MIDNIGHT INDIA EXPRESS
Bhopal. Cronaca di una tragedia dimenticata.
Monologo teatrale di Giampiero Orselli
TRAMA: Un monologo sulla tragedia di Bhopal in India, ma anche su Bollywood, gli hippies, i Magic Bus, il massacro di Bel Air, i Beatles….
(Nota: L’intero spettacolo deve essere corredato da immagini relative al racconto che il narratore userà in modo giocoso o con la seriosità di un conferenziere).
INDIA
L'India.
Tanti scrittori hanno provato a descriverla. Mircea Eliade, Gunther Grass, Herman Hesse, Carl Jung. Pier Paolo Pasolini. Hanno scritto tante belle parole, certo, ma per capire l'India devi andarci, camminare per le sue strade, aggirarti tra le bancarelle colorate dei suoi mercatini, entrare nelle capanne dei quartieri poveri, assistere alle mille cerimonie che gli indiani dedicano a ogni piccolo e grande avvenimento della loro vita, devi mangiare il cibo che ti offrono a ogni angolo e, soprattutto, devi respirare i mille odori che emanano dagli abiti della gente, dalla spazzatura dei quartieri poveri, dalle spezie sulle bancarelle dei venditori, dall'incenso dei templi, dalle pire delle cremazioni, dal liquame del Gange. Che è poi un odore solo: l'odore dell'India.
Ma adesso spostiamoci in una baraccopoli dei quartieri poveri, di una città qualunque, che tanto le baraccopoli sono uguali in tutti i paesi del mondo, sia che ti trovi alla periferia di Rio de Janeiro o in quella di Città del Capo.
Ha scritto Gunther Grass:
“Gli indiani che abitano nelle baraccopoli delle grandi città sembra che non dormano mai. A qualunque ora li trovi sulle soglie delle loro abitazioni, o ai bordi dei marciapiedi, oppure nelle loro stanzette dagli usci spalancati sulla via mentre cantano, lavorano, giocano a carte. E' questo il quartiere della gente povera ed il frastuono della notte è tanto frammisto con la musica e i tam-tam da farti credere che sia eternamente festa. I lampioni ad acetilene diffondono una luce stridente, l'odore di huka e il fumo dolciastro dell'oppio si confondono con gli indimenticabili profumi dei quartieri indiani: fiori di cannella, stalle umide, latte, riso bollito rancido, dolci confezionati con miele e fritti nel burro, e centinaia di altri odori impossibili da identificare, nei quali ti sembra a volte di riconoscere il profumo delle foglie di eucalipto, di olii grassi profumati, oppure l'aroma dei fiori di belladonna tanto simile a quello dell'incenso acerbo”.
L'India.
Le baraccopoli più incredibili e i laboratori di software più all'avanguardia del mondo.
L'India.
In bilico tra passato e futuro.
Proprio come Sajda, una ragazza indiana che vive alla periferia di una grande città.
Famiglia di gente povera che cerca di tirare avanti con grande dignità, come tutti in India.
Beh, oggi per Sajda è una giornata molto importante, perché deve andare a un colloquio di lavoro per fare la segretaria in una ditta d’informatica.
Sajda indossa l'abito più bello che possiede, non un abito tradizionale, intendiamoci, perché non si tratta di andare a una cerimonia religiosa, bensì un abito moderno, perché di computer stiamo parlando. Maglioncino rosa e fuseaux nero. Guardate come è elegante. Con quelle scarpe di vernice che le sono costate lo stipendio di due mesi come babysitter per quella famiglia di ricchi inglesi, che poi sono andati via e tutto è tornato come prima. Lunghe giornate a badare a sua madre e ai suoi fratelli che fanno a gara nel farla impazzire, ma adesso c’è questa nuova occasione di lavoro. Sajda rilegge l'indirizzo scritto sull' annuncio e si guarda allo specchio. Il trucco è a posto, non troppo pesante sennò la prendono per una poco di buono, ma neanche troppo leggero, che sennò che gusto c’è. Ecco così va bene. Un aggiustatina al ciuffo ribelle e incrociamo le dita. La ragazza è pronta per il suo appuntamento poi… una voce risuona nella casa. E’ sua madre che la chiama.
Fermiamo l’inquadratura. Sajda che sta uscendo di casa, tutta di fretta e sua madre che la blocca, perché questa non è la storia che adesso vi voglio raccontare, o perlomeno, non è la più importante, per cui lasciamola in sospeso e torniamo nella nostra baraccopoli indiana. E precisamente in quella di Orya Basti, ai margini della splendida città di Bhopal.
Procediamo per ordine.
Anzi, procediamo nel disordine più completo perché adesso vi voglio parlare di un altro luogo pieno di luci e di templi immensi.
Ladies and gentlemen: New York.
NEW YORK
New York. Non esiste posto più incredibile al mondo. New York con i suoi grattacieli, l'Empire State Building, il Rockefeller Center, il Flatiron ferro da stiro, il Chrysler, le Twin Towers, anzi no, le Twin Towers non ci sono più, Broadway con i suoi teatri, il palazzo dell'Onu, la subway, Little Italy, Chinatown, la Grand Central Station, Macy, il magazzino più grande del mondo, Central Park, il Dakota, dove è stato ucciso John Lennon, e poi Harlem, il jazz, il Bronx, il ponte di Brooklin, il Manahattan Bridge e tutte le altre meraviglie.
Al cinquantaduesimo piano del numero 270 di Park Avenue, la strada più newyorkese di New York, c'è la sede centrale di una delle più importanti industrie chimiche del mondo, la Union Carbide, e questa sede centrale e proprio come ve la immaginate voi, perché l'avete vista tante volte al cinema. Per arrivare agli uffici della direzione dovete prendere un ascensore, e indicare il piano con una perfetta pronuncia yankee, se possibile, "fifty two floor please”, “yes sir”. Gli uffici hanno le finestre che danno sullo sul grattacielo di fronte, dove ci sono uffici uguali a questo, con le macchinette dell'acqua, le segretarie col completino, gli occhiali e i capelli tirati indietro, che sembrano bruttine ma quando si tolgono gli occhiali e sciolgono i capelli diventano un misto tra Grace Kelly e Sharon Stone. Le segretarie sorridono e vi fanno entrare nella sala delle riunioni dove c'è una gigantesca tavola rotonda ma qui, invece di Re Artù, c’è Mr. Bigman, e al posto dei cavalieri ci sono sette manager con vestiti da tremila dollari indosso che decidono i destini dell'intero pianeta. Già, perché i destini dell'intero pianeta sono decisi in quel fazzoletto di terra chiamato Manhattan, e la nostra storia non fa eccezione alla regola.
Ma di cosa si occupava la Union Carbide?
UNION CARBIDE
Una lunga storia.
Pensate che la Carbide è nata all’inizio del Novecento dalla fusione di quattro industrie che fabbricavano fari per le prime automobili in circolazione. E più le macchine invadono le strade del mondo e più la Carbide si espande. Poi scoppia la guerra, e come sapete, la guerra è proprio una cuccagna per un’industria che si occupa di chimica.
La Carbide comincia a produrre elio per i primi palloni areostatici, poi leghe metalliche per carri armati, e poi pastiglie di carbone attivo per le maschere antigas. Un boom senza precedenti che si ripete uguale, se non maggiore allo scoppio della Seconda Guera Mondiale. La Carbide partecipa alla realizzazione della prima bomba atomica. Quella che cade su Hiroshima per interderci. La sua vocazione alla strage di innocenti in terra straniera è appena agli inizi.
