Metti, una sera a cena

Stampa questo copione

Compagnia Filodrammatica

Compagnia Filodrammatica

NonSoloRagionieri

Metti , una sera a

Cena

Due  tempi

di

Giuseppe Patroni Griffi

Personaggi

        Michele

      Nina

      Max

      Giovanna

      Ric

           

Il palcoscenico è uno spazio nel tempo. Le azioni devono svolgersi in  un presente continuo, mai apparire rievocate o suggerite. I personaggi sono sempre in scena e anche quan­do non vi partecipano devono sottolineare la loro presenza ed essere di ingombro.

Primo tempo

Quando si apre il sipario Ric e Nina stanno già discutendo e intanto si spoglia no con movimenti automatici. Spesso s interrompono in posizione goffa, per controbattersì a vi­cenda, e girano, girano senza una logica portati dalla foga delle loro stesse parole, spargendo i vestiti che si tolgono, in­torno ovunque.

Ric ha una faccia crudele sopra un corpo morbido. Veste con scìatteria abiti di gusto molto avventato, e ciò più che altro suggerisce l’idea di una generale aflèttazione non priva di fascino.

Nina, sobria, dall’aria composta, contrasta terribilmente con lui. Tutto il suo disordine è assommato nei capelli, che non si capisce come diavolo li porti.

R1C:                                              Chi l’ha detto che dovrei fare qualcosa — non ne vedo la necessità! Perché uno fa qualcosa — nessuno te lo ri­chiede. Luoghi comuni, sono luoghi comuni! <Prima viene il mio lavoro, il lavoro per me è sacro, di fronte al lavoro non guardo in faccia a nessuno...» Mascalzoni! L’ho sentito dire dai peggiori sfaccendati, dai cavalieri del lavoro altrui; certo l’ho sentito dire anche da qual­che imbecille che ci credeva sul serio. <Sì, sono conten­to d’aver vinto centocinquanta milioni, però continuerà a lavorare, ritorneròalla mia sedia dietro la scrivania.» ...Ingrati! Ma se si lavora solo per necessità! Ipocriti, tutti! E se uno decide di superarla questa necessità, per­ché dovrebbe fare qualcosa? L’uomo doveva far coinci­dere il lavoro col proprio divertimento — il massimo del­la perfezione — non aveva altro compito per creare un universo bello — i poveri, i ricchi, gli intellettuali, i fatto-tini delle coscienze, tutti questi incapaci dell’umanità, hanno rovinato ogni cosa — se riesci a raggiungerla, la perfezione, ti dicono subito: quello non fa niente. E va bene, se il mondo crede che sentirsi libero dalla neces­sità di fare significhi non far niente, sono orgoglioso di non fare niente — anche se sono uno scrittore, e un grande scrittore.

NINA:                                   Che cosa ha scritto?

RiC:                                       Glielo sto dicendo — non vedo la necessità di fare qualcosa. Il giorno che superassi la ripugnanza di infi­larmi tra le dita, tra queste dita... (gli occhi cadono ad­dosso alla donna già mezzo spogliata, le si accosta d’im­provviso e con le dita le scorre la parte nuda del corpo. Un silenzio. Un brivido. Poi riprende) .. .il giorno che inforcassi con queste dita una penna, scriverei l’unico classico dei nostri tempi. Il libro dei libri.

NINA:                                   Ci si può sentire scrittori senza aver scritto niente?

RIC: A lei ch’è la moglie d’uno scrittore, ripropongo la do­manda con una variante: ci si può sentire scrittori aven­do scritto quello che suo marito va scrivendo anno per anno?

NINA (non raccoglie): Correggo la domanda: ci si può chiamarescrittori senza aver scritto niente?

RIC: La nostra letteratura è inesistente, e quindi... Ma non lo vede che siamo costretti a rifugiarci nei classici delle edizioni economiche! I libri che suo marito e compari scrivono — se li scrivono tra loro, se li leggono tra loro, se li premiano tra loro e i loro vassalli, e dopo li impon­gono al consumatore con una formula ricattatoria, «lo devi leggere», non esiste più un libro, ci ha fatto caso, che tu dici, «lo voglio leggere», abbiamo una letteratura di tutti libri che «devi leggere». — «Non hai letto coso? Lo devi leggere. Non èun capolavoro, ma lo devi leggere. Non puoi ignorare i libri del premio Merda, almeno per informazione li devi leggere. Butta via le prime cen­to pagine, ma il resto lo devi leggere. Lo si deve premia­re così il pubblico lo dovrà leggere.» Lo devi leggere, co­me si fa a non leggerlo, come è che non t’incuriosisce leggerlo! (adesso urla) Io non voglio incuriosirmi, non voglio informarmi, voglio leggere una cosa perché so che se non la leggo sono un mostro balbettante, perché sennò che sono nato a fare, io mi rifiuto di leggere-per­ché-lo-devi-leggere! Per questo non leggo niente.

NINA:                              Non sarà la sua un’apologia in difesa della propria ignoranza?

RiC:                                  Se usa la parola ignoranza nel senso in cui credo, stia sicura che non sto facendo nessuna apologia, perché la mia è l’ignoranza degli dei, è l’ignoranza delle cose co­smiche che ruotano in sfere...

NINA:                              . . .superiori.

RiC:                                Non la facevo così sciocca. (Nina si arresta un attimo sorpresa. Ric riprende) Sfere diverse, fuori del dato umano, ma non per questo meno in armonia del mon­do umano. Perciò parlerei piuttosto che d’ignoranza, di estraneità. Apologia della mia estraneità — sì. E mi cre­da, il migliore scrittore sono ancora io, perché non avendo ancora scritto, chi può confutare quello che io so, con certezza?

NINA:                              Che cosa scriverà?

RIC:                                  Io?

NINA:                              E chi dunque?

RIC:                                Se sapessi quello che scriverò, vorrebbe dire che avrei già vinta la repulsione di cui parlavo — stia certa, non farei di un coito mille pagine di simboli, il sesso è out, oggigiorno scrivere di sesso è quanto dì meno intelligente si possa concepire, e anch’io avrei i miei problemi da risolvere perché lo so meglio di lei che sarei portato a frequentare senza discernimento quella strada, ma mi guarderò bene dal salire sui bordelli di lusso di Lawren­ce, di Miller o magari su per la scala a pezzi della casa franante di nostra pazza zia diseredata Tennessee.

Gliel’ho già detto — se un giorno allungo l’artiglio, scri­verò il libro dei libri. In quanto al sesso e ai suoi virtuo­sismi mirabili, lasciamolo all’occasione quotidiana. Su­pera ogni immaginazione. (ora tutti e due hanno addosso quel minimo che lì copra non per pudore, tua come per uno strano imbarazzo. Ric le si accosta con slancio) Perché ha voluto vedermi? Perché ha trasgredi­to l’ordine? Non la facevo capace, lei è una donna senza nerbo, è così facile trascinarla nelle cose che quasi non si prova piacere, è incorruttibile o perché già corrotta dentro, profondamente, come sua natura, o perché la sua natura è di una qualità inutile, refrattaria. Forse ha trasgredito l’ordine essendo per lei biologicamente identico tener fede o tradire. Mi sbaglio?

Nina non ha mai risposto ma ha continuato a guardarlo come se le domande di Ric fossero altrettante domande che ella pone a se stessa.

NINA:                               Ha detto — mi sbaglio? È la prima parola sorpren­dente che sento uscire dalla sua bocca.

R1C:                                  Perché ha voluto vedermi?

NINA:                              Chi lo sa perché l’ho fatto

Ric di colpo la bacia sulla bocca

NINA:                                È atroce il freddo qua. Ma non so fare l’amore vesti­ta, devo essere completamente nuda. Ha qualcosa da

buttarsi addosso?

RIC:                                  Non credo. Non mi spoglio mai quaggiù, è la prima volta — in queste condizioni di solito mi trovo in case al­trui — un convegno quaggiù non m’era stato ancora ri­chiesto. C’è solo una cassa. Possiamo vedere nella cas­sa. Non è mia. (apre un vecchio baule sgangherato, ci guarda dentro) Vuota. No, forse c’è proprio quello che fa per noi.

Anche Nina si china a guardare

NINA:                               Una coperta?

R1C:                                 Una bandiera.

NINA:                               Una bandiera?

R1C:                                 Una bandiera.

NINA:                               Mah!

Tirano fuori e spiegano una bandiera con stemma monar­chico, grandissima. Nina vi si avvolge dentro.

Intanto, a una tavola apparecchiata si sono seduti Mi­chele e Max. Michele è un bell’uomo dall’aria mite e sfiorita. Max è pastoso, vivace, una specie di maschera professiona­le per coprire un ‘ambiguità di natura che spesso affiora e la­scia sconcertatì.

Ric e Nina rimangono alloro posto.

MICHELE:                        Sto scrivendo una commedia.

MAX:                                 Di che si tratta?

MICHELE:                         E non ti meraviglia che io mi metta a scrivere una commedia?

MAX:                                 Lo sapevo da un pezzo, prima o poi ci saresti cascato.

MICHELE:                         Ho messo le mani sul tema più logoro: il solito triangolo. Perché sfuggire al sistema — ma vediamo se

riesco a nobilitare tanta ripugnante materia.

MAX:                                 Ho i miei dubbi. Parti sbagliato, con troppa volga­rità.

MICHELE:                         E quello che voglio: partire scontato — moglie, marito, amante, e, come avviene nelle vostre rispettabi­li commedie borghesi, l’amante è il migliore amico del marito. Si può dar di peggio?

MAX:                                 Hai già scritto?

MICHELE:                         Solo appunti. Metti che io sia partito per un ci­clo di conferenze, il viaggio è durato più del previsto, mia moglie è impaziente, nervosa, più che mai bisogno­sa di affetto com’è, metti che tu stai recitando in quel periodo, non sapendo che fare una sera è venuta in tea­tro a sentirti per l’ennesima volta e come al solito quan­do ti vede recitare perde la testa, tu sei stato affettuoso con lei, l’hai portata a cena, sei stato brillante fino al-

l’insopportabilità, hai sfoderato tutto il tuo infallibile repertorio, metti che lei ha un po’ bevuto, non ha voglia di rientrare a casa, di andare a letto, è sola, stranita, bizzarra, curiosa, tu dici allora vieni da me a bere un whisky e poi ti riaccompagno, lei non chiede di meglio, e proprio per quell’incredibile confidenza che c’è fra voi due, senza limiti, lei poi pudore non ne ha molto, si spoglia, finisce che s’addormenta tra le tue braccia, ma non dorme, è un sonno effimero, malato, che la turba, fate l’amore in una irrealtà da voi creata ma non voluta — da quel momento siete diventati amanti perché non è vero che non se ne parlerà, che la cosa verrà sotterrata nelle vostre coscienze, ormai la ferita è viva, nasce sem­pre un fatto da un rapporto carnale soprattutto un rap­porto al quale non s’era pensato, da quel momento in­somma siete costretti dalle circostanze a comportarvi come squallidi adulteri e di conseguenza secondo i mo­di e gli atteggiamenti convenzionali che la vecchia si­tuazione richiede.

Max  che ha ascoltato passo passo l’ipotesi resta a lungo in silenzio.

MAX:                               Non vedo il motivo di cercare mille puntelli mille giustificazioni per fare scattare una molla — sii lo scrit­tore che sei. Se io dovessi diventare l’amante di tua mo­glie perché dovrei aspettare il ciclo di conferenze, il tuo stare lontane, il suo stranimento? Un amico con un amico o la fa grossa o non la fa. Siamo semplici, diretti, parti da un punto qualunque, reale — metti, una sera a cena, qui, noi tre — e tu indaga; tu, io e tua moglie con quell’innocenza che ti fa temere il peggio, capace di tut­to, che esordisce con uno dei suoi improbabili discorsi che ti danno ai nervi.

Nina che s’era avvicinata alla tavola si siede tra i due uomi­ni al posto già preparato.

NINA (a Max): Dovresti andare a letto con Giovanna. Sei il tipo giusto.

MAX:                                          In che senso, giusto.

NINA:                                        Farle fare un figlio e poi scomparire. (a Michele) Non trovi?

MICHELE:                                 Non trovo. Non capisco.

MAX:                                         Perché dovrei farlo.

NINA:                                         Lei ha bisogno di uno che le faccia fare un

figlio e poi scompaia.

MICHELE:                                  Chi te l’ha detto?

NINA:                                         Te Io dico io.

MICHELE:                                  Sposarla, no?

NINA:                                         E ricca, mariti ne trova quanti ne vuole — gli amanti non si trovano, tutti la vogliono sposare. Ha bisogno di un figlio, non d’un marito. E Max non è il tipo del marito.

MICHELE:                                  Lui è il tipo che fa fare un figlio e se ne va.

NINA:                                         Esatto.

MICHELE:                                  E uno che fa fare un figlio e se ne va, che sareb­be, secondo te, un amante?

NINA:                                         Un amante è anche questo — e se la donna è sposata, lascia il figlio a nome del marito.

MICHELE:                                  Questo non è l’amante, è un piccolo borghese di­sonesto.

NINA:                                         E una realtà, ormai, e se è una realtà, ogni giudizio morale va sospeso.

MICHELE:                                  Senti, senti le sciocchezze che le escono dalla bocca...

MAX:                                          Per quale ragione sarei il tipo da far figliare Giovan­na meccanicamente, e via.

NINA:                                         Perché per te le donne non esistono — sono delle co­se che ti passano sotto gli occhi, quando te ne serve una, l’afferri.

MICHELE:                                  Infatti le donne non esistono, le inventiamo noi.

NINA: E me m’hai inventata male — io mi so inventare me­glio se voglio. Un giorno lo scoprirai e non ci potrai cre­dere. In fondo non ci crederai mai.

MICHELE (annoiato): Per carità, avessi a trovarmi coinvolto

in questa avventura! Senti, invece di mandarlo a letto con Giovanna, portatelo a letto tu, Max, e vedi di realiz­zarla con lui, giacché è il tipo giusto per queste cose, la tua vera, segreta natura.

NINA:                                  Non è detto che non lo farò

Si alza e va a raggiungere Ric che se ne sta sdraiato. I due

uomini restano a tavola

RIC:                                      Come fa a viverci accanto? Il successo fa diventare stupidi e conformisti — per la paura di perderlo. Un’al­tra ragione per cui non scrivo.

NINA (non raccoglie): Sa che è proprio calda questa ban­diera?

RIC (rabbioso): Le bandiere sono di lana.

NINA:                                  E perché?

RIC:                                     Lo chieda al Ministero della Difesa.

Intanto Nina si rifà il viso e si riveste.

NINA:                                  Mai toccata con le mani una bandiera.

Ric è di un umore che aggredisce con impeto sproporzionato.

RIC:                                      Suo marito dovrebbe smetterla di scrivere, scrive trop­po, non ne perde una — pubblica persino le sceneggiature di film, sbagliate, come <ipotesi per un romanzo», o gli appunti di un romanzo che non gli riesce, salvando il sal­vabile, chiamandoli col tono finto modesto «tentativo di schema» — è ripugnante, dev’essere un uomo di profon­dissima malafede. Quale lusinga prova ad essere la mo­glie d’uno scrittore? Nemmeno quella di trasparire dalla sua opera che, se per caso una delle larve di donna che descrive fosse lei, ma poveraccio, che fa, non la conosce proprio! Meglio essere la moglie di un giocatore di calcio.

