Monsignor Perrelli

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MONSIGNOR PERRELLI

Commedia in tre atti

Di FRANCESCO GABRIELLO STARACE

Rappresentato la sera del 28 ottobre 1904 al Teatro la Fenice di Napoli

Dalla Compagnia Pantalena, con pieno successo.

INTERLOCUTORI

MONSIGNOR PERRELLI

IL BARONE FILACCIO

GIULIA, sua moglie

BEATRICE, loro figlia

IL MARCHESE TORRONE

LA MARCHESA TORRONE

LA CONTESSA DEL CERRIGLIO

D. CARLO STROZZA, avvocato

D. AURELIO, segretario di Monsignore

D. BALDASSARRE, canonico

FILIPPETTO, seminarista

ORTENSIA, vecchia bigotta

CECILIA, sua nipote

GIACOMINO, servo di Monsignore

MARIANNELLA, cameriera

DOMENICO, sagrestano

SALVATORE, cameriera di Filaccio

La scena accade in Napoli nel 1822

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Stanza da studio in casa di Monsignore. Porta in fondo e due laterali, finestra a sinistra. Mobili an­tichi - Sediolone di cuoio, e sedie di paglia di stile dell' epoca, canapè antico in fondo a sinistra - ed a destra una grande scrivania Alle pareti quadri vec­chi di prelati e magistrati.

Sulla scrivania una grande calamariera antica di ottone, con penne di oche, e fogli di carta da pie­garsi a lettera.

SCENA I.

Aurelio, indi Ortensia e Cecilia

Aurelio                          - (seduto accanto alla scrivania e scrive) Altri due righi ed ho finito, (con impazienza) Quel benedetto Monsignore mi fa sempre scrivere un mondo di scempiaggini dalla mattina alla sera. Eppure bisogna accontentarlo. Intanto mi con­viene di restare qui, per ora, perché mi paga bene, poi in appresso vedremo che cosa ne succederà!

Ortensia                        - (di dentro) eccellenza me date licenza?

Aurelio                          - Venite... venite... avanti.... Chi è?

Ortensia                        - Eccellenza songhe io.... e 'a neputella mia!

Aurelio                          - Uh! la nostra D. Ortensia! .... E qual buon vento vi mena da questa parte? Era molto tem­po che non ci vedevamo?

Ortensia                        - Nun vedeva a vuie, ma a monsignore le vache spisse a vasà a mano, dinte 'a sacrestia.

Aurelio                          - E adesso ti sei spinta di venire tino a qua?

Ortensia                        - Songhe venute pe fa avvede 'a neputella mia, Cecilia, tutte 'e cose 'e Napule, perché nfine a mò e state dinte 'o munastero.

Aurelio                          - Bravo, hai fatto bene! Questa è la tua nipotina? (squadrandola). È una bella ragazza!

Ortensia                        - Chesta è senza mamma, e senza patre, me l' aggio crisciuta io; e Monsignore me facette 'a carità e farle chiudere dinte 'o retire 'e Mater Domini.

Aurelio                          - E adesso 1' hai ritirata con te, non dovrà più tornare nel Monastero?

Ortensia                        - Non signore io 'a tengo pe mo pecche 'a piccerella se vò fa monaca, e primme e fa 'a fun­zione, pe nu mese, adda vedè tutte 'e cose d' 'o munno!

Aurelio                          - Eh!.'., un mese non basta! (con intenzione) Nce vonne, parecchi anni! (a Cecilia) E voi volete farvi monaca, carina?

Cecilia                           - ( scornosa) Comme vulite vostra Eccellenza.

Aurelio                          - Comme voglio io? Comme volete voi! Mi sem­bra che non abbia 1' età per decidere del suo stato. Quante anne tene?

Ortensia                        - Ne tene diciotto!

Aurelio                          - E a diciotto anni che volete che sappia del mondo; e pò sempre chiusa là dinte, che po’ sapè?

Ortensia                        - Chi ve ha ditte chella capisce, meglio 'e me e meglio 'e vuie; e pò è pure alletterata, sape 'e leggere e scrivere! Signò! Che nce fa ncoppa a stu munno? 'O munno è triste, essa là dinte sta cuieta, cuieta e preia 'o Signore pe' 'e peccate nuoste che songhe assaie. Accussi avesse truvate pure io nu sant'omme comme 'a Monsignore, all' ora 'e mo nun me truvarrie sperta pe 'o munno, io povera scurfanella, che nun tengo nisciuno pe me.

Aurelio                          - Volete dire scorfanone! All' età vostra è raro ad avere ancora i genitori.

Ortensia                        - Vuie che dicite, nce sta Monsignore che è chiù gruosse 'e me, e tene 'o padre e 'a mam­ma, che so duie vicchiarielle.

Aurelio                          - Si, lo so, ma questo è uno dei casi, che si contano sulle dita.

Ortensia                        - E cornine è succiesso pe isso puteva succede­re pure pe me; e nvece io m' aggio avute met­tere a fatica giovena... giovena...

Aurelio                          - E questa bella ragazza di chi è figlia?

Ortensia                        - (un pò sbigottita) Ah! ... è figlia 'a na surella d' 'a mia, che è morta Salute a chi me sente.

Aurelio                          - (Entusiasta) Bella! bellissima! È un peccato che si debba far monaca. Cecilia, e voi siete propensa a farvi monaca?

Cecilia                           - Comme vò 'a zia!

Aurelio                          - Io credo che Monsignore sarà molto contento di questa vostra risoluzione! Che ne dite?

Cecilia                           - Comme vò Monsignore!

Ortensia                        - (piano) Comme ve pare? Comme ve risponne?

Aurelio                          - Ma dice sempe 'o stesso! S' è imparate 'a le­zione!

SCENA II.

Carlo                             - Neh! io entro da per me! là ffora nun nce sta nisciuno che m' annunzia.

Aurelio                          - Oh! mio caro avvocato! tu sei sempre il pa­drone. Devi scusà perché Meneca, la cuciniera è malata. Non so Giacomino e Mariannella che se ne sono fatti... mi sentiranno.

Carlo                             - È inutile che t'incomodi, pecchè na vota che so trasute, a me nun me preme niente chiù!

Aurelio                          - Non è per te, è per gli altri che verranno.

Carlo                             - Monsignore già... a quest'ora non nc'è... non si trova mai in casa! ....

Aurelio                          - Egli è sempre in giro per le visite, frequenta. tutta la nobiltà napoletana.

Carlo                             - Sicuro, e 'e signore nce se spassene.

Aurelio                        - È di carattere allegro, Monsignore, sa man­tenere la conversazione.

Carlo                             - Aggiungi a tutto questo, che dice pure ' e puzze d' 'e ciucciarie.

Aurelio                          - Non è tanto poi quanto si dice.

