porta dello studio, a sinistra, si apre ed entra Ottavio).

Ottavio                          - La pazza se n'è andata. Finalmente.

Vanna                           - Ah, sì?

Ottavio                          - Che voleva da te?

Vanna                           - Niente: le solite cose. Da che sarta mi servo. Da che parrucchiere vado.

Ottavio                          - Già. E tutto questo era molto commovente?

Vanna                           - Perché?

Ottavio                          - Perché quando sono entrato, un momento, ho visto che la visitatrice piangeva.

Vanna                           - Ma no... Ah, forse, un istante: mi raccontava della morte di suo marito.

Ottavio                          - Già. Lagrime di coccodrillo. Lo ha sempre tradito. E' una donnaccia.

Vanna                           - Perché dici così? Non è generoso da parte tua. E' una cliente.

Ottavio                          - Una donnaccia. Figurati che... Bè, niente! Non ha importanza. Non vai la pena che se ne parli! Dov'è tuo fratello?

Vanna                           - E' uscito.

Ottavio                          - Bisogna che la smetta. Io non posso con­tinuare a mantenerlo perché passi le sue notti a ballare!

Vanna                           - Gliel'ho già detto io.

Ottavio                          - Non basta dirlo. E' una vergogna. Io, alla sua età, guadagnavo già tanto da far marciare da solo la mia azienda agricola.

Vanna                           - Non tutti possono essere come te.

Ottavio                          - Era una magnifica azienda! Che vita fa­cevo, laggiù! Sempre in piedi all'alba. A cavallo. E nessun'altra preoccupazione che la grandine o la siccità. Non dovevo venderla.

Vanna                           - Perché non compri una tenuta in campagna? Credo che ti appassioneresti ancora ai problemi della terra...

Ottavio                          - No. Oramai... Dunque, tuo fratello balla tutta la notte...

Vanna                           - Lascia andare. Oramai l'ho rimproverato.

Ottavio                          - Lo manderò all'estero, tuo fratello.

Vanna                           - Non è un bagaglio che si possa imballare e spedire.

Ottavio                          - Vorrei vedere che rifiutasse! Con gli ob­blighi che ha verso di me... E poi gli troverò un posto. Non vuole l'estero? In colonia.

Vanna                           - Ti dà noia qui?

Ottavio                          - Cosa?

Vanna                           - Niente. Questa tua decisione improvvisa è così strana che m'è venuto in mente alle volte ti ostaco­lasse nei tuoi piani.

Ottavio                          - Nessuno mi può ostacolare. Nessuno.

Vanna                           - Si capisce. Chi vuoi che osi? O che possa?

Ottavio                          - (che sorveglia la moglie con diffidenza tro­vandola insolitamente aggressiva senza comprenderne il motivo) E Teocrito dov'è?

Vanna                           - Fuori. Tutti, fuori. Anche a pranzo saremo soli. A meno che non venga Riccardo.

Ottavio                          - Ancora?

Vanna                           - Ma se è due settimane che non viene più...

Ottavio                          - Ah, sì? Mi pareva. (Siede). E che cosa si mangia stasera?

Vanna                           - Non lo so.

Ottavio                          - Naturale! Quando mai sai qualcosa?

Vanna                           - Vuoi che usciamo anche noi? Potrai man­giare quello che preferisci.

Ottavio                          - No. Non una parola, non una domanda sul come vanno gli affari. A te tutto è indifferente, vero? An­che a te basta che io provveda alle tue pellicce! Come questo sia possibile, è una cosa che non conta.

Vanna                           - Ma sì, caro. Soltanto so che quando t'inter­rogo non dici niente.

Ottavio                          - (accendendo una sigaretta) Ricordi quando il Ministro m'ha chiamato per mandarmi in America? Ci va un altro.

Vanna                           - Pazienza!

Ottavio                          - Tu ti rassegni, vero? Che ti facciano simili soperchierie sopporti?

Vanna                           - Che ci vuoi fare?

Ottavio                          - (alzandosi e passeggiando) Tutto un com­plotto contro di me! Ma li schiaccerò. Non sanno ancora quello che posso io... (Va vicino alla vasca dei pesci e butta dentro la cenere della sigaretta).

Vanna                           - No, Ottavio, li fai morire.

Ottavio                          - (di colpo, urlando) Che muoiano! Che m'im­porta? A che servono? A niente. Muoiano! Poi, se vor­rai, te ne comprerò degli altri. Cento altri. E anche un pappagallo, e una scimmietta! E che altro vuoi, sentiamo?

Vanna                           - (che si è alzata ed è andata a togliere la cenere dal pelo d'acqua della vasca) Ti piace fare i dispetti, come i bambini.

Ottavio                          - (alzando le spalle) Ma in America ci an­dremo lo stesso, io e te. Questo mese. E tratterò egual­mente, senza veste ufficiale, l'affare. E riuscirò, perché Poggiali vedrai che non riuscirà a niente. Sarà uno scherzo magnifico!

Vanna                           - E vuoi lasciare Diana?

Ottavio                          - Come, lasciare? La sua causa chissà quanto tirerà in lungo. E poi se ne occupa il mio sostituto.

Vanna                           - Credevo che non volessi staccarti da lei.

Ottavio                          - Che ti ha raccontato quella simulatrice? E' una simulatrice! Che io magari le faccio la corte. M'in­teresso a lei. (Ride). Tutte eguali, le donne! Pretendono che noi perdiamo la testa per loro. Diana? E chi s'è mai occupato di lei?!

Vanna                           - (calma) Però vorresti mandar via mio fra­tello perché stanotte s'è occupato troppo di lei.

Ottavio                          - Io? Neanche per idea. Assurdo! Che ha fatto, Serafino, stanotte? Se non lo so nemmeno.

Vanna                           - Basta. Non credere che voglia farti una scena di gelosia!

Ottavio                          - Perché? Tu non sei gelosa, vero?

Vanna                           - No. Non più. Si è gelosi di quello che ci appartiene. Tu non sei mai stato mio.

Ottavio                          - Ah, no? E di chi allora?

Vanna                           - Di te stesso.

Ottavio                          - Io? La bestia da soma che sgobba, che suda, che si logora da mattina a sera, per mantenere te, tua madre, tuo fratello, mio fratello, tutti. E l'egoista sarei io!

Vanna                           - Nessuno ti ha chiesto di accumulare il danaro che accumuli.

Ottavio                          - Quale? Guadagno quello che voi spendete. Voi e io, si capisce. Niente altro. Se morissi oggi non avreste che i soldi della mia assicurazione; non uno di più.

Vanna                           - Quanto hai alla Banca dell'Agricoltura?

Ottavio                          - Neanche una lira. Estinto il deposito.

Vanna                           - Bugiardo.

Ottavio                          - Ti giuro...

Vanna                           - Due milioni trecentoventimila lire.

Ottavio                          - Ah, carogna! Mi spii... Mi guardi in tasca, eh?! E' così? Perché? Di': perché? Che vuoi fare con quei soldi?

Vanna                           - E alla Banca del Lavoro? Seicentoventicin-quemila. E in titoli di Stato? E in azioni? Perché vuoi sempre mentire, su tutto, con me? E con questa bella fiducia, pretenderesti che ti amassi?

Ottavio                          - Io pretendo? E chi l'ha mai preteso? Fa quello che vuoi! Solo non permetto che tu vada a frugare nei miei conti. Quella roba è mia, mia, mia. Che c'entri tu?