Così la nostra multinazionale, di successo in successo, continua ad assorbire piccole imprese come un pescecane che si aggira negli oceani del capitalismo e ingurgita tutto quello che capita a tiro. In poco tempo la Carbide diviene una delle più importanti potenze industriali statunitensi, con 130 filiali in un quarantina di paesi, cinquecento centri di produzione e 120.000 impiegati. A metà degli anni Settanta, il suo giro d'affari ammonta a sette miliardi di dollari. La Carbide mette a disposizione dell’industria americana tutte le sostanze chimiche di cui ha bisogno: azoto, ossigeno, anidride carbonica, metano, etilene, propano, ammoniaca, leghe metalliche a base di cobalto, cromo e tungsteno, e un'intera gamma di oggetti in plastica di largo consumo. Otto casalinghe americane su dieci fanno la spesa con sacchetti di plastica con la losanga blu e bianca della Union Carbide. E poi bottigliette, involucri per surgelati, pellicole fotografiche, guaine per cavi telefonici, liquido antigelo, pile elettriche, silicone per chirurgia estetica, pneumatici, bombolette spray, diamanti sintetici eccetera eccetera…
E’ incredibile quante cose può produrre un’industria chimica per produrre dollari.
HARRY, HERBERT AND JOSEPH
Ma torniamo al cinquantaduesimo piano del numero 270 di Park Avenue.
Una mattina del 1954, nell'ufficio di Mr. Bigman arrivano tre brillanti giovanotti chiamati Harry, Herbert e Joseph. I primi due sono entomologhi, il terzo chimico. A loro, la direzione della Carbide affida un compito da un milione di dollari: inventare un insetticida che soppianti il vecchio DDT e conquisti tutti i nuovi mercati del mondo. Seguono anni di duro lavoro, in cui i nostri tre moschettieri fanno strage di cavie, pesci, api, conigli, le prime innocenti vittime della mire espansionistiche della grande multinazionale americana, ma non le ultime, come vedremo presto. Alla fine i tre piccoli chimici elaborano una pozione a base di “metilato dell'acido carboamnico shakerato con anaftolo” cui danno il nome di Experimental Insecticide Seven Seven. E' nato il Sevin, la nuova arma contro gli odiati parassiti delle piantagioni.
L'avventura può cominciare.
MUNOZ FROM AIRES
Per mandare avanti la storia, bisogna introdurre un nuovo personaggio.
Fernando Munoz da Buenos Aires.
Munoz proviene da un'agiata famiglia di Buenos Aires che lo manda a studiare agronomia negli Stati Uniti. In America, Munoz conquista una borsa di studio e il cuore di una ricca americana che lavora presso l'ambasciata degli Stati Uniti che gli fa ottenere la famosa carta verde per lavorare nel paese dello zio Sam. E' sempre la moglie di Munoz che manda il suo curriculum alla Union Carbide, una telefonatina di papi, e Munoz diventa un Carbider, così si chiamano i dipendenti della multinazionale, con uno stipendio mensile di cinquecento dollari. Munoz se la cava davvero bene. Un tipo così sarebbe capace di vendere frigoriferi agli eschimesi e, dopo un anno di prova, è incaricato della vendita di un nuovo prodotto. Il fantastico Sevin di Harry, Herbert e Joseph. Periodo di tirocinio in Sud America e poi via, verso il mercato più grande del mondo: la favolosa India.
CARBIDE EXPANSION
Nell'aprile del 1962, la Union Carbide compra un’intera pagina del prestigioso National Geographic Magazine per rivelare al mondo le sue intenzioni umanitarie. L'articolo si intitola: La scienza contribuisce a costruire un'India nuova ed è corredato da una foto in cui si vede un povero contadino di fronte a un campo arido che maneggia un aratro tirato da due buoi macilenti. Sullo sfondo, si stagliano le torri scintillanti di un grande impianto chimico:
Il testo dell’articolo recita così:
"Buoi che lavorano nei campi... il Gange eterno... elefanti coperti di gioielli: Oggi questi simboli dell'India antica coabitano con una nuova visione, dell'industria moderna. L'India ha costruito fabbriche per potenziare la propria economia e offrire ai suoi 450 milioni di abitanti la promessa di un luminoso avvenire. Ma l'India ha bisogno delle conoscenze tecnologiche del mondo occidentale. La Union Carbide è lieta di poter condividere la sua esperienza e le sue capacità con i cittadini di questo grande paese portando ogni giorno nuove meraviglie nella vostra vita"
LO STORICO ACCORDO
Un intervento decisamente tempestivo. Infatti, a metà degli anni Sessanta, le autorità indiane decidono di importare dall'estero i pesticidi che non sono in grado di produrre.
Una sera d'inverno del 1966, i principali responsabili della Carbide arrivano al palazzo del governo di Nuova Delhi per partecipare a un grande banchetto. Da una parte c’è Mr. Bigman con i suoi sette moschettieri e, dall’altra, i più alti funzionari del ministero dell'Agricoltura e della pianificazione industriale. Tutti si sono portati dietro le loro numerose famiglie, si sa in India le occasioni per mangiare abbondantemente non sono molte, e così la cena di lavoro diviene una baraonda con centinaia di invitati. Ma nonostante tutto quel frastuono, al momento dell’ammazzatè, di fronte a una nutrita schiera di giornalisti e fotografi, viene firmato uno storico accordo grazie al quale i contadini indiani avrebbero avuto le armi per combattere i pidocchi e altri insetti che devastano le colture. L’India avrebbe importato 1220 tonnellate di Sevin, in cambio la Carbide s'impegna a costruire uno stabilimento per fabbricare il pesticida direttamente in India.
Ancora una volta, l'uomo incaricato di occuparsi del progetto è il nostro Ferdinando Munoz.
INTERMEDIARI
L'India è il paese degli intermediari. Ve ne accorgete appena scesi dall'aereo. Non fate in tempo a uscire dell'aeroporto che siete accolti da centinaia di personaggi sorridenti che vi propongono ogni tipo di intermediazione per avere un taxi, un risciò, un pullman, una donna, un asino, un posto prenotato al ristorante, una tour guidato del Rajastan, un serpente boa addestrato, una scimmia ballerina, una riproduzione in plastica del Taj Mahal, un po' d'erba, un massaggio ajurvedico, un sitar. Quando poi riuscite a venir fuori dall'aeroporto e vi viene l'idea di prendere un taxi per farvi portare all'Hotel Hilton, che avete regolarmente prenotato dall'Italia, sappiate che il taxista cercherà di portarvi ovunque tranne che all'Hotel Hilton di Nuova Delhi. Lui prende percentuali da altri alberghi e allora vi dirà che l'Hotel Hilton ha preso fuoco quella notte stessa, oppure telefonerà all'albergo, facendo il numero di un suo amico che si spaccerà per portiere di notte e vi dirà che la vostra prenotazione è saltata e, se anche questo non basta, il vostro tassista incontrerà lungo la strada un suo complice vestito da poliziotto che vi spiegherà di non andare all'Hilton, perché di fronte all'albergo è scoppiata una sommossa terribile, e ci sono già decine di morti e feriti...
Insomma, benvenuti in India. Di solito dopo il primo impatto molti turisti scendono dal taxi tornano all'aeroporto a piedi, con le valigie, di corsa, e prendono il primo aereo che riporta a casa. Ma chi resiste ne ha di cose da scoprire e di intermediari da incontrare. Un po' come quello che entra nell'ufficio di Fernando Munoz una mattina di giugno del 1967.
Un ometto gentile e cerimonioso, come sono sempre gli indiani:
- Mi chiamo Santosh Dindayal. - dice a Munoz - e sono proprietario di molte imprese. Ho sentito del suo progetto di costruire una fabbrica di pesticidi e ho in mente un posto che farebbe proprio al caso suo. Ha mai sentito parlare di Bhopal?
BHOPAL
Bhopal?
No. Fernando Munoz non ha mai sentito parlare di Bhopal eppure l'India l'ha girata in lungo e in largo per vendere i suoi insetticidi. Delhi, Calcutta, Mumbay, Varanasi, meglio conosciuta come Benares, il posto più infetto dell'India, con i cadaveri galleggianti sul Gange e le sue fogne a cielo aperto. Ma Bhopal no, non l'ha mai sentita. Chiede informazioni all'ometto, che fa un bel sorriso indiano e comincia il suo racconto.