Carlo                             - No, 'e dice, 'e ciucciarie, nun né parlà. Già tu si 'o segretario puoi saperlo più di me.

Aurelio                          - (piano) Nun parlà male 'e Monsignore, perché qui vi è una sua conoscente e potrebbe riferir­glielo.

Carlo                             - E addò sta?

Aurelio                          - Addietro a te!

Carlo                             - Sangue de Bacco! (si volta) (E io teneva sta cosa 'a rete e nun 'o sapeva! ) Segretà, in confidenza, chella guagliona è bona assaie! E addò é asciuta?

Aurelio                          - Quella è una ragazza che fra un mese non esisterà più, pecchè se fa monaca.

Carlo                             - Tu che monaca e monaca, e vuò fa perdere chillo fiore accussì bello! Mo nce parlo io e la persuaderò.... io tengo na parlantina persuasiva.

Aurelio                          - Statte zitto pe carità! Io te conosco, tu iesce a fora a 'o seminato e scumbine, e pò Monsi­gnore se piglia collera.

Carlo                             - Nun nce penzà; io porterò il discorso doce... doce.... (forte) Nennè! favorite mi mumento cà!

Ortensia                        - Mi avete chiamata? (viene avanti) Che cummannate?

Carlo                             - Ma ve pare che io chiammave a vuie, nennella? Forse, molti secoli fa.

Ortensia                        - Tanta vecchia me tacite?

Carlo                             - Vecchia molto, no; ma io credo che a Nero­ne v' arricurdate?

Ortensia                        - Vuie vulite pazzià cu me? E pazziate cu 'a salute.

Carlo                             - Io voglio 'a piccerella, no a vuie, avite ca­pite?

Ortensia                        - Ah! Ah! vuie vulite a Cicilia?

Carlo                             - Accussì se chiamme? È nu bello nomme!

Ortensia                        - Viene cà, Cicì, sta signore te vo vedè!

Cecilia                           - (viene avanti) Comme vulite vuie zi zi.

Carlo                             - (squadrandola) È bellissima, più da vicino che da lontano. È  vero che ve vulite fa monaca?

Cecilia                           - Comme vulite vuie!

Aurelio                          - (piano) Accussì ha risposto pure a me!

Carlo                             - Figlia mia, se domandi il mio parere, io ti dico chiaro e tondo di no!

Ortensia                        - Ognuna tene 'a nclinazione soia. Non tutte 'e dete de 'a mane so 'e na manera.

Cecilia                           - Io faccio chello che vo 'a zia, 'e Monzignore.

Ortensia                        - Avite ntise comme ve 'a risposto bello!

Carlo                             - Chesta è 'a lezione che l' avite mparate. Ma io voglio sapè se nce sta il suo pieno con­senso?

Cecilia                           - 'O consenso mio nce sta! Pecchè io là dinte sò nate, là dinte sò crisciute, e là dinte....

Carlo                             - Voglio murì.... Me pare na canzuncina che canta. Ma sentite a me, non sarebbe meglio che ve spusarisseve nu bnone giovine, che ve facesse felice pe tutta a vita: invece di andare a per­dere 'a gioventù vosta chiusa fra quattro mura.

Cecilia                           -  Zì zì, vuie 'o sentite chille che sta dicenne? Chille è 'o diavule che parla! Questa è opera del Demonio! Tentazione, tentazione! ( si fa il segno dell’ evangelo).

Ortensia                        - Vuio ve vulite sta zitte cu sta vocca. Vuie scummettite quanne parlate! Chille è Farfariello che ve mette sti parole mocca! Cacciatene a Far­fariello!

Cecilia                           - Tentazione! Tentazione!

Carlo                             - Farfariè vattenne! Ecco che se ne è andato Farfariello! possiamo parlare cuiete. Tu, adesso, che si è fatta sta ragazza grandetta, perché non la ritiri a casa tua, e la metti a lavorare: e ti sarebbe anche di aiuto nelle tue cose!

Ortensia                        - Come parlate bello, e a me, 'e denare chi me 'e dà pe 'a campà? Chi campe deritte, se sole dicere, campe afflitte!

Carlo                             - Tu ne forze dritte è a campà,  pechè vularisse campà pure stuorte! Quali sono i tuoi mezzi di vita! Che arte faie?

Ortensia                        - Io, mo, niente! Na vota faceva ‘a cammarera; mo tengo na penziuncella.

Carlo                             - Pecchè sei vedova?

Ortensia                        - Nun sia maie! Io sò zita verace.

Carlo                             - Io nun t'aggio ditto niente 'e male! Chi te 'a paga sta penzioncella?

Ortensia                        - 'O barone Filaccio. Io sò stata chiù 'e 15  anne 'a servì e' 'o frate, D. Michele, che è muorte salute à vostre Eccellenza, e primme è murì lasciaie ditte a 'o frate che m'avesse passate sei ducate ‘o mese.

Carlo                             - (pensando) E ‘o barone, quell’avaraccio porco, ha mantenuta la promessa. Mi fa meraviglia! (piano ad Aurelio) Qui gatta ci cova! A cosa num me pare lisce (forte) E sta piccerella comme te è nipote?

Ortensia                        - (confusa) È figlia a na sora mia che è morta,

Carlo                             - Ed è morta da molto tempo.

Ortensia                        - È morta nfiglianza, quanne facette a essa.

Cecilia                           - Sissignore, io mammà nun à tengo, zi-zia me ha fatta da mamma.

Carlo                             - Padre ne anche ne tiene?

Ortensia                        - (confusa) Murette doppe poco, d’ ‘a morte d' 'a nmgliera.

Carlo                             - (con ironia) Vedete che cumbinazione! E, comme se chiaminave 'o padre 'e sta piccerella?

Ortensia                        - Vuie quanta cose vulite sapè? Nun vedite che a chesta povera criatura le passene 'e lagreme pe dinte all’uocchie! (a Cecilia) Nun fa niente – gioia d’ ‘a zia – nun fa niente,  nun te piglià collera io sempe te voglio bene.... (seguita a carez­zare Cecilia).

Carlo                             - (piano ad Aurelio) 'A piccerella manco pe 'a capa l’ è passato! Quella bizzoca 'o dice per sventare il discorso. Ma adesso mi ci metto di punta per appurare la verità. Io credo che chella piccerella è figlia 'a essa.

Aurelio                          - (c s.) Tu che dici? è figlia 'a bizzoca?

Carlo                             - (c. s.) Essa dice: che è zita verace? Le vo­glio fa avvedè cierte fasulille verace che sò na bella cosa. Mo voglio appurà tutte cose dalla Baronessa.

SCENA III.

Mariannella e detti (Suono di campana)

Aurelio                          - Hanno suonata 'a campana? Deve essere qual­che visita di etichetta, pecchè per le persone accussì, nun 'a sonene.