NINA (non raccoglie): Ha notato che gambe provocanti hanno i giocatori di calcio?

RIC:                                     Perché pensa alle gambe dei giocatori di calcio?

NINA:                                  Ma a lei non va bene niente!

RIC: Le gambe dei giocatori di calcio le sembrano provo­canti perché sono nude e agiscono.

NINA (si volta e lo squadra là, mezzo nudo, supino): Anche le sue sono nude e agiscono.

RIC:                                     Ma sono corte. Alle volte lei è intelligentissima, alle volte è stupida come un’oca.

NINA:                                  Le donne sono intelligentissime ormai, la specie progredisce, perciò piacciono meno — io salvaguardo attentamente il mio quoziente di stupidità. Spero che

 aumenti.

RIC:                                     Si rivolga a suo marito.

NINA:                                  Non potrebbe variare il commento musicale? È di­ventato un canto gregoriano il suo. (pausa) Vuole ad ogni costo fare impressione su di me.

RIC:                                     Finalmente si scuote.

NINA:                                  È questo che vuole?

RIC:                                     Non si metta in testa che voglia niente da lei.

Nina è pronta per andarsene.

NINA:                                  Che fa, non esce?

RIC: No. Rimango.

Nina prende dalla borsa del denaro e glielo porge.

NINA:                                  Posso?

RIC:                                      Questo sì.

Ric lo intasca senza guardarlo.

NINA:                                  Va bene?

RIC (la fissa a lungo): La mia solitaria rissa valeva di più. Sarà per la prossima volta, se ci sarà.

NINA: Mi pare inevitabile. Si prenda la sua bandiera. (gliela butta tra le  braccia) Noi non ci siamo visti.

RIC (per la prima volta calmo): Non ci siamo visti?

NINA:                                  Non ci siamo visti.

RIC:                                      Non ci siamo visti.

Nina si avvia alla tavola. Max le va incontro e la bacia sulle guance. Ric intanto cerca la sua roba qua e là spesso pas­sando in mezzo agli altri, gomito a gomito, e si riveste mol­to lentamente.

MAX:                                 Sai la novità, tuo marito sta scrivendo una comme­dia immaginandosi che noi due siamo amanti.

NINA:                               E come succederebbe? (va a baciare il marito sulle guance)

MICHELE:                         Non è esatto, dovendo scegliere dei modelli, ho scelto i più vicini: noi tre.

NINA:                                Giusto. E come succederebbe?

MICHELE: Non l’ho ancora capito.

MAX:                                 Che vuoi capire, che cosa si deve capire, questo è il bello, che non c’è niente da capire — la moglie va a letto col migliore amico del marito o tu vai a letto con la mo­glie del tuo migliore amico, perché non c’è nessuna ra­gione per non andarci, questo è tutto.

MICHELE:                         Ma tu dimentichi che chi scrive non può accetta­re un fatto senza indagarne le ragioni che lo provocano...

MAX:                                 È impossibile capire la ragione per cui uno fa una cosa o non la fa. Vecchia letteratura.

MICHELE: Lo dici tu.

MAX:                                 Io non lo capisco mai. È più facile intuirne il senti­mento.

MICHELE: I nostri sentimenti sono fittizi — ti metto in guar­dia — non corrispondono a quello che siamo, sono con­venzioni che reagiscono alle convenzioni nelle quali siamo cresciuti, perciò ingannano noi e ci fanno appa­rire diversi agli altri. Chissà i nostri veri sentimenti quali sono. Noi non lo sappiamo.

MAX:                                 Limitati a registrare gli eventi, allora, sii testimone del tuo tempo, è già difficilissimo, quasi impossibile.

MICHELE: Non partecipare — come un cervello elettronico —non m’interessa. Ci rinunzio — voglio capire, io. (si al­lontana)

NINA:                                Gli voglio veramente bene. C’è una dolcezza, una Ca­parbia dolcezza, nel suo modo di comportarsi che non manca mai di sorprendermi. È l’unico uomo che cono­sca che non mi delude, questo è anche il suo limite... Eppure vorrei che fosse più concreto, se devi malgrado tutto viverci accanto — la sua evasività mi esaspera... ma gli voglio bene lo stesso.

MAX (gelido): Guarda che io non scrivo commedie e non sono certo un uomo elegante come lui — io ti spezzo le gambe: dove sei stata?

NINA:                                       E riuscito a cavarti di bocca qualcosa?

MAX:                                        No, vagheggiava intorno a presunti smarrimenti, ti­po l’occasione fa l’uomo ladro, da scrittore che non tro­va ancora la strada, quando si dicono tutte per lavarsi il cervello e poi scegliere la strada giusta.

NINA:                                       Ma tu che gli hai detto?

MAX:                                        Gli ho accennato a una certa sera, tanto per orizzontarlo.

NINA (con simpatia): Potevi dirgli che siamo teneramente legati da reciproco odio.

MAX:                                        Reciproco?

NINA:                                       Ti concedo del credito.

MAX: Non è sempre stato così.

NINA:                                       Sempre, sempre — è il piacere di trovarci insieme che ci confonde.

MAX:                                        Dove sei stata? Ti spezzo le gambe — va bene?

NINA:                                       Perché non gli hai confessato tutto — ora te ne sarei grata.

MAX:                                        Non mi provocare, quando si mette a girare alla lar­ga, devo solo stare attento a tenermi le parole in bocca.

NINA:                                       E fai male, dovevi parlare — dovevi aiutarlo.

MAX: L’ho aiutato — in un certo senso.

E entrata Giovanna. Una donna piacente sui quaranta, ma

certamente non li ha raggiunti. È simpatica, allegra, in ap­parenza. S’è seduta a tavola accanto a Michele al posto che prima ha occupato Nina, accanto a lei si siede subito Max e accanto a Max siede ora Nina.

Quindi ora a tavola sono in quattro come effettivamente erano < una certa sera>.

GIOVANNA:                     Dei finocchi...

MAX (che la prende sempre di mira, inizia subito l’azione di disturbo): Non è la stagione.

GIOVANNA:                     Dei pederasti, degli omosessuali, come si dice, dei sodomiti, a New Orleans, si radunavano la sera presso un certo tempietto (allude e insiste credendo che gli altri non capiscano), quei vecchi monumentini d’una volta, in ghisa, epoca metrò di Parigi, di gusto floreale...

MAX:                                 Firmati Gallé, in fondo alla lamiera a destra.

MICHELE: Abbiamo capito tutti, va’ avanti, su.

GIOVANNA:                     Questi malheureux...

MAX:                                 Infelici.

NINA:                                Max.

MICHELE:                         E falla continuare!

MAX:                                 Già, a New Orleans si parla francese!

GIOVANNA:                      Questi malheureux usavano incontrarsi la sera nel tempietto con giovanotti nel commercio della pelle.

MICHELE (a Max): Commercianti di pellame.

GIOVANNA:                      Della loro pelle...

MAX (a Michele): Pellicciai.

GIOVANNA:                       Perché no — diciamo scambio di pellicce...

MAX:                                   «Io porto il quarantotto. Tu che porti? Il cinquanta? Ti do la mia lontra mi dai il tuo visone? Oh, che bel leo­pardo maculato...»

GIOVANNA:                      Che stupidi che siete... Quei giovanotti che si fanno pagare per oscure prestazioni.

MAX:                                 Prestazioni chiarissime.

GIOVANNA:                      Prestazioni particulières.

MICHELE:                           Andiamo avanti!

GIOVANNA:                      Dai e dai, la police...

MAX:                                 Toujours pleine de malice.

GIOVANNA:                       .. .venuta a conoscenza che si era aperta una nuova Camera di Commercio nel Tempio di Saturno, manda degli agenti provocatori con della mercanzia pa­re irre-si-sti-bile, per cui appena i malheureux allunga­no la mano — tact, manette e su, al Commissariato. In una notte è stata fatta piazza pulita di tutti i malheu­reux di New Orleans.

NINA:                                New Orleans Malheureux — sembra un vecchio blues di Armstrong, ta-ta-ta-ta...

GiOVANNA:                     Il blues non è questo. E che uno degli Ugonotti scampato alla notte di San Bartolomeo non si sa co­me...

MAx:                                 Andato a rubare il carbone per accendere lo scaldino alla mamma, povera donna!

GIOVANNA:                    Probabile — ha deciso di rintuzzare l’affronto ar­recato al losco...

MAX:                                 Torbido.

GIOVANNA:                     ... al torbido ambiente. La sera successiva il no­stro habitué si reca al tempietto, appena l’agente provo­catore gli espone la sua strabiliante mercanzia, tact (fa un gesto con la mano come una trappola che scatti e si chiuda), fa scattare una bella tagliola e gl’in trappola l’u­signolo. Poi, via, di corsa.

Nina è presa da un convulso di riso.

NINA:                                Penso al giovanotto.., avrà dovuto spiegare in quelle condizioni a chi sarà accorso... sono un agente provo­catore... lo vedi lo sbalordimento stilla faccia del soc­corritore?

Durante il racconto di Giovanna, Ric nel rivestirsi, per un attimo sarà sembrato, senza intenzione, il modello, l’imma­gine, del tipo di giovanotto di cui s’è parlato.

GIOVANNA:                    Ogni mestiere ha il suo rischio particolare.

MICHELE (a Max): Dimmi tu se è la maniera di raccontare

una storiella che resta soltanto sconcia.

GIOVANNA:                     Non è una storiella, è una storia vera che m’ha raccontato Alberto Fronduso di ritorno da New Or­leans.

MICHELÈ: E te l’ha raccontata così — non è nel suo stile.

GIOVANNA:                     Me l’ha raccontata in maniera così cruda, da es­sere prima disgustoso e poi divertente. Guarda, tornas­si a nascere, uomo o donna, mi metterei anch’io nel commercio della pelle — restare nella vita sola e onesta,

questa è una cosa sconcia.

MICHELE:                    Mica tanto convinto che sei rimasta onesta.

GIOVANNA:                E fai male — si può non essere zitelle ma restare ugualmente oneste.

MAX:                             Se tu avessi coraggio, saresti una gran porca.

GIOVANNA:                 Tu ne hai invece.

MAX:                             Moltissimo.

Si china a sussurrare qualcosa all’orecchio di Giovanna.

GIOVANNA:                Non dirlo neppure per scherzo.

MAX:                            È la verità.

Si china di nuovo a sussurrarle dell’altro. Giovanna trasca­lora, nell’impaccio fa cadere una posata sotto la tavola.

MICHELE:                    Ma che succede?

Max si china a cercare la posata.

GIOVANNA (nervosa): Niente... mi fa delle proposte oscene.

MAX (da sotto il tavolo): L’unica salvezza è il vizio, cara

Giovanna.

Riemerge brandendo la posata e si risiede.

MAX:                            La nostra salvezza sta nel vizio — credete a me.

MICHELE:                    Di sconcezza in sconcezza finirete col fare sul serio, voi due.

MAX:                            Impossibile — innamorata pazza dite. (a Giovanna) Sta là, prenditelo.

GIOVANNA:                Non mi vuole.

MAX:                             Non hai coraggio.

GIOVANNA:                Insomma non mi seccare!

NINA:                           Povera Giovanna, Michele non è disponibile! Tu Max piuttosto dovresti andare a letto con Giovanna. Sei il tipo giusto.

MAX:                                In che senso, giusto.

NINA:                                Farle fare un figlio e poi scomparire. (a Michele)

Non trovi?

MICHELE:                        Non trovo. Non capisco.

MAX:                                Perché dovrei farlo.

NINA:                                Lei ha bisogno di uno che le faccia fare un figlio e poi scompaia.

MICHELE:                         Chi te l’ha detto?

NINA:                                Te lo dico io.

MICHELE:                        Sposarla, no?

NINA:                                E ricca, mariti ne trova quanti ne vuole — gli amanti non si trovano, tutti la vogliono sposare. Ha bisogno di

un figlio non d’un marito. E Max non è il tipo del marito.

GIOVANNA:                     Se avessi bisogno di questo figlio, come dici tu, allora, guarda, il favore lo chiederei a Michele.

MICHELE:                        Grazie.

NINA:                                E io?

GIOVANNA:                     Ah, non so — se fossi in te gli darei il permesso.

NINA:                                Lo pretenderesti addirittura — per caso?

GIOVANNA:                     Non dico questo — dico che Michele è Michele ed è il tipo a cui si permette tutto.

MICHELE:                         Max invece è il tipo che fa fare un figlio e se ne va?

NINA:                                Esatto.

MICHELE:                         E uno che fa fare un figlio e se ne va, che sareb­be secondo te, un amante?

NINA:                                Un amante è anche questo — e se la donna è sposata, lascia il figlio a nome del marito.

MICHELE:                         Questo non è l’amante, è un piccolo borghese di­sonesto.

NINA:                                È una realtà ormai, e se è una realtà, ogni giudizio morale va sospeso.

MICHELE:                         Senti, senti le sciocchezze che le escono dalla bocca... Un giudizio morale non può essere sospeso in quanto è in noi, cessare di esercitare il proprio giudizio morale significa cessare di essere — può darsi che tu non abbia voglia o facoltà di esercitarlo in quanto sei del tutto amorale, ma la constatazione della tua amora­lità già implica un giudizio morale.

NINA:                            Come ne esci allora?

MICHELE:                    Non ne esco affatto.

MAX:                             Un modo di ragionare radicale come il tuo, porta a fa­re di se stessi un inibito, un disgraziato —vedi Giovanna.

GIOVANNA:                 Io non sono affatto una disgraziata, e ti prego di credere che non sono una inibita — ti proibisco — hai ca­pito — di usarmi come pietra di paragone; ho le mie idee, i miei principi, mi comporto di conseguenza e non voglio essere giudicata da una lingua che appena si muove mi sporca.

NINA:                            Giovanna!

GIOVANNA:                 Lascia stare, tu non t’intromettere.

MICHELE (a Max): È avvelenata — le hai morso un polpac­cio, sotto il tavolo?

GIOVANNA: Mi tratta in una maniera che non tollero.

MICHELE (a Max): Cbiedile scusa.

MAX:                            Non vedo di che.

MICHELE:                     Avanti, su, sennò quesia la fa lunga...

GIOVANNA (a Michele): Carino anche tu... grazie.

MICHELE:                     Insomma, non si fa altro che litigare a questa ta­vola.

GIOVANNA:                 Meglio huttarsele in faccia le cose...

MICHELE:                     Lo vedi se l’è presa per quello che le hai detto al­l’orecchio!

MAX:                             Ma no! Lo so io per che cosa se l’è presa.

GIOVANNA:                 Se lo sai dìllo — dillo — hai coraggio tu, moltissi­mo, e dillo!

MAX:                             Lasciamo perdere. (per tagliare corto si rivolge a Ni­na) Dunque. per quale ragione sarei il tipo giusto per far figliare Giovanna meccanicamente, e via.