Nel Settecento, un generale afghano fondò a Bhopal la capitale del suo regno. Da allora la città s'è arricchita di magnifici palazzi, sublimi moschee, splendidi giardini, tanto che viene chiamata la Baghdad dell'India. La storia di Bhopal è una specie di Mille una Notte popolata da sovrane bellissime e ricchissimi maragià che traversavano la città sopra giganteschi elefanti bardati d'oro. Anche dopo l'indipendenza dell'India, il 15 agosto del 1947, la fortunata stella di Bhopal non smette di brillare. La città si catapulta in una nuova era di sviluppo determinata da una serie di vantaggi logistici, come la posizione geografica, la rete idrica, il passaggio della ferrovia. Tutti elementi che avranno un ruolo importante nella nostra storia.
Il misterioso visitatore di Munoz accende il sigaro poi spiega che le autorità del Madhya Pradesh hanno previsto la creazione di una zona industriale su alcuni terreni disponibili a Nord della capitale.
- Si può chiedere l'autorizzazione a costruirvi uno stabilimento.
Costo dell'impresa, cinquantamila dollari.
- A me basterà solo un piccola percentuale.
Fernando Munoz aguzza le orecchie poi dice:
- Bhopal? Puah.
L’ometto sorride:
- Chi disprezza compra.
Munoz chiede:
- Mr. Din don dan, dove si trova la sua Papalla?
- Bhopal, vorra dire signore?
- Sì vabbè, come diavolo si chiama?
- Si trova esattamente "in the very hearth of India" disse l'uomo puntandosi un dito sul petto:
- Proprio nel centro dell'India.
Munoz fa salire Mr. Dindanyal sulla sua Jaguar e via verso Bhopal.
VERSO BHOPAL
Durante il viaggio verso Bhopal, Munoz capisce cosa doveva aver provato il marinaio Marlow spingendosi all'interno della giungla in cerca del generale Kurt.
Delhi
Agra
Gwalior Shivpuri
Guna
Biora Bhopal
La Jaguar sfreccia a 120 all'ora lungo l'ultimo rettilineo, poi si deve fermare tre volte di fila: un elefante, una processione di mucche sacre, una famiglia di bisce che traversa la strada, sulle strisce, poi, ecco... Bhopal. Finalmente. Laggiù! Indicata con entusiasmo dall'ometto col sigaro.
Bhopal.
Ripete quel nome altre due volte, ebbro d'entusiasmo.
Bhopal. Bhopal.
La terra promessa.
A Munoz, la cittadina appare come una squalida periferia, ma lui non è lì come turista, a lui interessa un posto dove impiantare la sua fabbrica di dollari. E quel posto c'è.
- Ecco - dice Mr. Dundayal indicando una spiazzo di terra brulla subito fuori il paese - Quella è la spianata nera.
Munoz gira la testa a 360 gradi. La cerchia senza fine di capanne e baracche lungo tutta la periferia di Bhopal gli garantirebbe una riserva senza fondo di mano d'opera a buon mercato. A buonissimo mercato.
GLI ANNI SESSANTA
Gli anni Sessanta. Quando gli hippie andavano in India sui Magic Bus, i mitici pullman che partivano da Londra e arrivavano in India dopo aver attraversato tutta l’Europa, la Turchia, l’Iraq, l’Iran , l’Afghanistan e il Pakistan.
Un viaggio che oggi sarebbe impossibile, con tutte le guerre che ci sono lungo il cammino.
I leggendari Magic Bus.
I Who gli dedicarono persino una canzone:
“…I said, now I've got my Magic Bus (Too much, the Magic Bus) . I said, now I've got my Magic Bus (Too much, the Magic Bus)”.
Pare che gli hippies fumassero spinelli per tutto il viaggio. Dopo un po’ l’aria era così impregnata di hashish che gli autisti cominciavano a sbandare. Generalmente succedeva sulle montagne dell’Afhanistan, lungo i precipizi. Ve lo immaginate… Sempre meno rischioso che un viaggio in Trenitalia, comunque.
Formidabili quegli anni.
Nel 1968 i Beatles decisero di andare in India. E siccome i Beatles decisero di andare in India… tutti volevano andare in India.
Quella dei Beatles in India è davvero una storia incredibile che dà vita a sempre nuove leggende.
Beh… più o meno è andata così.
Nell’agosto del 1967, dietro suggerimento di Pattie Boyd, la bellissima moglie di George Harrison, i “fab fours” assistettero a una conferenza del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi, a Londra sulla meditazione trascendentale.
I Beatles si entusiasmarono a tal punto a quella paratica che decisero di andare in India al seguito del Maharishi.
John Lennon, George Harrison e consorti arrivarono a Delhi il 16 febbraio 1968, e presero un taxi per l'ashram di Rishikesh, lontano 150 miglia.
Paul McCartney e la sua compagna, l’attrice Jane Asher, più Ringo Starr con la moglie Maureen arrivarono quattro giorni dopo.
Nello stesso periodo si trovavano all'ashram del Maharishi, in quel di Rishikesh, altre celebrità dell'epoca, tra cui Mia Farrow, insieme alla sorella Prudence e al fratello John, Mike Love dei Beach Boys e Donovan.
All’epoca Mia Farrow aveva da poco divorziato da Frank Sinatra. La coppia più improbabile della storia. Una gangster di Las Vegas con un’esile hippie californiana. Due tipi inconciliabili. Un po’ come se si sposassero, che ne so, Giulio Andreotti e Belen. Era chiaro che la loro storia non sarebbe durata.
Ma le stranezze non finiscono qui. Prima di andare in India Mia Farrow era stata a New York per girare Rosemarie Baby, diretta da Roman Polansky. Un film maledetto, come il suo autore, che racconta la storia di un attore che vende l’anima al diavolo in cambio del successo.
Sapete dove fu ambientato? Al Dakota, il complesso residenziale dove anni dopo andrà ad abitare John Lennon con Joko Ono e davanti al quale verrà ucciso da uno squilibrato l’8 dicembre del 1980.
Il Dakota è un bellissimo edificio che si trova lungo Central Park, Settanduesima West, a New York. Si chiama così perché fu costruito su un cimitero indiano. Stephen King Ci potrebbe scrivere una bella storia, ma ancora una volta la realtà a superato la fantasia.
Vi dicevo che il film Rosemarie Baby fu diretto da Roman Polansky. Beh, anche lui non è rimasto indenne dalla maledizione del Dakota.
L’anno seguente le riprese del film, l'8 agosto 1969, la moglie di Roman Polansky, la bellissima attrice inglese Sharon Tate era nella sa villa di Los Angeles che aspettava l’arrivo del marito da Londra. Sharon era incinta e mancavano solo due settimane alla nascita del suo primo figlio. Per non stare sola aveva invitato quattro amici.
Quella sera la villa di Sharon Tate fu presa d’assalto dai membri della setta satanica fondato da Charles Manson, un musicista rock fallito.
I corpi massacrati di Sharon e dei suoi amici furono scoperti soltanto il giorno dopo dalla cameriera. Il rapporto del coroner riguardante Sharon Tate riporta che fu pugnalata sedici volte.
Con uno straccio intriso del sangue dell'attrice, gli assassini della setta di Manson scrissero sulle parteti Piggies ed Helter Skelter i titoli di due canzoni del White Album dei Beatles che erano state scritte durante il soggiorno all’ashram del Maharishi.
Incredibile.
Già, le canzoni scritte dai Beatles in India. La più tenera riguarda proprio la sorella di Mia Farrow, Prudence, che stava sempre chiusa nell‘ashram a meditare. Per farla uscire John Lennon le scrisse una ballata intitolata Dear Prodence:
“Dear Prudence, won't you come out to play? Dear Prudence, greet the brand new day. The sun is up, the sky is blue It's beautiful and so are you Dear Prudence, won't you come out to play?
La vita all’ashram doveva essere un po’ noiosa. Sempre meditare, meditare, meditare. Il menù era composto solo di riso e fagioli. Ringo se la diede a gambe quasi subito. Gli mancavano troppo la birra e il wiskey della vecchia Inghilterra.
