Monsieur Goldoni

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Monsieur Goldoni

Monsieur Goldoni

di Pietro Favari

Personaggi

Carlo Goldoni

Principessa Clotilde

Arlecchino

Pantalone

Denis Diderot

Voltaire

Jean Jacques Rousseau

Thérèse Levasseur

Quando gli spettatori entrano in sala, a sipario ancora chiuso, trovano ad accoglierli Carlo Goldoni, ovviamente in abito di foggia settecentesca ma di stoffa grigia segnata da tratteggi, come nelle incisioni che illustrano l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert e che servono da modello anche alla scenografia dello spettacolo e ai costumi degli altri personaggi, in bianco e nero come nelle tavole citate ma ravvivati da qualche elemento di colore acceso. All’ingresso del pubblico l’Avvocato si alza dal posto in prima fila dove era seduto, si serve di una presa di tabacco da una tabacchiera che fa da pomo al suo bastone da passeggio e provvede ad accogliere gli spettatori: li accompagna al loro posto dopo aver controllato il biglietto, fa il baciamano alle signore, lascia scivolare qualche complimento galante alle più avvenenti, si concede qualche battuta, del tipo: <<Finalmente siete arrivati! Incominciavamo a stare in pensiero>> rivolta a qualche ritardatario.

Il sipario si apre a mostrare un tableau vivant che rappresenta un’allegoria della dea Ragione. Un attore avanza al proscenio e annuncia al pubblico il numero di aristocratici giustiziati quel giorno. Tutti cantano ça ira o qualche altro canto rivoluzionario.

Si chiude il sipario. Goldoni sale al proscenio e si rivolge al pubblico.

GOLDONI: Ecco un esempio degli spettacoli che si facevano al tempo della Rivoluzione! Anch’io ho fatto in tempo a vederli e avrei preferito farne a meno. Non corrispondevano certo alla mia idea di teatro. Quel teatro che mi sono onorato di servire per tutta la vita, prima nella mia Venezia e poi a Parigi, dove ho vissuto gli ultimi trentun’anni. Sono sopravvissuto anche a Luigi XVI, il re che nei miei Mémoires ho definito il re saggio.

(Estre dalle tasche un libro antico che mostra al pubblico con malcelato orgoglio).

Les Mémoires! La mia autobiografia… Anche il re di Francia mi fece l’onore di prenotarsi per ben cinquanta copie e per venticinque la regina.

(Apre il volume alla prima pagina, illustrata da un ritratto, il suo).

Ormai je suis un homme à portrait! Famoso abbastanza da meritare questo omaggio dalla storia: tramandare la mia immagine ai posteri.

Dopo tre séances con un pittore, mi ha fatto un portrait au crayon, qui ne vaut pas le diable. Sono andato da un altro, che ha fatto il mio ritratto a olio passabilmente. Sperava di aver qualche cosa di buono. Point du tout, c’est encore pis. Io non sono capace di giudicare di un mio ritratto: mi riporto agli altri e mi dicono che tous le deux sont détestables. Egli è vero che i due pittori, de’ quali mi son servito sono mediocri. Considero un’altra cosa e dico: bisogna che il mio viso abbia qualche cosa di estraordinario, poiché né un Piazzetta, né un Tiepoletto, né un Longhi, né altri cinque o sei hanno avuto l’abilità di copiarlo.

Uno mi ha fatto gobbo, senza collo, cogli occhi di civetta. L’altro, giovane di trent’anni, ed avendolo voluto invecchiare, non si sa più che cosa sia.

Un ritratto deve somigliare, si deve poter dire: L’è bello; el someggia assae; l’è ben desegnà: i colori no i pol esser più vivi… el xe un ritratto che parla.

In platea appaiono Arlecchino e Pantalone impegnati in una pantomima muta.

GOLDONI: Ancora voialtri! Via, ande’ via de qua! No ve voggio più veder… Xe per colpa vostra e de le vostre ridicole pantomime che el teatro italian nol g’ha più successo qua a Parigi. G’ho fatto la riforma, mi! Parbleu! Andè pur dal vostro amigo, el conte Gozzi…Ve lo meritè, e lu se  merita voialtri… Guitti! Paresseux!

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ARLECCHINO: Ingrato!

PANTALONE: Dopo tuto quelo che gh‘avemo fato per ti…

ARLECCHINO: Ti g’ha bisogno de noialtri…

PANTALONE: No ti pol far de manco de nu…

GOLDONI: (Canta, su musica in stile settecentesco)

LA RIFORMA

La riforma io vo’ fare:

Arlecchini e Pantaloni

dalla scena vo’ scacciare.

Sono guitti, son poltroni

e la maschera fo’ levare.

Per la scena non son buoni:

per non farli più tornare

all’inferno, nei gironi,

io li vo’ tosto mandare

senza tema d’abbandoni!

ARLECCHINO: (Canta)   Vuoi per sempre abbandonarci?

Non ti muove il dolor nostro?

Puoi negarci un solo addio?

Questa è troppa crudeltà!

PANTALONE: (Canta)       Dicci almen: io v’abbandono.

Dillo almen con un sospiro,

che nemiche, oh Dio! non sono

la costanza e la pietà.

GOLDONI: Andè via ve digo…Fora da i pie! Devo andar da la principessa Clotilde, sorela del re Luigi XVI, la se deve sposar al principe di Piemonte e la vol imparar l’italian.

ARLECCHINO: No g’ho mai visto una principessa vera, solo quele de teatro…

PANTALONE: Volemo restar qua!

ARLECCHINO: La principessa no ne vedarà, saremo come invisibili…

PANTALONE: Solo se ti ti vorà se faremo veder, come per incanto…

                                                                           

Si apre il sipario a mostrare una stanza simile a quelle disegnate nelle incisioni che illustrano i lemmi dedicati all’architettura e all’arredamento nell’Encyclopédie. Ci sono almeno due sedie, uno scrittoio, un candelabro, uno specchio.

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Al centro della scena c’è madame Clotilde, una graziosa giovane che  -  con spiccato

accento francese  -  parla nell’italiano scolastico appreso da Goldoni, mescolato con

qualche parola in francese. La principessa è vestita da pastorella, è immobile in una strana posizione che poi cambia per assumerne altre altrettanto innaturali.

Goldoni e le Maschere la osservano con stupore.

CLOTILDE: (Canta)

ARCADIA

Son confusa pastorella

che nel bosco a notte oscura,

senza face e senza stella,

 infelice si smarrì.

Mal sicura al par di quella

l’alma anch’io gelar mi sento:

all’affanno, allo spavento

m’abbandono anch’io così.

GOLDONI: (Canta)                Pastorella, oh mia bella,

non temere, non son lupo

ma gentile pecorella

che nel bosco fitto e cupo

a passeggio se ne và.

Alla fiamma del mio core

l’alma tua scaldare voglio

in quel prato di trifoglio.

Arlecchino e Pantalone escono.

CLOTILDE: Non vi meravigliate del mio abbigliamento, monsieur Goldoni. Faccio le prove per i tableaux vivants che mostreremo alla corte questa sera.

Siete qui per la mia lezione d’italiano, monsieur? Ancora? Mi pare che il mio italiano sia ormai abbastanza buono per la futura sposa del principe di Piemonte, non siete d’accordo? E poi mi risulta che alla corte piemontese parlano più volentieri il francese che l’italiano.

GOLDONI: Principessa, ho avuto incarico da vostro fratello, sua maestà re Luigi XVI, di insegnarvi l’italiano e intendo portare a termine il mio incarico con la massima solerzia, con tutta la mia modesta competenza, con…

La principessa ride, Goldoni non capisce l’ilarità della sua allieva.

CLOTILDE: Scusatemi, monsieur, ma tutti quei “con”… Lo so che nella vostra lingua “con” significa “avec” ma nella mia lingua ha tutto un altro significato… Come dite voi “con”? Mi pare... 

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GOLDONI: (La interrompe, prende una presa di tabacco). Non è necessaria la traduzione, è parola che non si addice a una principessa di sangue reale… Meglio sarebbe se Vostra Altezza cancellasse definitivamente quel termine dal suo vocabolario italiano…

CLOTILDE: Avete fatto caso, monsieur? “Con” è maschile: “le con”. Un mot masculin pour dénoter quelque chose de tellement féminin… Au contraire le mot italien c’est féminin, n’est-ce pas? E’ più giusto come dite voi.

GOLDONI: Vuole, Vostra Altezza, avere la compiacenza di ripassare i verbi ausiliari (Lo sottolinea)con… me?

CLOTILDE: Hélas monsieur!Perchéper fare pratica d’italiano non recitiamo invece qualche pièce di teatro?  C’est certainement plus amusant que studiare quei vostri noiosissimi verbi ausiliari.

GOLDONI: Pourquoi pas? Potremmo recitare insieme delle scene tratte da qualche mia commedia, per esempio da La locandiera, da Il ventaglio, da La vedova scaltra, da Le smanie per la villeggiatura…

CLOTILDE: Oh no monsieur! Ammiro beaucoup le vostre opere ma dovrei studiarle a memoria e abbiamo poco tempo. Piuttosto perché non recitiamo un canevas - come dite voi? - un canovaccio della commedia dell’arte?

GOLDONI: Principessa a me lo chiedete? Proprio a me che ho fatto la riforma contro le improvvisazioni della commedia dell’arte…

                                                                       

CLOTILDE: Improvvisazioni! Che bella idea avete avuto! C’est ça qui me plait! Jouer à l’impromptu… Improvvisare! C’est aussi plus utile pour apprendre la langue italienne.

Entrano Arlecchino e Pantalone.

ARLECCHINO: G’ha rasonla siora principessa…

PANTALONE: Femo la commedia come savemo farla noialtri!

GOLDONI: (Rassegnato) Come comandate, principessa.

ARLECCHINO: A mi piase Arlecchino e Pantalone rivali per amore, son seduo nel titolo anca mi!

PANTALONE: Ti pol seder solo su una carega, ti!  

GOLDONI: Principessa, si tratta di una farsa, indegna di voi, piena di sconcezze, di volgari doppi sensi, fatta per divertire facchini e gondolieri, ma se insistete…

CLOTILDE: Insisto.

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GOLDONI: Sia fatta la vostra regale volontà.

Voi farete la parte di un’attrice, di una comica, se posso permettermi. Arlecchino vi vede e si innamora. La farsa inizia con Arlecchino che vuol parlare in italiano per far bella figura con voi ma storpia le parole da ignorante qual è. E’ un vecchio espediente per muovere il pubblico al riso.