Vanna                           - Ho voluto sapere. Perché? Per esser sicura che la tua mania di accumular denaro, di affannare per farne sempre di più è un altro sintomo del tuo egoismo spietato di cui tutti siamo vittime, e tu prima degli altri. Ti consumi, ti torturi, ti schianti, per chi? Per niente. Per nessuno. Potresti chiudere lo studio, metterti a vi­vere una vita di pace, di serenità, di svago, in mezze a tutti gli agi: la tua salute riprenderebbe, i tuoi sonni non avrebbero più incubi. E invece persisti, preso nell'ingranaggio massacrante, rovinandoti e rovinandoci tutti.

Ottavio                          - (perplesso, colpito, amletico) Già... Perché? Per chi? Ambizione? No. Se davvero mi facessero mi­nistro, me n'importerebbe? No. Avidità di danaro? No. Non lo godo. Non ho figli. A chi lo lascerò? E invece mi rovino il carattere, divento aspro, tratto male que­st'angelo di moglie... Rinunciare? Abbandonare tutto? Comperare uno « yacht », andare a fare un viaggio lungo, di mesi, viaggiare, vedere paesi nuovi.

Vanna                           - (con un filo appena di speranza) Non ti pia­cerebbe?

Ottavio                          - Senza nemmeno la radio a bordo, per non saper niente di niente. No, non ci si sradica, così di colpo, dalla propria esistenza. Oramai è questa, deve essere questa.

Vanna                           - Ma se ti dicessero che hai un anno di vita al massimo, che sei malatissimo, che « devi » riposare, abbandonare tutto...?

Ottavio                          - (afferrandole un braccio) Chi ti ha detto questo? Riccardo? (Riprendendosi) Ma no. E' per Diana. Hai saputo che è la mia amante e allora vuoi portarmi via. E' così? Vero? Armi femminili?

 

Vanna                           - Non avevi detto che non c'era niente fra te e Diana?

Ottavio                          - Tanto è inutile. Tu lo sai. Te l'ha detto lei. E' la mia amante. E con questo? Per quel che te n'im­porta! Non te n'importa niente, vero?

Vanna                           - Ah, pretenderesti anche che ne soffrissi?

Ottavio                          - Di che sei fatta? Come fai a rimanere im­passibile davanti a un mostro simile di marito? Nessun marito ha mai tradito sua moglie! Nessuno! Io sono il primo che abbia commesso una simile nefandezza! Or­rore!! ! Ti faccio orrore?

Vanna                           - Pena. Mi fai pena.

Ottavio                          - Perché? Perché una bella donna è inna­morata pazza di me?

Vanna                           - Poveraccia! Ha paura di te. La terrorizzi!

Ottavio                          - Io? Non mi occupo di lei.

Vanna                           - Le hai messo le mani addosso, stamane. E lei s'è andata a comperare una rivoltella per difendersi.

Ottavio                          - Cosa?

Vanna                           - Sono cose che si fanno o quando si è inna­morati pazzi o quando si è privati del controllo dei propri nervi. (Breve pausa). Tu sei innamorato pazzo di lei?

Ottavio                          - Non dire sciocchezze!

Vanna                           - Eppure si direbbe. Hai proibito a lei, come a me, di ballare. E siccome ti ha disubbidito, ti sei imbestiato.

Ottavio                          - Tutte menzogne. Ti ha mentito.

Vanna                           - Se non fosse così spaventata, dovrebbe esser lusingata di tanto tirannico attaccamento. E non sa che sei così con tutti, e con tutto, anche con le persone e le cose di cui non t'importa nulla. Se qualcuno, la came­riera o il tuo sostituto, ti disobbedisse, o solo se il ce­stino per la carta straccia non è dove l'avevi lasciato ieri, t'infurii del pari. Ti sembra infirmata la tua auto­rità sovrana. Vero? Così quella tua povera amante. Schiava. E così tutti.

Ottavio                          - (avvilito, meschinissimo, quasi piangente) Sono un essere abbietto, l'ultimo degli uomini, un di­sgraziato. Tu sei la sola che mi conosci. Non ho scuse. Non merito attenuanti. Sono un miserabile. Egoista. Sei d'una lucidità spaventosa. E' vero. L'ho quasi ammazzata stamane. E se guardo bene nel mio io, che m'importa di quella donna? Niente. Ti giuro, Vanna, niente. Proprio niente. Non l'ho cercata, sai: questo no. E' stata lei a offrirsi, a provocarmi. Te lo giuro. E poi... Non la vedrò mai più. Sono imperdonabile. Farti soffrire per stupidità di questo genere. Avessi perduto la testa, ancora... Ma no. Niente. Egoista, niente altro che egoista. Prender tutto, senza ragione, senza badare a chi ne soffre, a chi cal­pesto. Unicamente per il mio piacere. Piacere? Nem­meno. Dovrei essere felice allora, se soddisfassi il mio piacere. No: obbedisco a non so quale necessità, senza guardarmi attorno, sospinto da un'ansia spietata, branco­lando, frenetico per raggiungere quello che per questa strada non si raggiunge mai. Ma non sono solo, Vanna. Siamo in tanti così. In tanti. Tutti noi che siamo invi­diati dai piccoli, dagli oscuri che ci vedono in alto e non sanno... Perdonami. Tu sei la mia vittima, ma anch'io sono vittima della vita che viviamo.

Vanna                           - Tra poco sarai pentito di quello che hai confessato, avrai vergogna della tua debolezza. O meglio, l'avrai dimenticata.

Ottavio                          - Ma se sono un essere così indegno, tu perché mi sopporti? Io, se fossi in te, me ne sarei già andato da tempo. Rimanere qui, alla catena... Solo un grande amore potrebbe indurti a sopportare. E non è il caso di parlare di grande amore.

Vanna                           - Che ne sai tu?

Ottavio                          - Macché! No, tu sei sana, normale, obiettiva, di umore costante. Se no non potresti giudicarmi come mi giudichi. E in queste condizioni avresti dovuto an­dartene. Sì. Se sei rimasta devi avere le tue ragioni. Quali sono? Io me lo domando. Taci, non sei pazza come sono pazzo io. Eh, sì, tu questo hai detto, in fondo, che io sono pazzo!

Vanna                           - Ottavio!

Ottavio                          - Hai cambiato le parole, girato la posizione, non magari pazzo da manicomio ancora, ma per te io sono maniaco, strambo, fissato, quindi... Ma tu, tu così diversa, lucida, superiore, avanti, sentiamo, perché com­metti questa idiozia colossale di rimanere accanto a un minorato come sono io? Due erano gli scampi per te: andartene o prenderti un amante. Non te ne sei andata. Quindi ti sei preso un amante. Per forza. Ecco, la verità! Confessa!

Vanna                           - Ottavio, perché dici delle cose che non pensi e che offendono?

Ottavio                          - Perché non sono uno stupido. Pazzo se vuoi, ma intelligente. Capisco le cose. Troppa rassegnazione, troppa passività. Non è umana, non è ammissibile, se non c'è qualcosa da coprire. Eh, cara! Ti sei preso un amante per rifarti di quello che ti faccio patire io. Credi che sia un divertimento vivere con un uomo come me? Una tortura! Pensa che io ci vivo da quando son nato con me stesso! Mi disprezzo, mi odio, mi aborro. E non posso fuggirmi. Va, sei stata una disgraziata ad in­contrarmi!

Vanna                           - Dio, Dio! (Si alza, fa per allontanarsi: Ot­tavio la raggiunge la afferra per le braccia).