In aprile, Lennon ed Harrison lasciarono l'ashram all'improvviso. C’è chi dice che se ne andarono indignati dal fatto che il Maharishi fosse troppo interessato ai soldi. Ma c’è chi insinua che fosse ancor più interessato a qualcos’altro. Pare infatti che il santone, che si proclamava casto, avesse fatto delle avances a Mia Farrow.
Mah… chissà…
La notte prima della partenza Lennon e Harrison rimasero svegli a discutere la faccenda risolvendosi a partire immediatamente il mattino successivo. Fecero i bagagli in fretta e quando Maharishi chiese loro perché avessero intenzione di partire Lennon rispose:
“Sei tu il guru, dovresti saperlo”.
Il gruppo ebbe difficoltà a trovare dei taxi, principalmente perché il Maharishi aveva dato istruzioni ai locali di non aiutare i fuggitivi. Infine trovarono un paio d’auto che continuavano a guastarsi, come se fossero state stregate da qualche sortilegio.
Gli Harrison si fermarono a Delhi per qualche tempo, mentre i Lennon si imbarcarono sul primo volo disponibile. Durante il viaggio, John, ubriaco, confessò alla moglie in lacrime tutta la lunga serie delle proprie infedeltà.
Il loro matrimonio finì di lì a poco.
Ah… le maledizioni degli indiani, quelli del cimitero di New York e quelli del ashram del Maharishi.
AVANTI TUTTA!
Siamo nella primavera del 1969. Gli Americani non sono ancora arrivati sulla Luna ma il pianeta terra lo hanno conquistato tutto, soprattutto per quanto riguarda il settore commerciale.
Il 4 maggio 1969, il governo indiano concede alla Carbide una licenza per la produzione di 5000 tonnellate di pesticidi. La grande multinazionale può così produrre direttamente il Sevin nel luogo dove lo avrebbe commercializzato, con tutti i vantaggi che potete bene immaginare.
Munoz è così raggiante che organizza una grande festa al bar del Grand Hotel di Calcutta. Ma, il mattino dopo, passata l’euforia e rimasto il mal di testa, cominciano a sorgere i primi dubbi:
- Cinquemila tonnellate? Davvero troppe. - dice Munoz all’immagine riflessa nello specchio del bagno.
Egli conosce abbastanza bene l'India, e soprattutto il suo mestiere di venditore, da rendersi conto che quel mercato, anche se immenso, non ne avrebbe assorbito neanche la metà. Nonostante le imponenti campagne pubblicitarie, i contadini indiani sono rimasti fedeli ai prodotti che già conoscono come il micidiale DDT.
Inoltre, quell'anno, i raccolti sono andati male a causa dei monsoni prima e della siccità dopo. Tempi duri per i contadini, per i venditori di insetticidi e per gli insetti che non sanno bene cosa rosicchiare. Insomma tempi duri per tutti.
Munoz decide che è il momento di fare due chiacchiere, “face to face”, con Mr. Bigman e prende il pirmo volo per New York.
CALCUTTA - NEW YORK
Passare da Calcutta a New York nel giro di poche ore. Beh, un bel salto davvero, anche se le differenze non sono così evidenti come potrebbe sembrare.
Tutti e due le metropoli sono piene di splendore e miseria, dimore miliardarie e baraccopoli fatiscenti e, in tutte e due, trovi splendidi templi: quelli dell'India sono dedicati a un'infinita di dei, mentre quelli di New York sono dedicati a un dio solo: il denaro.
Ma in fatto di strani record mondiali l'India riesce a battere persino New York.
Per esempio, l'uomo con i baffi più lunghi del mondo: tre metri e quaranta.
O, per restare in argomento, il parrucchiere che ha servito più clienti, Ramzan Ali, di Delhi, che ne ha rasato 1200 in 102 ore di lavoro consecutivo.
Oppure: l'uomo che ha strisciato per terra per 1200 chilometri, quello che si è mantenuto su un piede solo per 65 ore e 50 minuti, o quello che ha stretto 32.000 mani in 130 ore. Poi c'è il campione mondiale di rutti (92 al minuto). Il maggior mangiatore di verdura tritata (una tonnellata in 130 ore). Il detentore del record del mondo di battitura a macchina (210 ore ininterrotte). Altri record strabilianti: le 300.00 comparse del film Ghandi, i quasi due milioni di dipendenti delle Ferrovie Statali Indiane, i 100 milioni di partecipanti alla grande festa del Kumba Mela.
E infine il record mondiale più terribile di tutti, ma per continuare a raccontarvelo dobbiamo tornare al grattacielo della Union Carbide.
PARK AVENUE
Quando Munoz arriva al cinquantaduesimo piano di Park Avenue, le segretarie sono festose ma, via via che si avvicina alla direzione sorridono sempre meno e le gonne si allungano come i musi sulle loro facce perfettamente truccate.
Munoz viene fatto entrare nella sala riunioni e lì non sorride proprio nessuno. Mr. Bigman è seduto sul suo trono similpelle, in un'incredibile controluce newyorkese con annesso profilo gargoyle del Chrysler Building.
I sette moschettieri oscillano le teste e guardano le loro stilografiche d'oro da mille dollari.
Munoz entra. Nessuno lo invita a sedersi anche perché tutte le sedie manageriali sono occupate. Come uno scolaretto, rimane ai piedi della tavolata e comincia il suo resoconto sulla situazione in India. Una lunga storia che si può riassumere con tre sole parole.
- 5000 tonnellate sono troppe, secondo me 2000 bastano.
Silenzio di tomba. I manager non osano guardare verso il boss-faccia-di-marmo e rigirano le stilografiche che, nel frattempo, sono diventate da duemila dollari per un’improvvisa impennata della borsa. Ventunmila dollari di penne che vorticano nell'aria. Poi sul faccione di Mr. Bigman appare un sorriso e l'atmosfera si rischiara. Il primo moschettiere sorride, poi il secondo, il terzo e via tutti quanti. Una bella risata corale risuona nella sala poi un gesto di Mr. Bigman e torna il silenzio.
Il boss s’alza, prende sotto braccio Munoz e lo porta nel suo ufficio. Questa volta gli permette persino di sedersi di fronte alla scrivania e gli dice:
- La licenza del governo indiano riguarda una produzione di 5000 tonnellate di pesticidi all'anno. Abbiamo quindi il dovere di produrre 5000 tonnellate l'anno. Non vorrà deludere le aspettative del governo indiano e di Indira Ghandi in particolare.
- Ma se si procedesse per gradi forse sarebbe meglio. - prova a obiettare il povero Munoz.
- Per gradi. Ah ah ah. - risponde Mr. Bigman. - La Carbide non procede mai per gradi ma va subito dritta allo scopo. Se dobbiamo produrre 5000 tonnellate all'anno di pesticida produrremo 5000 tonnellate di pesticida. Un wiskino?
Munoz obbietta che una produzione così alta richiede lo stoccaggio di una grande quantità di isocianato di metile, il micidiale Mic.
- Una situazione ad alto rischio che in caso di incidente…
Munoz non riesce a finire la frase. Mr. Bigman gli mette un paio di sigari nel taschino e lo accompagna alla porta.
La segretaria che lo sospinge verso l’ascensore è vecchia e brutta come la strega di Biancaneve.
BOLLYWOOD
In India c'è la più grande fabbrica di sogni esistente al mondo.
Facciamo un salto indietro nel tempo.
1896, Bombay. Due francesi si piazzano lungo una delle vie principali con un immenso armamentario. I passanti li guardano preoccupati. Cosa stanno facendo quei tizi e cos’è quello strano aggeggio che puntano verso il centro della strada? Una mitragliatrice? Già, ma i proiettili dove sono? E il grilletto? Mistero!
I due Lumière dovettero proprio fare colpo sugli indiani con la loro macchina da presa perché negli anni la produzione locale per il grande schermo è diventata Bollywood, la più fiorente industria cinematografica del pianeta: qualcosa come 800 film l'anno, che escono dagli studi di Mumbay. Un patchwork in bilico tra musical, spy-story e melense storie d’amore.