CLOTILDE: Comme il est amusant ! Et moi, qu’est-ce que je dois faire? 

GOLDONI: Dovrete improvvisare sulle battute che vi dirà Arlecchino…

Lascena si svolge in una locanda dove voi siete alloggiata al seguito di una compagnia di attori.

Pantalone esce.

ARLECCHINO: E adesso posso apparir alla principessa?

GOLDONI: (Rivolto a Clotilde) Principessa, posso avere il disonore di presentarvi Arlecchino, vostro compagno di scena in questa ignobile farsa?

Arlecchino fa il baciamano a Clotilde.

ARLECCHINO: (Rivolto al pubblico e indicando Clotilde)  Come mi piase, ela! Voggio far bella impression. Voggio che me creda un sior. Di che parla i siori? El me paron vecio, Pantalon, se lamenta sempre de le so’ maladie. Farò cussi anca mi.

(Rivolto a Clotilde) Son qui per curarmi.

CLOTILDE: (Indossa una maschera che le porge Goldoni e recita guidata dai suoi suggerimenti) Voi malato? Non si direbbe.

ARLECCHINO: Eh, lo so. il mio aspetto è floreale, ma il fisco è malato.

CLOTILDE: E di che malattia soffre, il vostro “fisco”?

ARLECCHINO: Non lo so. Eppure ho chiamato tanti medici, tutti decenti universitari, tutti primati ospedalieri; mi hanno fatto un insulto medico, tutti riuniti al mio capezzolo. Soffro di una malattia che non si conosce, è ancora mignotta.

CLOTILDE: E quale è stata la diagnosi?

ARLECCHINO: Eh?

CLOTILDE: Sì, che cosa vi hanno detto?

ARLECCHINO: Mi hanno scontrato che ho l’intestino miope che sta male.

CLOTILDE: Volete dire l’intestino cieco…

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ARLECCHINO: No, non è ancora così grave. È solo miope. E poi soffro di dolori artistici…

CLOTILDE: Artritici…

ARLECCHINO: È la stessa cosa. Ma non basta, soffro pure di acidi unici.

CLOTILDE: Parbleu! Saranno urici…

ARLECCHINO: No, no. Sono proprio unici, ce li ho solo io. E poi ho l’epatite virile. Tutte queste malattie mi hanno procurato anche uno sciocco nervoso. Insomma, le mie condizioni sono grevi. Poi mi fa male il nervo antipatico.

CLOTILDE: Vorrete dire simpatico… Come voi!

ARLECCHINO: Ma che simpatico! Mi sta proprio antipatico, questo nervo. Mi ha fatto ingrossare anche il fegato e la milizia…

CLOTILDE: Mi dispiace! Vi costerà un occhio della testa curare tutte queste malattie!

ARLECCHINO: Non vi date pensiero per me, sono piuttosto agiato e questa mia agitazione mi permette un buon baritono di vita…

CLOTILDE: Tenore…

ARLECCHINO: E che differenza fa? Insomma, mi piace vivere nel lusso, sono un lussurioso.

CLOTILDE: E io un’attrice!

ARLECCHINO: (Con una capriola le fa il baciamano). Le porco i miei ossequi. E così siete attrice? Avrete certamente fatto la propagandista nei vostri spettacoli…

CLOTILDE: Per fare la protagonista ci vogliono dei mezzi che io purtroppo non ho.

ARLECCHINO: Veramon? Ma ve li fornisco io i mezzi e anche gli interi. Mi piacerebbe tanto forniscare con una madamigella come voi!

GOLDONI: Principessa, vi scongiuro! Basta così!… Vi rendete conto? E’ troppo…

Torniamo ai nostri verbi ausiliari…

CLOTILDE: Ma a che servono i verbi ausiliari a una principessa? Ne posso fare a meno, almeno questo privilegio mi sarà concesso?! E poi io mi stavo divertendo!

Piuttosto aiutatemi a togliere questo ridicolo costume…

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Aiutata da Goldoni, impacciato e imbarazzato, Clotilde si spoglia sotto gli sguardi vogliosi di Arlecchino e resta con la sola biancheria intima.

Goldoni scaccia in malo modo Arlecchino che esce di scena.

L’Avvocato cerca di non guardare la principessa, prende una presa di tabacco.

CLOTILDE. Perché guardate altrove, monsieur? Forse non vi piaccio en déshabillé? (Indossa una vestaglia).

GOLDONI: Sono in grave imbarazzo, principessa. Se dico che mi piacete spogliata vi potete adombrare perché manco di rispetto a voi, principessa di sangue reale. Se dico che mi lasciate indifferente vi potete adirare come donna.

Non so cosa sia peggio, se mancare di rispetto alla principessa o alla donna.

I verbi ausiliari…       

CLOTILDE: Si manca di rispetto a una donna, principessa o serva che sia, proprio quando non la si ammira come donna… Il vostro compatriota Giacomo Casanova lo sa bene ma per quanto ne so anche monsieur Goldoni non è stato da meno con il gentil sesso…

GOLDONI: Principessa, alla mia età…

CLOTILDE: L’età non ha importanza… Ho imparato un vostro proverbio: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Noi diciamo: le loup mourra dans sa peau. Si mormora che le attrici fossero prede ambite per monsieur le loup Goldoni…       

GOLDONI: (Lusingato) Effettivamente, non sono mai stato insensibile al fascino muliebre…

CLOTILDE: Chissà quante vittime dans votre carnier!...

GOLDONI: Vittime, certo… Ma anch’io sono stato vittima… Proprio come l’Arlecchino della nostra farsa.

CLOTILDE: Mi avete messo in curiosità. Maintenant pretendo di continuare la recita. Chiamate monsieur Arlecchino! Tout de suite!

GOLDONI: Meglio di no, principessa… Vi porterei l’acqua con le orecchie, ma non mi chiedete di continuare con quella sciocca farsa!

CLOTILDE: C’est un ordre, monsieur!

GOLDONI: (Rassegnato) Ebbene, obbedisco a un ordine che mi viene impartito con tanta grazia. (Rivolto verso le quinte)  Arlecchino! Pantalone!

Arlecchino e Pantalone entrano in scena.

ARLECCHINO: Cossa voleu?

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GOLDONI: C’è bisogno di voi. Pantalone dovrà cambiare di ruolo e fare la parte del Capitano Spagnolo. Ti lo sa far?

PANTALONE: Mi so far de tutosu la scena. Metarò qualche esse nel final de le parole…

GOLDONI: Te fasso un segnal quando ti tocca a ti.

Pantalone esce.

GOLDONI: (Rivolto a Clotilde) Il vostro personaggio, vuole prendersi qualche divertimento a danno dello sciocco Arlecchino… E gli sussurra qualcosa all’orecchio…

Clotilde esegue e poi esce.

ARLECCHINO: Come? G’ho capio ben? Me par che la me abbia dito: diese. Cossa sarà diese? Quanto la vol per le su grassie? In zecchin o in fiorin? E se fusse el numero de la so camera? Ma certo! Cossa farò mi a le done?!

(Rivolto al pubblico)  La lasso salir in camera e poi salgo anca mi!...

(Prende una bottiglia di vino che gli porge Goldoni).

Grassie! Me desmentegavo la cossa più importante… El vin de Cipro!

(Va verso le quinte e bussa a un’immaginaria porta)

Miao… miao! Micia, apri, fuori della porta c’è il tuo micio che fa le fusa…

Entra Pantalone in costume da Capitano Spagnolo e prende Arlecchino a calci e a pugni.

PANTALONE: (Urla) Qui es que me molesta a estas horas de las noches? Maldido! Maricon! Borrachon! Te par esta la hora de svegliar un pobre ombre que esta dormiendo en la su habitacion? Desgrassià! Te fasso vedar mi! Toma esto! Y esto! Y esto! Ostrega!...

 

ARLECCHINO: (Cerca di ripararsi dalle botte) No capisso nada! Xe un error! Fermeve, por grassia de dios!

PANTALONE: (Prende la bottiglia di vino) Esta es mia! Es el resarcimiento per averme molestato en el corazon de la noche! Ciò!

Pantalone esce, entra Clotilde.

          

ARLECCHINO: Cosa è successo? Ho forse sbagliato camera?

CLOTILDE: (Sorride maliziosa) Non avete sbagliato camera, caro il mio Arlecchino. Avete sbagliato donna. Non sono il tipo che credete. Per entrare nella mia camera da letto dovete prima passare dall’altare di una chiesa…

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ARLECCHINO: Se proprio non c’è altra strada, faremo così. Qualunque cosa pur di alleviare le pene del mio cuore. Le pene d’amore son dure da curare! Anche più delle botte che ho preso dal Capitano Spagnolo… (Canta)

LE PENE D’AMORE

Fra tutte le pene

v’è pena maggiore?

Son presso al mio bene,

sospiro d’amore

e dirle non oso:

Sospiro per te.

CLOTILDE: (Canta)                    Fra tutte le pene

v’è pena maggiore?

Mi manca il valore

per tanto soffrire,

mi manca l’ardire

per chieder mercé.

GOLDONI: Veniamo ora ai verbi ausiliari…

CLOTILDE: Ancora! Aiutatemi piuttosto a rivestirmi altrimenti prenderò freddo. Non vorrete che mi prenda un raffreddore per colpa di quei vostri maledetti verbi ausiliari!

Arlecchino esce di scena e subito rientra con Pantalone, portano un manichino che veste un abito fastoso.

Aiutata da Goldoni sempre più imbarazzato, Clotilde indossa il vestito. Da una scatola prende dei nei finti e se li mette.

Arlecchino e Pantalone escono.

L’Avvocato è incuriosito dall’abito e approfitta della vestizione della principessa per aggiornarsi sulle ultime tendenze della moda parigina.

GOLDONI: La moda è sempre stata privilegio dei francesi, siete voi che date il tono all’Europa, in tutto si cerca di imitare quanto avviene qui a Parigi.

CLOTILDE: E’ così anche nella vostra Venezia?

GOLDONI: All’inizio di ogni stagione vedevo a Venezia, nelle mercerie, un manichino vestito detto  “la Piavola de Franza”,  che è il prototipo al quale tutte le 

donne si dovevano conformare e qualsiasi stravaganza era bella se presentata dalla Piavola.