Carlo                             - A me nun m' hanne sunata 'a campana, vuol dire che io songhe nu straccione!

Aurelio                          - Tu sei di casa; 'o guardaporta te sape (chia­mando in fondo) Mariannella, Giacumine, qnalcheduno...

Mariannella                   - (fuori con sinale da cucina e maniche riboc­cate) Signuri, che cummannate?

Aurelio                          - È ntise 'a campana! Muoveti, chiamme Giacumine, falle aprì 'a porta, vedite chi è che sale.

Mariannella                   - Giacumine sta 'a stammatìna abbascio 'a stalla, sta sbarianne cu 'e cavalle.... Meneca comme sapite sta dinte dint' 'o lietto e io sto sole dinte 'a cucina che sto spiccianno, pecchè Mon­signore vò magnà 'a mieze iuorne mpunte. Di­cite vuie comme me pozze spartere?

Aurelio                          - Così non sì può andare avanti! Qui vi è bi­sogno di qualche altra persona.

Carlo                             - E 'o cucchiero nun ce sta?

Aurelio                          - Giacumine fa da servitore e cucchiere, e ac­cussì Monsignore sparagne na mesata.

Carlo                             - Ma infine è isso sulo, come nce sta tanto da fa?

Aurelio                          - Cunosce a tutta Napule, qui è un via vai continuo dalla mattina alla sera.

Ortensia                        - Se vulite che vaco io dinte 'a cucina, io vepozze servì. Pò nce stà 'a piccerella che cuci­na bona, sape fa pure 'e piatte doce.

Carlo                             - Eggià, 'e moneche sule chello sanne fa.

Cecilia                           - ( piano) Zi-zi iamme dinte 'a cucina pecchè stu signore me è antipatico!

Mariannella                   - Venite cu me, che ve faccio avvede chellè che avite fa.

Aurelio                          - Mariannè, tu va ad aprire la porta 'a visita.

Ortensia                        - Cu licenza vosta! Cicì viene cu me (viano in­sieme a Marianna).

Aurelio                          - Dunque tu mi dicevi che Cecilia è figlia a chella bizzoca...

Carlo                             - È una supposizione! perché D. Michele Filaccio, era un poco di buono, e si dice che te­neva na figlia, fatta cu na cammarera. Adesso paragonando il fatto, ne viene, che essa è chella tale cammarera, e che 'a guagliona è 'a figlia; si nò pecchè le pagavano sti sei ducate 'o mese? A te comme te pare?

Aurelio                          - Proprio così! E che conti di fare?

Carlo                             - E che ne saccio! Lasciami informà nu poco, e pò vedimme appriesso....

SCENA IV.

Marianella seguita da Giulia e Beatrice

Mariannella                   - (Che si è alquanto aggiustata) Signurì, favo­rite qua, accumurateve nu poco, Monsignore, poco putrà tardà a veni.

Giulia                            - Grazie, buona donna (Marianna via)

Aurelio                          - Oh! Che onori son questi? La nostra baro­nessa si è incomodata di venire fino a quà!

Giulia                            - Andavo in cerca di Monsignore; ma so che non nce sta; e se permettete l'aspetteremo.

Beatrice                         - Mammà, qui ci sta, anche D. Carluccio.

Giulia                            -  Vattè chi ò vò vedè a chillo paglietta mbruglione.

Carlo                             - Chisto paglietta songh' io?

Giulia                            - Nun ve pigliate collera, perché tutte è pa­gliette sò mbrugliune, ma voi pò più degli altri.

Carlo                             - E io vi ringrazio! Quando la Baronessa Filaccio mi dice di queste cose, io mi credo sem­pre onorato delle sue parole.

Giulia                            - Pecchè non ve site fatte vedè da 2 mesi, voi sapete eh' io ricevo sempre il mercoledì. Che ve ne site fatte? Ve site rotte 'e gamme.

Carlo                             - Baronè, state spiritosa stammatina!

Beatrice                         - Chesto nun 'o putite dì; mammà è sempre spiritosa.

Carlo                             - Ebbiva Nennella! Baronè vedete, io vado spes­so a teatro, voi togliete circolo 'a mezzanotte, quindi io verrei per starci pochissimo.

Giulia                            - È inutile che ghiate truvanne scuse! Quacche sera non si va ò teatro.

Carlo                             - Io sono abbonato a S. Carlo, e ogni sera sto là dinto.

Giulia                            - Domani sera capita la mia nascita; e vi ban­disco dalla mia casa se non venite! ...

Carlo                             - Domani sera sarò fortunato di presentarvi i miei augurii. Tanto pè sapè, è una dimanda indiscreta, quant' anno facite?

Giulia                            - E vuie da na femmena vulite sapè sti cose? pecchè vulite senti na buscia?... è meglio che parliamo d' altro.

Aurelio                          - (piano a Carlo, facendo vedere che gli spol­vera il soprabito) Stai tutto sporco alle spalle (piano) Dà chiacchiere 'a Baronessa, perché debbo parlare con Beatrice.

Carlo                             - (Ah! Beh!) Baronè, giusto, giusto, vi debbo dimandare delle informazioni sul conto del fu D. Michele, vostro cognato, favorite di accomo­darvi sul canapè (parla piano).

Aurelio                          - (piano) Beatri, che piacere che sì venuta, io contava i minuti, per arrivare a mercoledì, per vederti un' altra volta.

Beatrice                         - (piano) D. Aurè sentite, io aggio trovato 'a scusa cu mammà, che dovevamo invità 'a mon­signore, pè farla venì ca ncoppa; p' avè 'a cunsulazione 'e ve vedè.

Aurelio                          - (c. s.) Ma perché non mi chiami Aurelio; che mi dai sempre del voi.

Beatrice                         - Nun me trovo 'a parlare cu 'o tu. Eppò mammà nun ne sape niente, papà nemmeno, io comme pozze pigliarme sta cunfidenza.

Aurelio                          - Pigliati tutte le confidenze che vuoi (parlano piano).

Giulia                            - (piano). Voi sapeto perché me state trat­tenendo?

Carlo                             - No!...

Giulia                            - (c. s.) Perché D. Aurelio deve fare l'amore cu Beatrice, e voi facite da mezzano.

Carlo                             - (c. s.) E voi comm' 'o sapete? (ripigliandosi) Dico.... Voi vi sbagliate....

Giulia                            - Pagliè, voi siete paglietta, ma io la sono più di voi.

Carlo                             - Parola d' onore Voi dovete essere sorella car­nale a Farfariello (ridono).

SCENA V.

Giacomino e detti.

Giacomino                    - (di dentro) Ma è cosa che se pò tirà nanze accussì? Quanne vene Monsignore aggia fa ar­ruvutà 'a casa.

Carlo                             - Ma chi è sta bestia che grida?