Chi di voi ha affrontato una traversata aerea verso il subcontinente indiano avrà probabilmente avuto a che fare con polpettoni sentimentali in forma di musical o b-movie: la quantità influisce sulla qualità, è inevitabile, ma sono lungometraggi che offrono comunque uno spaccato del paese, delle sue aspettative e dei sogni dei suoi abitanti.
Ma adesso passiamo dai colori sfavillanti di Bollywood a un luogo così desolato da essere ribattezzato “la spianata nera”. Un nome che è tutto un programma.
La spianata si trova a poche decine di metri dall’Orya Basti, la principale baraccopoli di Bhopal.
Vi ricordate le parole di Gunther Grass?
"Le baraccopoli indiane, un luogo dove sembra che la gente non dorma mai. Come una lanterna magica sempre accesa, che proietta immagini di tutti i colori ventiquattrore al giorno".
Quando sulla spianata nera arrivano i tecnici americani con i loro strumenti di rilevazione, sull'Orya Basti appare un grosso punto interrogativo. Tutti si chiedono:
- Cosa mai stanno progettando? Un Luna Park, un tempio buddista, un centro di produzione cinematografica come quello di Mumbay?
Dopo Bollywood, Bhopallywood. Beh... questa è l'ipotesi che fa più sognare tutti quanti. Ogni abitante dell'Orya Basti si immagina già una stella del cinema. C'è il macellaio che con quella faccia può diventare un grande cattivo. E sua figlia? Che splendida principessa! E il ciabattino? Agghindato un po', una bella lucidatina ai baffi, e una parte di principe azzurro non glielo nega nessuno. Tutti fanno ipotesi, e le voci cominciano a girare.
Le cose si fanno più chiare quando il cantiere avvia la ricerca di mano d'opera.
Il mattino della chiamata centinaia di persone si presentano all'ufficio di Munoz, provenienti dalle baracche di Orya Basti.
Munoz dice a tutti la stessa cosa:
- Venti rupie al giorno, più un casco, una tuta con le insegne della Carbide e un pezzo di sapone a settimana.
A quegli uomini non sembra vero. Si chinano tutti a baciare le scarpe del dio venuto dal Nuovo Mondo a portare benessere e prosperità. Solo due lebbrosi sono respinti e si allontanano profferendo oscure ed efficaci maledizioni.
Per tutti gli altri che non sanno come sfamare le loro famiglie la tuta della Carbide appare come un manto dorato piovuto dal cielo. Con che felicità ognuno indossa la tuta azzurra con la losanga prima di mettersi al lavoro.
Nelle povere baracche dell'Orya Basti sembra arrivato il Carnevale.
CARBIDERS
Per un abitante di Bhopal essere assunto alla Carbide è come per un giovane citrullo italiano entrare nella casa del Grande Fratello. Il sogno di tutta una vita. La felicità raggiunta. Il paradiso.
Che si faccia parte dei vertici o del personale più umile, lavorare per la Carbide vuol dire appartenere a una casta superiore. Un ingegnere impiegato alla Carbide guadagna il doppio di un funzionario dell'amministrazione indiana dello stesso livello. Ciò gli permette di avere una casa, un'auto, un servitore e di viaggiare su treni di lusso con l'aria condizionata.
Tutti, a Bhopal, sognano di avere un famigliare che lavori per la società americana. La parola Carbide sul biglietto da visita rappresenta un lasciapassare che apre tutte le porte. Un po' come la formula magica di Alì Babà. Già ma chi sono i quaranta ladroni? Gli abitanti di Bhopal lo scopriranno presto.
LA ZATTERA DEI VELENI
Adesso la fabbrica è terminata. L'innesto non tarda ad arrivare. Un carico di sedici fusti contenenti ciascuno duecento litri di isocianato di metile, il terribile Mic. Arrivano via mare a Bombay, sono caricati su due camion, e cominciano il viaggio dal porto fino alla spianata nera di Bhopal. Mille chilometri d'angoscia allo stato puro. Non so se avete mai percorso una strada in India. E' come giocare alla Play Station. Tu sei lì con i pulsanti in mano e ti appare di tutto: carretti trainati da cavalli, bufali, bambini nudi che giocano a saltarello, elefanti di tutti i colori, risciò, taxi, pullman, motociclette, scimmie danzanti, predicatori ambulanti, jeep cariche di turisti contromano, processioni di hare-krisna in corsia di sorpasso, serpenti di tutte le misure e di tutti colori, ammaestrati e no, pavoni, gru, capre zoppe, tigri, Moira Orfei col parrucchiere al seguito. E' incredibile quello che puoi incontrare lungo una strada dell'India. Per non parlare degli ostacoli naturali. Alberi abbattuti, buche nel fango, che se non hai gli ammortizzatori di una Land Rover picchi la testa contro il tettuccio dell'auto e, se sei in moto, voli direttamente sulla vacca sacra che ti è davanti e rischi pure l'oltraggio per vilipendio alla religione. E, come se non bastasse, gli indiani hanno la passione per i clacson. Nelle auto indiane il clacson costa più del resto della vettura. Ci sono clacson di tutti i tipi. Quelli che imitano il barrito dell'elefante, quelli che fanno la Cavalcata delle Valchirie, tipo Apocalypse Now, quelli che simulano un'esplosione atomica. Aggiungete che un autista indiano suona il clacson una media di cento volte al minuto. I decibel sono simili a quelli di un concerto degli U2. Immaginatevi i poveretti che guidavano i camion con i fusti di materiale radioattivo in mezzo a tutto quel casino.
Ma tutto questo era niente rispetto al pericolo del sole battente, che faceva bollire i sedici fusti. Roba che se saltava il tappo c'era da fare una strage nel raggio di chilometri.
I due poveri autisti della Carbide viaggiano per quaranta ore di fila, a una temperatura di 45 gradi. Nei mesi seguenti, quel primo convoglio, è seguito da decine d'altri e migliaia di litri di isocianato di metile vanno a riempire le tre cisterne sulla spianata nera.
INAUGURAZIONE
Poi finalmente... l'inaugurazione.
Una data storica per Bhopal.
4 maggio 1980.
La città entra di diritto a far parte del grande mondo dello sfruttamento multinazionale della mano d'opera. Un orgoglio mica da poco. E sono passati ben 13 anni dal giorno in cui la Jaguar argentata di Munoz ha percorso per la prima volta la spianata nera.
Una bella cerimonia sulla spianata nera. Discorsi, premiazioni, distribuzione di ghirlande e dolciumi: la società con la losanga ha invitato per la circostanza centinaia di persone. Autorità locali, ministri, alti funzionari, dirigenti della società, personale dei diversi reparti, dai capisquadra ai più modesti operai, si trovano riuniti ai piedi della selva di tubature e serbatoi.
La Union Carbide di Bhopal, la grande cattedrale gotica dell'industria chimica indo-americana.
L'ottava meraviglia del mondo.
Alla festa è venuto il nuovo Mr. Bigman della Union Carbide. Mr. Warren Anderson, un modesto falegname svedese immigrato a Brooklin che, a cinquantanove anni, impersona brillantemente la realizzazione del sogno americano. Pur avendo un semplice diploma in chimica è riuscito ad arrivare al vertice di un impero di 700 fabbriche che impiegavano 120.000 persone in 38 paesi.
SECURITY
Prima di tornare in America, Mr. Warren Anderson nomina un suo vice da lasciare nella sede di Bhopal, tale Mr. Woomer che si trova ad affrontare il problema della sicurezza in fabbrica. In americano si chiama "mission impossibile". Gli operai indiani non credono all'efficacia di un casco, di una maschera, di un impianto antincendio, bensì a quella di una dalle loro molte divinità. La fabbrica si riempie di immagini di Ram, Ganesh, Vishnu, Shiva, Nanak, e soprattutto di Vishwakarma, gigantesco dio che tutto vede, tutto controlla, tutto protegge.