Le veneziane non sono meno innamorate delle nuove mode delle parigine, i sarti e le modiste ne approfittano e se la Francia non fornisce mode a sufficienza, i negozianti veneziani sono abbastanza furbi da cambiare la Piavola e da spacciare le loro invenzioni come modelli provenienti d’oltralpe.

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Quando ho dato a Venezia la mia commedia Le smanie della villeggiatura ho parlato molto di una veste da donna detta il “mariage”: era una veste di tessuto unito, ornata da due nastri di colori diversi, e il modello era stato proposto dalla Piavola. Quando giunsi in Francia domandai se quella moda era ancora in voga; non la conosceva nessuno, non era mai esistita, anzi la trovavano ridicola e si facevano beffe di me. (Canta)

LA MODA

E’ la moda quella cosa

che la veste fa radiosa.

E’ suo fin la meraviglia:

con la seta e la ciniglia

accarezza voluttuosa

sia la vergin che la sposa. 

CLOTILDE: (Canta)                 Nastri, trine, falpalà

son di Venere le armi,

sono rime per i carmi;

pizzi, organze, taffetà

rendon gli onori

a muliebre beltà.

GOLDONI: A mio modesto parere le donne sbagliano seguendo la moda in fatto di pettinature. Ognuna dovrebbe interrogare lo specchio, esaminare i propri lineamenti e accordare l’acconciatura dei capelli e delle parrucche con il proprio volto, e guidare la mano del proprio parrucchiere.

CLOTILDE: Allora voglio chiedervi un parere sulla mia nuova parrucca che mon coiffeur mi ha consegnato proprio questa mattina.

Arlecchino e Pantalone portano in scena un’inverosimile parrucca: in mezzo a riccioli e boccoli naviga il modellino di una nave da guerra. Aiutano Clotilde a indossarla.

CLOTILDE: Qu’en dites-vous, monsieur? C’est précieuse, non? E’ proprio come l’ho chiesta à mon coiffeur…

GOLDONI: (Orripilato dalla parrucca, finge di ammirarla) Bellissima creazione, principessa. Lancerete sicuramente una nuova moda…

CLOTILDE: Spero proprio di no! Voglio essere l’unica a sfoggiare una simile meraviglia… E non avete visto il meglio!

Clotilde tira una cordicella che pende dal modellino e i cannoni della nave sparano con uscita di fumo.

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CLOTILDE: C’est dommage que la nave spari a salve! Saprei io chi colpire con cannonate vere!... E voi, monsieur, a chi sparereste?

GOLDONI: A nessuno, principessa.

CLOTILDE: Non posso crederci…

GOLDONI: Non ho nemici, vogliate credermi. Sono nato pacifico, ho sempre mantenuto la calma. Perché dovrei cambiare alla mia età?

 

CLOTILDE: Perché è bello e nobile avere nemici, ancor più che amici. Suvvia…

GOLDONI: Qualcuno dei vostri concittadini ha cercato di mettere inimicizia tra me e monsieur Denis Diderot ma senza esito, almeno per quanto mi riguarda.

Diderot è autore di una commedia dal titolo Le Fils naturel. Fréron ne ha scritto su L’année littéraire affermando che la commedia ha molti punti in comune con Il vero amico del signor Goldoni: le une e le altre scene parevano sgorgare da una medesima fonte.

Diderot si è adirato con Fréron e con me, voleva sfogare la sua rabbia sull’uno o sull’altro, mi ha dato la sua preferenza. Così ha fatto stampare un discorso sulla poesia drammatica nel quale mi tratta alquanto duramente. “Carlo Goldoni, dice, ha scritto in italiano una commedia, o meglio una farsa…”. E ancora: “Goldoni ha composto una sessantina di farse…”.

(Rabbioso, annusa tabacco). Farse!... Le mie commedie definite farse! (Canta)

LA FARSA

Chi alla farsa fa le lodi 

è ridicolo, è un pazzo,

della farsa son custodi

frizzi, lazzi e schiamazzo.

ARLECCHINO: (Canta)         Frizzi, lazzi e schiamazzi

non approvi e non apprezzi?

Non godi e non t’arrazzi?

Non ti torci e non stramazzi?

PANTALONE: (Canta)              Allor non sei avvezzo

al piacer che non ha prezzo,

che utilizza ogni suo mezzo

non per vizio e non per vezzo.

Arlecchino e Pantalone escono.

GOLDONI: Monsieur Diderot è per certo l’unico scrittore francese che non m’abbia onorato della sua benevolenza.

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Mi dispiaceva che un uomo di così gran merito fosse mal disposto verso di me. Ho fatto il possibile per accostarlo, non avevo l’intenzione di lagnarmi ma lo volevo convincere che non meritavo il suo sdegno.

Cercai di introdurmi nelle case dove di solito andava, non ebbi mai la fortuna di incontrarlo. Finalmente, stanco di aspettare, decisi di forzare la sua porta: mi presentai come un autore italiano desideroso di far conoscenza con un grande delle lettere francesi.

Appare Diderot.

GOLDONI: Diderot si sforza di nascondere l’imbarazzo che gli procura la mia presenza. Ha l’onestà di dirmi che alcune mie commedie gli hanno procurato grossi fastidi.

DIDEROT: Sapete, monsieur, come si sente un uomo ferito nei suoi sentimenti più delicati. Qualcuno, di cui non farò il nome per non sporcarmi le labbra, ha insinuato che la mia commedia Le Fils naturel sarebbe copiata dalla vostra opera Il vero amico!

GOLDONI: (Sorride, con una punta di malignità). Mais oui, il grande Diderot non ha certo bisogno di scavalcare le Alpi in cerca di commedie altrui per distrarsi dalle sue occupazioni filosofiche.

D’altronde accade sovente che opere nate sotto cieli diversi presentino delle somiglianze.

DIDEROT: Qualche critico ha provato a contare quante sono le diverse trame a disposizione degli scrittori, i pareri divergono alquanto: c’è chi dice duecentomila e chi dice trentasei. Comunque sia, il numero delle trame, delle architetture narrative che le Muse hanno concesso a noi autori non è certo illimitato.    

GOLDONI: C’è anche chi sostiene che in realtà le trame siano solo due: l’Iliade e l’Odissea. Sono odissee i racconti di tempi pieni, le iliadi sono ricerche di tempi perduti. Le odissee narrano di viaggi, sono aperte, orizzontali, ricercano un fine. Le iliadi evocano l’assedio, un mondo verticale, chiuso, da conquistare, raccontano conflitti e cercano un mezzo piuttosto che un fine. Come Adamo ed Eva per il genere umano, questi due poemi sarebbero i progenitori di tutte le possibili narrazioni.

Monsieur, capisco il vostro disappunto per le accuse che vi ha mosso Fréron, ma io non ho niente da rimproverarmi. Diamo troppa importanza a sciocchi pettegolezzi letterari. Come dice un poeta a me caro, Torquato Tasso: “Ogni trista memoria omai si taccia, e pongasi in oblio le andate cose”.

DIDEROT: (Sorride). Intendo abbastanza l’italiano per comprendere e sottoscrivere il consiglio del poeta vostro conterraneo. 

GOLDONI: Del resto anch’io, monsieur, sono rimasto ferito. Una vostra parola mi ha colpito come un dardo avvelenato: farsa! Voi mi avete descritto come un autore di farse, un farceur!

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DIDEROT: Non era certo mia intenzione di offendervi, monsieur. Le farse hanno una loro dignità, le maschere che le interpretano sono creature di grande vitalità e simpatia. E poi sono una vostra specialità, come gli spaghetti. E’ vero o no che voi italiani fate sempre la commedia dell’arte?

GOLDONI: Io, Carlo Goldoni, con la mia riforma teatrale ho tolto la maschera ai personaggi della commedia dell’arte e ho rivelato il vero volto di creature vive, animate da vivissimi sentimenti…

DIDEROT: Siete sicuro, monsieur, che ne valesse davvero la pena? Il volto di noialtri esseri umani non è forse più accettabile quando si cela dietro ad una maschera? La maschera crea una serena illusione, ci tranquillizza mostrandoci un’espressione che non muta, priva di ambiguità e che siamo in grado di interpretare al primo sguardo.

Il teatro stesso è una maschera rassicurante della realtà. Più tutto è falso nella realtà, più si ama il vero sulla scena; più tutto è corrotto, più lo spettacolo deve risultare puro. Chi entra alla Comédie, insieme al mantello lascia al guardaroba tutti i suoi vizi per riprenderli soltanto all’uscita. Lì dentro è un uomo giusto, imparziale, buon padre, buon amico, innamorato della virtù; e sovente ho visto accanto a me dei cattivi soggetti profondamente indignati per azioni che non avrebbero tralasciato di commettere se si fossero trovati nelle stesse situazioni in cui il poeta aveva messo il personaggio che essi esecravano.     

GOLDONI: Mi stupisce che simili constatazioni vengano da un illustre assertore dell’Illuminismo come voi. Pensavo che i lumi della ragione, che voi monsieur Diderot più di ogni altro avete contribuito ad accendere, dovessero svelare piuttosto che nascondere, liberarci per sempre dal buio dell’ignoranza e del pregiudizio.     

Diderot prende il candelabro dallo scrittoio e accende le candele.

DIDEROT:  La luce esiste proprio perché c’è il buio; illumina soltanto quel che c’è dato di vedere. E il buio esiste per celare quanto non vogliamo, o piuttosto non possiamo, discernere…

GOLDONI: In tutta modestia, monsieur, io conosco soprattutto i lumi che dal proscenio rischiarano la scena del teatro e insieme le passioni, i comportamenti dell’uomo che noi autori su quel palcoscenico ci ingegniamo di far vivere.

 

DIDEROT: E quale comportamento umano è più rivelatore della risata?

Ridere è atto davvero degno di chi si professa illuminista: dissipa le tenebre che ci

avvolgono. Per questo non dovete disprezzare la farsa, caro Goldoni.

 

GOLDONI: Da quando frequento i teatri ho capito che c’è modo e modo di ridere e di far ridere. Con le mie commedie mi sono proposto di suscitare emozioni appellandomi al cuore e alla mente dei miei spettatori, non ai loro più volgari istinti.

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DIDEROT: La risata non è mai volgare, credetemi monsieur. E’ un atto liberatorio, rivoluzionario. Per questo chi detiene il potere teme che si rida di lui.