Aurelio                          - Deve essere Giacomino, che si lagna, di qual­che cosa. Qui sono tutti padroni di casa! I servi siamo noi.

Giacomino                    - (fuori) Diciteme na cosa vuie? È na cosa bona chello che sta facenno Monsignore? Io aggio spise tutte 'e granelle che m'aveva agghietate, pe aiutà chille duie puverielle che se morene 'e famme, ma no so rimaste asciutto comme' a nesca! Aiere le scennette tutte e tozzele 'e pane che erano rimaste' a tavula, ma nun ne cacciaie niente pecchè chille tenene famme assaie.

Beatrice                         - Povera gente! Deve essere una famiglia di­graziata! Che compassione!

Giacomino                    - Che compassione, pe vuie! Si sapisseve che strazio è pe me quanne 'e veche! Io 'e chiam­me Cicciotte, Niculine…, loro me guardene sperute, sperute, àrapene 'a vocca, e io le donche na vevuta d'acqua fresca…. Loro veveno,.... pò me guardano n'auta vota, vedeno che io nun me n' incariche, s' accocciono sotte e nun me guardane chiù! puverielle, io stesso l' aggia fa ‘o boia!

Beatrice                         - Perché non li date a mangià?

Aurelio                          - Signurì non v'affliggete, chille parla d' 'e ca­valle!

Giacomino                    - Perché Monsignore accussì à ordinato, che nun 1'aggià dà a magnà.

Aurelio                          - Si, è vero! Dice che vuol fare un nuovo esperimento sui cavalli.

Giacomino                    - Evviva 'a bestia, salvanne 'a chierica, ma perché nun 'o fa cu isso stu sperimento?

Giulia                            - È, una delle tante strambezze di Monsi­gnore!

Giacomino                    - Isso me dicette accussì: Giacumì io aggio fatte na scuperta, che 1' omme po' sta senza magnà! E comme campe? le dicette io. Te 'o faccio avvedè coi fatte. Il mangià è una abitazione.

Carlo                             - Abitudine, bestia!

Giacomino                    - O abitudine, o abitazione è 'o stesso!.... Se uno se leva stu vizio 'e mangià, sta buone 'e sa­lute, e se sente chiù leggiero. Da dimane nnanze voglio fa 'a prova ncoppe 'e cavalle.... e pe nun 'e fa senti 'o dulore, tutta na vota, tu accuminciarraie a poco 'a vota. Primme e farraie sta diune ogni tre ghiuorne, pò nu iuorno sì! e n'aute no, all' urdeme ogne ghiuorno diune, E io accussì aggio fatte.... ma mo simme ar­rivate che 'e poverielle nun ne ponne chiù, e me scunocchiene pe 'a via!

Carlo                             - Vuol dire che stiamo all' ultimo periodo.

Beatrice                         - Nun mangiano più le povere bestie?

Giacomino                    - Già.... vevene sulamente.

Carlo                             - L' acqua nun nce 1' ha levato ancora?

Giacomino                    - Anze me dicette, si vide che tenene famme e tu dalle a bevere! E ehille puverielle tenene 'e panze chiene d' acqua, me pareno doie votte.

Giulia                            - Ma che è asciute pazze Monsignore?

Aurelio                          - E' una fìsima che si è messa in testa, ma finirà col persuadersi.

Giacomino                    - È una fisica che se 'a puoste ncape e se per­suade quanne 'e cavalle sò muorte!

SCENA VI.

Monsignore e detti

Monsignore                   - (di dentro) Giacumino.... Giacumino! Mariannella…

Giacomino                    - Mo se ne vene! Vedite si 'o putite persuadè vuie!

Monsignore                   - (fuori) Ah! staie lloche? Te sto chiammanne a tre ore e nun rispunne? The!... pigliete 'o cappiello, e stu bastone (esegue) Ah! che onori son questi, la baronessa, e le baronessina in casa mia! Vi siete degnate di venire in questa spelonca!

Giulia                            - Monsignor vi bacio le mani (esegue) Beatrì, bacia 'a mano 'a Monsignore (Beatrice esegue).

Monsignore                   - Benedetta figlia mia… benedetta! .... Ah! quà nce sta pure 'o paglietta?

Carlo                             - Monsignò io sono venuto per farvi vedere quelle carte di cui vi parlai.

Monsignore                   - E perché me vulite disturbà? Io a n' altro poche vaco 'a tavola, pozze vedè 'e carte? Veditevelle cu 'o segretario, facite vuiè. Io quanne aggia mangià non voglio sapè niente.

Giacomino                    - (Che è riuscito, dopo posato il cappello). 'O sapite dicere, che quanne magnate nun vulite sentere a nisciune; e perché chelli povere be­stie 'e vulite fa sta diune?

Monsignore                   - Vedite chiste povero scemo, quanta collera si piglie p' 'e cavalle. Nun avè appaura che chille stanno meglio e te e meglio e me! Tu 1' è date a bevere? e nun avè appaura.

Giulia                            - Giusto questo voleva dimandarvi, Monsignore che cosa è 'o fatte d' 'e cavalle che dice Gia­cumino?

Monsignore                   - Eh! Baronessa mia, io non posso spiegarvi tutto, voi non avete fatto gli studii profondi che ho fatto io. Le notti intere sò state ncoppe 'e libre, pe fa sta scoperta.... ma finalmente vi sono riuscito.

Carlo                             - Quale è sta scoperta?

Monsignore                   - Che 1'uomo può vivere senza mangià.

Giacomino                    - Ma vuie frattante magnate; e magnate buono!

Monsignore                   - Pe mò magne, appriesso sto diune pure io.

Carlo                             - E 1'esperimento ncoppe 'e cavalle comme vi riesce?

Monsignore                   - Benissimo! I secoli futuri mi faranno un mo­numento per questa mia scoverta… perché non si spenderanno danari pel vizio del man­giare.

Carlo                             - E doppo che i cavalli si saranno abituati, che pensate di fare?

Monsignore                   - Faccio subito il secondo esperimento 'ncoppe 'a Giacumine.

Giacomino                    - Cu mei? Io nun magnave?! M'avite primme accidere e pò nun magne!

Monsignore                   - Ma devi fare qualche sagrifìcio per la scienza.

Giacomino                    - Facitele vuie sti sacrificie. Io, si nun magno pe mez' ora sò muorte.  Penzanne che Mariannella nun è pronta ancora, e se magne chiù tarde, me sente veni 'e granche dinte 'o stommeche!

Monsignore                   - Tu che dici, se magne chiù tarde? E io ap­pena ho preso una tazza di cioccolata dalla marchesa Torrone, come posso resistere?

Giacomino                    - Vulite fa 'o sperimente? Viviteve nu cate d' acqua.

Giulia                            - Ah! siete stata dalla marchesa Torrone?