Il resto della scena questa volta viene recitato in tono risen­tuo come conseguenza dell’atmosfèra creata da Giovanna.

NINA:                            Perché per te le donne non esistono — sono delle co­se che ti passano sotto gli occhi, quando te ne serve una, l’afferri.

MICHELE:                     Infatti le donne non esistono, le inventiamo noi.

GIOVANNA:                     Invenzioni di comodo.

NINA (quasi contemporaneamente): E me m’hai inventata male — io mi so inventare meglio, se voglio. Un giorno lo scoprirai e non ci potrai credere. In fondo non ci cre­derai mai.

MICHELE (annoiato del tutto): Per carità, avessi a trovarmi coinvolto in questa avventura! Senti, invece di mandar­lo a letto con Giovanna, portatelo a letto tu, Max, e vedi di realizzarla con lui, giacché è il tipo giusto per queste cose, la tua vera, segreta natura.

NINA:                                Non è detto che non lo farò.

Si alza da tavola e si allontana. Max la segue. Giovanna e Michele restano a tavola. Nina corre incontro a Max e gli si stringe addosso.

MAX:                                Che c’è?

NINA:                               Niente... niente.., passa.

Restano così in silenzio, poi Nina solleva il viso su Max.

NINA:                                Mentre venivo, ho incontrato Michele.., qui sotto —guidava la macchina; tu sai com’è quando guida la macchina, una cosa che non gli appartiene — fa tenerez­za, tutto rigido, attaccato al volante — distratto — guar­dava verso il marciapiede dove camminavo — non c era nessuno, ho detto speriamo che volti la testa, non ho fatto a tempo a dirlo che è finito contro una macchina che lo precedeva. E saltato fuori un energumeno, urla­va, con una orribile moglie vicino che si teneva la fron­te e lo aizzava; sbattevano gli sportelli, l’hanno tirato giù dal sedile — un incidente qualunque e lui impaccia­to, smarrito, mortificato, si doveva sentire un assassi­no; quei due gridavano perché non c’erano guardie, chiamavano i passanti a testimoni, sì è lasciato sopraf­fare da gentaglia che invece va presa di petto, messa a posto — ma già non è neppure capace di fare un paio di corna con le dita...

MAX:                                Eviterei certe battute da pochade se fossi in te.

NINA:                               Lascia stare... Sono scappata via come una ladra —che male c’era se mi vedeva — sono diventata così stupi­da... Perché non gli ho dato una mano, era così sempli­ce, non lo so... l’ho abbandonato tra un mucchio di in­triganti intorno che discutevano — figurati se conosce qual è la sua assicurazione...

MAX:                               Se la caverà, non esagerare — sono cose all’ordine del giorno.

NINA:                               Sempre inesorabile con Michele.

MAX:                               Lo amo più dite. Sono vent’anni che lo amo — sto con te perché tu resti con lui.

NINA:                               Sai che alle volte mi viene il sospetto che lo dici sul serio?

MAX:                                Se non ci fossi io tu finiresti in mano a chissà chi! Meglio per Michele che ci sia io.

NINA:                                Meglio o peggio, io dite non mi fido. Senti, e se vie­ne su?

MAX:                               Perché dovrebbe salire.

NINA:                               Perché sarebbe normale — è stravolto, vado su da Max a riprendermi un attimo.

MAX:                               Se ne sarà accorto che sta sotto casa mia?

NINA:                              Già. Lo conosci bene.

MAX:                                Abbastanza.

NINA:                               Ma se sale che gli dico?

MAX:                               Non è la prima volta che ti trova da me.

NINA:                               Prima era diverso — io ero diversa.

MAX:                               Quando cambierai, quando sarai meno assurda, vuoi a forza ragionare secondo schemi, moduli — possibile che non riesci a vedere le cose come stanno e basta? Vieni qua — rispondimi: lo ami?

NINA:                               No.

MAX:                               Lo lasceresti?

NINA:                               No.

MAX:                               Vorresti che ti lasciasse?

NINA:                               No.

MAX:                                Pensi che il tuo matrimonio sia un fallimento?

NINA:                               No.

MAX: E a me, mi ami?

NINA:                                   No.

MAX: Mi lasceresti?

NINA:                                   No.

MAX:                                      Vorresti che ti lasciassi?

NINA:                                   No.

MAX:                                      Vorresti che fossi tuo marito?

NINA:                                   No.

MAX:                                      Non mi sposeresti?

NINA:                                   No.

MAX: Lo vedi? Come fai a dare un senso a questa roba? Che voglia dire — è difficile capirlo, io non lo capisco, ma lo condivido. E allora.., perché ti mascheri da adul­tera, non ne hai la coscienza — prendi le cose come stanno, non le soffrire, il resto non serve.

Ric gira tra i quattro con un libro in mano e legge ad alta voce.

RIC: «... sorreggendolo, lo introdussero, e lui si fermò sulla porta, cinto da una fitta corona d’edera e violette, con una gran quantità di nastri sopra il capo, e disse: — Vi saluto, signori, volete accettare come vostro com­pagno a cena un uomo ubriaco fradicio, oppure devo io andarmene? Riderete forse di me perché sono ubriaco? Eppure anche se voi riderete so bene che dirò la verità. Tutti allora a gran voce lo invitarono a entrare e a sdraiarsi e Agatone disse:

— Togliete le scarpe ad Alcibiade, ragazzi, perché si di-stenda come terzo.

— Ma chi è questo terzo che cena con noi? — disse Alci­biade e voltandosi vide Socrate. (a questo punto si trova di fronte a Max) Gli saltò in faccia nel vederlo e gridò:— Per Ercole, sei tu Socrate! Ti sei sdraiato qui per ten­dermi un nuovo agguato, com’è tuo solito di apparirmi all’improvviso, dove meno m’immagino che tu sia. Che ci fai qui adesso? E perché mai ti sei disteso a questo po­sto? Certo, non ti sei messo accanto a Aristofane, o a qualche altro che sia un grande spirito o voglia esserlo, ma sei riuscito con ogni mezzo a sdraiarti accanto al più bello dei presenti. » (scaraventa lontano il libro, si attorci­glia una camicia a brandelli sul capo — che vorrebbe essere la corona di Alcibiade — fa marcatamente l’ubriaco)

«... Vi saluto, signori, volete accettare come vostro com­pagno a cena un uomo ubriaco fradicio?. .. »

«... Togliete le scarpe ad Alcibiade, ragazzi, perché si di-stenda come terzo... perché si distenda come terzo... si distenda come terzo e come terzo se lo prenda nel cu­lo!» (si accosta ad una parete bianca e si mette a scara­bocchiare grosso ripetendo ad alta voce)

Eppure quella donna ha conficcata nel cuore una pal­lottola di tenerezza. Guai ad estrargliela — morirebbe.

Max e Nina abbraccia ti. Nina si scioglie da lui con aria

gioiosa.

NINA:                               Siamo due meravigliosi porci.

MAX:                                 Finalmente cominci a parlare giusto.

NINA:                                Comincerò anche a pensano.

MAX:                                 Perfetto, è così che deve essere.

NINA:                                Tu sei l’amante — divertimi.

MAX:                                 Come hai detto?

NINA:                                Tu sei l’amante — distraimi, fammi ridere.

MAX:                                 Questa è la tua idea dell’amante?

NINA:                               Portami in posti fuori mano, in caffeucci lontani dallo sguardo indiscreto di chi ci conosce.

MAX:                                 Ho una casa comoda, più fuori dello sguardo...

NINA:                                Fammi regali imbarazzanti, ingiustificabili, che non possa mostrare a mio marito...

MAX:                                 Ma se quando vi siete sposati ho regalato a lui il pi­giama e a te la prima camicia da notte. Dormivate nudi.

NINA:                                Cadi da cavallo al concorso ippico, ti prego — un gri­do di sgomento tradisce la Karenina agli occhi di tutti nella tribuna imperiale.

MAX:                                 Ho recitato sempre la parte del marito nelle pessime riduzioni teatrali che vanno in giro.

NINA:                                      Masticherò veleno nel retrobottega d’una farmacia —fammi fare una fine tragica, insomma fai l’amante!

MAX:                                      Ma io non sono l’amante! Sono l’altro uomo — la pa­rola amante non ci appartiene più.

NINA:                                      E con la parola se n’è andato anche il gusto! Una nuova realtà si affaccia — col marito ci si diverte e con

l’amante solo noia, noia, noia, e noia.

Max ci resta male.

NINA:                                      Non ho voglia di vederti — lasciami andar via con lui.

MAX:                                      A divertirti.

NINA:                                      Non lo so... so soltanto che non ti voglio vedere.

MAX:                                      Più!

NINA:                                      No. Non più — per un po’ di tempo.

MAX:                                      E dove vai?

NINA:                                      Me lo porto al mare, in campagna... Sta scrivendo —sarà utile anche a lui.

Così dicendo mette le mani sulle spalle di Michele che sta al tavolo con Giovanna.

NINA (a Michele): Lavorerai meglio che in città.

MICHELE: Se lo sai che nei posti in pace non riesco a scri­vere un rigo! La natura mi snerva — ho bisogno di fasti­dio, d’insofferenza, per lavorare.

NINA:                                      Provaci, è un pensiero affettuoso da parte di tua mo­glie.

MAX (a Nina): Vuoi sentirti perdonata? Fa parte dello sche­ma, una pillola di marito dopo un’indigestione dell’al­tro — poi si ricomincia a banchettare.

NINA (a Max): Lasciami sbagliare ancora — un giorno sarò

perfetta per te. (a Michele) Tu hai sempre paura di an­noiarti con me!

MICHELE: Non è vero.

NINA:                                      Come non è vero — non siamo riusciti a passare, da che ci siamo sposati, un periodo, soli, in un posto lonta­no da tutti.

MICHELE:                    Mi annoia!

NINA:                            Lo vedi che ti annoi?

MICHELE:                     Mi annoiano i posti lontano da tutti, non te.

NINA:                            È la stessa cosa.

MICHELE:                     Non è la stessa cosa. La mia musa è cittadina.

NINA:                             Questa volta la tua musa cittadina la porti in villeg­giatura — perché io voglio così.

MICHELE:                     Se tu vuoi così, non si discute.

NINA:                             Verrai?

MICHELE:                     Sicuro. Non scriverò.

NINA:                             È un ricatto morale.

MICHELE:                     Nossignore — mettiamo la musa a mezza pensio­ne al mare...

NINA:                             E ti annoierai.

MICHELE:                    Basta — posso anche stare senza scrivere, conti­nuo ad esistere.

NINA: Vogliamo portare con noi Giovanna?

MICHELE:                     Perché?

NINA:                             Perché Giovanna è simpatica, ci terrà compagnia.

MICHELE:                    Lo vedi che anche tu sei terrorizzata al pensiero di restare sola con me?

NINA:                             Se lo dico per farti piacere!

MICHELE:                     Capirai — Giovanna! Ce l’abbiamo qua ogni sera a cena. (e Giovanna infatti è là) Non si fa un passo sen­za che ti pedini, è diventata la nostra ombra, adesso ce la portiamo anche fuori! Lo so, è tanto buona, ci adora, vive per noi — ora sembra che non le voglia bene — ma scoperta la chiave è sempre la stessa idiozia: Giovanna arriva, racconta le sue cose strampalate, dice le sue fra­si senza senso, noi la sfottiamo, ci divertiamo la prima volta, la seconda moltissimo, la terza un po’ meno, la quarta, la quinta — la centesima si vomita. Se la vuoi portare del resto a me va bene lo stesso...

NINA:                             Non ci penso nemmeno — noi due soli, per un pd di tempo. Direi al mare. Al mare?

MICHELE:                     Al mare.

Michele e Nina si sdraiano su due poltrone al mare.

MAX:                                   Lui non l’ama più di me. Io non l’amo più di lui. Lei non ama nè me nè lui. Eppure c’è nell’idea di marito qualcosa di Forte, d’inamovibile. Tutto questo è terribil­mente arcaico — un totem. Marito uguale Mamma. Lo sanno tutti che mamma è rovina di figlio, che i figli si realizzano solo mediante una lotta furibonda contro le mamme. Eppure esse continuano a spargere ossa rotte intorno ai loro piedi sacri, a mutilarli delle più dolci e fiere ambizioni, a sedersi col loro sacro peso su cataste di agonizzanti, sollecite a raccoglierne l’ultimo respiro, per adornarsene il petto. Penso che sia tempo ormai di sottrarre i figli a questo massacro, che lo Stato imparzia­le e logico li allevi e li educhi secondo il loro bene e il loro male. Così deve accadere per il marito. E tempo ormai che si inauguri la figura del marito di Stato: un indivi— duo lontano e irraggiungibile come il Potere, anonimo come un’etichetta, che ad ogni donna offra l’impossibi­lità di amarlo e odiarlo, che pianifichi burocraticamente e amministrativamente il loro avvenire, che fornisca tut­te le possibili certezze di cui hanno bisogno, che stia là, solido quanto un Ministero, a riconoscere i figli Fatti con chi a esse piacerà, che le schiavizzi ma non ne intralci i passi. E che ci liberi per sempre dal peggiore di tutti i no­stri mali — la condanna di essere i suoi migliori amici e di volergli tanto bene. Non vedo altro modo di dar vita a un marito che non esista... (guarda con odio Giovanna) ..

poi c’è quella. Quella che porta scritto in fronte «son­ quella-che-ci-voleva-per-lui», convinta che lui è il me­glio, come si fa a non esserne la schiava, che a perderlo pendi il tesoro della vita — contro il suo interesse poi. Ma già, la sua è un’adorazione ottusa, senza senso; le leggi, sulle labbra cucite, solo un motto: non mm meriti. Va va pure a raggiungerli, va’ nel solitario inferno dei due, ch’era l’unica mia speranza, va a farmi del male col tuo oro, incenso e nìmrra. Devo, io devo ad ogni costo crearti un contraltare.

Giovanna io o raggiungere Michele e Nino su un ‘altra poltrona. Parlano pigramente a perdita di tempo, tra lunghi sbadigli.

MICHELE: Giovanna, tu che non sei sposata, che cosa credi che significhi essere sposati.

GIOVANNA (dopo un po’): Ci sto pensando. È strano. Ho sempre creduto di sapere che cosa significasse, ora non so esprimerlo a parole — non ti so rispondere.

MICHELE:                        Io credo che sia un luogo comune — un residuo dei tempi della dava e della caccia quando la solitudine faceva paura col suo significato concreto, non nevrastenico.

GIOVANNA: E ci sei cascato!

MICHELE:                        E chi sono io per non cascarci! Uno scrittore? Uno che scrive passa per tutti i luoghi comuni con la differenza che lui ne parla.

GIOVANNA:                    Se uno ha le idee chiare, dovrebbe essere abba­stanza facile salvarsi dal matrimonio.

MICHELE:                        Invece è chiaro che nessuno ti ha mai chiesto di sposarlo, sennò sapresti quanto è scatenata la forza d’attrazione del luogo comune, è quanto la forza d’at­trazione della luna. C’è una sola possibilità per salvarsi da un luogo comune — inventarne uno nuovo: bastereb­be inventare una nuova cerimonia in questo caso — due che si amano vanno a inginocchiarsi davanti a un sa­cerdote o a un sindaco e si promettono e giurano di non sposarsi mai. Per non dimenticano, si mettono un cerchietto di metallo al dito.