Ottavio                          - Chi è il tuo amante?

Vanna                           - Finiscila!

Ottavio                          - Ti perdono. Hai tutte le ragioni. Hai fatto bene. Era logico, necessario. Vedi che lo ammetto, ma dimmi chi è.

Vanna                           - Lasciami!

Ottavio                          - Dimmi il nome, se no guai a te. Dillo! Avanti! Il nome!

Vanna                           - Non ti basta aver malmenato la tua amante? Vuoi ricominciare con me?

Ottavio                          - Sì, perché siete tutte eguali, tutte sgualdrine che appena uno vi volta le spalle occhieggiate col primo maschio che vi viene vicino...

Vanna                           - Ottavio, ritorna in te!

Ottavio                          - Spaccarvi la testa bisognerebbe, per vedere quel che c'è dentro: e nel cervello si troverebbe ancora la bugia. Niente altro. Avanti! Da chi è che ti fai ba­ciare quando io non ci sono?

Vanna                           - Bada che la rivoltella di Diana l'ho io, glie l'ho presa io.

Ottavio                          - Credi di farmi paura? Su, parla!

Vanna                           - Meriteresti che ne avessi dieci di amanti!

Ottavio                          - Li hai avuti! Ma sì... Dieci! Che ne sap­piamo noi, poveri idioti! Ma pagherai tu per tutte le donne, per tutte le adultere! Guai a te! Ma voglio i nomi.

Vanna                           - Me ne andrò, non mi vedrai mai più.

Ottavio                          - Non mi sfuggi. Senti come sono forte. Le mie mani ti stringono: non ci si libera.

Vanna                           - Aiuto!

Ottavio                          - Zitta! Taci!

Vanna                           - Aiuto... (Egli le stringe la gola, sempre di più. D'improvviso entra Riccardo, vede il gruppo, si pre­cipita alle spalle di Ottavio, lo afferra violentemente e lo tira indietro. Ottavio lascia la presa, guarda fisso Riccardo).

 

Ottavio                          - Ah, tu? Era quello che volevo sapere! (A Vanna che si rialza a fatica) Vedi? L'ho saputo. (A Ric­cardo) E ora, oltre all'amore, avrai anche la sua rico­noscenza. Le hai salvato la vita! (Allontanandosi con un sorriso che è un ghigno di sarcasmo) Pareva che la stessi quasi strozzando, no??!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Quattro anni dopo. Una mattina d'autunno. La stanza centrale di una villa, nei pressi dì Roma, sulla via Cassia. Arredamento in stile cinquecentesco, tutto con mobili autentici, dì grande valore. In fondo una ter­razza, alberi dai rami oramai poveri di foglie, tutte in­giallite. A sinistra la porta che dà alla scala. A destra due porte che danno nell'interno dell'appartamento.

(All'alzarsi del sipario Piera è in scena, in piedi, come in attesa d'essere ricevuta. Compare da destra, in prima, Paolo, cameriere).

Paolo                             - Sua Eccellenza è spiacente, ma non può riceverla.

Piera                              - Ha detto chi sono?

Paolo                             - Sissignore. D'altronde Sua Eccellenza è an­cora a letto. Non sta eccessivamente bene in questi giorni.

Piera                              - (dopo un attimo di perplessità, fingendo un grande interessamento per tentar dì commuovere il cer­bero) Cos'ha? C'è bisogno che io...?

Paolo                             - Niente di grave, signora. Ha riposato male questa notte.

Piera                              - (che non vuol decidersi ad andarsene) Ma io ho bisogno assoluto...

Paolo                             - Non saprei che dirle, signora. Se vuol tele­fonare più tardi al segretarie di Sua Eccellenza...

Piera                              - No, devo parlare personalmente con lui... (Dalla porta di destra in fondo compare Teocrito: ap­pena essa lo vede gli va incontro come un salvatore) Teocrito! Oh, per carità... (Il cameriere si allontana).

Teocrito                         - (baciando la mano di Piera) Come va, cara signora? Un secolo che non ci si vede!

Piera                              - Sì, grazie, bene. Ma io debbo vedere suo fratello, a ogni costo. Subito.

Teocrito                         - E' stato avvertito?

Piera                              - Non mi vuole ricevere. M'ha fatto dire che non sta bene. Che ha contro di me? Una signora... an­ziana, la si riceve sempre, anche se è stata suocera!

Teocrito                         - Se ha detto di no, non c'è niente da fare...

Piera                              - . C'è di mezzo l'onore, la vita di una persona...

Teocrito                         - Cara signora, bisogna rassegnarsi.

Piera                              - Io non mi rassegno. Si tratta di Serafino...

Teocrito                         - A proposito, come sta quel caro Serafino? Sempre mondano, sportivo e danzatore?

Piera                              - Stia zitto. E' una situazione...

Teocrito                         - (cambiando tono, di colpo) Sarà arrestato domattina.

Piera                              - Ah, lei sa?

Teocrito                         - Ho sempre saputo tutto, io.

Piera                              - Se Ottavio vuole, basta una sua parola...

Teocrito                         - Non la dice.

Piera                              - Ma perché? Un errore chiunque lo può com­mettere...

Teocrito                         - Sapesse quanto ha lavorato mio fratello perché Serafino commettesse quell'errore!

Piera                              - Come? E' stata una cosa...?

Teocrito                         - Preparata, provocata, suggerita. Si ca­pisce. Per pigliarlo in trappola.

Piera                              - Che indegnità! E perché mai...?

Teocrito                         - Per vendicarsi.

Piera                              - Di Serafino? Che gli aveva fatto di male?

Teocrito                         - E' fratello di Vanna. Capito?

Piera ,                            - Dio, Dio! E' orribile! Allora è inutile che io...

Teocrito                         - Assolutamente inutile. A proposito, ri­corda il mio sistema? Sa dov'era l'errore?

Piera                              - Si figuri, se in questo momento...

Teocrito                         - Bisognava quadruplicare, non triplicare in caso di... Ora tutto è a posto. Ha già un tassì? La riaccompagno.

Piera                              - Vanna forse ha esagerato le cose lasciandolo così bruscamente.

Teocrito                         - (con un filo di voce) Era l'unica cosa da fare. Solo così si è salvata.

Piera                              - Ma non è felice neanche lei, sa. Glie lo dica, se questo può fargli piacere.

Teocrito                         - Lo sa. E' informato di tutto.

Piera                              - Ci tiene ancora a Vanna.

Teocrito                         - < A modo suo.

Piera                              - Allora forse, se Vanna...

Teocrito                         - Meglio che Serafino vada in prigione, creda a me. Molto meglio.

Piera                              - Non dica le solite assurdità!

Teocrito                         - Come preferisce, signora!

Piera                              - E' lo scandalo pubblico, la vergogna per tutti. Guardi, avevo portato con me il chiodo. Quello che m'aveva sempre portato fortuna.

Teocrito                         - Perché non è venuto lui, Serafino?

Piera                              - Non ha coraggio. E' in uno stato, infelice! (Escono, continuando a parlare, da sinistra. da destra, in prima, entra Ottavio - molto invecchiato - in veste da camera. Si vede che era rimasto a spiare dietro la porta, tanto il suo ingresso è immediato. Attraversa la scena, va a spiare dall'altra porta, di dove sono usciti i due. I suoi movimenti però sono oramai appesantiti, ha dei bruschi arresti. Si deve vedere un uomo sof­ferente, che ha già avuto un attacco cardiaco e che è quindi menomato nella disponibilità dei suoi mezzi fisici. Ritorna sui propri passi, va verso la terrazza e guarda giù. Rumore di un'auto che si mette in moto. Ritorna sul davanti; da sinistra rientra Teocrito).