Altro che occhiali contro le radiazioni.
E infatti il primo morto non tarda ad arrivare. Le cose sono andate più o meno così.
ASHRAF
Il musulmano Mohammed Ashraf cinque volte al giorno abbandona il posto di lavoro per inginocchiarsi sul tappetino e recitare le preghiere. Ashraf è figlio di un venditore del bazar di Bhopal e deve tutto alla Carbide, a cominciare dal suo matrimonio con la figlia di un mercante di tessuti di Kampur, onorato di avere per genero un tecnico della prestigiosa multinazionale. La moglie di Ashraf è una giovane di nome Saja che gli ha dato due figli, due futuri carbiders.
La favola bella di Ashraf finisce il giorno che deve sostituire una flangia difettosa tra due elementi di una tubatura. Un lavoro di routine ma, mentre Ashraf sta sostituendo il pezzo, vede attraverso la maschera un piccolo spruzzo di fosgene liquido uscire dalla tubatura. Qualche goccia gli schizza sul pullover. Ashraf corre nella doccia per lavare l'indumento e qui commette un errore. Si toglie la maschera. Il calore del petto gli vaporizza verso le narici le gocce di fosgene che impregnano la lana del pullover. Sul momento Ashraf non ha alcun disturbo. Lui non sa che il fosgene uccide a scoppio ritardato. Dapprima suscita una specie di euforia.
- Non avevo mai visto mio marito così loquace. - racconterà Sajda allo scrittore Dominique Lapierre che raccolse la sua testimonianza nello splendido libro “Mezzanotte e cinque a Bhopal:
- Pareva aver dimenticato l'incidente. Ci portò sulle rive della Narma a visitare una casetta di campagna che voleva comprare. Era allegro come nei primi giorni del nostro fidanzamento. Poi all'improvviso Ashraf crollò a terra con i polmoni invasi da un brutale afflusso di secrezioni. Vomitò un fiotto di liquido trasparente misto a sangue. In preda al panico Sajda chiamò la fabbrica che lo fece trasportare in ambulanza al reparto di terapia intensiva dell'ospedale Hamidia, dono della Carbide. L'agonia si prolungò. La secrezione polmonare diventava sempre più abbondante. Ashraf ne vomitava fino a due litri all'ora. Ben presto non ebbe neanche più la forza di espettorare.
Prima di morire Ahraf vuole vedere i suoi due figli. Prende il più piccolo in braccio e gli chiede:
- Figliolo, ti piacerebbe andare a pesca?
Lo sforzo di pronunciare quella frase gli scatena un violento attacco di tosse cui segue un rantolo e l'ultimo respiro.
La storia della bella fabbrica portatrice di felicità finisce quel giorno.
Era il 25 dicembre del 1981. Notte di Natale.
PRESS
Giornalisti si nasce o si diventa? Mah. E non sto parlando del fatto che quasi tutti i giovani giornalisti oggi in Italia sono figli di giornalisti, nel senso che li ha piazzati lì il babbo, a prescindere delle loro capacità professionali. Mi sto riferendo al quel qualcosa che i giornalisti veri hanno nel sangue, e che il personaggio che vi sto per presentare aveva di certo.
Rajkumar Keswani, all'età di 16 anni, lascia la scuola per collaborare a un giornale sportivo, poi passa alla cronaca del Bhopal Post dove si fa le ossa seguendo i piccoli e grandi avvenimenti della sua città.
Quando il Post fallisce Keswani dà fondo ai suoi risparmi per creare un settimanale col quale denunciare le ingiustizie che subiscono gli abitanti dei quartieri poveri di Bhopal.
Insomma. Un giornalista vero. Cosa vuol dire un giornalista vero? Beh, più o meno un tizio che non guarda in faccia a nessuno, non ha padroni, né tessere di partito, e vuole solo raccontare la verità, anche se scomoda. Insomma. L'esatto opposto dei giornalisti che siamo abituati a vedere nei nostri telegiornali.
Un tipo del genere che abita a Bhopal, secondo voi dove va a sbattere prima o poi? Esatto. Va a sbattere laggiù, sulla spianata nera, dove c'è quella ammasso di ferraglia che produce insetticidi e diserbanti ma, da qualche tempo, produce anche morte. Già, perché un cadavere c'è già scappato, e altri si annunciano. Keswani va a ficcare il naso dove non dovrebbe, anzi, dove dovrebbe visto che è un giornalista serio, e un giornalista serio è uno che va a ficcare il naso anche dove non dovrebbe. Soprattutto dove non dovrebbe.
Per Keswani è arrivato il momento di usare l'unica arma che ha a disposizione. La penna.
Il primo articolo dedicato alla Union Carbide e alla minaccia che rappresenta per la comunità di Bhopal, esce il 27 settembre del 1982 e si intitola:
"Per favore, risparmiate la nostra città!"
Comincia così:
"Voi mettete in pericolo tutta la zona a cominciare dai quartieri poveri stretti a ridosso dei muri del vostro stabilimento."
Poi il giornalista si rivolge ai suoi concittadini esortandoli a reagire e conclude l'articolo con la frase:
"Se un giorno vi capiterà una disgrazia non dite che non lo sapevate".
Ma per gli abitanti di Bhopal, il sogno di poter lavorare un giorno alla Carbide è molto più grande della paura di venirne distrutti. E così Keswani deve tornare alla carica con un secondo articolo ancora più battagliero:
Prima pagina del Rapat Weekly, 30 settembre 1982:
"Non è lontano il giorno in cui Bhopal sarà una città morta in cui solo pietre sparse e ruderi potranno testimoniare la sua tragica fine"
Niente. La nostra Cassandra continua a predicare al deserto, così decide di accettare l'offerta di un grande quotidiano a Indore. Keswani fa i bagagli, sale sul treno, osserva le torri fumanti della Union Carbide, e più oltre la distesa delle baracche dell'Orya Basti, e le manda al diavolo entrambe.
L’ISPEZIONE
Keswani non è il solo ad accorgersi che la Carbide di Bhopal è una bomba atomica innescata. Proprio in quei giorni arrivano dalla sede centrale della Carbide tre ispettori che, alla fine della loro vacanza indiana, segnalano alla direzione che:
"Le immediate vicinanze dello stabilimento sono disseminate di vecchi bidoni sporchi di grasso, tubi fuori uso, pozzanghere di olio lubrificante e di scorie chimiche suscettibili di provocare incendi. Inoltre: scarsa professionalità degli allacciamenti, deformazione di parte delle apparecchiature, corrosione dei circuiti elettrici, mancanza di estintori automatici nelle zone di produzione del fosgene, rischi di esplosione nel camino di evacuazione dei gas, mancanza di indicatori di pressione, rotture di canalizzazioni e di giunti di tenuta, assenza di scarico a terra dei serbatoi di Mic, collocazione inappropriata della attrezzature di pronto soccorso, mancanza di vie di fuga".
Alla lista di negligenze tecniche si aggiunge quella delle negligenze umane, ancora più lunga e inquietante e non resta che affidarsi alle molte divinità appese ai tubi.
Inoltre il mercato indiano non è in grado di assorbire tutta quella quantità di insetticida e presto gli affari della Carbide cominciano e mettersi male. Il primo intervento per risparmiare soldi, come al solito, investe il settore più importante: la sicurezza. La produzione viene sospesa per lunghi periodi durante i quali vengono disattivati i principali sistemi di sicurezza con la convinzione che in uno stabilimento fermo non possono verificarsi incidenti. Interrompere la refrigerazione dei serbatoi permette di risparmiare qualche centinaio di rupie di corrente elettrica e di gas refrigerante al giorno ma trascura il fatto che l'isocianato di metile deve essere conservato a una temperatura costante vicina a zero gradi centigradi. A Bhopal la temperatura non scende mai al di sotto dei 15 o 20 gradi, perfino in inverno. Non solo: per risparmiare qualche altro spicciolo viene spenta la fiamma della torre di combustione che deve incenerire i gas tossici in caso d'incidente e disattivato il cilindro della torre di lavaggio che serve a neutralizzare eventuali fughe diluendo i gas in un bagno di soda caustica.