Piuttosto, voi che per la vostra arte avete familiarità con i comici italiani, maestri nell’arte di muovere il pubblico al riso, avrete certo carpito i loro segreti. Vi sarei debitore se me li rivelaste.

GOLDONI: Se ci tenete davvero, sarò lieto di compiacervi e di dividere con voi quella poca scienza che ho appreso. E’ dai tempi di Plauto che sono in uso alcuni

espedienti per far ridere e Plauto a sua volta copiava certo i greci che lo hanno preceduto. I greci… Immaginate due colonne…

DIDEROT: Due colonne?

GOLDONI: Sì, due colonne: l’equivoco e il tormentone. (In tono professorale) L’equivoco si determina a causa di quello che i semiologi, tra un paio di secoli, chiameranno “conflitto omonimico”. Il tormentone invece appartiene a quelle che in retorica si definiscono “figurae per adiectionem”. 

DIDEROT: Come coniugate questi due espedienti?

  

GOLDONI: (Rassegnato) Conil seguito della farsa. La nostra attrice non ha sposato Arlecchino, a lui ha preferito il suo ricco padrone Pantalone… 

CLOTILDE: C’est charmant! Si riprende la recita!

Clotilde si toglie la parrucca, Goldoni la fa accomodare allo scrittoio e incomincia dettarle una lettera.

GOLDONI: (Detta a Clotilde che scrive) Onorata madre, sono appena tornata a casa dal viaggio di nozze e come prima cosa prendo carta e penna per scrivervi.

È andato tutto benissimo, un viaggio di nozze favoloso! Con mio marito è un incanto… Sì, è vero, è un po’ geloso, ma è per colpa del suo sangue italiano… Gli farò cambiare mentalità, lo presenterò ai miei amici, per ora non conosce nessuno...

Diderot si siede per assistere alla recita. Clotilde continua a scrivere mentre Goldoni in funzione di regista dirige la recita.

CLOTILDE: (Mentre scrive)Onoratamadre, sapete la notizia? Al mio ritorno ho trovato il più bel regalo di nozze che potessi sperare… Una rosa! Ma sì, la mia rosa… finalmente è sbocciata! Sapete che sono anni che tento di ottenere con gli innesti una rosa così bella da vincere il concorso di floricoltura… Ora sono sicura di prendere il primo premio… Vedeste che bellezza! Non si trova una rosa così in nessun giardino! Il mio sposo non l’ha ancora vista… Voglio fargli una bella sorpresa, non sa nulla della mia passione per la floricoltura… Ma ora vi lascio, onorata madre. Non resisto, devo andare in giardino ad ammirare la mia rosa…

I più sinceri saluti dalla vostra devotissima figlia.

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Clotilde piega la lettera e la sigilla. Esce. Subito dopo entra Pantalone.

PANTALONE: Dove xe quel bocolo de la mia cara muger? Uh, uh, no ghe xe nissun? La mia cara boca de riosa… No la sarà ancora tornada. Vorrei che la restasse sempre in casa. Lo so, son geloso! Cossa voleu? Xe il mio sangue italian… (Bussano alla porta). Chi sarà?

Pantalone va ad aprire. Entra Arlecchino truccato da vecchio assai malandato.

ARLECCHINO: (Rivolto al pubblico) M’aveu reconossiù? Son Arlechin! Voggio far una burla a quel vecio sempio de Pantalon che m’ha portà via la muger.

(Rivolto a Pantalone) Con permission, sé vù el mario de la signora? Complimenti, felicitazioni e figli maschi. Gò sentìo del vostro ritorno dal viagio de nozze e son vegnuo a porzerve tuti i miei ossequi. Vostra siora muger xela in casa?

PANTALONE: No, me despiase.

ARLECCHINO: Megio cussì, megio cussì. Me rivolgo a vù e ala vostra cortesia perché la possa interceder co’ la siora.

PANTALONE: Perché?Cossa vorla da ela?

ARLECCHINO: La siora no vol parlarghene co’ nissun! Ma se ghe lo domandè vù… Posso?

PANTALONE: Podè, podè. Ma presto che no gò tempo da perder!

ARLECCHINO: Adesso che sei tornai dal viagio di nozze gò savuo che finalmente la se gà verto tutta… (Ammicca) No so se capì… La gà da esser una meravegia! Vorìa tanto che la vostra siora muger me la mostrasse!

PANTALONE: (Urlando) Cossa???!!!

ARLECCHINO: No ste a rabiarve! Lo so che so’ indiscreto, ma quando che se brama tanto qualcossa come mi, se deventa anca sfaciati. (In tono lirico) Me piasaria tanto vèderla da vissin, studiarla atentamente, nasar el so perfumo… (Cambiando tono) Credeu che la vostra siora muger me la lasserà acarezar?

PANTALONE: (Sconvolto) Malignazo! Cossa xe che vorressi far?

ARLECCHINO: Ve lo go dito, amirarla, vèderla ben da vissin. Vedè? Me son fato prestar anca una lente par ingrandir... (La mostra).

PANTALONE: Par mi sé mato da ricovero! E gavaressi el coragio de confessar le vostre vogie proprio a mi?

ARLECCHINO: E con chi dovarìa farlo, se non col mario? Chi megio de vù pol convincer la vostra onorata mugier a mostrarmela?

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(Con tono di complicità) Ma, diseme, vù… la gavè già vista?

PANTALONE: Che discorsi,se la gò vista! Seguro, son so marìo!

ARLECCHINO: Se proprio fortunà, vù… E, diseme, come xela, come xela?

PANTALONE: (Sempre più scandalizzato) Ma come volè che la sia? Come tute le altre…

ARLECCHINO: (Scandalizzato a sua volta) E no, perdoneme! Alora se vede che no ve ne intendè una maledeta. Scoltème mi che, modestamente, qualcossa capisso!

PANTALONE: Vù!?

ARLECCHINO: (Ansioso) Piutosto, oltre a vù, la vostra siora muger l’ala mostrada a qualchedun altro?

PANTALONE: Ghe mancarìa anca altro… Mi son sicuro de no!

ARLECCHINO: Veconfessoche vorìa esser el primo a vederla… Dopo de vù, s’intende!

PANTALONE: (Ironico) Grazie! A la bontà vostra! Cossa che me toca sentir…

ARLECCHINO: Ve confesso che una volta la vostra siora muger me la fatta veder…

PANTALONE: Cossa, cossa, cossa!!!???

ARLECCHINO: Sì, ma no ‘ste a farghe caso, xe stà prima la se maridasse, alora no la gera ancora del tuto averta. Adesso, invece… Ma già alora la gera belissima… (In tono sognante) Color riosa… carnosa… perfumada… Quando la gò vista, là, in mezo al so cespuglio, tuta serada como un bocolo ma che no vedeva l’ora de schiuderse… Beh, no me vergogno a dirlo, me so’ comosso!

PANTALONE: Son fora de mi, devento mato, stento a credere quelo che sento…

ARLECCHINO: La vostra siora muger quela volta xe stada tanto gentil. Pensè che la me gà perfin permesso de acarezarla… Ah! Un veludo, credeme, un veludo!

PANTALONE: Cossa???!!! Razza de furfantonazzo e ti te gà avùo el coragio de tocarla?

ARLECCHINO: Sì, ma la gò apena sfiorada … Giustamente la siora gaveva paura de strapazarla.

PANTALONE: E scometo che ti voressi vederla un’altra volta?…

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ARLECCHINO:Sì, sì, ma miga solo mi. Ghe xe chi che speta da un toco… Ghe xe tanta curiosità tra i appassionati.

PANTALONE: E mi magari dovarìa far finta de niente, aspetare come se niente fusse che mia muger la abia mostrada a tuti?!

ARLECCHINO: Ma non stè a preoccuparve! Nissun ghe la vol sciupar! E po’ vostra siora muger xe una dona che sta’ atenta. Pensè piutosto a quanto ben la ve pol far.

PANTALONE: Ben? Quale ben?

ARLECCHINO: Beh… No par esser venal, ma col talento de vostra muger, so quel che digo, se pol anca vadagnar dei bei bezzi…

PANTALONE: (Urlando) Cossa???!!! Come ti te permeti?! Sfazzà de un libertin! Ringrazia che no vogio sporcarme le man co’ un vecio come ti… (Gli si avvicina minaccioso. Arlecchino, spaventato, esce in fretta). Razza de depravato! Roba da no creder… E mia muger? Chi lo gavarìa mai dito?! Meterse co’ un vecio pien de taconi… Eh, gaveva razon mia siora mare, che el cielo la gabia in gloria, mai sposar un’attrice! Le sa solo esser buziere, finzer xe el so mestier… Speremo almanco che de belimbusti no ghe ne sia stai altri… (Bussano alla porta). E chi xe adesso? (Va ad aprire. Entra Arlecchino vestito da Dottore).

ARLECCHINO: Buondì, signor Pantalone, i miei omaggi per le vostre nozze. Augures, augures in abondandum! La signora vostra moglie non c’è?

PANTALONE: No la xe ancora tornada… Ma parcossa?

 

ARLECCHINO: Con vostra permissione l’aspetterò. Sapete, caro amico, sono un po’ in collera con la vostra onorata moglie, mi ha tradito… Absit injuria verbo!

PANTALONE: Ma cossa sè drìo a dir?

ARLECCHINO: E sì, caro il mio signor Pantalone! Avete voluto convolare a dolci nozze mentre eravate in viaggio e così mi avete tradito, rinunciando alla mia preziosa opera di giudice di pace… Per farsi perdonare, la vostra signora deve concedermi un grande favore!

PANTALONE: Diseme a mi, che se posso…

ARLECCHINO: Veramente preferirei che questo favore me lo facesse la vostra signora. Sapete, ubi maior, minor cessat! Unicuique suum!Cave canem! Vedete, vorrei tanto che me la mostrasse!

PANTALONE: (Costernato) Cossa?! Ma alora xe una fissazion! Come, anca vù?!

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ARLECCHINO: So cosa pensate! Un uomo di scienza, di dottrina, come me, un uomo nella mia posizione non dovrebbe perdere tempo dietro queste cose… Ma cosa volete, la mia è una vera vocazione! Sapete come si dice: De gustibus non est disputandum! Mutatis mutandum! E poi, mi dico, non fa parte delle scienze naturali anch’essa? Naturalia non sunt turpia. Natura es magna anima. Non è forse un segno dell’infinita bontà dell’Ente Supremo la creazione di questa piccola cosa? Natura maxime mirandis in minime. Non è forse vero che Dio l’ha creata perché, vedendola, noi potessimo godere di un’elevazione? Ad maiora!