Ottavio                          - Andata, la vecchia pazza?

Teocrito                         - Sì: disperata.

Ottavio                          - (alzando le spalle) Così impara a educare i propri figli. (La colpa è sua. Ha telefonato nessuno?

Teocrito                         - No.

Ottavio                          - Neanche il dottore? Perché?

Teocrito                         - Non lo so.

Ottavio                          - Aveva portato il chiodo magico, eh?

Teocrito                         - Come lo sai?

Ottavio                          - (seccato d'esser colto in fallo e d'aver così confessato d'esser stato in ascolto, ha un gesto iroso) Lo portava sempre, quando doveva fare un passo im­portante. Vecchia pazza! E di Vanna t'ha detto niente?

Teocrito                         - Niente.

 

Ottavio                          - E' stata malata, il mese scorso. Se non si riguarda, finirà tisica. E' debole di polmoni.

Teocrito                         - Non credo che questa faccenda di suo fratello possa giovare alla sua salute.

Ottavio                          - Pazienza! Centomila lire, capisci? Mica un soldo. Centomila lire di cambiali. Ma come pensava di pagarle alla scadenza? Io me lo domando.

Teocrito                         - Sperava nel matrimonio: ha sempre quella fissazione. Una moglie ricca. Questa volta so che c'era di mezzo un'americana.

Ottavio                          - No. Contava che io non- osassi denun­ciarlo: che pagassi e tutto finisse in tacere. Idiota!

Teocrito                         - Perché vuoi far la commedia anche con me, Ottavio?

Ottavio                          - Che commedia?

Teocrito                         - Se è stato Felice, per ordine tuo, che lo ha assicurato che tu, nel caso, avresti fatto accor­dare tutti i rinnovi, insomma ti saresti messo di mezzo...

Ottavio                          - Io? Chi ti ha detto...?

Teocrito                         - Lo so.

Ottavio                          - In ogni modo non si fanno firme false. Non doveva dar retta a Felice.

Teocrito                         - Non si possono nemmeno chiamar firme false. Non c'è nessun tentativo di imitare la tua cal­ligrafia. Non avrebbe ingannato nessuno. E infatti nes­suna banca le ha scontate. Ma tu, solo tu... Felice te le ha portate e ha versato centomila lire, tue, a quel disgraziato.

Ottavio                          - E con questo? II reato cambia forse aspetto?

Teocrito                         - Moralmente, sì. Del resto, io non c'entro. Dicevo perché ti risparmiassi con me delle simulazioni inutili.

Ottavio                          - Tu sei sempre stato un cattivo fratello, una vipera che io mi sono allevato in seno. E io non so perché ti permetto di sindacare... Quello che faccio io non ha bisogno di controlli.

Teocrito                         - Io vorrei sapere da te solo una cosa.

Ottavio i                        - Ah, c'è qualcosa, se Dio vuole, che tu non sai?!

Teocrito                         - Sì. Perché, fra tanti medici, celebrità, tu abbia scelto per medico curante, tuo medico di fi­ducia, proprio Revine.

Ottavio                          - Che ha? Non è un valente professionista?

Teocrito                         - Ottimo. Ha tutta la mia fiducia. Ma non credevo godesse la tua.

Ottavio                          - Perché? Quel che dicono di lui e della mia ex moglie? Pettegolezzi. Io sono superiore a queste cose. E poi non credo niente.

Teocrito                         - Vanna avrebbe avuto tutte le ragioni di farlo invece.

Ottavio                          - Aspetterò che il nostro matrimonio sia annullato, in caso. E poi si vedrà. Allora tu credi che Vanna e Riccardo siano amanti?

Teocrito                         - Non ho detto che lo credo. Ma se non lo sono, li compiango.

Ottavio                          - (con un sorriso malvagio) Non lo sono.

Teocrito                         - Come fai ad esserne sicuro?

Ottavio                          - Ne seno sicuro. Non lo sono. Fidanzati, forse. Ma basta. Come vedi, posso farmi curare da Ric­cardo senza offendere la morale pubblica. Sai che cosa mi solletica? Il pensiero che la mia vita è tra le mani di un uomo che avrebbe ogni interesse a troncarla. Se io morissi, egli potrebbe sposare subito la mia vedova. Mentre invece il processo d'annullamento, data la mia resistenza e la mia personalità, chissà quando giungerà a una conclusione. Allora apro i suoi occhi. Lo sor­veglio, il mio Riccardo.

Teocrito                         - Non tirar troppo la corda.

Ottavio                          - (di colpo) Lo crederesti capace di uc­cidermi davvero?

Teocrito                         - No. Ho molta stima di lui. Ma io al suo posto avrei rifiutato quest'incarico.

Ottavio                          - Ha tentato, infatti, di rifiutare. Ma l'ho obbligato. Ogni tanto gli chiedo notizie di Vanna: le faccio trasmettere, per suo mezzo, i miei omaggi. Ma­rito premuroso, no?

Teocrito                         - (va a prendere dentro un mobile la « rou­lette », la porta sul tavolone centrale) Tutti nella vita hanno uno scopo.

Ottavio                          - Il tuo sarebbe quello di scoprire la legge che regola i capricci della pallina.

Teocrito                         - Già. Ognuno di noi mira a una sola cosa: giungere là dove un altro prima aveva fallito. E' la sola soddisfazione della nostra breve esistenza. Abbiamo tutti l'anima d'un esploratore che vuol andare un po' più in là del precedente, neanche per ambizione, solo per poter dire a se stesso: lui non c'era riuscito, io sì. Se scoprissi davvero il perché e il come saltella questa pallina, credi che ne approfitterei per vincere un tesoro al gioco? O per rivelare la mia scoperta e diventar famoso, così? Neanche per sogno. Mi basterebbe, sarei soddisfatto. E tutti, o almeno quelli che si sentono lo stimolo nel cer­vello, hanno questo scopo nella vita: magari ridotto al minimo, vivere più del proprio padre, ottenere la com­menda se il proprio padre era stato cavaliere... Ma tu...

Ottavio                          - Sono stato ministro.

Teocrito                         - Quanti altri lo sono stati! E tutti hanno avuto più di te.

Ottavio                          - Più di me? Sono milionario. Che hanno avuto gli altri più di me?

Teocrito                         - Tutto. La famiglia, i figli. L'affetto. Tu hai distrutto tutto intorno a te. Hai cinquant’anni e sei vec­chio. Sei ricco e sei solo. Sei potente e non hai un amico. Hai ancora dieci, venti, trent'anni da vivere: e non avendo altro da fare, neanche una mania, una collezione - è il paravento di tante altre impotenze la collezione - di che ti occupi? Di vendicarti. Mandare in prigione tuo cognato per vendicarti di tua moglie che ti è sgusciata di mano, e vedere se il tuo medico resiste alle tentazioni di sopprimerti. Per un uomo del tuo valore, come risul­tato conclusivo non è lusinghiero!

Ottavio                          - Ti caccerò di casa. Non voglio che mi si guardi dentro.

Teocrito                         - Mi avresti già cacciato da un pezzo, ma se vado via io la tua solitudine diventa totale e ne hai paura. Allora mi sopporti. Dopo tutto dico quello che pensi tu.

Ottavio                          - Non è vero. E non irritarmi, sai che mi fa male.