Monsignore                   - Sì, adesso di là vengo!

Giulia                            - Qnell' Emilia, è una buona amica; ma si vede sempre l'origine sua che è molta bassa, è molto volgare nei suoi modi.

Monsignore                   - Sarà come dite, io la trovo una brava e buona signora. Tene un cuoco che fa 'a ciucculate ma­gnificamente.

Carlo                             - Perciò è na brava signora!

Giulia                            - Domani sera verrà pure da me!

Carlo                             - Non sapete, Monsignore, che domani sera è la nascita della baronessa, la quale finisce 40 anni.

Giulia                            - Che bestia! Io faceva 40 anni? E quanto mai .'e signore fanne 40 anne? Tutto al più ar­rivano a 35, 36, e se fermano!

Carlo                             - Per esempio, vuie site arrivate a 36, e non siete andate più nanze.

Giulia                            - A 35! me posso spingere un altro poco.

Carlo                             - L' anno venturo arriverete 'a 'o cunfìne!

Giulia                            - Monsignore sono venuta a pregarvi di favo­rirci domani sera, perché tengo il solito mer­coledì, cosi stiamo entre nous. La vostra per­sona è desiderata da tutti.

Monsignore                   - Baronessa mia vi ringrazio, ma io non posso uscire la sera, perché i crepuscoli mi fanno male.

Carlo                             - E che ve possone fa i crepuscoli?

Monsignore                   - Seh! na cosa 'e niente! Io nun 'o credeva ma la forza che tenene i crepuscoli, è una cosa da sbalordire. L' altra sera me ne cadette uno ncoppa 'e mane, mi fece tale un dolore che ancora nun pozze muovere e dite!

Carlo                             - Sarrà state quacche animale che ve à muzzecate.

Monsignore                   - Che animale, fu nu crepuscolo. Io sono uscito diverse sere pe vedè i crepuscoli, e nell' oscu­rità nun aggio putute vede niente. E' vero, neh Giacumì?

Giacomino                    - Sissignore, Eccellenza, manch' io aggio visto niente! (viene avanti)

Monsignore                   - L' altra sera mi venne l’idea 'e caccià 'a mane 'a fora 'o spurtiello, pe vedè se chiuveva dovetti ritirarla 'e pressa! Tale fu il dolore che intesi.

Giacomino                    - (piano a Carlo) Fuie io che le tiraie na scurriatate ncoppa 'a mane, pe nun 'o fa ascì chiù 'e sera.

Monsignore                   - Vedete che ho ragione per non uscire di sera.

Giulia                            - Per una serata potete fare una eccezione.

Monsignore                   - Sentite non ve lo prometto certo. Ma se il tempo è buono mi procurerò il piacere di stare in vostra compagnia.

Giulia                            - Beatrì... togliamo l'incomodo a Monsignore... si fa tardi, e Monsignore deve mangià.

Monsignore                   - Per me potete restà, avete inteso che Mariannella, nun è pronta ancora.

Giulia                            - Anche per noi è tardi... perché mio marito tiene la stessa abitudine vostra, vo' mangià presto!

Monsignore                   - A n' auto poco finisce per tutti, perché nce levamme stu vizio d' 'o mangià; ed a me fa­ranno na statua!

Beatrice                         - Vi bacio le mani (esegue).

Giulia                            - Dunque, Monsignò, nce vedimme, senza meno, vi aspetto! (bacia la mano).

Monsignore                   - Non ve lo prometto certo, dipende dal tem­po. Benedetta... figlia mia... benedetta!

Carlo                             - Profitto dell'occasione, ed accompagno 'a Ba­ronessa pecchè debbo sapere certe notizie da lei... Monsignore (bacia la mano) Segretà, sta­teve bene.

Monsignore                   - Santo figlio mio, santo! Giacumì, fa gli onori di casa, accumpagne sti signori...

Giacomino                    - Vi servo subito, Eccellenza! (via in fondo con gli altri esce pure Monsignore e torna).

Aurelio                          - Non ò potuto sapè altro d' 'o paglietta, ma l'affare d' 'a bizzoca mi ha sorpreso; e Monsi­gnore la tene comme a na santa!

SCENA VII.

Ortensia, Cecilia e detti.

Ortensia                        - Mo che se ne so ghiute tutte quante, putimme vasà a mane a Monsignore?

Aurelio                          - È andato un momento fuori ad accumpagnà le signore.

Monsignore                   - (ritorna solo) Oh! e cheste addo' so asciute?

Ortensia                        - Nuìe stammo ccà, a stammatine, steveme dinte a cucina a spiccià 'o pranze pe vosta Eccellen­za. Chesta è Cecilia 'a neputella mia, 'a vedite comme se fatta bella!

Cecilia                           - ( piano) Zi-zinun'o dicite che me facite fa rossa, rossa pe'o scuorno.

Monsignore                   - (siede) Viene a ca', figlia mia, lasciami vedere nu poche da vicine.

Ortensia                        - 'A vedite, se mette scuorne! è scurnosa comme a me quanne era figliola!

Aurelio                          - (All'arme d' 'a scurnosa).

Ortensia                        - Cicì va a vasà a mano 'a Monsignore! Mo nce' a vase primme io, e pò nce' a vase tu (ese­gue). Chella si nun' 'o vede fa a me, nun' 'o fa essa. (Cecilia bacia la mano).

Monsignore                   - Chesta è 'a munacella. Nenne', dì a Munsignore tuie, quante vuò fa sta funzione? Munsignore tuio penserà a tutto! Voglio spendere denare assai chella jurnata, pe le fa fa na bella figura! Ma tu veramente tiene 1' inclinazione, di' 'a verità?

Cecilia                           - Comme vo' Monzignore, e zi-zia!

Monsignore                   - Comme ha risposto bene! essa non tiene vo­lontà... dice: La volontà vostra è la mia! que­sta è la vera vocazione.

Ortensia                        - Essa è affurtunata, ha truvato chisto sant'ommo, che le fa chesta sciorta 'e carità!

Monsignore                   - (che da qualche tempo prima si è frugato nelle tasche). L'avraggio lassate dint' 'a cammere 'e liette! Giacumì va dinto, vamme a piglia 'a ta­bacchera! Vide se sta ncoppe 'a culunnetta, o ncopp' 'o cantarano!

Giacomino                    -  Mo vaco, quanta pacienza! (via e torna).

Monsignore                   - Ceciliè, dimme na cosa, quanto tiempo t'anno date 'e permesso?

Cecilia                           - Nu mese sulamente!

Monsignore                   - È nu mese, me pare che basta per vedere tutto il mondo! Sei venuta da me, vaie abbascie 'a Chiesa mia, te vaie a fa na passeg­giata dint' 'a Villa Reale, e accussì è visto tutto cose!

Cecilia                           - E sultanto chesto aggio vedè?