GIOVANNA:                    Avrebbe successo?

MICHELE: Col tempo, sì.

GIOVANNA:                    Nina, che fai, dormi — si parla di te.

NINA (che era assorta): Di me?

GIOVANNA:                    Non hai sentito che cosa dice Michele?

NINA:                              L’ho sentito.

GIOVANNA:                    Allora, tu che sei sposata, che cosa credi che si­gnifichi essere sposati?

NINA: Non ci ho mai pensato. Comunque una cosa vicina al perfetto — non ci ninuncerei per tutto l’oro del mondo.

MICHELE:                              Una bella frase fatta...

NINA (pigrissima): Non importa, non importa... non im­porta...

Nina si alza dalla poltrona al mare.

MAX: Allora, vuoi dirmi dove sei stata, è la terza volta che te lo chiedo.

NINA:                                      Non te lo voglio dire.

MAX:                                      Guarda che ti spezzo le gambe.

NINA:                                      Tu non puoi parlarmi così.

MAX:                                      Non ti sto parlando, ti sto facendo una domanda e pretendo una risposta.

NINA: E io non voglio ubbidirti. (se ne torna a sedere sulla poltrona accanto a Michele e Giovanna) Vado a prepa­rarvi un tè — qualcosa da mangiare?

GIOVANNA:                           Lo sai, non ho mai mangiato in vita mia.

MICHELE:                              Nemmeno un morso sul braccio d’un bambino, così di corsa, passando?

GIOVANNA:                           Ho conosciuto un americano che ha vissuto tre­dici mesi tra i cannibali. Sere fa. Un artista irrequieto,

si chiama Michael Stove, uno strano tipo, interessante.

MAX (a Nina): Tuo marito ed io, ad aspettarti, a giocare in­torno alle parole, e tu fuori non si sa dove.

NINA (a Giovanna): Monotoni i cannibali — no?

GIOVANNA:                           Li ha trovati simpaticissimi. Quando è arrivato avevano appena finito di mangiare tre turisti e ne ave­vano appese le teste all’ingresso del villaggio: due teste di signora e una di missionario — con cappello. Lui ha esclamato — che bella idea, ma è magnifico! — e subito l’hanno adorato; si capisce, non si è messo a rimprove­rarli! Non si possono cambiare su due piedi i costumi e le abitudini degli altri, e poi a lui non interessava affat­to cambiare i loro costumi. Li ha trovati invece molto arretrati in materia di rapporti sessuali (con stupore sincero), semplici, tranquilli, secondo natura.

MICHELE:                              Beati loro.

GIOVANNA:                           Michael Stove ha avuto un’idea straordinaria —s’è messo a dare lezioni d’erotismo dall’abbicì fino agli  studi superiori...

NINA:                                Impartendole personalmente...

G1OVANNA E naturale... a uomini e donne in privato e alla collettività in pubblico. Allora l’hanno considerato una divinità. Davano lunghissime feste, che lì sono tutte a base di sesso, in suo onore...

NINA:                               Dio, che fatica!

GIOVANNA Non li trovi simpaticissimi?

NINA:                                Dovrei conoscere il <tono» di questi festeggiamenti —dopo ti potrei rispondere.

GIOVANNA Certo, alla fine non ce la faceva più — per questo

li ha dovuti lasciare.

MICHELE Il sesso, anche cannibalesco, stanca.

GIOVANNA:                    È stato un romanzo andarsene. Ci ha messo tre mesi per uscire dalla regione, appena lasciava una tribù che lo salutava con una gran festa a base di sesso in suo onore, i tamburi nella foresta partivano in quarta coi loro tam tam per avvisare la prossima tribù che arriva­va il Gran Dio dell’Amore bianco, e questa a sua volta preparava subito un’altra gran festa sempre a base di sesso per accoglierlo con tutti gli onori. Per tre mesi non ha chiuso occhio. E ora non dorme più, Michael Stove, non riesce proprio. Mi ha tenuta sveglia tutta una notte — deve trovare ogni notte qualcuno con cui parlare.

NINA:                               Ma con te?

GIOVANNA:                    Ah, dice che fare l’amore con una donna o con un uomo adesso gli volta io stomaco.

MICHELE:                        Li conosci tutti tu!

GIOVANNA Che significa?

MICHELE No, dico, uno come si deve, mai.

GIOVANNA:                    Dipende da me? Vuoi dire che il mondo è così.

MICHELE Nooo. Sei tu che li attiri. Anzi ogni uomo che ti viene a tiro, ormai per me si cobra di luce equivoca.

NINA:                                Sei la cartina di tornasole.

GIOVANNA:                    Questa è pura malvagità. Vuoi vedere che si fi­nirà col dire che non sono normale io!

MAX (verso Nina): Stasera non me ne vado se non mi dici

dove sei stata!

NINA (a Max): Hai dei sospetti?

MAX:                                    Sì!

NINA:                                  Tirali fuori.

MAX:                                   No.

NINA (si alza e lo raggiunge): Ma sì, perché ingannarti. Ti metto sulla strada: ho fatto, pensa, qualcosa di patriot­tico.

MAX:                                     Cioè?

NINA:                                   Ho toccato una bandiera.

MAX:                                    Cos’è una sciarada?

NINA:                                   Sono stata in mezzo alle bandiere.

MAX:                                    C’è una festa nazionale, è morto un presidente, sia­mo in guerra?

NINA: Spero di no — non vorrei essere in guerra con te.

MAX: Vedi che ho ragione a pretendere di sapere dove sei stata. Come hai scoperto che siamo legati teneramente da reciproco odio? C’è qualcuno che... (s’interrompe di colpo, la scruta, cercando di mettere a fuoco un pensiero illuminante) Aspetta — un momento, mia carissima Ni­na... hai parlato di bandiere — come ti può saltare in te­sta di parlare di bandiere, che cosa c’entrano le bandie­re, se non...

NINA:                                   Sono una donna piena di fantasia.

MAX: No. Hai detto ti metto sulla strada...

NINA:                                   Già.

MAX:                                   Abbastanza strano — se non è quello che penso.

NINA:                                   Se non è — vorrà dire che me lo sono inventato.

MAX:                                   No. Non esiste piuttosto davvero una vecchia ban­diera in una specie di magazzino dove abita chi so io e tu non sai — o meglio non dovresti sapere?

NINA:                                   Ha arrotolato anche te in quella bandiera?

MAX: Vi siete visti da soli!

Pausa.

NINA:                                   Sì!

Max si scaglia contro Ric che lo attende deciso. Nina è con lui. Tutti e tre sono distanti come i tre vertici di un triangolo.

MAX (a Ric): Ascoltami, verme — era un patto, e più che un patto a tre, era un ordine, perché non faccio credito della parola data a un mucchio di suoni inutili come te. Sparisci — vai — liquidazione non te ne spetta, t’ho preso a cottimo e ti ho pagato bene per quello che ci servivi. Le mance — perché hai avuto anche quelle — erano per i tuoi sproloqui; fuggi dalle mie orecchie, ho le orecchie piene del tuo rumore e basta. Via. Ci siamo detto tutto.

RIC: Anche troppo. Ti taglierò quelle due notine che hai in gola, che ti servono per recitare, solo quelle — adesso non posso, l’operazione non riuscirebbe, un chirurgo ha bisogno di nervi saldi e sangue freddo, aspetterò quando ritornerai da me a piangere...

MAX: A piangere!

RIC: Quante volte sei già tornato... Non le hai contate?

MAX:                                      La tua megalomania! Non sono mai tornato da te. Ti ho sempre usato — anche in questa occasione.

Nina si sposta verso Michele e Giovanna sulle poltrone.

NINA (a Michele): Era Max al telefono — è ammalato, non ha nessuno che lo assista. Mi prega se vado — un paio di giorni e torno. Qui con te resta Giovanna.

GIOVANNA (a malincuore): Vuoi che ci vada io?

NINA:                                      Non sarebbe la stessa cosa. Max con me ha confi­denza... (a Michele) Prendo la macchina. (adesso contro Max) Tu stavi benissimo come supponevo, e la mia ma­lafede consisteva tutta nel fingere di credere che eri so­lo e ammalato. Ero felice in quel momento con Michele

— e tu mi distogliesti.

MAX:                                      Appunto. Ed è tanto facile distoglierti.

GIOVANNA (a Michele): Lui mi disse pure eccetera eccetera

eccetera e io gli dissi beh, beh...

MICHELE (soprappensiero): Quando Max chiama, Nina non

resiste.

GIOVANNA:                        È il suo grande amico.

MICHELE:                            Sì, ma queste donne finiscono per vivere meglio col grande amico, che col marito.

GIOVANNA:                        E io? Non vivo alle costole del mio grande amico?

MICHELE:                            Tu non hai un marito.

GIOVANNA:                        Se lo avessi, sarebbe lo stesso.

MICHELE:                            Non è vero.

GIOVANNA:                        Farei di peggio, guarda.

MICHELE:                           Faresti l’amore con me, infischiandotene di lui?

GIOVANNA (non risponde)

MICHELE:                            Hai molto tatto a non rispondermi — oggi si cre­pa, e il sole non tramonta mai.

MAX (si scaglia contro Nina): Se non mi chiedesti neppure come stavo! Neanche la malafede c’era in te, sarebbe stata già una remora — venisti perché non ne potevi più di stare là...

NINA:                                   Non è vero.

MAX:                                     Non ne potevi più di lui e di quella incensiera.

NINA:                                   Non è vero!

MAX:                                     La felicità per te è un malessere che t’opprime. En­trasti qui, bella, con la faccia distesa, Ric ed io stavamo sdraiati, ed io t’invitai a sdraiarti, terza, fra di noi. Non esitasti un attimo.

Nina e Ric si sono attratti lentamente. Si stringono adesso l’uno nelle braccia dell’altro. Si baciano.

MAX:                                     Restai a guardarvi a lungo.

NINA (dopo il bacio restando tra le braccia di Ric, si volge a Max):        Chi è questa meraviglia — dove l’hai pescato?

MAX:                                   Un fantasma privato.

NINA:                                   Piuttosto consistente per essere un fantasma. (a Ric) Come si chiama?

RIC:                                      Ric.

NINA:                                  Un po’ facile come diminutivo, ma simpatico. Ric­cardo?

RIC:                                      Per niente.

NINA: E allora?

RIC:                                     Ric — Ric e basta.

NINA:                                  E che vuoi dire?

RIC :        Ragazzo Illibato Compiacente, Recidivo Intellettuale Concedesi, Repliche Immediate Coito, scelga lei.

NINA (a Max): Esplicito il giovanotto, dove l’hai pescato?

MAX:                                  Ci conosciamo da sempre, è vero Ric? (Max contro Ric) Per questo ti ho usato, un’esca quando fuggì da me per andarsene col marito al mare, e col pericolo di quel­l’altra in adorazione di Michele che l’avrebbe suggestio­nata ancora di più — tu non c’entri, mettitelo in testa, non venni a piangere, come tu dici, per avere te — mi servivi, mi servivi per riprenderla con una nuova rete. E così Nina — devi sempre inventarle cose intorno. È faci­le da avere, con la stessa facilità la perdi.

RIC (sempre allacciato a Nina): Benissimo, ti servivo! Ma sai perché? Non ti divertivi più, ecco la verità, non ti di­vertivi più con lei. Ti conosco benissimo — sentivi che qualcosa stava morendo dentro di te — come ti conosco

— e avevi bisogno che qualcuno ti attizzasse un po’ di fuoco. Questo qualcuno si chiama Ric.

Nina si strappa alla stretta di Ric con i capelli sconvolti, di­scinta, va a sedersi in braccio a Max.

NINA:                                  Non è possibile — il signore (indica Ric) partecipa troppo.

RIC:                                     E un male?

NINA:                                  In un certo senso.

RIC:                                     Siamo al paradosso di Diderot — cattivo attore è colui che partecipa a caldo alla scena.

MAX:                                  Finora non è stato smentito.

R1C:                                    Vuoi dire che sarò un cattivo attore.

MAX:                                  Non puoi. Sei qui per giocare la tua parte ad occhi aperti, con tutte le facoltà in funzione sapendo minuto per minuto ciò che stai facendo e quello che devi fare. Può darsi che l’erotismo debba seguire le stesse regole di Diderot. Altrimenti vai nel giardinetto con la serva a fare a caldo cose confuse che a noi non ci riguardano.

RIC: Non mi piace come parli — io ti spacco...

MAX:                              No, tu non spacchi — sta’ buono.

NINA:                              Non se la prenda Ric, Max esagera — io volevo dire soltanto...

MAX:                              .. .che da un po’ di tempo quando fate l’amore mi di­ventate odiosi. No, qui non stiamo sotto il raggio del­l’incostante luna, l’allodola non canta, la regina Mab non tesse i suoi inganni — noi non c’incontriamo di not­te furtivamente, ma in pieno pomeriggio, in una casa senza veroni, con infissi di metallo, tu abbassi le saraci­nesche, io accendo la luce elettrica, tu fai cantare quat­tro dischi sguaiati e via. Qui uno di voi commette un er­rore. E questo uno sei tu, Ric. (di nuovo contro Ric) E dovevo capire che tu baravi, non stavi al gioco! Ma mi fidavo di lei. (a Nina) Che interesse hai tu per uno scal­zacani come questo — a che ti serve se lo metti là, solo. Che te ne fai? È un cialtrone, non te ne sei accorta — la bandiera, la bandiera l’ha comprata al Mercato della Roba Vecchia, al posto di una coperta. Era tanto più semplice comperare una coperta, ma la bandiera, è di­verso, fa effetto, aumenta la bizzarria, colorisce il per­sonaggio. Chiunque ha avuto a che fare con lui è passa­to per il giochetto della bandiera nella cassa non sua.

RIC:                                 Le mie pensate, straordinarie, come le chiamavi tu, una volta ti mandavano in estasi, erano pensate libere, atti stupidi se vuoi...

MAX:                              . . .ma senza scopo. Così il vostro modo di stare insie­me — quei frammenti d’un amore che mi appariva con­sumato nella più limpida serenità — prima mi piaceva, ora non potrei giurarci.

NINA:                              Giuraci pure Max — che ti sei messo in testa, vuoi farmi ridere? Giuraci pure — a me di questo qui non me ne importa niente, sta’ tranquillo, anche se sono stata io, non lui, a sollecitare un incontro da soli.

MAX:                              Tu? Surgelata come sei, indifferente...

NINA:                              Io, io. Sempre insieme a te o davanti a te, m’ero sec­cata. Volevo vederlo da solo, volevo sentire a tu per tu che razza d’uomo fosse, mi sembra comprensibile. La colpa è tua, mi fu difficile persino sussurrargli il mio numero di telefono, tu sempre con gli occhi sbarrati ad­dosso, e dopo io ad andarmene sola e tu con lui — il guardiano. Curiosità, soltanto curiosità mi ha mosso. Ho passato una piacevole sera con Ric. Niente altro —non ho provato per lui niente di più di quello che provo quando c’incontriamo noi tre. Cosa significa tutto que­sto chiasso — niente è cambiato, torniamo a rivederci come sempre: che siamo pazzi? La nostra storia è que­sta. Non ci montiamo la testa.