Teocrito                         - Non ho nessuna compassione per te. (In­tanto continua a provare e riprovare con la « roulette » i colpi).

Ottavio                          - Non ti dispiacerebbe se io morissi?

Teocrito                         - Funerali solenni, a spese dello Stato. Non uno, dietro al tuo carro, con un po' di dolore sincero nel cuore. Ecco quello che hai seminato!

Ottavio                          - E che me n'importa? Non ho amici, è vero. Meglio. Non ho parenti, tranne te, serpente di casa. Me­glio. Nessuno sospira per l'eredità. Non ho legami, non ho doveri.

Teocrito                         - E non hai un affetto. (Ottavio, che aveva in mano un libro, lo scaraventa contro il fratello: colpisce la «roulette») Era dodici. L'hai spostata. Ma era dodici.

Ottavio                          - L'idiota sono io che ti do retta. La mamma diceva sempre che saresti stato la sua disperazione...

Teocrito                         - (con un grido, staccandosi dalla € roulette») Oh, finalmente! Una volta che l'hai nominata, lai mamma. Era anni che aspettavo per vedere se ti saresti i ricordato che anche tu hai avuto una mamma! Miracolo! Devi essere vicino alla tomba, se ti sei rammentato di lei!

Ottavio                          - Se non fosse morta così presto, forse...

Teocrito                         - Per me non è morta. E' morta solo per te. Capisci la differenza?

Ottavio                          - Sei la mia dannazione, il castigo che la sorte mi ha dato.

Paolo                             - (entrando da sinistra) Il dottore. (Introduce I Riccardo).

Riccardo                       - Buongiorno. Come va?

Teocrito                         - Ha dormito male.

Ottavio                          - Va via. Buongiorno, Riccardo. Siedi. Va 1 via, ti dico.

Teocrito                         - (con un sogghigno) Lo esaminai bene, dottore. Sta male, molto male. (Esce dal fondo, dalla terrazza, lasciando in scena la « roulette »).

Riccardo                       - Male? Che c'è che non va?

Ottavio                          - Niente di nuovo. Mi fa sempre arrabbiare, quel mio fratello! Ha un'anima perfida.

Riccardo                       - (esaminando Ottavio) Non bisogna alterarsi. Te l'ho raccomandato.

Ottavio                          - Lo manderò via. E' diventato insopporta­bile. Come va il cuore?

Riccardo                       - Hai preso le mie gocce?

Ottavio                          - Sì.

Riccardo                       - Quando ti decidi a trasferirti un po' più in alto?

Ottavio                          - Presto. Ho già scritto. La pressione?

Riccardo                       - Un po' alta.

Ottavio                          - Non dirai che mi affatico ancora. Più: tranquillo di così! Ma ci sono i «clakson » che non mi danno requie! Tutte le macchine che passano di qui sembra che lo facciano apposta...

Riccardo                       - Hai avuto qualche emozione forte da ieri?

Ottavio                          - (spaventato) Perché? Che c'è?

Riccardo                       - Niente. Non ti spaventare. Ma ti trovo un po'...

Ottavio                          - Cosa? E' stato quel maledetto fratello, poco fa.

Riccardo                       - Devi andar via più presto che puoi.

Ottavio                          - Grazie. Ti sembra che io sia grave?

Riccardo                       - Ma no. Che idee! Ma ci vuole prudenza...

Ottavio                          - Dimmi la verità. Ora me la puoi dire. Quello di tre mesi fa è stato un attacco cardiaco?

Riccardo                       - Ma no!

Ottavio i                        - Sì. Non mentire. Mi è rimasta una difficoltà di movimenti nella mano sinistra.

Riccardo                       - Passerà tutto. Scomparirà.

Ottavio                          - Un po' presto a cinquant’anni.

Riccardo                       - Hai sempre lavorato troppo: ti sei con­sumato.

Ottavio                          - Perché? Ha ragione Teocrito. A che scopo? Sono stato un idiota.

Riccardo                       - Ora non ti preoccupare. Puoi recuperare quello che hai sciupato.

Ottavio                          - A che scopo?

Riccardo                       - Ma andiamo! IL'avvilimento non è degno di te...

                                      - Hai rivisto Vanna?

Riccardo                       - (esitante) No.

Ottavio                          - Come sta? Sono stato molto colpevole verso di lei. Molto.

Riccardo                       - Oramai...

Ottavio                          - Sa che sono malato?

Riccardo                       - Ma non sei malato. Non metterli in testa simili idee.

Ottavio                          - Se morissi, sarebbe una liberazione anche per lei. Per tutti.

Riccardo                       - Ti proibisco di parlare di queste cose.

Ottavi»                          - A chi devo lasciare la mia sostanza?

Riccardo i                     - Saprai tu.

Ottavio                          - (con un sorriso) E' curioso. Invece non lo so. Pensa che ho rifatto già quattro volte il mio te­stamento. Un bel caso, no? Avere tanti quattrini e non sapere con esattezza cosa farne? Nel primo testamento avevo destinato tutto alla beneficenza. Poi avevo pen­sato dì far costruire una colonia marina che portasse il mio nome. Poi di lasciar tutto, malgrado quello che c'è stato, a mia moglie. Che ne dici, eh?

Riccardo                       - Non so. Sono questioni che esulano dal mio compito di medico.

Ottavio                          - Ma sei anche un amico. Il solo. Insomma... A mio fratello, no. A lui non lascio niente.

Riccardo                       - Non puoi. Qualcosa, per legge...

Ottavio                          - Il minimo. Quello che gli darà la legge, e basta!

Riccardo                       - E' l'unico parente che hai e l'unico che ti stia vicino.

Ottavio                          - Per poco ancora. Non voglio più vederlo. Hai sentito? Sto male, molto male. Lo fa apposta. Quel­lo, vedi, sì. E' un paranoico: tutti i giorni, per anni e anni, a studiare la «roulette». Perché non lo fai rin­chiudere?

Riccardo                       - Non disturba nessuno.

Ottavio                          - Me! Ma già, voi medici quando mai avete capito qualcosa? Oh, anche tu, anche tu! Credi che io abbia fiducia in te? Ma neanche un po'.

Riccardo                       - Allora...

Ottavio                          - Nessuna fiducia. Mi ci fa piacere vedere qualcuno che, sia pure per pagamento, s'interessa di noi, delle nostre miserie. Confessore e medico. Cerotti per le piaghe delle nostre anime. Ho ricordato anche te ne! mio testamento...

Riccardo                       - Non era il caso.

Ottavio                          - Ma sì... Quando non ci sarò più, sposerai finalmente mia moglie.

Riccardo                       - Finiscila!

Ottavio                          - Hai paura delle parole? E' così. Spero che con te sia felice. Se lo merita, in fondo, è buona. E' ancora giovane. Avrete dei figli. E ora ti prego, va a visitare mio fratello: anche se lui non vuole. Fallo per me.

Riccardo                       - Con la bella fiducia che hai...