Monsignore                   - E che altro vuoi vedè!... Queste sono le cose principali di Napoli.

Cecilia                           - Ma è troppo poco, io nun me pozzo cuntentà.

Monsignore                   - Allora, na sera 'e chesta, te porte a bevere l'acqua surfegna a S. Lucia, e ti porterò con la mia carrozza, perchè allora i cavalli staranno bene, fino a Margellina. Si cuntenta?

Cecilia                           - Comme vulite vuie. Ma pure è poco.

Monsignore                   - Chesta nun se cuntenta 'e niente!

Giacomino                    - (fuori ) Là dinte nun nce steva a tabacchera?

Monsignore                   - E haie visto buone?

Giacomino                    - Aggio revutato tutte cose, nun aggio addo' vedè cchiù.

Monsignore                   - Ma io stammatina 'a teneva? e che n'aggio fatto? Mi dispiace di perderla, è quella tabac­chiera d'argento che io caccio per le grandi occasioni: è nu ricordo dei padri miei.

Giacomino                    - Pecchè quanta padre tenite?

Monsignore                   - È discesa in eredità dal padre al figlio, dal figlio all'altro padre... e così, via via, fino a me!

Aurelio                          - Monsignò, può darsi che ve la siate dimen­ticata dalla marchesa stamane.

Monsignore                   - Che ciuccio!

Giacomino                    - Chi è 'o ciuccio?

Monsignore                   - Che ciuccio che songh' io, proprio accussì sarrà stato, comme ha ditto D. Aurelio, io l'aggio cac­ciata 'a da Marchesa; e là me 1'aggio scurdata.

Aurelio                          - Adesso manderemo il guardaporta a pren­derla.

Monsignore                   - No... nun conviene mandare 'o guardaporta? le voglio scrivere na lettera. Segretà... scri­vete! ...

Aurelio                          - (Mo si accummence, nun 'a fenesce chiù!) - Monsignò, dettate...

Monsignore                   - (passeggia con aria grave, e detta ) « Colendissima Signora Marchesa. Una grande disgrazia mi ha colpito.

Aurelio                          - Misericordia!

Monsignore                   - « Io la tenevo prima di venire da voi, ed ora non la tengo più, perché 1' ho rimasta in casa vostra.

Aurelio                          - Che cosa avete rimasto: La disgrazia?

Monsignore                   - No... la tabacchiera!

Aurelio                          - Voi non l'avete detto.

Monsignore                   - E mo' vene... nun ghiate 'e pressa. «La tabacchiera degli avi miei, di argento; non si  trova per tutta la casa. Io però son certo, anzi dubito, che mentre nella vostra galleria mi prendevo la cioccolata, l' ho rimasta là dentro.

Aurelio                          - Dentro 'a cioccolata?

Giacomino                    - 'A pigliate pe na briosce!

Monsignore                   - Nella galleria, bestia! È tanto chiaro « Per conseguenza vi prego, Colendissima Sig.a Marchesa, di fare il necessario, per ritrovare la mia tabacchiera, che per me m' è cara più di mia madre. E con questa speranza, passo a miglior vita e posso fare un sonno tranquillo. Vostro obbedientissimo servo e rettore Filippo Monsignore Perrelli ».

Aurelio                          - Volete firmà Monsignò?

Monsignore                   - Firmate voi stesso, è inutile che firmo io?

Giacomino                    - 'E ciucciarie soie nun 'e vo' firmà!

Monsignore                   - Metteteci il suggello con le armi gentilizie.

Aurelio                                     - (va ad aprire il tiratorio) Uh!Monsignò. A tabaccherà sta ca!

Monsignore                   - Chi me 1'ha posta?

Aurelio                          - Forse, voi stesso, in qualche momento di di­strazione.

Monsignore                   - Ah! sono rinato adesso che l'ho trovata ( la prende).

Giacomino                    - Mo 'a lettera nun va cchiù!

Monsignore                   - La lettera va lo stesso, perché si 'a Marchesa 'a va truvanno; é nun 'a trova, si dispera. Adesso ci faremo una postilla. Segretà riaprite la lettera e scrivete.

Aurelio                          - (voglio vedè sta bestia a che punto arriva) Dite Monsignò.

Monsignore                   - ( dettando ) Post Scriptum: « Non v' incomodate a cercare la tabacchiera, perché l' ho trovata che giaceva supina nel tiratoio della mia scrivania ». Suggellatela e mandatala per Giacomino (a Giacomino). Solo la mia mente può fare queste scoperte.

Aurelio                          - Ecco la lettera suggellata! (gliela dà).

Monsignore                   - Giacumì puorte chesta a 'o guardaporta dincelle 'che la purtasse alla Marchesa Torrone alla Riviera.

Giacomino                    - Io nun me pozzo fa capace pecchè le mannate sta lettera (via borbottando).

Monsignore                   - E vide si a fenisce, sta ancora parlanne isso sulo! ... È nu buono giovine ma nu poco sce­mo. Io lo tollero pecchè... isso me fa da ser­vitore, da cocchiere, da sguattero, tutto quello che voglio isso fa!

Ortensia                        - E nun fa niente che è un poco scemo, avaste eh'è affezzionato!

Monsignore                   - Oh! affezionatissimo!

Ortensia                        - Vuie m'avite dà ò permesso, perché avimme ire à spiccià a cucina.

Monsignore                   - Oh! Allora quanno è chesto andate subito spicciate ampresse, ampresse. Ceciliè che piatte doce m'è fatto?

Cecilia                           - Mo subito, subito nun ve puteva fa niente 'e buono; v'aggio fatto mi poco 'e gialle mangià.

Monsignore                   - Oh! mi piace assaissimo!

Cecilia                           - Quanne pò tengo tiempo, ve faccio 'e barchiglie chine 'e ciucculata e creme.

Monsignore                   - Bene, benone! Che inclinazione tene per il monacato sta ragazza!

Ortensia                        - Datece licenzia (via con Cecilia).

Monsignore                   - Quella ragazza può diventare Batessa! Se fa 'e dolce buone, farà subito carriera!

SCENA VIII.

Giacomino, indi Baldassarre, Filippetto e detti

Giacomino                    - Trasite, trasite, ccà sta Monsignore!

Monsignore                   - Cu chi staie parlanne?

Giacomino                    - Aggio travato abbascio 'ò palazzo nu cano­nico e nu prevetariello, che veneno 'a Cicciano, e che ve vanno truvanno.

Monsignore                   - Ah! è papà e mammà che li mandano.

Giacomino                    - Chiste hanno essere 'o frate e 'a sora 'e Noè!

Baldassarre                   - È permesso Monsignore.

Monsignore                   - Uh! D. Baldassarre! Uh! Filippetto, il caro mio nipote!

Baldassarre                   - Monsignore vi bacio le mani! (esegue).