(Cambiando tono) Tarderà molto, la sua signora?

PANTALONE: Mi resto sbazìo, no so più cossa pensar…

ARLECCHINO: Non vi nascondo che sono ansioso di vederla! Ne ho tanto sentito parlare, ma certo de visu è tutta un’altra cosa! (Cambiando tono, un po’ effeminato) Vi confesso che la vorrei avere anch’io, come quella di vostra moglie… (Sospira) Ma la natura non mi è stata propizia… Non ci sono ancora riuscito… Finora… Confido in un dottore di Casablanca… Io non dispero, dum spiro, spero. Purtroppo, ars longa, vita brevis! Dulcis in fundo! Requiescat in pace!

PANTALONE: Ma cossa xe? Sodoma e Gomorra? In che mondo son capità? E vù saressi un dottor, uno scienziato?

ARLECCHINO: Ma perché vi adirate? Forse perché tra moglie e marito tertium non datur? Ma ci deve essere un equivoco… Un qui pro quo, un qui quo qua…

 

PANTALONE: Vade retro, Satana!!! Vi de qua! (Lo scaccia. Arlecchino esce in fretta). In che mondo roverso vivemo? Tuta questa lussuria che colpisse i omini de una certa età… Mi lo so, perché quando arriva el morbin no ghe xe età. Quando te ciapa la spizza, bisogna che ti te grati… Ma tuto gà un limite! (Bussano alla porta). Ancora! Chi xe? (Va ad aprire. Entra Arlecchino vestito da bambino).

ARLECCHINO: Non c’è la signora?

PANTALONE: No. No la ghe xe, fantolin. Perché, cossa vustu de ela?

ARLECCHINO: Voglio chiedere alla signora se me la fa vedere…

PANTALONE: Anca ti?! Mi devento mato! Ma ti xe un puteo, alto uno scheo!!!

ARLECCHINO: Che vuol dire? Ne ho già viste tante, io, di tutti i colori, di tutte le grandezze… E poi la signora l’ha già mostrata a tutti i miei compagni di scuola.

PANTALONE: Cossa???!!! Mia muger ghe la fata veder a tuti i to compagni???!!!

ARLECCHINO: Sì, sì. Manco solo io, quel giorno ero assente perché ero a letto con gli orecchioni. Adesso vostra moglie deve farla vedere anche a me.

PANTALONE: Roba de mati! Perfin in gita scolastica i vien per farsela mostrar!

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ARLECCHINO: Certo! Il maestro ce ne ha parlato tanto… Ha fatto anche il disegno alla lavagna per spiegarci come è fatta dentro!

PANTALONE: Che bruto mondo! Ecco dove che porta tute queste innovazion! No ghe xe più l’integrità moral de una volta. L’educazione sessuale nelle scuole! L’Illuminismo! Libertinaggio, altro che! Debossè, che no i xe altro! Libertini, tuti libertini! E ti, va via, te la do mi, la lezion! (Spinge via in malo modo Arlecchino, che esce). I parla de cultura, del sapere, conossi te stesso… E dopo magari i ghe insegna ai zoveni ad andar a scarabazze al reduto! Son fora de mi! Mia muger ghe la mostra perfin a dei putei, a dei zoveni innocenti! Questa xe corruzione de minori! Scometo che la gera d’acordo col maestro… El sarà bon magari de esser el so amante! Uno dei tanti, povereto mi! In testa gò da aver più corni che el Re Cervo del sior conte Gozzi! (Bussano alla porta). Ancora? Giuro che se xe un altro omo che vol vederla fasso una strage! (Va ad aprire. Entra Arlecchino vestito da donna).

ARLECCHINO: Xe permesso? Disturbo? Vù dovè esser de seguro el marìo, vero? Che toco de omo! Eh, vostra muger sa quelo che la vol, niente da dir! A proposito, xela in casa?

PANTALONE: No!

ARLECCHINO: Che peccà! Speravo che me la fasesse veder!

PANTALONE: No posso creder! Volè vederla??? Ma no ghe n’avè una anca vù?

ARLECCHINO: Seguro che ghe l’ho anca mi, cossa credè, anca se la mia xe un pochetin passadina…

PANTALONE: No gavevo dubi!

ARLECCHINO: Volevo un consiglio da vostra muger… Quasi, quasi, quando la torna, se sé d’acordo, ve la porto via un momentin… Me la porto a casa e ghe mostro la mia. Vostra muger gà la man de oro par ‘ste cosse, magari la me la fa rifiorire! Se la savesse quanto la ghe sa far…

PANTALONE: (Balbettando) Andè via! Andate via subito de qua, bruta marantega, buzarona, svergognada, se no ve la do mi la man de oro… ma sul copin! (Spinge fuori dalla porta Arlecchino, che esce). Mia muger anca co’ le done?! No ghe xe più limiti in ‘sto mondo de lussuria! Done, veci, putei, dottori! A chi ghe toca, adesso? (Bussano alla porta). Ormai so pronto a tutto. (Va ad aprire. Entra Arlecchino con una grossa borsa).Lasseme indovinar... Se qua anca vù perché mia muger ve la fassa veder…

ARLECCHINO: No.

PANTALONE: (Stupito) No?

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ARLECCHINO: No. (Tira fuori dalla borsa tela, pennello e tavolozza). Io sono qui per dipingerla. Sapete, si è sparsa la voce…

PANTALONE: Eh, lo credo!

ARLECCHINO: E poi se vostra moglie vincerà il primo premio alla fiera, il mio quadro verrà esposto nella piazza del mercato. Una bella soddisfazione… Siete contento?

PANTALONE: Come no?! Gavemo fato trenta, fassemo trentun: mettemola anca in piazza!… Adesso ve lo fasso mi, el quadro… (Gli strappa di mano la tela e gliela sfonda in testa).

ARLECCHINO: Ma come, non siete contento? Il mio quadro avrebbe reso immortale vostra moglie…

Arlecchino esce. Subito dopo, da un’altra porta, entra Clotilde con in mano un’enorme rosa.

CLOTILDE: Caro! Siete tornato… Ho una bella sorpresa per voi!

PANTALONE: Via de qua, Messalina! Corruttrice de putei… Femina devorà da la lussuria… (Balbetta).

CLOTILDE: Ma caro, che vi prende? Perché mi trattate così? Proprio oggi che avevo deciso di dedicarvi la mia cosa più preziosa… (Mostra la rosa). Guardate, le ho dato il vostro nome, la cosa più preziosa che ho… Tutti me la invidiano, tutti la vogliono… E voi… Ingrato! Non voglio vedervi mai più! Tornate da vostra madre…

PANTALONE: Una rosa?… Saria questo che tuti vol veder… Una rosa… Col mio nome!

Pantalone sviene. Mentre Clotilde cerca di soccorrerlo, bussano alla porta. Clotilde va ad aprire. Entra Arlecchino con un annaffiatoio in mano.

ARLECCHINO: Cara, son qua, per annaffiar la tua rosa!

Arlecchino le prende la rosa e se la mette tra i denti. Clotilde si getta tra le sue braccia. Insieme a Pantalone ringraziano Diderot che applaude. Tutti cantano

GLI APPLAUSI

Batti le man

o amico mio,

che non invan

il plauso io desio.

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Felice fammi:

commedie, laudi,

farse, drammi,

ti prego applaudi.   

Tragedie, pastorali,

anche intervalli:

alle man i calli

fatti venire

ma i comici

devi applaudire!

FINE PRIMO TEMPO

SECONDO TEMPO

La stessa stanza del primo tempo. In scena Goldoni e la principessa Clotilde.

GOLDONI: Perdonatemi principessa per avervi coinvolto in questa deplorevole recita. Adesso anche voi, come monsieur Diderot, penserete che Goldoni sia solo un autore di farse.

CLOTILDE: Mais non monsieur, rassicuratevi. Piuttosto voglio sapere come va a finire la storia che abbiamo recitato.

GOLDONI: Davvero vi interessa saperlo? Ebbene, Arlecchino lavora nel laboratorio di Pantalone per tingere le stoffe. Un giorno va da Pantalone un giovane apprendista che lavora alle sue dipendenze e gli chiede il favore di uscire un’ora prima dal lavoro...

Entra Pantalone.

PANTALONE: Permesso accordato. Naturalmente doman matina ti vien al lavoro un’ora prima par recuperar.

GOLDONI: Il giorno dopo il giovane apprendista rinnova la richiesta e così via, un giorno dopo l’altro. Pantalone incomincia ad avere dei sospetti...

PANTALONE: Cossa faralo, quel desgrassià? No voria ch’el andasse da qualche concorrente e par schei el ghe vendesse qualche segreto de botega, qualche formula de tinture che mi conservo come fusse zogie.

GOLDONI: Pantalonechiama Arlecchino e lo incarica di seguire il giovane per scoprire dove va e cosa fa quando esce di bottega un’ora prima.                       

Arlecchino qualche giorno dopo ritorna da Pantalone.

Entra Arlecchino.

 

PANTALONE: Alora, ti lo già seguio come che te gò dito? Cossa falo quando ch’el va fora de qua? Chi xe ch’el vede? 

ARLECCHINO: Sì paron, gò fato come che me gà ordinà.

PANTALONE: Alora, cossa ti gà scoverto?

ARLECCHINO: Gòvisto che tute le sere el va a casa sua, el se beve do o tre bichieri del so vin più bon e dopo se buta in leto co’ so muger.

 

PANTALONE: (Stupito) Ma parcossa galo bisogno de andar via un’ora prima par far questo? No capisso.

ARLECCHINO: Posso darghe del tu, sior paron?

PANTALONE: Cossa xe ‘ste confidenze? Mi son el paron e ti el dipendente!

23

ARLECCHINO: Solo par ‘sta volta…

PANTALONE: E va ben, ma solo par ‘sta volta. Damme pure del tu.

ARLECCHINO: Paron, el to dipendente va a casa tua, el se beve do o tre bichieri del to vin più bon e dopo se buta in leto co’ to muger…

 

Arlecchino e Pantalone escono.

GOLDONI: Sarà più opportuno continuare con i verbi ausiliari.

CLOTILDE: Non voglio questo finale. Fa apparire il mio personaggio come una donna disonesta e questo non mi garba. Ormai mi sono affezionata a lei.