Bingo.
BUSINESS IS BUSINESS
A metà degli anni Ottanta, la Carbide di Bhopal perde ormai milioni di dollari. Le prospettive di vendita del Sevin non superano le mille tonnellate, ossia la metà dell'anno precedente. Solo un quinto della capacità di produzione totale. Un disastro.
A New York decidono che la fabbrica di Bhopal deve essere trasferita in un luogo più redditizio del Terzo Mondo. Il Brasile ad esempio. Mr. Bigman vuole sapere in che modo e a quali costi si può effettuare il trasloco, tenuto conto del prezzo moderato della mano d'opera in India.
Il compito di radunare le informazioni necessarie è affidato all'ingegnere indù Umesh Nanda, che nove anni prima aveva realizzato il suo sogno di diventare un carbider.
Ora il suo compito è quello di smantellarlo, il sogno.
Nanda fa un'accurata indagine della situazione e manda un telex alla direzione di New York:
"Lo smontaggio e la spedizione via mare dei laboratori non comporta problemi. Diversa appare invece la situazione per il reparto del Mic a causa dei danni prodotti da numerose e gravi corrosioni delle struttura e dei contenitori".
Nel frattempo è tornato a Bhopal Keswani. Ve lo ricordate? Il giornalista. che aveva scritto tutti quegli articoli che denunciavano il pericolo della fabbrica di Bhopal per l'intera comunità. Le notizie sempre più allarmanti ricevute dai suoi informatori all'interno dello stabilimento lo spingono a lanciare un ennesimo grido d'allarme che intitola: "Bhopal sull'orlo del disastro", ma ancora una volta nessuno sembra disposto a prenderlo sul serio.
2 DICEMBRE 1984 - UN MATRIMONIO INDIANO
Poi stanotte, all'Orya Basti c'è una grande festa. Basta coi cattivi pensieri. Un matrimonio. E in India, quando ci sono matrimoni e funerali, sembra che si fermi il modo intero. La vitalità degli indiani trova una giustificazione e non ha più freni, ammesso che li abbia mai avuti, si scatena, scorre per le strade, travolge tutto.
In passato gli sposi si vedevano solamente durante la cerimonia, oggi invece lo sposo si reca prima a casa della sposa. Quando è possibile va in macchina o a cavallo, in segno di potere, sennò a piedi, se è povero. E questo è il nostro caso. La donna prepara dolci a base di miele, burro fuso, banane e riso per accoglierlo nel migliore dei modi. Lui è vestito di bianco e porta al collo grandi ghirlande di fiori. Lei invece indossa un sahari colorato e dai capelli le scendono ornamenti d’oro. Entrambi vengono unti con unguenti profumati e con polvere di zafferano. Lo sposo è sempre sbarbato e viene bagnato in viso con latte e acqua, mentre la sposa ha la testa ricoperta di vermiglio nella scriminatura dei capelli. Viene acceso il fuoco sacro per i sacrifici. Lo sposo tocca il cuore della sposa e le lega un ornamento al collo, che non dovrà togliersi mai, poi versa del latte nel Gange. Quando arrivano i parenti con i regali, è un carnevale che neanche a Rio de Janeiro...
Nessuno sa fare festa come chi non ha niente per fare festa. E stanotte all’Orya Basti c’è proprio un bel matrimonio. Quattordici anni lo sposo, tredici la sposa, l’età giusta, forse un po’ giovani, ma no, va bene così, lasciamoli fare.
AROUND MIDNIGHT
Questa notte, nella fabbrica sulla spianata nera sono rimasti soltanto Dey il caporeparto, e sei addetti alla manutenzione, riuniti nell'antro della mensa.
Quei sei poveracci rappresentano l'intera India. Il primo Alì è musulmano, il secondo Ravi è sikh, il terzo Sigh è indù, il quarto Kabir è jajinista, il quinto e il sesto sono padre e figlio e di loro non si sa nulla, come di tanta parte della gente che vagola per le strade dell'India. Non si sa chi sono, da dove vengono, dove vanno. Li incroci per un attimo in quelle strade di fiume di gente e poi...
E' quasi mezzanotte. I sette sono preoccupati. Da qualche tempo gira voce che la fabbrica di Bhopal ha i giorni contati. Non produce più utili. Vogliono trasferirla altrove. In Brasile. Dov'è il Brasile? Nessuno dei sei ne ha la minima idea.
Lontano. Di certo. Tutto è lontano da Bhopal. Perché Bhopal è nel cuore dell'India, e l'India è così grande che tutto ciò che non è India è lontano da Bhopal.
All'improvviso Alì, il musulmano, si alza in piedi comincia ad annusare l'aria come un cane:
- Ehi ragazzi, non sentite qualcosa di strano?
- Che?
- Questo odore.
- Che odore?
- Sembrano cavoli bolliti.
- Il Mic!
- Ma che dici? – esclama Dey - La produzione è ferma. Come può esserci odore di Mic. Secondo me ci stanno preparando zuppa di cavoli giù alla mensa.
- La mensa? Ma anche la mensa è ferma da quando è cessata la produzione. No. Qui c'è qualcosa che non va.
E' intanto dalla spianata arriva il frastuono della festa di nozze.
- Senti come si divertono laggiù.
- Beati loro.
Poi una tubatura arrugginita emette un forte rutto. Qualcosa si muove nelle viscere della bomba atomica. La certezza che non stia succedendo niente di buono arriva poco dopo. C’è qualcosa nell’aria che fa lacrimare gli occhi.
- Ragazzi, sarà meglio fare un giretto nella zona lavaggio. - dice Dey – Due volontari.
Si offrono Ravi, e Alì.
- Sì, ma prima mettete le maschere. Non si sa mai.
- Maschere? Quali maschere? – dice Ravi - Non siamo mica alla festa del paese.
- Le maschere antigas, cretino.
- Ah già quelle. E chi le ha mai indossate? Ci pensa Visnù a proteggermi.
In pochi minuti, Alì e Ravi raggiungono le tubature. L'odore è sempre più forte. I due ascoltano l'acqua che circola nelle canalizzazioni. Dirigono il fascio di luce verso il groviglio di tubi arrugginiti. Scrutano ogni pannello, ogni valvola, ogni flangia. All'improvviso, Ravi scorge intorno a una valvola di scarico un liquido scuro che gorgoglia.
- Guarda. Lassù c'è una fuga di gas!
I due tornano di corsa nella sala di controllo.
Gli altri stanno sorseggiando il loro tea. Già. Il sacrosanto intervallo per il tea. Trentasette anni dopo che i colonizzatori inglesi se ne sono andati, nessun indiano rinuncerebbe al rito del tea per nulla al mondo.
- C'è un tubo che piscia Mic!
- Piantala – grida Dey - Non ci possono essere fughe di gas in una fabbrica che ha interrotto la produzione.
Già. La solita storia. E intanto gli occhi continuano a bruciare.
- Ma la lancetta nella vasca 610 è salita da due a trenta gradi.
Dey beve una sorsata di tea e dice calmo:
- Non è la caldaia che è rotta, è la lancetta della pressione.
E intanto, tra le casupole dell'Orya Basti la festa va avanti tra suoni, canti e danze.
Canti, danze, musica, grida. E’ incredibile il casino che riescono a fare laggiù.
Dey lancia la tazza di tea contro la parete.
- Ne ho abbastanza – grida – Adesso vado a vedere io.
Gli bastano tre minuti per raggiungere la vasca 610. Anche lì la lancetta del manometro è bloccata. Dey si arrampica sul sarcofago e poggia l'orecchio contro la vasca. E' come se dentro ci fosse un bambino gigantesco che scalcia per uscire dal grembo della madre. Quel neonato è l’isocianato di metile diventato gassoso per la reazione prodotta dal contatto con l’acqua entrata nella vasca. Il gas sta salendo nelle canalizzazioni che portano alla torre di decontaminazione. Le valvole che comandano l’impianto di sicurezza sono chiuse. Già, perché anche la fabbrica è chiusa. La fabbrica è già in volo verso il Brasile. Sembra di sentire l’odore di caffè uscire dai tubi, come da una gigantesca caffettiera. E’ forse proprio a questo punto che Dey si rende conto che non è più uno scherzo, che l’inferno è davanti ai suoi occhi e sta per aprire le porte.