Ottavio                          - Scherzavo. Va da Teocrito, va... (Lo sospinge quasi fuori, verso la terrazza) E' lì dietro ; nel chiosco del giardino. (Tutta questa sua premura dì cacciar via Ric­cardo gli è venuta quand'ha udito il rumore d'una mac­china che s'era fermata davanti alla villa. Ora, scomparso Riccardo, va a vedere alla porta di sinistra, ansioso. Poi si ritira rapido: compare Paolo, fa un cenno d'intesa al padrone, questi risponde con un cenno di consenso, poi Paolo sparisce ed Ottavio sì sdraia sulla poltrona, dopo essersi ravviato i capelli. Prende un'attitudine voluta dì malato stanco. Sulla soglia di sinistra compare Vanna. La poltrona di Ottavio è accanto alla scrivania in modo che, senza muoversi dì ti, egli possa aprire il cassetto) Tu? Qui? Scusa se non posso alzarmi, ma sto male... Forse Riccardo te l'avrà detto... Vieni avanti. Siedi. Come mi trovi?

Vanna                           - Un po' giù.

Ottavio                          - Vero? Ho avuto un colpo. Vedi: la mano sinistra la muovo appena. Ma tu alla mia salute non t'interessi più. Vero? Tu invece, benissimo. Era molte tempo che non ti vedevo. So che quest'anno sei andata ad Abbazia. Brava. Fai bene a divertirti, finche sei gio­vane. Io non ho mai avuto tempo per divertirmi. Ma... Dunque, come mai sei venuta a trovarmi?

Vanna                           - Ottavio, inutile che ti dica il perché... Sai benissimo perché sono qui.

Ottavio                          - (ipocrita) Io so?... Che cosa vuoi che sappia? Io non so niente.

Vanna                           - Stamane era venuta la mamma...

Ottavio                          - Sì, mi pare.

Vanna                           - Non l'hai ricevuta.

Ottavio                          - Ero ancora a letto, mia cara. Come potevo...?

Vanna                           - Ma se ti alzi sempre alle cinque.

Ottavio                          - Una volta! Ora non più. Sono in cura. Per carità... No, no. Che cosa voleva tua madre?

Vanna                           - Andiamo, non fingere. E' per Serafino.

Ottavio                          - Ah, benedetto ragazzo! Che diavolo gli è venuto in mente?

Vanna                           - Ottavio, dipende da te. Tutto. Non puoi ro­vinarlo freddamente a questo modo. Tanto più che rovi­neresti anche me... Ora, se t'è rimasta un po' d'amicizia almeno, non dico altro per me...

Ottavio                          - Amicizia? Di più, di più.

Vanna                           - Io non chiedo altro. La somma...

Ottavio                          - E' forte.

Vanna                           - Non per te che sei ricco e non sai che far­tene della tua ricchezza.

Ottavio                          - Cose che si dicono...

Vanna                           - Restituiremo tutto, poco alla volta. Ma ora non infierire. Non è degno di te.

Ottavio                          - Sapessi che piacere mi fa questa tua visita... Sarei tentato di tenere eternamente la minaccia sospesa sul capo di tuo fratello solo per avere ogni giorno la gioia di questo tuo intervento.

Vanna                           - Questo non c'entra...

Ottavio                          - Sì. (Egli apre il cassetto della scrivania e ne cava le cambiali) Ecco i due incriminati pezzi di carta. « Ottavio Dellera ». La mia firma. Falsificata. Vanna, tu vieni a chiedermi un atto di generosità, di grande gene­rosità. Ma, sentiamo, saresti capace tu, in compenso, di compiere un atto di altrettanta generosità?

Vanna                           - Quale?

Ottavio                          - Io sono malato, finito, solo... Vedi in che stato sono. Avrei bisogno che qualcuno volesse rima­nermi vicino...

Vanna                           - Ma non è possibile!

Ottavio                          - Lo so. Non è divertente far da infermiera a un malato.

Vanna                           - Non è questo.

Ottavio                          - Una volta protestavi perché lavoravo troppo ; ora niente più. Passeggio. Coltivo un po' il giardino. La vita tranquilla che volevi tu. Lo so, è tardi.

Vanna                           - No, no. Tu dimentichi che abbiamo in corso una causa di annullamento di matrimonio.

Ottavio                          - Hai fretta, di', di sposare l'altro? No, scusa. Io non c'entro. Quando sarai libera potrai fare di te quello che vorrai. (Riprende dal cassetto la cartella per riporvi le cambiali).

Vanna                           - Allora, per Serafino...?

Ottavio                          - La tua libertà vale bene la sua prigionia.

Vanna                           - Non essere così cinico.

Ottavio                          - Cinico? Perché? Non puoi pretendere l'in­verosimile da un marito che tu hai abbandonato...

Vanna                           - Non ricordarmi quei giorni!

Ottavio                          - Avevo tutti i torti io, d'accordo. Ma tu hai avuto poca pazienza. Del resto, ti chiedo perdono anche per allora.

Vanna                           - Sei un uomo perduto, vero?, perché non hai nessuno sottomano da torturare? Ti manca la vittima! E allora...

Ottavio                          - Vanna, non dire questo. Mi hai sempre conosciuto male. Non hai visto in me che le cattive qua­lità. E invece ce ne son tante di buone. Se tu ritornassi qui, anche solo per qualche tempo - non per sempre - io sento che potrei riprendermi. Rientrare, almeno un po', nella vita attiva. Ma tu non vuoi...

Vanna                           - E quei pezzi di carta...?

Ottavio                          - (tornando a toglierli dalla cartella) Te': per te.

Vanna                           - Se rimango...

Ottavio                          - (ormai sicuro del fatto suo) Te li do, anche se non rimani. Oppure, guarda, li stracciamo. Sei con­tenta cosi? (Straccia le cambiali). Vedi che sono anch'io generoso. (Pausa. Vanna, con le lagrime agli occhi, si toglie il cappello).

Vanna                           - (con un filo di voce) Dov'è il campanello?

Ottavio                          - Perché?

Vanna                           - Per avvertire il cameriere che paghi il tassì e lo rimandi.

Ottavio                          - Già fatto.

Vanna                           - Come?

Ottavio                          - Paolo ha già rimandato il tassì.

Vanna                           - Sapevi che sarei rimasta?

Ottavio                          - Lo speravo. In caso contrario ti avrei fatta riaccompagnare con la mia macchina. Di', non ti spiace troppo...?

Vanna                           - (straziata) No, no. (Ottavio si alza, simulan­do sempre uno stato eccessivo di abbattimento).

Ottavio                          - E' già stata preparata la tua stanza...

Vanna                           - La trappola, insomma, era pronta!

Ottavio                          - E' un delitto desiderare di riaverti vicina?

Vanna                           - Posso telefonare. a casa? Per dire alla mamma...? A Serafino?

Ottavio                          - Certo. 11 telefono è di là. Appena dentro, a destra. Scusa se non ti accompagno... (Vanna esce, a destra. Appena essa è scomparsa, Ottavio, libero nei movimenti, si dirige verso la terrazza. Ha in viso una luce di trionfo. Dalla terrazza rientrano Riccardo e Teo­crito.

Teocrito                         - (a Ottavio) Che speravi? Che io mi spa­ventassi della visita di un medico? Ci vuol altro!

Riccardo                       - Sta benissimo!

Ottavio                          - Meglio così. C'è una sorpresa.

Teocrito                         - Ora sì mi spaventi. Che sorpresa?

Ottavio                          - La pecorella è tornata all'ovile! Già. C'è un'ospite nuova nella villa. Riccardo, non riconosci il cappellino? Guardalo bene! Mi meraviglio di te.

Teocrito                         - Che è venuta a fare qui?

Ottavio                          - (sussurrando, ma con gioia intensa) Per rimanere!

Vanna                           - (ricomparendo da destra) Ecco fatto! (Vede Riccardo e Teocrito: rimane colpita).