 

GOLDONI: Se preferite posso proporvi un altro finale… Andate a prepararvi, che poi tocca a voi.

Clotilde esce, entrano Arlecchino e Pantalone.

PANTALONE: Arlechin! Par fortuna che te gò incontrà! Gò bisogno de ti!

ARLECCHINO: Sempre a vostra disposizion, sior Pantalon… Basta che paghè...

PANTALONE: Va ben, va ben, te darò quelo che te speta… Ma ‘scolta ben quelo che te digo perché se trata de mia muger e ti lo sa anca ti quanto la xe gelosa…

ARLECCHINO: Contè pur su de mi, paron, se no se aiuta tra omini, però basta che paghè…

PANTALONE: Te pago, te pago,sanguisuga, ma adesso sta ben atento. Ieri note gò fato un fià tardi e par giustificarme ghe gò dito a mia muger che gò passà la serata co’ ti, che ti me gà servìo a una cena de lavoro. Ghe gò dito che gavemo cenà a la locanda de Brighela, ma ela la xe sospetosa e la se gà fato dir el menù par dopo controlar co’ ti se ghe gò dito la verità… Me racomando, ecco che la vien, no ghe xe tempo par meterse d’acordo. Quando che la te domanda qualcossa, vardime mi… Te fasso de motto, te suggerirò…

Entra Clotilde.

CLOTILDE: Ah, siete qui. Sempre insieme… Perché siete stati insieme anche ieri sera, vero?

ARLECCHINO: Xe la verità, ieri sera gò avùo l’onor de servir vostro marìo a tola! 

CLOTILDE: E sentiamo, cosa avete servito di buono?

Alle spalle di Clotilde, Pantalone inizia a suggerire a gesti. Ogni tanto, Clotilde si volta di scatto, insospettita, Pantalone allora cerca di darsi un contegno.

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ARLECCHINO: Già… (Rivolto soprattutto a Pantalone) Già… Cossa gavemo servìo de portada?

(Pantalone si tocca i capelli e poi con le mani accenna a un paio d’ali).

Un oseo? Cacciagion?

(Pantalone fa segno di no e rifà il gesto delle ali con aria ispirata).

No… La carne bianca gera finìa e alora gavemo pensà de servir… un angelo? Vostro marìo xe stà un angelo par la mancia ch’el me gà dà…

(Pantalone si tocca nuovamente i capelli).

Capelli d’angelo, ecco cossa che gò portà come primo piato!

(Cenno di assenso di Pantalone, Arlecchino sospira sollevato).

CLOTILDE: E come seconda portata, cosa c’era?

ARLECCHINO: (Preoccupato) Anca el secondo, gà volesto vostro marìo. Mi ghe gò dito de star atento a la dieta. So ch’el gà la prostata affaticata, ma se vede che no pagava lu. 

(Pantalone fa un cerchio con le mani. Arlecchino equivoca il significato e si offende).

A chi? A mi?!

(Pantalone insiste con il gesto. Arlecchino, soddisfatto, finalmente intuisce).

Un buso… Un buso sull’osso… Ossobuco! Ecco cossa che gò servìo…

CLOTILDE: E di contorno?

ARLECCHINO: Anca el contorno… Vostro marìo se proprio senza fondo… Co’ xe tropo xe massa, ghe lo digo sempre, mi…

(Pantalone si produce in una serie di movenze esageratamente effeminate, guardando Arlecchino che osserva preoccupato e scandalizzato, come se quelle moine fossero rivolte a lui).

Purtropo el sior Pantalon, col so’ modo de far, dava dava l’idea de esser de st’altra parochia e… finocchio! Ecco cossa gò servìo: una bela piadena de fenoci!

CLOTILDE: Una bella cena, non c’è che dire… Il mio caro consorte, che è un intenditore avrà sicuramente scelto un vino adatto. Che vino avete servito?

ARLECCHINO: (Si sforza di capire Pantalone che finge di piangere). Eh… Una tristezza, se savessi… Senza de vù vostro marìo non gà fato altro che pianzer tuta la sera…

(Pantalone si mette con le braccia spalancate, nella posizione del crocefisso).

Crose, crose, crose, crosin, croseta… crociate… Le crociate! Ghe xe stà una discussion su le crociate…

(Pantalone fa segno di no, rifà il gesto di piangere e di essere crocefisso). Vostro marìo no’l gaveva più lagrime par pianzer, povero cristo… (Improvvisamente capisce). Lachrima Christi! Abbiamo bevuto del Lachrima Christi!

Clotilde si volta di scatto e sorprende Pantalone con le braccia in croce.

CLOTILDE: Ma a chi credete di darla a bere? Altro che Lachrima Christi! Vi siete messi d’accordo alle mie spalle, voi due!

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(Rivolta a Pantalone) Fedifrago! (Pantalone esce).

(Rivolta ad Arlecchino) E voi, manutengolo! (Arlecchino esce).

(Rivolta a Goldoni) Ho avuto come l’impressione che per far ridere il pubblico le corna siano un ingrediente indispensabile.

GOLDONI: Non solo per farlo ridere, anche per farlo piangere. Conoscete quella tragedia del grande scrittore inglese William Shakespeare? S’intitola Otello, il Moro di Venezia. Vi si narra di un uomo che, convinto da un malvagio, uccide la moglie perché crede l’abbia tradito. Ebbene, quella stessa vicenda può far ridere, basta che alla fine il Moro non strangoli Desdemona.

Io per esempio avrei salvato quella povera signora e con lei Otello, gli avrei impedito di macchiarsi di un sì funesto delitto, e avrei mandato il pubblico a casa rasserenato da un lieto finale.

CLOTILDE: Davvero? Non finite di stupirmi, monsieur…

E come sarebbe l’Otello à la manière de Goldoni?

GOLDONI: Mi cogliete impreparato, principessa, ma vedrò di accontentarvi.

Sapete che la tragedia del signor Shakespeare è causata da uno spirito malvagio, Jago, che induce in sospetto il Moro facendogli credere che fazzoletto da lui donato a Desdemona sia finito nelle mani di Cassio come pegno d’amore. Niente più di un fazzoletto provoca una tragedia così crudele!

Io ho scritto un’opera dove un oggetto altrettanto comune di un fazzoletto, un ventaglio, nel suo passare da una mano a un’altra causa una serie di equivoci e di gelosie. Ma la mia è una commedia e per consacrare il lieto fine nell’ultima scena quel ventaglio finisce proprio nelle mani della fanciulla a cui era destinato. Basterebbe che anche il fazzoletto ritornasse in tempo in possesso di Desdemona…

CLOTILDE: Magari con l’aiuto di monsieur Pantalone e di monsieur Arlecchino?   

GOLDONI: Pourquoi pas? In fondo i personaggi di Otello sono dei veneziani.

Pantalone e Arlecchino entrano in scena con una lanterna magica per illustrare le azioni raccontate da Goldoni.

GOLDONI: Cassio è perseguitato dai suoi debitori, è un giocatore sfortunato con le carte e così è costretto a vendere il fazzoletto capitato nelle sue mani al mercante Pantalone. Il suo garzone di bottega è Arlecchino, innamorato di Colombina che quel giorno soffre di un fastidioso raffreddore. Per compiacere l’amata, Arlecchino ruba il prezioso fazzoletto e ne fa dono a Colombina, che è a servizio proprio di Desdemona…

CLOTILDE: Poi Colombina si soffia il naso e la sua padrona riconosce il fazzoletto che credeva di aver smarrito e salva così la vita sua e quella di Otello…

Dubito però che monsieur Shakespeare sarebbe d’accordo con questa vostra conclusione tellement joyeuse…

26

Arlecchino e Pantalone escono.

GOLDONI: Eppure, avrei voluto anch’io scrivere almeno una tragedia nello stile degli antichi greci, come fa in Italia il signor conte Vittorio Alfieri che m’ha fatto l’onore di venirmi a trovare. Conoscevo i suoi talenti, la sua conversazione, mi ha fatto capire il torto che avrei avuto se lo avessi dimenticato.

E’ un letterato coltissimo, eruditissimo, che eccelle soprattutto nell’arte di Sofocle e di Euripide, su quei grandi modelli ha concepito le sue tragedie.

Peccato solo che egli si ostini a parlar di me come del “buon vecchietto”.

Sono indeciso se mi offende di più essere chiamato “vecchietto” oppure “buono”.

Ma ha ragione il conte Alfieri: ho buon carattere, è forse questa la maggior colpa per uno scrittore che aspiri al tragico.

Per lui invece la tragedia è di casa, è una parente stretta: “Volli, sempre volli”. Anche se non ne ha voglia si fa legare alla sedia davanti allo scrittoio e compone tragedie: una Sofonisba, un Saul, un Timoleone, una Cleopatra, un Bruto I e poianche un Bruto II  per completare.

Io invece ho sempre avuto, sia per abitudine sia per temperamento, l’abilità di mettere, come suol dirsi, i pensieri sotto il capezzale e per qualunque traversia non ho mai perduto né il sonno né l’appetito.

CLOTILDE: Che bello se la vita fosse sempre a lieto fine come una commedia di monsieur Goldoni! Nessuno si farebbe del male e tutti vivrebbero cent’anni felici e contenti come nei contes de fées.

GOLDONI: Mi auguro che anche il vostro matrimonio sarà come una fiaba.

E’ questa mia indole mite e amante del lieto fine che mi rende inadatto a scrivere

di sangue, di incesti, di morti violente, di tiranni, di dei irati, di violate norme, come accade nelle tragedie del signor conte Alfieri…

Ma poi quali norme ci sono ancora da violare oggi, nel secolo dei lumi che tutto ci

rischiara e con la sua luce ci concede quel che prima appariva oscuro e illecito?

CLOTILDE: Monsieur Goldoni, voi non siete un partisan des idées nouvelles per cui si battono filosofi come Diderot e Voltaire?

GOLDONI: Per carità! Non sono certo io oscurantista e conservatore come il mio esimio collega il conte Carlo Gozzi, lui sì nemico di tutto ciò che di nuovo appare sulle scene del teatro e nel mondo.

Io anzi ammiro monsieur Voltaire che stimo l’uomo del secolo.

Quando tornò a rivedere la patria sua fu ricevuto con grandi applausi; tutti lo volevano vedere, beati coloro che gli potevano parlare.