Filippetto                      - Zimonsignò, vi bacio le mani per parte anche d' 'o nonno e d' 'a nonna!

Monsignore                   - Grazie figlio mio! ... e comme va questa sor­presa?

Baldassarre                   - Comme? Non l'avete capito? Quei due poveri vecchi si sono allarmati.

Monsignore                   - Ma di che cosa parlate?

Filippetto                      - 'A Napole, nun avete avuto 'o terremote?

Monsignore                   - Si l'altro giorno avemmo una fortissima scos­sa; per causa del Vesuvio che eruttò! Ma mò per grazia di Dio, è finita!

Giacomino                    - Monsignò, Che 'a vulive fa durà ancora?

Aurelio                          - Monsignore vuol dire che non si è ripetuta.

Baldassarre                   - A Cicciano è venuta 'a nutizia che se n'era caduta meza Napoli, figuratevi lo spavento.

 Filippetto                     - Il nonno e 'a nonna se so puoste paura assaie!

Monsignore                   - Mi dispiace pe chilli poveri viecchiarielle!

Baldassarre                   - Mi hanno fatto andare ieri a prendere 'o piccerillo del Seminario a Nola, 'e stamattina di notte ci hanno fatto partire.

Filippetto                      - Hanno mandato pure a me, per assicurarmi, se voi stavate bene.

Monsignore                   - Quanto so affezionati sti genitori miei. Ed è naturale, perché se io mureva, se perdeva nu grand'uomo!

Filippetto                      - Zi Monsignò! scusate, so state assettate quatt'ore ncoppa à nu sciaraballe, vorrei riposarmi un poco!

Baldassarre                   - Anche io sto strapazzato; ma non osava dirvelo.

Monsignore                   - Adesso penseremo a tutto! Nu poco 'e pacienza. Giacumì, 'o vide a chisto? Questo è mio nipote, figlio a mio fratello Gregorio. Quest'è il mio successore... Questo è destinato ad essere l'altro Monsignor Perrelli.

Giacomino                    - Speramme ch'appassa à vuie!

Monsignore                   - No! Alla mia dottrina non può arrivare? Pecche mo nun si studia come si studiava ai miei tempi; ma il Monsignorato gli spetta perché è dritto di famiglia.

Baldassarre                   - E voi pure Filippo vi chiamate?

Monsignore                   - Filippo è il mio quarto nome, perché io nella mia fede di nascita ne tengo 17.

Giacomino                    - Cu salute!

Monsignore                   - 'E vulite sentì tutt' 'e diciasette?

Baldassarre                   - Me li direte a poca per volta, tre a quattro al giorno.

Monsignore                   - Però io mi firmo sempre Filippo per rispet­tare la memoria di Filippo seniore, mio zio.

Baldassarre                   - Anch'egli era di Cicciano?

Monsignore                   - Non signore egli era napoletano come me! Io son nato in Napoli il 4 Agosto 1771.

Baldassarre                   - Ah! avete 51 anni, e li portate bene!

Giacomino                    - Pecchesto isso pò campà fino a 200 anne pecché magna buone! All' aute min 'e vò dà a magnà.

Monsignore                   - Nun ò state a sentì pecchè è fissato per que­sto! ... D. Aurè faciteme nu piacere, fateme su­bito, subito na lettera a papà per rassicurarlo che io sto bene. Voi ve ne andate presto?

Baldassarre                   - Dipende dalle circostanze! Ve lo faremo sa­pere!

Monsignore                   - Io vado a disporre ogni cosa, mo nce vedimmo (via in fretta, e poi torna).

Baldassarre                   - (Chisto è un fatto serio, che ccà nun se ma­gna? )

Filippetto                      - (piano) D. Baldassà, avite ntise chillo giovine, che à ditto? Che zi - Monsignore nun dà à magna a nisciuno!

Baldassarre                   - (piano) Io, a questo stavo pensando?

Filippetto                      - Nun sia mai, io mo scunocchio d' à famme!

Baldassarre                   - (piano) Mo ò chiamme (forte) Buon giovine, venite ccà, scusate na preghiera.

Giacomino                    - Vulite à me? Io me chiamo Giacomino ai vostri comandi!

Baldassarre                   - Giacomino.... voi che siete della casa, come vedo.... non so che cosa siete.... ma...

Giacomino                    - Io sono un pò di tutto, e me putite cumannà!

Baldassarre                   - St' affare che avete detto poco primme, che Monsignore faceva sta digiuno la gente mi à preoccupato un poco!

Filippetto                      - Noi veniamo da Cicciano, e... dopo quatte ore di sciaraballe, teniamo na brutta famme e capite, cu sti cose non si scherza.

Giacomino                    - Voi che ce siete venuto a fa? stiveve tanto bello fora, aria bona, magna buone, vino me­glio... Uh! ve saziaveve 'e tutte cose. Qua Monsignore vò fa na prova'e fa sta diuna 'a gen­te, pecche 'a scuperte che se pò campà senza magnà.

Baldassarre                   - Senza magnà? E 'a vo fa cu nuie sta prova?

Giacomino                    - Se capisce, primme 'e furastiere, 'e pò cu chille d' à casa.

Filippetto                      - E a me questo 'o nonno, nun me l'ha detto! Mi ha preso a tradimento! Se sapeva questo non mi sarei mosso dal Seminario.

Baldassarre                   - Seh! Là mangie chella papocchia!

Filippetto                      - Sarrà papocchia, ma se magne, qui dobbiamo star digiuni. Turnammuncenne n' auta vota a Cicciano.

Baldassarre                   - E comme facciamo un'altra volta quatt'ore di sciaraballe senza magnà; è impossibile.

Filippetto                      - Mangiammo dinte a na taverna.

Baldassarre                   - E se io pago 'o sciaraballe, nun me restene denare pe magnà.

Filippetto                      - Nce facimme dà un poco 'e pane a zi Monzignore.

Giacomino                    - Chi v' 'o dà! Acqua, quante ne vulite. Cà chi vò magnà 'a dà vevere.

Filippetto                      - Comme ci sono capitate.... Pe causa d' 'o ter­ramoto aggio passato chisto guaio!

Baldassarre                   - E io che sono eli una età che non possono resistere al digiuno?

Giacomino                    - Avite fa 'o trapasse fino a dimane che arri­vate a 'o paese.

Filippetto                      - (con segni d'impazienza) Oh! me vene n'arraggie che me mettarria 'a strillà  comme a nu pazze.

Baldassarre                   - Pazienza e rassegnazione, figlio mio!

SCENA IX.

Monsignore e detti

Monsignore                   - (allegro) Eccomi qua ho tutto aggiustato V'aggio fatto apparicchià....

Filippetto                      - (con gioia) Ah! bene

Monsignore                   - Na bella cammera, cu duie lettini.