 

Ottavio                          - Ci sono degli amici. Vedi che non è poi 1 un romitaggio deserto casa mia? Ci trovi perfino gli I amici d'infanzia.

Riccardo                       - (sbalordito) Come mai...?

Vanna                           - (con una piega amara della bocca) Così.

Ottavio                          - Non bisogna mai tentar di comprendere i misteri delle anime femminili. Vuoi rimanere a colazione, Riccardo? Ci faresti un grande favore. Vere, I Vanna?

Vanna                           - No.

Ottavio                          - Oh, così scortese? Perché? Avete forse qualcosa da dirvi? Una spiegazione? Volete che vi lasci! soli?

Riccardo                       - Io me ne vado. E credo che, per l'avvenire, sarà meglio che tu ti rivolga a un altro medico. Vorrei esser dispensato da...

Ottavio                          - Ah, no. Non puoi. Non lo ammetto. Vanna, pregalo anche tu! Non è generoso tradirmi così. Ho degli altri medici, lo sai, non mi fido. Di nessuno altro. (Frattanto Teocrito è scomparso a destra).

Riccardo                       - Non c'è assolutamente bisogno di me per curarti. Chiunque al mio posto...

Ottavio                          - No. Voglio te.

Vanna ----------------- - (piano a Riccardo) Non mi abbandonare...

Riccardo                       - (guarda prima Vanna poi Ottavio senza com­prendere) . Se lo pretendi...

Ottavio                          - Lo pretendo. Bravo. Allora resti anche a colazione. Vado a dare gli ordini io. (Esce da destra).

Riccardo                       - Che è accaduto?

Vanna                           - Ho dovuto fare così.

Riccardo                       - Dovuto come? Perché?

Vanna                           - Non domandare. Non posso dirti.

Riccardo                       - Hai dei segreti per me?

Vanna                           - Sì. Non sono miei. Non insistere.

Riccardo                       - Va bene. Ma sai che cosa significa questo tuo ritorno sotto il tetto coniugale?

Vanna                           - Lo so.

Riccardo                       - Hai considerato tutte le conseguenze? E' il crollo di ogni nostra speranza. Di tutto quello che avevamo stabilito per l'avvenire, insieme.

Vanna                           - Lo so.

Riccardo                       - E rinunci a tutto?

Vanna                           - Non posso farne a meno.

Riccardo                       - Lo ami ancora?

Vanna                           - Riccardo! Ma ho dei doveri...

Riccardo                       - Di che genere?

Vanna                           - Se t'ho pregato di non insistere... Non posso dire.

Riccardo                       - Che diavoleria c'è sotto, non riesco a ca­pire! Vieni qui ad assisterlo...?

Vanna                           - (quasi suo malgrado) E' tanto malato...? No, Scusa. Non ho detto nulla.

Riccardo                       - Perché?

Vanna                           - No. Non è vero. Ho avuto questo pensiero.

Riccardo                       - Sì, è molto malato.

Vanna                           - Non dire. Non possiamo aspettare questo.

Riccardo                       - Non è malattia che si vede. Esternamente il novanta per cento è simulazione. E' tipico- dei nevra­stenici la simulazione di sintomi fittizi. Ma l'organismo invece è realmente minato. Ha il cuore scardinato. E allora... (Vanna si copre il volto con le mani). Ma può anche resistere una decina d'anni. La vita, allora, accanto a lui ce la rimetti tu.

Vanna                           - Non è più come prima.

Riccardo                       - T'illudi. Perché finge, per accalappiarti. Tale e quale. Peggio, per te, in quanto che era ti sarà sempre vicino. Prima aveva da fare, «e n'andava. Ora non ha più che da occuparsi della sua carcassa. Ogni mo­mento un nuovo dolore, una nuova malattia, una nuova medicina da prendere. Oh, vedrai che esistenza!

Vanna                           - Perché sei così spietato?

Riccardo                       - Perché non ci sono doveri che tengano. Tu hai un solo dovere, assoluto, pensare a te stessa. Vivere la tua vita. Ti sei sacrificata abbastanza.

Vanna                           - Sta zitto. Se mi vuoi bene, non mi abbando­nare: è tutto quello che ti domando. (Rientra Teocrito).

Teochito                        - Complimenti, cognatina! Una bella sor­presa, veramente! So che cosa ti ha fatto venire e come ti ha persuasa a rimanere!

Vanna                           - Non puoi sapere...

Teocrito                         - Se ti dico che so-...

Riccardo                       - Allora direte anche a me.

Teocrito                         - No, non posso parlare senza il permesso di Vanna. (A Vanna) Ma hai torto, egualmente. Hai fatto il suo gioco. Era questo che voleva.

Vanna                           - Per amore?

Teocrito                         - Amore? Lui?! Ma no. Voleva solo impe­dire l'annullamento del matrimonio. Prima di morire ha un solo scopo: tentare di rendere impossibile, dopo, la vostra felicità, a qualunque costo.

Riccardo                       - Quando non ci fosse più...

Teocrito                         - Non sono così sicuro come siete voi. E' intelligente e tortuoso. Capace di tutto.

Riccardo                       - Che volete che faccia?

Teocrito                         - Ieri avreste giurato che Vanna non avrebbe più rimesso piede qui. E invece avete veduto?... Ci è riuscito. E ora la tiene legata a se, con un ricatto, ma legata.

Vanna                           - No. Sono io spontaneamente...

Teocrito                         - Vanna, se t'ho detto che so!

Vanna                           - Quei documenti li ha distrutti.

Teocrito                         - Te l'avrà detto, ma non gli devi credere.

Vanna                           - Li ha distrutti davanti a me.

Teocrito                         - Non è possibile.

Vanna                           - L'ho veduto io.

Teocrito                         - Togliersi di mano le armi, lui!

Vanna                           - Sapeva che era il solo mezzo per obbligarmi ad acconsentire, dopo.

Teocrito                         - Erano qui. (Fruga nel cassetto della scri­vania) Ti avrà dato ad intendere che erano quelli.

Vanna                           - Se m'avesse ingannata...

Teocrito                         - Non fa altro che ingannare, tutti. No. Non ci sono.

Vanna                           - Lo vedi!

Teocrito                         - (trovando una busta) « Da aprirsi dopo la mia morte ».

Vanna                           - Lascia stare.

Teocrito                         - No.

Riccardo                       - Sarà il suo testamento. Dice che l'ha ri­fatto quattro volte.

Teocrito                         - «Da aprirsi dopo la mia morte! ». Ed è aperta... Guardate: la busta è aperta.

Riccardo                       - Lascia stare.

Teocmto                        - Voi forse avrete di questi scrupoli perché siete persone corrette. Io no. Non me n'importa niente. Leggo e poi rimetto il foglio dov'era. Anche se è testa­mento, avrebbe dovuto chiuderlo, allora. Scommetto che ha lasciato la busta aperta apposta perché qualcuno vada a leggere... Eh, lo conosco! (Legge) Canaglia! A questo non c'ero arrivato... Non potevo immaginare! E voi due avete ancora degli scrupoli?

Riccardo                       - Perché?

 

Teocrito                         - Che vi avevo detto? Che avrebbe tentato ogni cosa per impedire a voi due d'essere felici, anche dopo la sua morte!

Vanna                           - Che c'è scritto?

Teocrito                         - Oh, niente. Un'accusa postuma e regolare contro il suo medico curante. Un'accusa d'omicidio. Dice che muore ucciso da voi, Riccardo.

Riccardo                       - No!? Fate vedere.