C’è un silenzio.

RIC:                                  No. La nostra storia è un’altra. Ve lo giuro io, e io, si­gnora, non sono ((questo qui». È troppo facile, m’accor­go, usare, smuovere, prendere, lasciare, togliersi le cu­riosità, credendo che le cose si possano rimettere al posto dove stavano. Lei si sbaglia. Max ha ragione — ma non m’importa di quello che dite e rinnego tutto quello che ho detto e fatto. Io l’amo, Nina, l’amo! (si mette a gi­rare intorno a Nina, davanti a Michele, Giovanna, Max, come un pazzo) Ti prego, amami Nina, amami Nina, amami Nina, amami Nina, ti prego amami Nina, ama­mi Nina, amami… (grida ancora mentre il sipario si chiude)

FINE DEL PRIMO TEMPO


Secondo tempo

Fa caldo. Michele è seduto davanti alla macchina da scrive­re e scrive. Giovanna gira una crema che sta preparando in un piatto e lo osserva in silenzio. Soltanto il rumore della macchina da scrivere.

MICHELE (senza alzare lo sguardo dalla macchina): Levami gli occhi da dosso — mi danno fastidio. (come neppure lo avesse sentito Giovanna resta a guardarlo. Michele conti­nua a battere a macchina per un pezzo in silenzio.infine s interrompe) Smettila, Giovanna — non ti sopporto. (Giovanna gira lacrema e non risponde. Lui riprende a scrivere) Non è mai accaduto, te lo sei sognato — ripetilo a te stessa dieci, cento, mille volte, ripetilo in continua­zione s’è necessario; me lo sono sognato, me Io sono so­gnato, me lo sono... (smette di scrivere) Chissà quali so­gni spaventosi tu t’organizzi la notte, non vorrei sentirmi, vivo, dentro un tuo sogno, chissà che cosa mi fai — che imbarazzo, che vergogna... Sennò, guarda, me­glio così... (leva il foglio dalla macchina e neintroduce un altro bianco sul quale scrive brevemente, lo sfila e glie­lo porge coi braccio teso) Compito a casa — copiare cento volte la frase seguente: sono una visionaria ossessiva. (Giovanna naturalmente non prende il foglio. Michele lo appallottola con rabbia e lo butta via) E va bene, non te Io sei sognato, purtroppo — ma è una cosa senza impor­tanza. Penché non te ne dimentichi, maledizione. Di­menticalo, dimenticalo - t’avrò pure violentata se vuoi vederla così, in un momento di noia, ma t’ho fatto un piacere! Aspettavi che io ne parlassi, lo stai aspettando da sempre, perché da quel momento per un tacito, chiamiamolo, pudore, né tu né io, dal momento che ci siamo ricomposti nei vestiti che avevamo addosso, ne abbiamo fatto il minimo cenno, come se mai fosse ac­caduto, e io me lo sono dimenticato, tu invece aspettavi che ci ritornassi su, aspettavi di sentirmelo dire perché la cosa ritornasse vera, accaduta, e goderne di flUOvO. Ma se t’ho tolto l’imbarazzo d’una verginità invecchia­ta, non mi puoi ripagare col tormento del tuo silenzio pesante, carico di Io-so-io-che-cosa-c’è-fra-noi, col tuo mutismo appassionato, la bocca che non dice, l’occhio appeso a me, che desidera, che mi rotola addosso, l’op­pressione di quest’amore che non si esprime a parole ma urla peggio che gridato — e dìllo, dillo, lìberati, dillo, sei stato tu l’unico uomo che m’è entrato dentro, fanne un fumetto, fanne una tragedia, dillo in versi, in prosa, cantalo, ma non mi opprimere — la devozione spietata è il tuo vizio supremo — funesto, sinistro... Quella crerna, per esempio, lo hai deciso da sola, convincitene, che piace tanto a me, non mi piace affatto, non la desidero, è inutile che stai ore e ore a prepararmela, non la man­gerò mai.

Michele è esausto. Giovanna è calma. Posa il piatto con lacrema.

GIOVANNA: Stai scrivendo una commedia?

MICHELE:                         No.

GIOVANNA:                      Che stai scrivendo?

MICHELE:                          Chi lo sa. C’è un personaggio di Ionesco che da venticinque anni scrive un romanzo, ma non è riuscito a scrivere che una sola frase: <Disse il vecchio alla vec­chia» — io sto riempiendo pagine e pagine di un alfabeto impazzito. (prende uno dei fògli e legge) «hauxlp o ixne­ gat  ileo hannesk i annali aslpqnehctsga nclwo naghi­lah.. .»

GIOVANNA:                          Non ti sarà entrata in corpo l’anima d’un ebreo

— sembra scritto in yddish.

MICHELE:                              Imporrò il gusto delle parole senza significato, il fascino di suoni misteriosi — sono entrato in una nuova fase: il mio periodo nero...

GIOVANNA:                          Si vede che questa commedia non la puoi scri­vere.

MICHELE:                              Non ho nemmeno tentato.

GIOVANNA:                           Non puoi scriverla, perché dentro di te non vuoi.

MICHELE:                              Io non ho nessuna intenzione di scrivere una

commedia.

GIOVANNA:                           Allora perché l’hai detto?

MICHELE:                              L’ho detto perché quella sera mi serviva dirlo.

Pausa.

GIOVANNA:                          Credi davvero che tua moglie sia l’amante del tuo migliore amico?

MICHELE:                              Max ed io siamo amici più che intimi — con Max mi posso permettere tutti i generi di discorsi che mi passano per la testa — posso anche sottoporgli in termi­ni rarefatti una mia idea vaga che riguarda più un at­teggiamento, un modo di comportarsi, che la sostanza d’una situazione. Max ha fatto male a riferire quello che era un mio gioco privato, Max è vittima di una deformazione professionale, teatrale, per la quale va al­la ricerca dell’effetto, allude, è schiavo della battuta, ma io so leggere bene nelle sue risposte, so discernere la ve­rità. Se lo pensassi ci crederei. Ma non lo penso.

GIOVANNA:                          Allora sappi ch’è vero: Max e Nina sono amanti da anni, forse da prima che vi sposaste, forse da sem­pre.

Entra Nina che va a confidarsi con Giovanna.

NINA:                              T’ho voluto raccontare quello che c’è tra me e Max perché non voglio che sia un segreto — assumerebbe su­bito i contorni della sudicia relazioncella piccolo bor­ghese — e non è questo che Max ed io vogliamo. Per nes­sun’altra ragione te ne metto al corrente.

GIOVANNA:                  Ti ringrazio.

NINA:                              Ne ho un tale terrore che non so a chi non lo direi, fermerei la gente nella strada per dirlo. Del resto non faccio nulla per nasconderlo, io mi comporto normal­mente sia con Michele che con Max.

GIOVANNA:                  Ma è inutile che tu ti rivolga a me.

NINA:                              E a chi? Sei la mia migliore amica.

GIOVANNA:                  Se non vuoi che sia creduta una sudicia relazion­cella,

potresti rivolgerti direttamente all’interessato.

NINA:                              A Michele?

GIOVANNA:                  A tuo marito.

NINA:                              Come si vede che non ce l’hai un marito, tu. Un ma­rito è un marito, bisogna portarlo a capire certe cose, non gliele puoi buttare in faccia così. Prima che un ma­rito le accetti ci vuole tempo, e prima che le condivida poi...

GIOVANNA:                  Tuo marito ne ha scritte di storie pazzesche, si ritiene che abbia un’apertura mentale abbastanza va­sta, atta a comprendere.

NINA: Uno scrittore a casa sua non è uno scrittore, è un uo­mo meschino come tutti gli altri che ti rompe le scatole anche per come ti vesti, che ficca il naso da per tutto, un noioso, che tu ti domandi, quando leggi i suoi libri — a me mi capita — dove la prende l’apertura mentale, que­sto, per scrivere. Voi, vi godete il rapporto con l’amico-scrittore, ma io ho a che fare con lo scrittore-marito, al quale, essendo marito, ovviamente non posso andare a dire, di colpo, ho un amante. Ah, potessi dirglielo — subi­to! Non si può. Ma ci arriverò.

GIOVANNA:                  Sei straordinaria, Nina, incommensurabile, quando apri bocca io non ho più nulla da obiettare — mi domando davvero perché non ne parli a Michele.

NINA:                              Giovanna tu sei una pazza. Hai capito chi sono i ma-

riti — lascia stare scrittore o non scrittore? Ti sposano perché credono che tu sarai soltanto sua, e questo non è stato mai vero nella storia ufficiale del matrimonio da Adamo ed Eva ai nostri giorni. Essi, usandoti, ci tengo­no a farti diventare donna, e quando lo sei divenuta, ne sono fieri, ma non vogliono accettare che donna tu lo sei ormai per tutti, magari sotto il loro controllo e il lo­ro freno. Ed è una contraddizione: una donna è una donna, non può non assolvere la funzione per cui è donna. Ti prevengo subito: quelle che passano una vita intera con un uomo solo, quelle non sono donne, sono individui femminili — che è tutta un’altra cosa.

GIOVANNA: Ti sei costruita una teoria ad uso e consumo tuo.

NINA: Sei una stupida Giovanna — io sono una donna felice che apprezza criticamente le gioie del matrimonio. Ti dispiace che io abbia una relazione con Max!

GIOVANNA:                     A me?

NINA:                                 No, non per te — per Michele. Ne soffrirai per lui.

GIOVANNA:                      Potrei anche esserne contenta.

NINA:                                 Ma tu lo ami, a tuo modo.

GIOVANNA: A mio modo, lo amo.

NINA: Ti capisco, sai. E mi dispiace che tu ne debba soffri­re.

GIOVANNA:                      Non ne soffrirò — avrei già dovuto, perché di te e di Max, lo sapevo già. (dicendo l’ultima battuta Giovan­na e Nina si sono sedute alla tavola apparecchiata) Guar­da, tornassi a nascere, uomo o donna, mi metterei an­ch’io nel commercio della pelle — restare nella vita sola e onesta, questa è una cosa sconcia.

Michele le raggiunge e siede al suo solito posto.

MICHELE (allusivo): Mica tanto convinto che sei rimasta onesta.

GIOVANNA (lo fulmina): E fai male — si può non essere zitel­le ma restare ugualmente oneste.

Entra in battuta Max che riprende il suo posto a tavola.

MAX:                                 Se avessi coraggio tu saresti una gran porca.

GIOVANNA:                      Tu ne hai invece.

MAX: Moltissimo. (si china al suo orecchio e dice ad altaquello che primaaveva sussurrato) Va’ a letto presto con Michele, tanto Nina viene a letto con me.

GIOVANNA:                      Non dirlo neppure per scherzo.

MAX: È la verità. (si china di nuovo al suo orecchio) Guar­da sotto la tavola, Nina s’è tolta una scarpa e tiene il piede nudo tra le mie gambe.

Giovanna trascolora e nell’impaccio fa cadere una posata.

MICHELE:                         Ma che succede?

Max si china a cercare la posata.

GIOVANNA (nervosa): Niente... mi fa delle proposte oscene.

MAX (da sotto il tavolo): L’unica salvezza è il vizio, cara Giovanna. (riemerge brandendo la posata e si risiede) La nostra salvezza sta nel vizio — credete a me.

Pausa. Michele si alza da tavola.

MICHELE (a Giovanna): L’ho sempre saputo. Se intendevi vendicarti di me, te ne tolgo il gusto — l’ho sempre sapu­to. (passeggia. si ferma alle spalle dei due) Non mi dici nulla di nuovo — persino sul tono di Max nel parlarti al­l’orecchio ci avrei giurato, lo conosco, è tipico di lui. Scegliere il posto meno adatto per comunicarti un’infa­mia, trovarsi un complice per godere d’un segreto in faccia a tutti -- è un tipo di eccitamento del quale va in cerca, quante volte ne abbiamo goduto insieme ai dan­ni di altri, e da giovani ne abbiamo combinate ben peg­gio alla presenza di tutti senza che nessuno se ne accor­gesse o capisse — una sorta di brivido del quale è rimasto ghiotto. Io sono cresciuto, lui no — me lo aspet­tavo da Max, me lo aspettavo da prima che accadesse, sebbene Max abbia superato se stesso riuscendo a non farmi capire quando è incominciata. Sai, io e lui ci par­liamo, te l’ho detto, attraverso frasi che sembrano qua­lunque, sappiamo farci arrivare le cose anche attraver­so parole rivolte ad altri. Max sa che non mi prenderà di sorpresa, e ciò gli toglie metà del gusto — Nina, fra noi due, è una sciocca.

Si è seduto di nuovo a tavola.

NINA (a Michele): E me m’hai inventata male — io mi so in­ventare meglio, se voglio. Un giorno lo scoprirai e non ci potrai credere. In fondo non ci crederai mai.

MICHELE:                         Per carità, avessi a trovarmi coinvolto in questa avventura! (con piena allusione all’indirizzo di Max) Sen­ti, invece di mandarlo a letto con Giovanna, portatelo a letto tu, Max, e vedi di realizzarla con lui, giacché è il ti­po giusto per queste cose, la tua vera, segreta natura.

NINA (dolce, questa volta): Non è detto che non lo farò.

MICHELE (a Giovanna): L’avevano già fatto.

Adesso parlando va a sedersi di nuovo alla macchina da scrivere. Giovanna lo segue. Gli altri due restano soli a ta­vola. Nina allunga a vista un piede nudo sulla gamba di Max che glielo accarezza.

MICHELE (a Giovanna): E sai quale potrebbe essere la sor­presa più sconvolgente? Che non provo nessuna gelo­sia. Intendimi bene — dico, sorpresa sconvolgente per loro, che per quanto riguarda me mi struggo solo dal desiderio di capire, vorrei capire perché avviene tutto questo — mi struggo dal desiderio di soffrire, ma non ca-pendo non riesco a soffrire. E amo Nina perché è una sciocca.

GIOVANNA:                     Non ti credo.

MICHELE:                          Non mi credi?

GIOVANNA: No, tu non lo sapevi — sono sicura che la mazzata te l’ho data io, ora.

MICHELE:                           Quando ho detto che non lo sapevo, parlava per

bocca mia il marito — tentavo di assumere un ruolo conveniente, che mi compete, ma con te scatenata, a questo punto, ansiosa di prenderti una bassa vendetta su di me, posso liberarmi degli inutili paludamenti per gettarteli in faccia e confonderti.

GIOVANNA: Sono fatta all’antica io, sembro spregiudicata, ma ho idee antiquate nella testa, per me il marito è ma­rito e l’amante è amante: uno è l’offeso l’altro il vittorio­so, a uno si dà il bene all’altro l’amore, l’affetto a te la passione a lui, il marito è lo sputtanato, il noioso, quel­lo che gli amici non cercano, l’amante è amico di tutti, è brillante, è simpatico, non importa se sia intelligente o no, ha la vita facile. Al marito è d’obbligo invece la difficilissima scena madre finale dell’ultimo a sapere, ch’è sempre ridicola — sia che termini a fischi sia con l’applauso. (lo squadra) Sei schiantato — i tuoi sospetti erano veri, dunque! Sei schiantato, ma ti reggi sulle stampelle del tuo orgoglio...