Io fui tra i fortunati che ebbero l’onore di incontrarlo; gli dovevo troppa riconoscenza per non affrettarmi a rendergli omaggio ed esprimergli tutta la mia gratitudine.

CLOTILDE: Parlatemi di lui, je vous en prie. Vi ascolterò con vero piacere.

   

GOLDONI: Non farò l’elogio di quest’uomo celebre, è troppo noto e stimato da tutti.

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Il suo genio, non meno fecondo che brillante, abbracciava tutte le scienze e le lettere con uno stile originale che egli sapeva sempre adattare ai vari argomenti, aggiungendo nobiltà all’allegria e al serio il faceto.

Voltaire deliziò Parigi per alcuni mesi, ma soffriva di una malattia cronica alla quale avrebbe forse potuto resistere a lungo nella pace del suo tranquillo soggiorno di Ferney. Nel turbine di Parigi quella malattia troncò il filo della sua esistenza. Grande fu il lutto degli amici come dei nemici.

Ahimè! Il dulcis amor patriae l’aveva sedotto, la filosofia aveva ceduto alla natura.

Appare Voltaire.

VOLTAIRE: (Canta)

VOLTAIRE PER GOLDONI

Dappertutte le nazioni

si molestano i talenti,

ma chi critica Goldoni

fa la guerra ai difendenti.

De’ suoi scritti con ragione

giudicar si avea cura,

onde presa in tal questione

fu per arbitra Natura.

Disse al critico, al geloso

la Natura, al vero accinta:

ogni autore è difettoso,

ma Goldoni mi ha dipinta.

GOLDONI: (Inchinandosi) Mi fate troppo onore. I vostri versi mi hanno fatto da passaporto per entrare nella società letteraria di Francia e tuttavia sono consapevole di non meritare il vostro plauso. Mi lusingate.

VOLTAIRE: Non fate il modesto con me, monsieur. Voi certo non ignorate i vostri meriti: Goldoni sa, come nessun altro, dipingere la natura umana. Semmai siete voi che lusingate la Natura: sovente la dipingete più bella di quel che è, i vostri ritratti ne nascondono i difetti.

GOLDONI: E’ la mia indole ottimista! Per merito di filosofi come voi, monsieur Voltaire, viviamo in tempi felici…

I vostri lumi hanno allontanato per sempre le tenebre che oscuravano le nostre coscienze…

       

VOLTAIRE: Davvero credete che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili? Voi assomigliate in maniera allarmante al mio Candide… 

        

GOLDONI: Se non nel migliore dei mondi possibili qui in Francia si vive certo in un regno felice. Re Luigi XVI è un saggio monarca e sono certo che vivrà a lungo circondato dall’affetto dei suoi sudditi. Mi ci gioco la testa!

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Sono fiducioso altresì che in futuro le ingiustizie saranno finalmente bandite e confido che la pace regnerà sui popoli.

Ci vorranno anni, un paio di secoli magari, ma poi – diciamo dall’anno Duemila in poi – l’umanità vivrà un tempo in cui non ci saranno più né violenze né guerre. Soprattutto guerre di religione!

VOLTAIRE: Che Dio vi ascolti, monsieur…

GOLDONI: Dio? Era mia convinzione che il filosofo Voltaire non credesse in Dio…

VOLTAIRE: Vi sbagliate. Non credo nelle religioni rivelate, non credo nel Dio che ci ha dipinto - e imposto - la Chiesa Cattolica. Ma credo che l’esistenza di un ente supremo, causa e ordinatore del mondo, possa essere dimostrata con la ragione, mentre non è facoltà delle limitate menti umane la definizione dell’essenza e degli attributi divini.

Dio è il motore immobile, il garante dell’ordine nell’universo.  Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo, ma tutta la Natura ci grida che esiste. (Canta)

DIO

Dovunque il guardo giro,

immenso Dio, ti vedo:

nell’opre tue t’ammiro,

ti riconosco in me.

La terra, il mar, le sfere

parlan del tuo potere:

tu sei per tutto; e noi

tutti viviamo in te.

GOLDONI: E alloraperché non lo inventiamo noi, un Dio? Voi siete un filosofo, io

uno scrittore, chi meglio di noi può creare una divinità?

VOLTAIRE: L’idea mi diverte… Avete in mente qualcosa?

GOLDONI: Avrei una modesta proposta in merito. In tempi come questi in cui ancora si uccide e si fanno le guerre nel nome di Dio… Per Giove, perché non ritornare a una fede come quella politeista praticata dagli antichi greci e romani? Quella pagana era una religione nella quale gli uomini avevano creato a propria immagine e somiglianza gli dei: fantasiose allegorie dei nostri difetti, incarnazioni fisiche e metafisiche di desideri materiali, di stimoli, di paure…

VOLTAIRE: Una religione a misura di vizi e debolezze squisitamente umane e dunque con interessanti possibilità di catarsi, con rassicuranti funzioni liberatorie… Mi piace…

Non è che ai tempi di Zeus le guerre non si combattessero, ma certo per gli esseri umani era confortante un conflitto che si scatenava con la complicità di dei e semidei, con il diretto coinvolgimento dell’Olimpo nelle loro esistenze…

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Sì, mi piace, monsieur. E decido all’istante di nominarvi gran sacerdote di questo nuovo e antico culto…

GOLDONI: (Inchinandosi) Ancora mi fate troppo onore…

Voltaire esce benedicendo Goldoni.

CLOTILDE: Ebbene, monsieur, quale compito mi assegnerete nel rinnovato Olimpo da voi testé creato?

GOLDONI: Di certo il ruolo di novella Venere, e io sarei uno dei più devoti al vostro culto…

CLOTILDE: Siete galante, monsieur Goldoni, ma forse dimenticate la mia condizione di promessa sposa…

Io parto per la vostra bella Italia dove andrò a nozze con il principe di Piemonte. Addio, dunque, mon cher maitre.

GOLDONI: Partite senza portare con voi i verbi ausiliari…

CLOTILDE: Dirò al mio consorte di abolirli con regio decreto...

Adieu, monsieur! (Esce).

GOLDONI: Il matrimonio fu celebrato per procura verso la fine dell’agosto del 1775 nella cappella di Versailles; ci furono magnifiche feste e spettacoli stupendi.

La principessa partì adorata, rimpianta; tutti coloro che l’avevano servita, che l’avevano avvicinata ebbero segni della sua bontà.

Non è cosa straordinaria che in tanta ressa qualcuno sia stato dimenticato. Per disgrazia la dimenticanza cadde su di me. Non avevo domandato niente per i miei servigi e le mie spese e non ricevetti niente. Coloro che avevano l’incarico dell’appannaggio per la principessa Clotilde si convinsero che dovevo avere una ricompensa, ma i conti che la riguardavano erano ormai chiusi.

A me cosa è rimasto? Questa scatola di nei…

(L’apre, prende qualche neo che si prova allo specchio).

Mi sono ritirato… Ma come mi sono ritirato? Con la testa rotta. Senza la menoma ricompensa, senza alcuna considerazione di quel che ho fatto… Sei anni di servizio, sei anni di pigione di casa, di viaggi, di spese, d’incomodi… Tutto è contato per nulla…

Sono stato costretto a vendere al signor cavaliere Vittore Gradenigo, segretario dell’ambasciatore di Venezia a Parigi, la mia raccolta di romanzi e di teatro francese, compreso il Corneille di Voltaire che lui stesso mi aveva donato e a cui tenevo moltissimo. Ne ho ricavato 600 miserabili lire.

Al contrario delle fiabe, la principessa nei miei confronti si era tramutata in un rospo che ho dovuto mandar giù… Un rospo regale ma pur sempre un rospo da ingoiare. E non ho neppure avuto l’opportunità di baciarla! (Canta)

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IL REGAL ROSPO

Se intende sì poco

che ho l’alma piagata,

tu dille il mio dolo,

tu parla per me,

che tutta si fida

quest’alma di te,

o rospo regale

che debbo inghiottir!

Bando dunque alle tristezze! Ho detto che amo i finali lieti e cosa c’è di più lieto della commedia?

(Rivolto al pubblico) Per questo voglio raccontarvi quel curioso accidente del mio incontro con l’illustre Jean Jacques Rousseau.

Il signor Rousseau di Ginevra tornò a Parigi nell’estate del 1770. Tutti si facevano premura di andarlo a visitare ma non per tutti era disponibile.

Non lo conoscevo che di fama, avevo voglia di intrattenermi con lui e sarei stato contento di poter sottoporre la commedia da me scritta in francese, Il burbero benefico, a un uomo che conosceva tanto bene la lingua e la letteratura francese.

Bisognava avvertirlo per essere certi di essere ricevuti.

Mi decido a scrivergli, gli esprimo il desiderio che avevo di fare la sua conoscenza. Mi risponde assai cortesemente che non usciva di casa, che non andava in nessun posto ma che se volevo darmi la briga di salir quattro rampe di scala, alla locanda di via Platrière, gli avrei fatto molto piacere.

Accetto l’invito, alcuni giorni dopo ci vado.

Salgo quindi al quarto piano della casa indicata, busso.

(Batte con il bastone sulle tavole del palcoscenico).

Mi apre una donna né giovane, né bella, né cortese che credo sia la governante.  

Entra Thérèse Levasseur.  

THERESE: (Sgarbata) Che volete?

GOLDONI: E’ in casa monsieur Rousseau?

THERESE: Non c’è. E voi chi siete?

GOLDONI: Sono Carlo Goldoni.

THERESE: Ah, siete voi? Siete aspettato. Vado ad annunciarvi a mio marito.

(Esce).

GOLDONI: (Rivolto al pubblico) Entro. Vedo l’autore di Emile che sta copiando musica. Me l’avevano detto, fremo in silenzio. Mi accoglie tendendomi un foglio.

Entra Rousseau in vestaglia con un foglio da musica in mano, che porge a Goldoni.

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ROUSSEAU: Vedete un poco se c’è qualcuno che copia musica bene come me. Sfido chiunque a farmi vedere uno spartito che esca dalla stampa così bello e preciso come esce dalle mie mani.

Andiamo a scaldarci. Accomodatevi. (Si siede e indica l’altra sedia a Goldoni).     

GOLDONI: (Si siede. A parte, rivolto al pubblico) Nel caminetto non c’era legna.

ROUSSEAU: (Urla) Thérèse! Porta la legna!

Entra Thérèse con un cesto di legna.

Goldoni si alza, prende il cesto e offre la sedia a Thérèse.