Teocrito                         - (dandogli la lettera) Leggete.

Riccardo                       - (scorre la lettera) Incredibile!

Teocrito                         - (a Vanna) Vedi, se c'era da esitare? E tu rimani ancora qui?

Vanna                           - (ansante) Un'accusa contro di te, Riccardo?

Teocrito                         - Sì. Immaginava che l'autorità non l'avrebbe raccolta. Ma in ogni modo avrebbe seminato l'ombra di un sospetto in te, Vanna. Quanto sarebbe bastato per avvelenare ogni tua possibile felicità.

Riccardo                       - Diabolico! (fa per distruggerla).

Teocrito                         - No. Può servire. A me. (Gli riprende la lettera) Ora capisco perché ha preteso che voi foste il suo medico. Aveva architettato tutto nella sua mente ma­iala: preparava le fila...

Vanna                           - Un uomo come lui giungere a queste me­schinità.

Riccardo                       - La malattia, Vanna, gli scorpioni. Non si guarisce: non ce n'è di peggiore. Né tubercolosi, né me­ningite, né cancro. Le altre uccidono, questa lascia vi­vere. E più l'intelligenza è profonda, meglio alligna e «i allarga il male. Andiamo, Vanna, vieni via. Bisogna ab­bandonarlo al suo destino, come un lebbroso. (Vanna va a riprendere il proprio cappello: non lo mette, lo tiene in mano).

Teocrito                         - Non avere rimorsi. Anche con Serafino, tutta un'insidia per giungere a te. Va, va per la tua strada.

Vanna                           - Ma tu, suo fratello, perché lo odi tanto?

Teocrito                         - Forse perché ti ha fatto soffrire, Vanna. (Con un ghigno amaro, per nascondere la verità) Forse senza saperlo dormiva in me un'antica anima cavalle­resca che non può veder soffrire una donna.

Vanna                           - Addio, Teocrito.

Teocrito                         - Addio, Vanna. (Vanna esce, Riccardo la segue. Teocrito rimane un istante immobile, poi torna lentamente alla « roulette». Pausa. Da destra rientra Ot­tavio, si guarda attorno).

Ottavio                          - Dove sono?

Teocrito                         - Sono andati in giardino.

Ottavio                          - Amore straziato, lungo i « miei » viali, all'ombra dei «miei» alberi. Che ne dici?

Teocrito                         - Molto raffinato.

Ottavio                          - Come hai trovato Vanna?

Teocrito                         - Ventisei!

Ottavio                          - Smettila con quell'idiozia.

Teocrito                         - Hai torto. Dovresti aiutarmi invece. E' molto interessante.

Ottavio                          - (venendo a sedere accanto a Teocrito presso la « roulette ») Sono convinto che la presenza di Vanna agirà anche sulla mia salute. Sarà un'illusione, ma mi sento di già meglio.

Teocrito                         - Undici. Hai visto? Guarda. L'avevo se­gnato.

Ottavio                          - Che si stiano baciando? No. Non può avere questo coraggio.

Teocrito                         - (scattando) Finiscila, se no, se non ti uc­cide il medico, ti uccido io.

Ottavio                          - Che dici?

Teocrito                         - Niente: ma ho finito coll'avere anch'io i nervi in pezzi.

Ottavio                          - Vedi, chi aveva ragione? (Va verso la ter­razza e chiama) Vanna! Vanna!

Teocrito                         - Puoi chiamare un pezzo...

Ottavio                          - (intuendo la verità) Cosa? (Si volta e guarda Teocrito, poi torna alla terrazza e chiama) Vanna! (Nessuno risponde; torna alla tavola, afferra Teocrito per un braccio) Dov'è?

Teocrito                         - Lontano.

Ottavio                          - Se n'è andata?

Teocrito                         - Con l'amato bene. Credevi proprio che ri­manesse a colazione, qui? Saranno andati a far colazione, insieme, in qualche trattoria di campagna.

Ottavio                          - Finiscila! Come ha osato, dopo che aveva promesso...?

Teocrito                         - (porgendogli la lettera trovata poco prima) Conosci questa calligrafia?

Ottavio                          - Chi ha toccato?

Teocrito                         - Io.

Ottavio                          - C'era scritto: «Da aprirsi dopo la mia morte »!

Teocrito                         - Era aperta. L'ho letta. E l'ho fatta leg­gere anche ai due interessati.

Ottavio                          - E Vanna...?

Teocrito                         - No, non ha avuto nessuno dei dubbi che speravi. Se n'è andata con lui. Subito.

Ottavio                          - Miserabile!

Teocrito                         - Perché ha osato sfuggirti di mano?

Ottavio                          - Miserabile, tu! Tu! Tutta opera tua!

Teocrito                         - Può darsi. Sta fermo, la pallina gira. Trentuno.

Ottavio                          - Ma io ti castigherò...

Teocrito                         - Per me! Tu volevi solo ch'essa non po­tesse essere felice. Io volevo solo che fosse felice, in­vece. A qualunque costo.

Ottavio                          - (sghignazzando) Ah, perché ne eri inna­morato?

Teocrito                         - Ti proibisco!

Ottavio                          - Innamorato!!

Teocrito                         - Non è vero.

Ottavio                          - (balzandogli addosso, rovesciando la «rou­lette ») E l'hai buttata nelle braccia di quell'altro? Eh?

Teocrito                         - Non mi fai paura. (D'improvviso Ottavio abbandona la presa, brancica nel vuoto con la mano).

Ottavio                          - Teocrito! Mi sento male... (Teocrito lo spia per guardare se non sia una simulazione anche questa).

Teocrito                         - Non far la commedia. Ormai conosco.

Ottavio                          - Sto male. Ti giuro... Il cuore... (cade a sedere sulla poltrona rantolando affannosamente).

Teocrito                         - (avvicinandosi) Cos'hai? (Gli mette una mano sulla fronte).

Ottavio                          - Chiama il medico. Un medico qualunque. Presto.

Teocrito                         - Mettiti a letto, intanto.

Ottavio                          - No. Chiama il medico. Telefona... (Teo­crito esce da destra per andare a telefonare. Appena solo Ottavio ha un unicO pensiero, fisso, riprendere la lettera d'accusa e nascondersela addosso. Si alza a fatica, ap­poggiandosi alla tavola, si sporge: il braccio non gli serve quasi più. Riesce ad abbrancare la lettera quando Teocrito ritorna, lo vede).

 

Teocrito                         - Che fai? (Vede la lettera: si precipita).

Ottavio                          - (difendendosi) No. No. Se deve morire, almeno che la trovino su di me... E allora... (Con uno sforzo supremo, Teocrito gliela strappa, la distrugge) Caino! Sei Caino!

Teocrito                         - Non ti basta quest'agonia circondata dalla solitudine e dall'odio-? Ancora vuoi fare del male?

Ottavio                          - (perdendo a poco a poco il controllo del pensiero) La solitudine... Tutti i grand'uomini sono soli... Perdonami. Non ti ho lasciato niente per testa­mento, niente, sai. Sapevo che eri un nemico. Lo sa­pevo. Vanna! (Chiude gli occhi) Non dovevo abban­donare la terra... La mia terra... (Si alza di colpo in piedi, allargando le braccia) Mamma, mamma! La mia terra eri tu! (E cade di schianto all'indietro. Pausa. Teocrito gli si avvicinai S'inginocchia, Gli bacia la fronte. Gli chiude gli occhi).

Teocrito                         - Ora, finalmente, in pace.

FINE