MICHELE:                            Che pessimo teatro è il tuo, il genere che allonta­na, che disgusta...

GIOVANNA: Ma più vero del tuo teatro del silenzio — anche con me, hai fatto la stessa rappresentazione da pesce sott’acqua, e che non se ne dovesse parlare mi fu subito chiaro.

Si getta a sedere su una delle poltrone a mare, lan guida, dolce.

GIOVANNA (altro tono): Forse era meglio che il sole non tra-

montasse mai. Che serata imprevedibile.

Michele l’ha raggiunta ma resta in piedi a guardare lontano

e le risponde voltandole le spalle.

MICHELE (duro): Che vuol dire imprevedibile?

GIOVANNA: Se qualcuno me l’avesse predetta non ci avrei creduto.

MICHELE:                            Non riscontro niente d’imprevedibile in questa serata.

GIOVANNA:                     Pensavi che... sarebbe accaduto?

MICHELE:                         Che cosa?

GIOVANNA (incomincia a capire il tono di Michele ma esita ancora): Intanto, che Nina partisse all’improvviso e...

MICHELE:                         Se Max è ammalato non vedo perché sia impre­vedibile che Nina vada a curarlo — è un uomo solo.

GIOVANNA (seccata): Ti sei lamentato tu di Nina, che quan­do Max chiama non resiste. Del resto non volevo dire questo.

MICHELE:                         Allora che altro d’imprevedibile è successo? Que­sto lungo tramonto del sole? Siamo al mare e i tramon­ti sono sempre molto lunghi.

Michele torna alla macchina, a scrivere nervosamente paro­le senza senso.

GIOVANNA:                      La mia pace è rimasta in quel posto di mare —perché tu mi avevi insegnato a desiderarti. Smettila di scrivere! (si alza dalla sedia del posto di mare e continuando a parlargli si avvicina a Michele che ha smesso di scrivere) Certo, che posso fare adesso, io, povera cri-sta, che non si colori della luce sinistra del ridicolo —come mi muovo sbaglio, faccio ridere. Tu te ne stai là dietro la macchina da scrivere che ti dà un certo deco­ro; in fondo, pensaci, è un paravento alla tua pochezza —io non ho nulla per qualificarmi, stupidaggini, creti­nate, un fiume di parole inutili, dette, dette, dette, det­te, per non dire le uniche che vorrei dire. Mi vivi davan­ti e vedo il tuo corpo vivere, mutarsi, la pelle si cambia, sai sei leggermente ingiallìto, lo smalto di prima non lo ritrovo. Lì sotto il collo, dietro la spalla destra — toc­cati... (Michele si cerca con la mano sinistra dietro la spalla destra) più giù, hai una piccola ciste — l’hai trova­ta? (Michele ferma la mano e la palpa col dito) La sentì? Me ne sono accorta già da qualche tempo che l’avevi, tu no — è vero? Ti controllo il corpo a centimetri — il guizzo della tua carne, quella vitalità che c’è dentro, quella rimane, posso garantirtelo. La muscolatura tua, sciolta,

da ex giovane tennista, mi attrae sempre, ne conosco i movimenti, giacché sei stato così grossier che dopo di allora hai preso a spogliarti e a vestirti in mia presenza, prima non lo avevi mai fatto... Tutto questo non mi ha tenuto in pace, e non mi tiene. (riprende il piatto con la crema) Ti sei avvilito? Che cosa succede? D’accordo, la mia crema non ti piace — non la mangerai.

Allunga il cucchiaio colmo di crema e gli segna sul viso del­le grosse strisce giallo uovo. Michele non reagisce.

GIOVANNA:                  Senti, Michele, tu non sei un uomo, perché un uomo non si lascia trattare così... e io non sono una donna, perché una donna non tratta così l’uomo che ama. Siamo due ridicoli. (lo abbraccia)

Intanto Nina s’è già staccata da Max, s’è alzata da tavola e

ora si scon tra con i due abbracciati.

NINA:                             Oh! Prima o poi dovevo aspettarmelo. ( osserva per­plessa volto di suo marito) Che roba è? (si avvicina a Michele, gli passa un ditosulla faccia) Ma, è crema... (si lecca il dito) Buona. Lavorata da te, Giovanna. (intinge di nuovo il dito sulla faccia di Michele e se lo lecca) Alta pasticceria. Lo sai che non gli piace la roba dolce, per­ché insisti — non ti darà mai soddisfazioni. Prova con un altro tipo di leccornia, se vuoi prenderlo per la gola

— otterrai di più.

Raggiunge Max che s’è spostato in un altro angolo e irritata com’è subito l’investe.

NINA:                              Dovevi sapere ch’era un delinquente.

MAX:                              Queste cose non le aveva mai fatte.

NINA:                              Ma se uno è un delinquente a un certo punto le fa, e non mi dire che tu non sapevi che razza di tipo è.

MAX:                              Proprio, ecco proprio perché so bene che razza di ti­po è, non m’aspettavo una simile mascalzonata.

NINA:                                 Uno come te non può aspettarsi o non aspettarsi una mascalzonata — quando tratta con una persona, lo sa, se è una persona di cui si può fidare o no. Tu dun­que avevi fiducia in lui — devo arguire questo, se l’hai ti­rato in mezzo.

MAX:                                 Sì, mi fidavo, è una persona di cui mi fidavo cieca­mente — una persona seria.

NINA:                                 Come? Uno che io non conosco, viene chiamato ter­zo fra noi due a partecipare a un gioco erotico — a paga­mento — è il suo mestiere e lo fa con allegria, si diverte —sembra anche di larga esperienza, molta inventiva — per di più è una specie di intellettuale scombinato, la sa lunga in materia d’arte, parla come un pazzo, ti sistema questo e quello, ma è prontissimo a qualsiasi soddisfa­zione gli chiedi, non batte ciglio — beh quest’uno un giorno mi si pianta in faccia e osa dirmi: io la amo, la prego mi ami! Questa tu la chiami una persona seria?

MAX:                                 Che ne fai, una questione di parole adesso? Prima d’o­ra non ho dovuto muovergli lagnanze, che vuoi da me?

NINA:                                Sarà impazzito allora, sarà in crisi, qualcuno gli avrà detto che l’amore è anche un sentimento e, poveri­no, siccome mai un dubbio gli attraversa il cervello, non gli avrà sfiorato la mente ch’è roba che a lui pro­prio non lo riguarda.

MAX:                                 La colpa potrebbe essere tua, per esempio.

NINA:                                Mia?

MAX:                                 Chi è stato a volerlo vedere da solo?

NINA:                                Al tempo, al tempo — alt. Io ho ben chiarito il moven­te del mio incontro particolare con Ric — non potevi aspettarti che io continuassi per mesi a fare l’amore con uno sconosciuto — qualsiasi donna lo pretendereb­be: scusa, ma chi mi porti a letto? Le prime volte ci si passa sopra, ma quando il rapporto si stabilizza e di­venta la regola — allora voglio saperne di più.

MAX:                                 Ti ricordi quando mi dicesti: un giorno sarò perfetta per te — ecco, sei andata oltre — mi sbalordisci.

NINA:                                 Tanto meglio. «Io l’amo», che ora va gridando non è frutto d’una sera. Il mascalzone se l’era allevata dentro la cosa, se l’era nutrita, e zitto sai, per prendermi di sor­presa. A saperlo mi sarei ben guardata dall’incontrano da solo ed è perlomeno indecente che tu lo stia scusan­do. Non ci sono scusanti — ciò che ha fatto è da dilettan­te non da professionista!

MAX: Lo scancellerò dall’albo.

NINA:                                   Ridi — perché quello s’è innamorato di me non di te, sennò ridevo io. Il tuo spirito è fuori posto, Max — sono esasperata, sono sommersa da pacchi di lettere d’amo­re, da quintali di pagine strappate da libri che m’arriva­no piene di sottolineature, chiose, da telefonate a tutte le ore: parole in libertà e silenzi eterni...

MAX:                                    E sopporta — si tratta di sopportare, si stancherà

in­fine..

NINA. Non riesco, m’imbarazza, mi mette a disagio. Mi fa

arrossire, da sola! Del resto, tu m’hai messo nell’impic­cio e tu me ne cavi.

MAX:                                    Nina, la verità, non so che fare.

NINA (al colmo dell’esasperazione): E ammazzalo, imbecille — sei un immorale. (lo abbandona furente)

Ric che se n ‘è stato tutto il tempo sdraiato a lanciare picco­le frecce contro il bersaglio del muro bianco, ora dà via libe­ra al suo sfogo, sempre continuando ad appuntare le frecce contro la scritta sul muro.

RIC : Non c’è scampo — sono perduto. I miei dei che dormi­vano ubriachi si sono svegliati malamente dalla sbornia e in vena di scherzi m’hanno gettato sulle spalle il ridi­colo mantello del mio destino — ruffianissimi dei! Più lotto, più mi dispero, più amo. Ho cercato di ragionarci sopra, di soppesare le cause, individuare le strade della mia rovina, ma a parte l’impotente voglia di uscirne, il resto m’è indifferente. E devo convenire, col sangue agli occhi, che ella non ha fatto niente perché mi cucissero addosso questa camicia da pazzo senza asole per poter­mene liberare, e devo convenire ancora che, alla luce della ragione, tutto di lei mi spingeva a sfuggire alla sua imbarazzante presenza, eppure mi trovo ad aver per­corso il cammino inverso di quello che il mio giudizio mi dettava. Così devo convenire che la colpa è solo mia anche se s’accusa d’aver voluto lei il nostro incontro privato — per curiosità dice — non rendendosi conto quanto lo abbia provocato io.

Nina intanto gli si è sdraiata accanto seminuda. Sono in penombra.

NINA:                                     Ho dormito?

RIC:                                         Sì.

NINA Quanto?

RIC:                                        Dieci minuti.

NINA:                                     Mi sembrava tanto, che paura. E Max?

RIC: È in bagno.

NINA:                                     Devo alzarmi, si fa tardi. Che ora è?

RIC:                                        Le sette.

NINA:                                     Non guarda l’orologio?

RIC:                                        No.

NINA:                                     Ha le lancette in testa.

RiC:                                        Sì.

NINA:                                     E ora di cena, bisogna che vada.

Ric non risponde

.

NINA:                                      Ric.

RIC:                                         Sì.

NINA:                                     È sempre sulla difensiva.

RIC:                                        Io? Perché?

NINA:                                     La sento ostile — che pelle liscia che ha.

RIC: No.

NINA Non è liscia?

RIC:                                        Non sono ostile.

NINA:                                     Sì, sulla difensiva e ostile — c’è qualcosa in lei che non mi convince. Devo capire bene chi è. Ric...

RIC: Sì.

NINA:                                     Lei non è Curioso?

RIC: No.

NINA:                                     Io sono curiosa come una serva. Ric...

Ric non risponde.

NINA:                            Ric — non c’è nulla che la incuriosisca di me?

RIC non risponde

NINA:                            Ric — ora le racconto come sposai mio marito — stia a sentire. Lei ne parla male perché non lo conosce. C’in­contrammo e non mi rivolse mai la parola. La seconda volta che c’incontrammo mi disse — voglio fare l’amore con lei. Io gli risposi — sì, dopo che m’ha sposato — Tutto qua — fa lui — va bene la sposo — Guardi che io ci credo al matrimonio — gli dico — Peggio per lei — mi fa. E ci sposammo. Ma c’è una ragione, dal primo momento che Io vidi per me fu il marito, l’ho amato come tale dal primo momento. Non mi sarei mai data a lui se non m’avesse sposata.

S’è avvicinato Max.

MAX:                              Che gli stavi raccontando?

Si siede accanto a loro sdraiati.

NINA:                              Di Michele.

MAX:                              Ah! Dissi a Nina — Basta che non s’accorga che ci co­nosciamo, è meglio, potrebbe mangiare la foglia, poi sposiamocelo pure — Come sposiamocelo? — mi chiede —Se te lo sposi tu è come se lo sposassi aneh’io, no, così ci sposiamo tutti e tre.

NINA:                              Che c’entra questo, Max!

MAX:                             Non gli stavi raccontando questo?

Ric si alza e li abbandona tutti e due.

RIC:                                Nella situazione in cui il destino mi costringe — che mi resta se non allargare il mio mantello e attirarvela dentro, afferrarla per i capelli e insieme precipitarci nella palude dalla quale non si esce. Può un amore co­me il mio provocare una passione? Devo soltanto atten­dere Nina.

La luna si svilisce in un cielo di melma

sopra due amanti senza vocazione

che affondano op, op, op

nell’amorosa latrina del sentimento.

I quattro hanno preso posto a tavola.

Ric, isolato, sta in piedi al lato opposto della tavola.

NJNA:                               Stasera gusteremo una elaboratissima crema che ha preparato Giovanna. Ma non c’illudiamo che si sia ap­plicata tanto per noi — l’ha fatta per Michele. È vero Giovanna?

Giovanna sorride a malincuore.

NINA:                              Del resto Michele non ha resistito all’assaggio. L’ho trovato con la bocca tutta impìastricciata, rientrando. (a Giovanna) Così si scopre che anche se non ti piace una cosa, a forza di mettertela sotto al naso, si finisce per assaggiarla!

Ora si rivolge a tutti buttandola là come incidentalmente.

NINA:                              Ah, sono amata. Sapete, sono amatissima. Qualcuno s’è innamorato di me al punto che non vuole dividermi con mio marito né con nessun altro — tutta per sé, mi vuole. Una sensazione che mi toglie il respiro, mi dà le vertigini, si dice così? — devono averle scritte se le ho lette tante volte queste frasi — bene, è una sensazione esatta. Che faccio? Ti lascio Michele e vado con lui? (la guardano impietriti) È un uomo giovane, un bell’uomo, con niente di serio alle spalle.

MAX:                                Vuoi dire un ridicolo!

NINA:                               No Max, uno che è quello che è. Mi sento più tran­quilla. (a Michele) Che faccio, ti lascio?

Tutti adesso guardano Michele che ostentatamente non rea­gisce.

NINA:                               Max, tu che ne dici? E tu Giovanna?

GIOVANNA (davvero sbalordita): Non capisco di che parli.

NINA:                               Ora te lo spiego meglio — Giovanna, m’è successa la cosa più orribile che può capitare a una donna: un uo­mo, uno sconosciuto, s’è innamorato pazzamente di me, è un uomo che non capisce, un bruto, odia mio ma­rito, detesta i miei amici, mi vuole sradicare da tutti voi —come se uno volesse portare te via da noi tutti. È’ un’orribile avventura, ma ha il suo fascino, no? È uno di quelli convinti che vi siano buchi solitari sulla faccia della terra dove si può vivere ancora una vita in due, so­li, senza dividerla con nessuno.

MAX:                                Al cimitero!