ROUSSEAU: Non vi scomodate. Mia moglie ha il suo lavoro.

THERESE: E certo, in questa casa io faccio la serva…

Invece di urlare, dammi i soldi per comprare la legna. Questa è l’ultima e per fare bella figura con il tuo amico stanotte moriremo di freddo! (Esce).

GOLDONI: (Siede. A parte, rivolto al pubblico) Avevo il cuore affranto. Vedere il letterato fare il copista, sua moglie fare la serva, era uno spettacolo desolante per i miei occhi e non riuscivo a nascondere il mio stupore e il mio dolore: tacevo.

ROUSSEAU: (Scorbutico) Ma come, mi compiangete perché faccio il copista? Credete che farei meglio scrivendo libri per gente che non sa leggere e per fornire articoli a giornalisti malevoli? Sbagliate. Amo appassionatamente la musica, copio ottimi originali, il che mi dà da vivere, mi diverte e tanto mi basta.

Voi, piuttosto, che cosa fate? Siete venuto a Parigi per lavorare con gli attori italiani che sono dei poltroni e non ne vogliono sapere dei vostri lavori. Andatevene, tornate a casa vostra. So che vi siete desiderato, che vi si aspetta.

GOLDONI: Monsieur, avete ragione, avrei dovuto lasciare Parigi se avessi considerato quanto sono guitti gli attori italiani ma altre ragioni mi hanno trattenuto. Ho appena composto una commedia in francese.

ROUSSEAU: (Stupito) E cosa ne volete fare?

GOLDONI: Darla a teatro.

ROUSSEAU: A che teatro?

GOLDONI: (Con una punta di vanità) Alla Comédie Française!

ROUSSEAU: Mi avete rimproverato di sciupare il tempo, ma siete voi che lo buttate via senza frutto!

GOLDONI: Ma la commedia è stata accettata!

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ROUSSEAU: E’ mai possibile? Ma non me ne meraviglio: gli attori non hanno buon senso, accettano e respingono a casaccio. Sarà forse letta, ma non sarà rappresentata e se la rappresentano, peggio per voi!

GOLDONI: (Risentito) Ma come potete giudicare un lavoro che non conoscete?

ROUSSEAU: Conosco il gusto degli italiani e quello dei francesi, sono troppo distanti tra loro. E poi, con vostra licenza, non è alla vostra età che si comincia a scrivere in una lingua straniera!

GOLDONI: Sono considerazioni giuste, monsieur, ma si possono superare gli ostacoli. Ho dato in lettura il mio lavoro a persone intelligenti, a gente esperta, e ne sono sembrati soddisfatti.

ROUSSEAU: Vi lusingano, vi ingannano, cascherete in trappola.

Fatemi vedere la vostra commedia: io sono schietto, vi dirò la verità.

GOLDONI: (A parte, rivolto al pubblico) Appunto lì volevo portarlo, non per consultarlo ma per vedere se una volta ascoltata la commedia avrebbe persistito in quella mancanza di fiducia che aveva in me.

(Rivolto a Rousseau) Ho qui con me, per puro caso, una copia della mia commedia Il burbero benefico… (La mostra) Se insistete, sono disposto a leggerla...

ROUSSEAU:  (Rabbioso) Non si va in casa della brava gente per insultarla!

GOLDONI: Ma come! Di cosa vi lagnate?

ROUSSEAU: Non avete a che fare con uno sciocco. So che ho la nomina di burbero nello spirito degli ignoranti, li compiango e li disprezzo, ma non tollero che si venga in casa mia a farsi beffe di me!

GOLDONI: Vi assicuro che non era mia intenzione recarvi offesa…

Ascoltate la mia commedia e poi giudicherete!

ROUSSEAU: Se proprio insistete, voglio compiacervi… A patto che ci beviamo sopra. (Urla) Thérèse! Portaci da bere…

Entra Thérèse con una brocca in mano e due bicchieri. Goldoni si alza.  

THERESE: E già, io sono la serva! Un urlo e Thérèse la serva arriva!

Il vino volete? Ma chi lo compra il vino in questa casa? Io, e con il denaro mio!... (Rivolta a Rousseau) Dimmi una sola volta che l’hai comprato tu, il vino.

Lo sai quanto costa? No, che non lo sai perché sono io che lo compro, ora mi sono stufata. Se lo volete, il vino me lo dovete pagare!

(Rivolta a Goldoni) Tirate fuori i soldi, se volete bere…

ROUSSEAU: (Si alza, rivolto a Goldoni) La sentite, questa strega?

(Rivolto a Thérèse) Chi paga l’affitto di questa casa? Io!...

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THERESE: (Rivolta a Goldoni, lo scuote con forza) La chiama casa, questa topaia dove mi costringe a vivere!…

ROUSSEAU: (Rivolto a Goldoni, lo scuote con forza) Sapeste dove viveva quando l’ho conosciuta!...

GOLDONI: (Rivolto a Thérèse, le porge dei soldi) Madame, questi possono bastare? Pago il vino anche per monsieur Rousseau…

ROUSSEAU: (Rivolto a Goldoni) Non datele tutti quei soldi! Il vino che compra lei è pessimo…

THERESE: Possiamo morire di sete e di fame, se non tiro fuori io i soldi!

(Rivolta a Goldoni) E come ricompensa mi tratta come una serva, l’avete visto anche voi!

ROUSSEAU: Tu hai l’animo della serva! Non sei degna di vivere accanto a me…

THERESE: Ha parlato il  grande letterato! Copia la musica, lui! E intanto qui si muore, di fame, di sete e di freddo!

 

ROUSSEAU: Ma che figura ci facciamo? Abbiamo un ospite…

THERESE: Sai quanto importa a me del tuo ospite?! Un pezzente par tuo…

ROUSSEAU: Anche se è un pezzente, è pur sempre un ospite, finché è in casa mia…

THERESE: Casa tua, certo! Io non conto niente in questa topaia!

E prenditelo, il tuo vino! Affogaci!

Thérèse rovescia la brocca addosso a Rousseau, che si china in tempo. Il vino finisce in faccia a Goldoni.

Thérèse e Rousseau escono continuando la lite a soggetto.

GOLDONI: (Si asciuga. Rivolto al pubblico) Il mio incontro con i coniugi Rousseau non andò proprio in questo modo, ma così, con una risata, nel teatro di una volta si concludevano le rappresentazioni.

Cosa posso raccontarvi ancora?... Già, come sono morto!…

Entrano, in silenzio, tutti gli altri attori, ancora in costume ma senza le maschere.

GOLDONI: Le mie Mémoires non raccontano come è avvenuta la mia morte, è ovvio. (Rivolto agli attori) Fatelo voi, io sono stanco…

Goldoni si siede e sembra addormentarsi.

CLOTILDE: La rivoluzione francese coglierà impreparato monsieur Goldoni…

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ARLECCHINO: E’ un sopravvissuto al suo mondo…

PANTALONE: E a se stesso…

ROUSSEAU: Il governo rivoluzionario lo priva della pensione annuale di 4000 lire…

THERESE: Scrive una supplica al Comitato per la Pubblica Istruzione…

PANTALONE: “Io, Carlo Goldoni, all’età di 86 anni ed infermo non sono più in grado di lavorare e di intraprendere viaggi. Voglio morire in Francia portando nella tomba il titolo di cittadino francese”.

CLOTILDE: Il deputato Marie-Joseph Chénier, drammaturgo e fratello del poeta André Chénier, ottiene il parere positivo del Comitato alla supplica…

ARLECCHINO: Il 7 febbraio del 1793, 18 piovoso anno secondo della Repubblica per il calendario rivoluzionario, Marie-Joseph Chénier si reca nella povera casa di Goldoni per recargli la notizia che la pensione gli è stata restituita.

ROUSSEAU: (Nel ruolo di Chénier, rivolto a Thérèse) Cittadina, dove abita Carlo Goldoni?

THERESE: (Con indifferenza, mentre fa la calza) Monsieur Goldonì? Mais il est mort!… Hier!   

Buio. Le luci si riaccendono sugli applausi (si spera). Gli attori ringraziano. Goldoni si alza e li raggiunge.

GOLDONI: Ma vi pare che si ringrazi così, il pubblico? Guitti, poltroni…

I ringraziamenti sono il momento più bello dello spettacolo, almeno per chi lo fa.

Però sono un momento delicato, come quello dell’assegnazione del primo camerino, dell’ordine dei nomi in locandina… Il primo attore, io, esce per ultimo e si mette al centro della fila… (S’inchina al pubblico). Ma ci sono tanti modi per ringraziare… Per esempio: c’è l’attore espansivo che ammicca agli amici in sala…

Arlecchino ringrazia con grandi gesti delle braccia, manda baci alla platea, saluta

ostentatamente qualcuno facendo segno d’incontrasi dopo.

GOLDONI: C’è l’attrice sensibile, che si commuove per l’applauso del “suo” pubblico…

Clotilde ringrazia portando le mani sul cuore, si asciuga furtiva una lacrima.

GOLDONI: C’è l’attore timido, che si fa pregare per uscire a ringraziare…

Pantalone fa capolino da dietro le quinte, si ritrae. Goldoni gli fa cenno di entrare, lo trascina in scena, fintamente riluttante.

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GOLDONI: C’è l’attrice ipocrita che finge modestia e stupore per gli applausi…

Thérèse ringrazia timida dapprima, poi fintamente stupita dall’accoglienza, congiunge le mani in segno di modestia, nasconde il volto.

GOLDONI: C’è l’attore stanco, che vuol far notare di essere sfinito dall’impegno profuso in scena…

Rousseau ringrazia restando immobile, le braccia abbandonate sul corpo, la bocca socchiusa in un lieve ansimare, un cenno appena del capo al pubblico.    

GOLDONI: C’è l’attore distaccato, che non ci tiene…

Goldoni indica se stesso. Ringrazia senza sorridere, quasi annoiato, non vuole concedersi. .

GOLDONI: E così via, variando a soggetto, finché ci saranno, si spera numerosi, i vostri applausi…

Tutti s’inchinano al pubblico mentre cantano

GLI APPLAUSI

Batti le man

o amico mio,

che non invan

il plauso io desio.

Felice fammi:

commedie, laudi,

farse, drammi,

ti prego applaudi.   

Tragedie, pastorali,

anche intervalli:

alle man i calli

fatti venire

ma i comici

devi applaudire!

SIPARIO