Per effetto della pressione la colonna di gas fa saltare i catenacci. Il sibilo di un getto di vapore risuona sopra la testa di Dey. Un geyser si libera nel punto esatto in cui avevano individuato la prima fuga di gas.
Terrore.
Poi alcuni gesti istintivi, di quelli che quando ci ripensi ti sembra di averli fatti al rallentatore.
Dey si precipita al dispositivo d’allarme più vicino, spacca il vetro con un pugno e preme il tasto d'allarme generale.
I pompieri sono sul posto in meno di cinque minuti. Puntano gli idranti verso il cielo. Ma quella tubatura arriva troppo in alto, più in alto della fuga di gas. L’acqua non ce la fa a neutralizzare il fumo che assume la forma di una bocca che sorride, saluta e s'allontana. Direzione Nord.
Spinto dal vento il gas si allontana verso le baraccopoli dell’Orya Basti.
Adesso la nube forma una nuvola larga quanto un campo di calcio. E’ persino bella a vedersi contro la luce della luna, ma Dey non può ammirarla perché il gas è ricaduto verso il basso è ha trasformato i suoi occhi in in due tizzoni ardenti.
Dey vorrebbe urlare ma dalla sua bocca esce solo un suono muto. Il gas gli è sceso nei polmoni.
La tragedia di Bhopal prende vita in un silenzio rumorosissimo.
Il primo ad avvistare la nube è il vecchio cieco dell’Orya Basti.
Alza il braccio scheletrico verso il cielo. La sua mano sembra la chela d'un granchio:
- Guardate.
Nessuno lo ascolta. Poi la musica cessa di colpo:
- Guardate.
- Che stai dicendo vecchio pazzo?
- Guardate.
- Ehi ma tu non eri cieco?
- E muto anche…
Gli ubriachi dell’Orya Basti smettono di osservare la mano del vecchio e vedono arrivare la nuvola.
Pensano a un temporale, ma il cielo tutto intorno è limpido, così limpido che sembra quasi giorno, con quella luna immensa nel cielo. E poi non s’è mai vista una nube simile a Bhopal. Non s’è mai vista una nube simile in tutta l’India.
I lumi a petrolio della spianata si spengono tutti insieme, come rispondendo a un misterioso comando.
- Che sta succedendo?
Nessuno lo sa. Rimangono tutti immobili a vedere quella nuvola che punta verso di loro.
Poi, nella nebbia, un’apparizione, improvvisa, terribile. Un cavallo scheletrito, gli occhi sbarrati, la bava alla bocca. Muove alcuni passi incerti verso la folla, lancia un nitrito terribile e stramazza al suolo. E’ lui a portare la soluzione del mistero, ed è l’ultimo gesto della sua povera vita.
- La fabbrica! C’è una fuga di gas alla fabbrica.
Il popolo dell’Orya Basti si mette a correre in tutte le direzioni, ma è troppo tardi.
Dopo pochi minuti, nella baraccopoli, non ci sono più venditori, lebbrosi, mendicanti, non ci sono più bambini, danzatori, venditori di caramelle, non ci sono più donne e uomini vivi. E neppure più animali, cani, gatti, maiali, capre, galline, ultimi a morire tra atroci spasmi quando il gas ha toccato terra.
Il marciapiede è un carnaio di corpi ammonticchiati in un insopportabile lezzo di vomito, urina e feci. I sopravvissuti tentano di rialzarsi ma finiscono per crollare quasi subito oppure brancolano ciechi tra i corpi stesi.
Dappertutto ci sono morti con la faccia verdastra accanto ad agonizzanti che vomitano un liquido giallo, scossi dagli spasimi.
La nube intanto si è dispersa nel vento caldo dell’India e i soccorsi possono arrivare. Uomini neri con grosse maschere antigas che restano impietriti di fronte allo spettacolo dell’apocalisse.
All’ospedale di Bhopal, i superstiti sono in preda a terribili spasmi che nessuno sa placare. Ci vorrebbe un antidoto ma la direzione dell’Union Carbide non ha mai comunicato il contenuto del Sevin per paura che le rubassero il brevetto.
I medici devono combattere contro un nemico di cui non si sa neppure il nome e ai moribondi non resta che morire. Uomini, donne, bambini, a migliaia. Dieci, venti, trentamila, non si saprà mai anche perché gli effetti del veleno continueranno a colpire per anni, contaminando tutta la zona.
Il Sevin ucciderà anche chi in quel maledetto giorno di vent’anni fa non era ancora nato.
Poi arrivano anche gli avvoltoi. Non gli uccelli che si avventano sulle carogne, ma i ladri di professione per i quali la tragedia di Bhopal è una vera cuccagna.
Infine, i giornalisti, le troupe televisive. I ladri di immagini. I mercanti di sofferenza.
Proprio vero che le disgrazie non vengono mai da sole.
EPILOGO
Bisogna dire che la nube non era razzista. Ha colpito tutti allo stesso modo. Musulmani, sikh, Indù. Già. Però i dirigenti della Union Carbide si sono salvati. Non ce ne era neanche uno tra le vittime. Tutti impegnati a sorseggiare Martini in qualche hotel di Bhopal, o lontano mille chilometri, a New York, pronti a cominciare una nuova giornata di lavoro. Shopping, cocktail, un ristorante prenotato per la cena.
Nessuno della direzione della Union Carbide pagherà per quello che ha fatto. L’unico imputato, Mr. Anderson si è reso irreperibile sin dai giorni del primo processo e la quota di risarcimento stabilita dal tribunale internazionale è stata così bassa che ha rilanciato le azioni della Carbide in borsa.
Le migliaia di morti della baraccopoli di Bhopal non hanno avuto diritto neanche a un risarcimento postumo.
La realtà è così lontana dagli happy-end dei film di Bollywood.
E la storia che vi ho raccontato è vera. Maledettamente vera.
FUTURO
Ma torniamo a Sajda. Ve la ricordate?
Quella ragazza che all’inizio della nostra storia abbiamo lasciato sulla porta di casa.
Sajda deve andare a un colloquio per lavorare in un laboratorio di software come segretaria. Uno di quei laboratori che trovi nelle grandi città dell’India, magari in palazzi diroccati, tra ammaestratori di serpenti e vacche sacre, eppure ci sono i migliori tecnici del mondo.
Sajda sta per uscire, quando sua madre la chiama, perché proprio quel giorno suo fratello si deve sposare e bisogna assolutamente comprare un grosso pesce per gli ospiti.
Sajda vorrebbe spiegarle che deve correre all’appuntamento, che un posto in un laboratorio di software le cambierebbe la vita, ma sua madre non sa neanche cosa sia un laboratorio di software, sua madre sa soltanto che la sua famiglia non può certo organizzare una festa di matrimonio senza un bel pesce farcito da offrire agli ospiti. Sarebbe una vergogna che neanche Shiva in persona potrebbe cancellare.
Così Sajda guarda l’orologio. Ha solo mezz’ora di tempo per cambiarsi d’abito. Non può andare al mercato col vestito elegante, rischierebbe di rovinarlo a ogni passo, e così deve mettere il vecchio sahari e correre giù, e acquistare il pesce e tornare a casa e rimettersi il completo occidentale, poi correre all’appuntamento, con tutto quel traffico che c’è al mattino, le strade piene di gente e…
Insomma. Un bel casino.
Ecco Sajda è proprio come l’India. Perennemente sospesa tra un passato millenario e un futuro ancora tutto da disegnare.
Riuscirà ad arrivare puntuale al suo appuntamento col futuro? E chi lo sa?
FINE
Giampiero Orselli
gorselli@libero.it