NINA: Buono Max, si tratta di decisioni gravi... Ci crede, di­ce che non posso dargli torto.

MAX (sulle spine perché non può esplodere come vorrebbe):

È’ mostruoso — non ho sentito niente di più osceno.

NINA:                               Ah, mi dice che non posso rinunciare — come la chiama, aspetta — all’unica cosa pulita — me la deve aver pur scritta, quel pazzo, se mi viene in mente una frase simile — sì, all’unica cosa pulita della mia vita.

MAX:                                Fa anche la rima.

NINA (seccata): Sì, fa anche la rima!

GIOVANNA: E che vuoi dire?

NINA:                               Ah, non lo so.

MAX (a Nina): E tu che sei tu, cadi vittima d’un trucco si­mile? Di un Tartufo che si serve della religione dell’a­more, dei fanatismo dei sentimenti, della mistica dell’a­more-che-redime, per insinuarsi nel seno d’una famiglia allo scopo di commettere una rapina? Michele non lo permetterà mai. Se simili discorsi per te hanno un suono mi cadono le braccia. Abbiamo vissuto inutil­mente insieme. Michele, perché non intervieni? Devo difendere io la tua casa?

GIOVANNA:                    Non puoi lasciare Michele, Nina, dimmi che ti

stai divertendo, che ci vuoi far tremare... poveri cuori nostri — anelli d’una bella catena d’oro che si sganciano.

NINA:                                     Perché non vi muovete, allora? Volete capire che non dipende più da me? (a Michele) Tu, che non t’ab­bassi a spendere una parola... Quello grida, e bisognerà pur rispondere o metterlo a tacere. Quei tipi lì finisco­no per vincere. Ho paura io, l’amore lo rende forte, fi­nirò per amarlo, ne sono certa, e sarò così infelice —sarò perduta e profondamente infelice. La verità è che nessuno di voi mi ama abbastanza per salvarmi.

Giovanna si alza e si presenta a Ric.

RIC: Chi le ha dato il mio indirizzo?

GIOVANNA: Devo parlarle d’un’amica comune...

RIC:                                         Al solito. Prima mi dia una sigaretta, sono rimasto senza.

GIOVANNA (mentre pesca le sigarette nella borsa): . . .ma non

voglio che sappia che sono venuta a cercarla.

RIC: Non è necessario che si prolunghi in chiacchiere — ho capito. (prende lasigaretta che Giovanna gli porge) È sfortunata signora, arriva in ritardo. Buonasera. (ac­cende la sigaretta con granvoglia)

GIOVANNA:                         Aspetti, mi faccia parlare...

RIC: Non esercito più. Mi sono ritirato. Come tutte le sante puttane toccate dalla grazia.

GIOVANNA:                         Ma che sta dicendo?

RIC:                                       Ho chiuso bottega — chi la manda, Clelia o Lady Lou? Strano, lo sanno che io non ricevo in casa — come vede qui manca il più elementare comfort — mi meraviglia che lei non abbia una garçonnière, tutte le sue amiche ce l’hanno.

GIOVANNA (malgrado capisca l’equivoco, offesa): Io non ho

amiche...

RIC: Volevo dire tutte le signore della sua età — mi telefona­no, anzi mi telefonavano perché ho provveduto a cam­biare numero, appuntamento all’ora tot, appartamento tot: una garçonnière.

GIOVANNA: Lei sta equivocando sul motivo della mia visita, mi lasci parlare, vengo da parte d’una persona che le sta molto a cuore.

RIC:                               La manda Nina?

GIOVANNA:               No, vengo per conto di Nina ma Nina non lo de­ve sapere.

RIC:                              E lei chi è?

GIOVANNA:               La sua migliore amica che vede con orrore quello che sta per succedere.

RIC:                              Il solito trucco.

GIOVANNA:               Quale trucco?

RIC:                               Quello di Georgio Germont.

GIOVANNA:                 Non lo conosco.

RIC: Conosce la Traviata?

GIOVANNA:                Ah, sì Georgio Germont, il padre di Alfredo — si permette anche il lusso di fare lo spiritoso?

RIC:                              Che vuole, passo le giornate solo come un cane a con­sumare il grammofono, a fumare mezzo chilo, credo, di tabacco, a fare l’otto come le belve in gabbia, chiuso tra quattro pareti — una galera — in attesa, un’attesa che si prolunga ormai disperatamente, di Nina e invece chi arriva? Quel vecchio, stupido, signore! Faccio lo spiri­toso! Preferisce che la butti fuori? Non ho complessi di cavalleria con le donne, le vedo alla pari, non ci metto niente a riempirle la faccia di schiaffi.

GIOVANNA:                Com’è volgare, è una bestia — capisco sempre meno come una donna per bene stia perdendo la testa per lei.

RIC:                               Finalmente una buona notizia!

GIOVANNA: Lei è un furbo, canta il suo amore con romanze e acuti, ma se ne sta rintanato — è una tattica — quella prima o poi non resiste alla curiosità e verrà a vedere che cosa succede nella tana. Nina vive nel terrore che questo accada e ci supplica di salvarla. Lei, sì, lei che strepita alto, chi meglio di lei può salvarla?

RIC:                              Qual è il suo interesse in tutto questo, vecchio stupido signor Germont?

GIOVANNA: L’amicizia. E non mi chiami signor Germont.

RIC: Lei ha il suo seareto interessuccio da difendere — è sempre così quando si sposarìo le cause degli altri.

GIOVANNA:                 Mi creda, l’amore è rinuncia. Solo rinunciando al possesso dell’oggetto amato lei lo possiederà per sempre. Se l’ottiene mettendocela tutta, strappandolo a forza, alla fine sì troverà tra le mani un oggetto rotto. Suo, sì, ma senza più il valore per il quale ha combattu­to — e perderà anche il fascino. Pensi alla bellezza ch’è racchiusa nei quadri, anche quello è il bello, ciò che amiamo, che vorremmo possedere — ebbene dove stan­no i quadri —- nei musei — godimento comune. Li posse­diamo tutti.

RIC: Mi sta raccontando certo una storia sua — la mia è di­versa. Immagini che io abbia una galleria privata, e che in questa galleria abbia un unico e solo quadro — il rac­conto è un altro.

GIOVANNA:                 Com’è mal ridotto, lei naviga in brutte acque.

RIC:                               Anzi, sono all’asciutto — mi dia un po’ di danaro, capi­ta a proposito, vecchio stupido signore.

GIOVANNA:                 Non sono nè vecchio, nè stupido, nè signore. Perché dovrei darle dei soldi?

RIC:                               Perché non ne ho. Dovrò pure comprarmi delle siga­rette, un disco nuovo, un libro che non ho letto...

GIOVANNA:                 E. cibo?

RIC:                                Lo stomaco mi s’è chiuso, da un pezzo.

GIOVANNA (gli porge del danaro che Ric intasca come al soli­to senzaguardare): Nina non l’approverebbe.

RIC: La fa così banale? Che cattiva amica.

Nina s’è seduta in braccio a Michele con la testa appoggiata al suo cuore.

NINA  (a voce bassissima con grande tenerezza): La tua vita sarebbe spezzata?

MICHELE (anche lui sottovoce): Sì.

NINA:                            Non saresti più capace di scrivere un rigo?

MICHELE:                     Probabilmente.

NINA:                             Tutto per colpa mia?

MICHELE: Per colpa tua.

NINA: Che bello. Posso uscire dalla tua vita contenta.

MICHELE: E questo che vuole una donna?

NINA:                                Sì. Aver reso un uomo così felice da lasciargli un vuoto incolmabile.

MICHELE: Non importa come?

NINA:                               Non importa affatto.

MICHELE:                        Hai ragione. Se amore fosse fedeltà, non esiste­rebbe amore, in quanto amore non la contiene.

NINA: E allora, che cos’è l’amore?

MICHELE:                        Forse amore è costanza, una costanza tenuta non importa come, ma mantenuta rigorosamente.

NINA:                               Come sei intelligente Michele — che sarà di me strap­pata alle tue braccia?

MICHELE:                        Continuerai ad amarmi — ma nessuno dei due ne avrà più beneficio.

NINA:                               Perché ti lascio, Michele — spiegamelo.

MICHELE: Perché quel Tizio dice parole assolute, incantate, con le quali non si

resiste alla tentazione di scommettere.

Restano teneramente abbracciati

RIC:                                  Allora rovesciamo il bidone dell’immondizia, qual è il suo segreto Interesse in questa storia?

GIOVANNA:                     M’ha seccato, lo sa? Se fosse per me, Nina, gliel’accompagnerei fino qua con la banda dietro — il guaio è che non fai a tempo a vituperare la tua condi­zione che già devi rimpiangerla.

RIC:                                  Che diavolo dice?

GIOVANNA: Lo so io. Noi siamo un gruppo affiatato d’amici:

se ne perde uno, ci perdiamo tutti. E non è giusto che un tipo come lei ci rovini — non può capire.

RIC:                                  No, capisco — se lei è la sua migliore amica come lo è quell’altro, non dubito d’aver partita vinta. Se ne vada.

GIOVANNA:                    Quando me li restituirà?

RIC:                                  Che cosa?

GIOVANNA:                     I soldi.

RIC:                                   Mai — vecchio stupido signore

Max riflette.

MAX: Per te le donne non esistono-mi dice Nina- Infatti le donne non esistono, le inventiamo noi- dice Michele, e lui s’è inventata Nina  a modo suo, e io mi sono inventata Nina a modo mio: niente da eccepire, una vecchia teoria. Comprensibilissima. Eppure non torna-Nina la sento unica, non ha due facce, è certo. Non l’ho inventata io, non l’ha inventata Michele- credo di capire: l’abbiamo inventata insieme, Nina è il frutto della nostra intesa, in Nina abbiamo dato corpo alla nostra intesa- un’unica invenzione. Così è vero che non l’amiamo abbastanza  se lei per noi è il mezzo non il fine. Ma è poi veramente la nostra intesa che l’ha generata, o non piuttosto lei che ha generato la nostra intesa? Ecco, dove il filo può sfuggire, dove se ne perde il capo, ecco soprattutto per Nina finalmente una giusta ragione per andarsene con Ric- e lei non losa, ma che importa se attiongerà ,lo stesso, il suo scopo?  Perché se noi vorremo raggiumgerla , per raggiungerla avremo bisogno d’un mezzo, e il mezzo di cui dovremo servirci è Ric, così lei diventerà il fine e tutto il resto iol mezzo. Dunque, Nina è arbitra del suo destino e io e Michele siamo due stupidi. (Va da Ric)

RIC:  Arrivate tutti in corteo, uno dopo l’altro- vigliacchi! Max, sei fottuto-Nina s’è innamorata.

MAX: Esaltato visionario- conosco Nina come le mie tasche, verrà qui solo per morderti.

RIC: Amore chiama amore, Max.

MAX: Il tuo amore è sporca propaganda.

RIC: La propaganda vince.

MAX: Vendendo per buoni prodotti avariati- la gente se ne accorge sai…

RIC: …ma sempre troppo tardi. E sta’ zitto, mi dai fastidio! Vattene.

MAX:Che cosa ti mancava? Avevi tutto, il meglio –eri il favorito, l’eletto, io m’accontentavo di poco, ormai…

RIC: Ma non ti vergogni?

MAX: Siamo arrivati a questo-che dobbiamo vergognarci…Ric, la tentazione alla santità è una delle colpe che la Chiesa peggio condanna….Ricordati che vi ho messi a letto io.

RIC: Almeno per gratitudine, no-vuoi dire questo? Ma ti rendi conto che straparli? Ti stai rimbecillendo.

MAX: Questo sentimento imbecillisce te,amico mio.

RIC: Io non sono amico tuo,non lo sono mai stato-sono stato il tuo puttaniere, ora è finita- chiuso. Il marito, lui è il tuo migliore amico….

MAX: Idiota! Non ti sperdere in labirinti che non puoi capire-se ti dicessi che dividere con lui il letto di sua moglie è una forma d’amore per me?

RIC: Necessaria’

MAX: Siamo un gruppo condannato ad amarci, credevo te ne fossi accorto.

RIC: Ma io sfuggo il groviglio. Ci sputo sopra.

MAX: E fai male, perché la nostra storia è la tua-appena ti sei scontrato col gruppo eccoti qua che affanni e strepiti che vuoi uno di noi tutto per te, com’è successo a noi; e non l’otterrai, com’è accaduto a ognuno di noi.( Si rivolge a Michele che è rimasto a tavola)Con la commedia- non me ne hai più parlato- stai andando avanti?

Michele gli risponde dalla tavola senza muoversi.

MICHELE: Ho strappato anche gli appunti.

MAX: Preferisci lasciar pedere , per ora.

MICHELE: Per il momento sì.

MAX: Il travaglio di uno scrittore segue vie misteriose.

MICHELE: E le soluzioni maturano quando meno te l’aspetti.

Nina avanza verso Ric, mentre gli altri si tengono in penombra.

RIC: Nina…!

NINA: Ho lasciato i miei.

RIC: Amore attaccato , vince su tutta la linea! Come ti senti?

NINA:                                 Orfana.

RIC:                                   Ed io?

NINA:                                Tu, che?

R1C:                                  Io non conto?

NINA:                                Ma se li ho lasciati per te!

RIC:                                     Non dovresti sentirti orfana.

NINA:                                Non ho detto vedova. Orfana. C’è una differenza. Tu sei l’amore con l’A maiuscola.

R1C:                                  Sei scontenta, cara?

NINA:                                Scontentissima. E tu?

RIC:                                    Pazzo.

NINA:                                 D’altra parte non potevo far di peggio.

RIC:                                   Certo, era la soluzione del cuore, l’unica.

NINA:                                Un passo falso che dovevo fare.

RIC: Ma sicuro, non ne sei convinta?

NINA:                                 Te lo sto dicendo, abbiamo fatto un bel passo falso avanti.

RIC:                                    Comunque avanti — vedrai...

NINA:                                 Che cosa vedrà, Ric?

RIC:                                    Ch’è quello che ci voleva.

NINA:                                 Proprio ci voleva!

RIC:                                     Mi prendi in giro?

NINA: Come potrei? Ti cado addosso con tutto il mio peso.

Si buttano l’uno nelle braccia dell’altro.

NINA: Amore!

RIC: Amore!

Michele, Giovanna e Max sono a tavola ai loro soliti posti —quello di Nina è ugualmente apparecchiato. Cercano di es­sere all’altezza della nuova situazione.

MAX (parla su di giri, su una dimensione sproporzionata) Oggi, al matinée, nell’atto del giardino, al momento in cui deve entrare il vagabondo, lacero, affamato, che tossisce, ci guarda e passa, e per noi che stiamo là a va­neggiare dietro soluzioni impossibili è come un brivido di paura e un presentimento, al posto del solito generi­co, mi vedo entrare in scena uno con la faccia da pazzo, che non avevo mai visto, che ci guarda, ci squadra, e non si muove. Te ne vuoi andare — gli sibilo, e quello niente, qualcuno lo tira per un braccio e quello inchio­dato — la povera Liubov Andreievna innervosita perde i lumi e mi fa, dagli un calcio e sbattilo fuori. Allora il pazzo si mette a urlare che io non mi permetta, dice che lui è Lenin, ci sputa in faccia e se ne va.

GIOVANNA:                E il pubblico?

MAX: Non ha dubitato un momento di trovarsi di fronte al più puro Cecov — gli ha fatto anche un grande applauso a scena aperta.

GIOVANNA:                  Umiliazione su umiliazione.

MAX:                              Non è divertente?

MICHELE: No. (si alza in piedi) Amici, non possiamo vivere con l’ombra di Banquo, seduto là, al suo posto. Nina ci ha lasciati, ed è inutile sforzarsi di animare le serate —la nostra cena è una cosa morta. Non abbiamo più nul­la da dirci.

I tre lasciano la tavola.

Nina sta urlando con Ric

NINA: I tempi, Ric, i tempi, tieni presente i tempi — com’è possibile che io sia uscita di qui, sia arrivata fino a casa di mio marito, abbia preso l’ascensore, abbia suonato alla porta, mi sia spogliata, mi sia messa a letto, fatto l’amore con lui, rivestita, ridisceso le scale, ricorso qui, risalito le scale, anzi ridiscese perché qui stiamo in uno scantinato, e mi ritrovi di nuovo davanti a te — in venti minuti! Tu sragioni, Ric, mi preoccupi.

Una pausa.

RIC: Non c’è bisogno di mettersi a letto, per fare l’amore.

NINA: Allora sì, l’ho fatto per la strada.

RIC: Non ne dubito!

NINA: Sei un ingrato.

RIC: Sono geloso.

NINA:                                 E curati. Io non posso aiutarti — è un genere di ma­lattia esotica che non conosco, ma come tutte, se presa in tempo, c’è speranza che guarisci.

Nina e Ric passeggiano.

RIC:                                   Fa freddo oggi, Nina.

NINA:                                Ma fammi il piacere, hai vissuto metà della tua vita nudo, perché dovresti sentire freddo, tu!

RIC (stupefatto): Sei impazzita — che c’entra?

NINA:                                 Amore, non ti rendi conto che fai delle osservazioni insopportabili?

RIC:                                    Quali osservazioni? Che ho detto — ho detto fa freddo oggi Nina.

NINA: E non lo puoi dire — il meglio di te tu lo dai spoglian­doti, perché dovresti aver freddo se lo stare nudo è la tua condizione normale!

RIC:                                   Nina non hai pietà.

NINA:                                 Ma ti amo, amore.

RIC:                                    Anch’io, amore — ma... io credo che tu sia pazza, amore.

Nina e Ric in atteggiamento amoroso. Nina prende dei soldi e con un sorriso affettuoso li mette in un taschino addosso a Ric.

RIC (trasale): Che fai?

NINA:                                 Ti faccio un regalino, amore.

Ric deluso, li prende e glieli restituisce.

RIC:                                    No, tesoro, no. So che la tua è la più bella delle inten­zioni, ma non puoi. Hai sbagliato, hai perso il controllo — c’è dentro un verità, in questo gesto. Era meglio, non so, vederti coricata con tuo marito, l’avrei superato. Questo, no. Non so spiegartelo bene, devi intuire: i sol­di delle donne mi sono sempre piaciuti, erano sfrontati, cinici — questi sono patetici, superano ogni limite di sopportazione... Mi viene da vomitare. Mi sento male.

Nina lo soccorre.

NINA: Amore, stai male davvero...

RIC: È niente, niente — un crampo di nervi — niente, m’è passato.

Nina e Ric giocano, distanti l’uno dall’altra.

RIC:                                  Tra me e Michele chi butteresti giù dalla torre?

NINA:                               Mi butterei io.

Intanto va a raggiungerlo.

RIC:                                  Non puoi. Hai un tedesco delle SS alle spalle con un mitra che te lo impedisce. Devi a forza buttarne giù dal­la torre uno — me o Michele?

NINA:                               Non lo so — mi rifiuto di rispondere.

RIC:                                  Obiettriee di coscienza per comodità. Quando uno si rifiuta, si capisce subito qual è la risposta.

NINA:                               E qual è la risposta?

RIC:                                   Che butteresti me.

NINA:                               Sì.

RIC:                                  Brava!

NINA:                               Ma te, ti amo, amore! Michele, l’ho lasciato, gli ho distrutta una vita, non scrive più, adesso lo butto anche dalla torre — no, no — Michele, lo sai, non si tocca.

RIC: Invece me, amandomi, mi si butta.

NINA: E poi mi butterei appresso a te.

RIC: E fra me e Max?

NINA: No — questo non è un gioco, è un interrogatorio.

RIC: Fra me e Max?

NINA:                               È un gioco incivile che mette l’angoscia — e tu te ne servi.

RIC:                                  Perché costringe a dire la verità!

NINA: Non è vero. È soltanto un’esercitazione di cattiveria.

RIC:                                    Se non è vero, allora rispondi — fra me e Max?

NINA:                                 Non lo so.

RIC:                                    Guarda che è come se dicessi me!

NINA:                                Ho detto non lo so. E poi oggi potrei risponderti Max, domani te — ecco perché non è vero, perché le risposte mutàno secondo al’umore del giorno.

RIC:                                   Appunto. Quindi adesso, secondo il tuo umore del giorno, in questo momento — chi butteresti giù dalla torre, me o Max?!!!

NINA:                                Te.

RIC:                                   Magnifico — questa è bella — non mi salvo con nessu­no!

NINA:                                 Ma t’ho detto che, te, ti amo!

RIC: E non voglio essere amato, se amarmi significa but­tarmi giù dalla torre — voglio che tu mi odi come odi Michele e Max.

NINA:                                 Io non odio affatto Michele e Max.

RIC:                                    Benissimo — basta che mi vuoi quello che vuoi a loro!

NINA:                                 Ric, cerca di capire, Max l’ho deluso tre volte, col matrimonio, nell’amore e nell’amicizia — come posso infierire su di lui? Tu con me sei felice, loro senza di me sono infelici.

RIC:                                    Benissimo. Allora tra i due infelici, per liberarli dalla disperazione in cui si rotolano, chi butteresti prima

dalla torre — Michele o Max?

NINA:                                Te.

RIC:                                    Ma io non ci sono sulla torre.

NINA:                                 Non importa. (pausa) Perché tu...

RIC (urla): .. .perché io sono felice e loro sono infelici, lo so, lo so, lo so! Basta — è un gioco ignobile.

NINA:                                 Te l’ho detto amore, ch’è un gioco crudele, intollera­bile, al quale si risponde senza nessuna verità, solo col risentimento. E tu lo sai, via, che oggi io sono una don­na felice.

RIC:                                    E come sei felice?

NINA:                                Spaventatamente felice.

RIC:                                    Dillo ancora.

NINA:                                Disperatamente felice.

R1C:                                  Ancora.

NINA:                                Straziatamente felice.

RIC:                                   Ancora, non mi basta.

NINA:                                 Turpemente felice, amore!

RIC:                                   Ancora, su, amore mio.

NINA:                                Sordidamente felice.

RIC:                                  Ancora, ancora!

NINA:                                 Oscenamente felice!

RIC:                                   Incoraggiami di più, anima mia!

NINA:                               Schifosamente felice!

RIC:                                   Va’ su, va’ su, non mi deludere, gioia mia!

NINA:                               Sono deformata, distrutta dalla felicità, Ric! E tu?

Ric l’abbraccia con trasporto. Un po’ alla volta allenta la stretta delle braccia e la lascia come una cosa finita. Con passo deciso va da Michele che adesso sta fermo ad aspet­tarlo.

RIC:                                    Vengo a costituirmi.

MICHELE:                        È in ritardo. L’aspettavo da tempo.

RIC:                                   Ho resistito. Ma è più forte di me — non riesco a sop­portare l’infelicità di chi si ama.

MICHELE:                         Dunque, Nina è infelice.

RIC:                                    Si tratta d’intendersi sul termine — a sentir Nina, no.

MICHELE:                         E lei?

R1C:                                  Lo sono perché Nina lo è — può darsi che non se ne accorga — ma lo è.

MICHELE:                        I matrimoni si reggono sull’infelicità d’uno dei coniugi, nella migliore delle ipotesi, sull’infelicità di tutti e due — è l’assuefazione all’infelicità che rende for­te un matrimonio. Lei è un uomo fragile — ritorni a ca­sa. Ci ripensi.

RIC:                                  Non accetto ordini. Crede che mi sia costato poco get­tare la spugna? Lei è la persona che più detesto.

MICHELE:                        Eppure non le ho fatto niente di male.

RIC:                                     Me l’ha serbato tutto per la fine.

MICHELE:                        Quale fine?

RIC (grida): La fine, la fine!

E’ tormentato, si agita infelice.

MICHELE Stia calmo, lei è un ribelle convenzionale — di quelli che strillano, per ottenere poi — cose alle quali noi già da tempo abbiamo rinunziato. Un ribelle autentico è solido, se ne sta seduto, zitto, e si rifiuta recisamente di entrare nella mischia.

RIC: Il sentenziare diarroico è la qualità sua di scrittore che più mi ripugna. Non sono venuto per ascoltarla, ma per rimettere Nina nelle sue mani.

MICHELE Chi le ha detto che l’aspettavo per un simile mo­tivo?

RIC: Perché mi stava aspettando — allora?

MICHELE: Per il gusto di ricevere nelle mie mani la sua re­sa.

RIC:                                   Senza condizioni?

MICHELE: Come di regola — e lei mi propone subito di resti­tuirmi quanto non le ho chiesto.

RIO: Cioè non vuole riprendersi Nina.

MICHELE: Sto cercando di farle capire che lei non può pro­pormi niente, foss’anche di restituirmi mia moglie, le

condizioni le posso dettare soltanto io.

~io: Non è la resa che vuole — la rivincita! Che cinismo n­buttante.

MICHELE Nessun cinismo, nessuna rivincita — voglio un’in­tesa cordiale, non un accomodamento, un’intesa che ci rassereni — abbiamo tutto il tempo per arrivarci senza giri di valzer o brusche voltate di spalle...

Resta a pensarci su.

Ric che non capisce dove voglia arrivare, sta sulle spine. Dopo un lungo silenzio Michele si decide a riprendere il di­scorso.

MICHELE Senta, venga con mia moglie, una sera, a cena

da me.

RIC: Come dice?

MICHELE Venga con mia moglie, una sera, a cena da me, ho detto. Ci venga tutte le volte che vuole — non occorre che io l’inviti.

RIC:                                    Mai.

MICHELE:                         I vostri posti saranno apparecchiati ogni sera al­la mia tavola.

RIC:                                    Mai, mai.

MICHELE: È la giusta via di mezzo per riconciliare le parti —ci pensi!

RIC: Impossibile.

MICHELE: È l’unica felicità possibile — mi creda. Le nostre cose andranno meglio.

RIC: Le nostre cose?

MICHELE: Non a caso Re Artù scoprì che una tavola poteva essere anche rotonda.

RIC: Non siederò mai alla sua tavola.

MICHELE: Sciocchezze. Don Giovanni ha invitato a cena una statua e la statua c’è andata — non sarà lei più ina­movibile del convitato di pietra. Su. Non faccia resi­stenza.

Lo spinge verso la tavola.

Si incontrano con gli altri che si avvicinano sorridenti.

Michele fa gli onori di casa e mette gli ospiti a tavola.

MICHELE: Rio, qui. (gli cede il suo posto a tavola) Qui Nina, qui Giovanna, là Max, e qui io.

La tavola adesso risulta così formata: al posto di Michele siede Ric, appresso a Ric Giovanna, poi Michele, poi Nina, poi Max. In modo che Michele si trova ben piazzato tra Gio­vanna e Nina, e Ric e Max sono isolati.

La cena si anima di colpo. Max attacca veloce, polemico.

MAX:                                 Appena la Cina avrà la potenza nucleare necessaria non ci penserà su due volte — metti alle ore 23 e 58 di un mercoledì, di un mese che adesso non so, di un anno molto più prossimo di quanto noi pensiamo, da una ba­se segreta cinese partiranno tre gruppi di missili a testata nucleare — per l’America, la Russia, l’Europa. Po­chi minuti dopo il mondo civile avrà cessato di vivere. Che gliene importa alla Cina di noi e della nostra cultu­ra? Va’ a parlare a un cinese del Mediterraneo, culla della civiltà.

MICHELE: Non potrò mai crederci. Ho fiducia in quel ripie­gamento sulla coscienza che ha sempre accompagnato gli atti folli dell’umanità. C’è sempre un uomo debole, in un angolo del mondo, che darà filo da torcere ai forti e ai temerari.

RIC: Platone doveva essere dello stesso avviso se fa dire ad Apollodoro, nella Cena: la forza di chi è cresciuto un povero diavolo sta nel fatto che egli non lo crede ma sa, con certezza, di esserlo.

MICHELE: S’interessa di filosofia?

RIC: No. Leggo Platone.

MICHELE:                      E che altro dice Platone nella sua famosa Cena certo più nobile della nostra?

RIC:                                Cose divine sull’amore. Parlano tutti d’amore quei grandi uomini, da Socrate ad Alcibiade da Aristofane a Pausania e dicono ancora una cosa singolare: che alle cene degli uomini da niente vanno senza invito gli uo­mini di valore.

MICHELE:                      Lei non se l’aspetterà ma ho fatto anch’io qual­che lettura e ho buona memoria — discutono anche sul­l’opinione di Omero che pare sostenga il contrario: che alle cene degli uomini di valore vanno senza invito gli uomini da niente.

GIOVANNA:                  Non capisco — c’è qualcuno di noi che non è sta­to invitato o forse si pensa di non invitare più qualcuno di noi?

A Max cade di mano una posata — si fa un silenzio spropor­zionato. Max fa per chinarsi a raccoglierla, Nina lo ferma.

NINA:                             Max, giacché ti trovi, raccoglimi la scarpa, s’è sfila­ta, dev’essere finita tra i piedi di Michele.

Max le dà un’occhiata disperata.

Michele si china rapido e trionfante tira su lui, scarna e po­sata.

NINA (col più bel sorriso a suo marito): Grazie, Michele. (la prende. Sfila ilpiede che teneva tra le gambe di Michele e lo rimette nella scarpa)

che Giovanna blatera.

Michele porge la posata a Max intanto che Giovanna blatera.

GIOVANNA: Con me non ci riuscirete a non invitarmi — vi avviso — rimango aggrappata a questa tavola...

MICHELE: . . .infatti non è una tavola, è una zattera. Dunque dicevamo — la Cina...

MAX (ripete adesso lugubremente): Appena la Cina avrà la potenza nucleare necessaria, non ci penserà su due vol­te — metti alle ore 23 e 58 di un mercoledì, di un mese che adesso non so, di un anno molto più prossimo di quanto noi pensiamo, da una base segreta cinese parti­ranno tre gruppi di missili a testata nucleare — per l’A­merica, la Russia, l’Europa. Pochi minuti dopo il mon­do civile avrà cessato di vivere. Che gliene importa alla Cina di noi e della nostra cultura? Va’ a parlare a un ci­nese del Mediterraneo, culla della civiltà.

FINE