Filippetto                      - (sconfortato) E chesto è tutto?

Baldassarre                   - Grazie, Monsignore, quanta bontà.

Filippetto                      - (piano) E pe magnà nun se ne parla!

Baldassarre                   - (c.s.) Statte zitto, che faie peggio.

Monsignore                   - Vuie ve restate qualche giorno, cu me?

Filippetto                      - Nun sia mai, voi che dite zi-zi, restavo con voi? (cà nun se magne).

Baldassarre                   - Monsignore, noi dobbiamo partire subito perché ci aspettano a casa!

Monsignore                   - Fate primme un poco 'a prova a Napoli e ripartirete.

Filippetto                      - Io faccio 'a prova a Napoli? Non .sia mai!

Monsignore                   - Vedete che spavento! Eppure è cosa sempli­cissima, e ti ci devi abituare!

Filippetto                      - Io non mi abituerò mai (a sta diune).

Aurelio                          - Monsignore, questa è la lettera che mi avete ordinata.

Monsignore                   - (leggendo) No.... nun me piace.... non avete la parola calda, bollente, come la tengo io. Aggio capito mò ve à detto io, mentre aspetto 'o pranzo 'a facimmo lesto, lesto...

Filippetto                      - (piano) ‘O pranze? ovvì che se magne!

Baldassarre                   - (c. s.) L'aspetta isso, di noi non ne à parlato.

Filippetto                      - (c. s.) Me tacite squaglià 'o sangue a dinte 'e vene.

Monsignore                   - (detta come prima) Carissimo padre, amato più che fratello! (a Giacomo) Gìacumì, capisci, il padre si deve amare più del fratello.

Giacomino                    - Avite fatte chesta scoverta!

Monsignore                   - (detta) Vi scrivo vivo, mentre credevo di scrivervi morto....

Giacomino                    - E che d'è, 'e muorte scrivene?

Monsignore                   - Zitto bestia! ( detta ) perché qui è successo un bellissimo terramoto, che se durava un' al­tra mezz' ora, noi staremmo tutti in paradiso, che il Cielo ce ne liberi.

Filippetto                      - (‘O Cielo, ce avarria fa magnà).

Monsignore                   - (detta) Noi, grazie a Dio, stiamo tutti bene in salute, soltanto Meneca, la nostra cuoca, ha avuto uno sbocco di sangue, così spero sen­tire di voi e di tutta la famiglia! Vi bacio ambo le destre....

Filippetto                      - Zi Monsignò, 'o nonno una destra tiene.

Monsignore                   - Uno pe papà, e un altra pe mammà! (detta) Vi chieggo la vostra santa benedizione e non mi firmo perché voi mi sapete.

Giacomino                    - E a vuie chi nun ve sape?

Monsignore                   - Segreta suggellatela e datela al Canonico.

Aurelio                          - (Aggio fatto chisto capolavoro).

Monsignore                   - Avete detto che nun ve piace?

Aurelio                          - Anzi, dicevo che è un capolavoro.

Monsignore                   - Avete visto come si scrive... bello, zucuso, zucuso... e si dice tutto!

Baldassarre                   - (piano) Filippè zi-zio è ciuccio assai, più di quello che si dice.

Filippetto                      - ( c. s. ) Voi che dite Canò? Quello è dotto assai!

Baldassarre                   - Ah! Beh! (Questo sarà il suo degno suc­cessore).

Aurelio                          - Ecco la lettera, sig. Canonico, (gliela porge).

SCENA X.

Mariannella, Domenico e detti

Mariannella                   - Monsignò, vulite venì a mangià, simme pronte.

(via).

Monsignore                   - Passiamo nella stanza da pranzo.

Filippetto                      - Comme, Zi Monsignò, nce facite mangià?

Monsignore                   - Se capisce, e che vnlive sta diune?

Baldassarre                   - Ah! m' avite levate na palla 'a coppa 'o stommache.

Filippetto                      - Giacumine, nce avive ditte che avevamo fa 'a prova 'e sta diune.

Monsignore                   - Perciò te ne vulive scappà, priesto, priesto!

Giacomino                    - Vuie vulite fa a prova cu me, è meglio che 'a facevene primme cu lloro.

Monsignore                   - Pe mo mangiamme! Pe 'a prova se ne parla appriesso.

Baldassarre                   - (piano) Nuie dimane nce ne scappamme, ap­priesso se 'a vedene lloro.

Mariannella                   - (riesce) Monsignò, fora nce sta Dummineche, 'o sagristano che ve vò parlà 'e presse.

Monsignore                   - Giusto in questo momento! Basta fallo trasì.

Domenico                     - (fuori) Monsignò currite subito abbascio 'a sagrestia! 'E mariuole hanno scalato 'o mure di' 'o giardino, hanno scassata a scrivania vosta, e s' hanno pigliato 'o cascettino co' tutte 'e denare!

Baldassarre                   - Addio pranzo! (cade su di una sedia).

Filippetto                      - Avimme murì 'e famme! (fa lo stesso).

Monsignore                   - (agitato) Tu che dici? Là nce stevene chiù 'e cinquecente ducati, tra monete d'argento ed oro; comme si fa? Sono rovinato! Quello era tutto il danaro della Chiesa!

Domenico                     - So venute 'o Rispettore 'e pulizia cu 'e fe­ruce, e vanno truvanno 'a vuie!

Monsignore                   - (che à frugato nelle tasche del gilè) Ah! piglio fiato! Sono salvo! Va bene è cosa da niente!

Domenico                     - Che l'aggia risponnere a 'o Rispettore?

Monsignore                   - Dì all' Ispettore che io mò mangio e vengo, e accomoderemo tutto! (Domenico via in fretta).

Tutti                              - (ansiosi) Che è stato?

Baldassarre                   - Nnn nce steve niente là dinte?

Monsignore                   - Non 1' avete capito? La chiave la tengo io! S'hanno arrubbate 'o cascettino, e comme l'a­prono? 'A forza da me debbono venire, si no che ne fanno? Andiamo a tavola adesso, questo è 1'essenziale!

Fine del primo atto.

ATTO SECONDO

Salotto in casa della Baronessa Filaccio, por­ta in fondo e laterali, finestra con cortine (a si­nistra, 1a quinta, mobilia dorata, candelabri con ceri accesi, due candelieri di argento con ceri.

SCENA I.

Aurelio, indi Salvatore e Carlo

Aurelio                          - Sto da mez' ora aspettando che la sig.a fini­sca la sua toletta; e chesta nun s' è spicciata ancora. Ma sono lunghe 'e femmene quanno se vestene!

Salvatore                       - ( conducendo Carlo ) Il Signor Avvocato, può attendere qua, vado ad avvertire la Baronessa (entra a destra).

Carlo                             - ( ad Aurelio ) Comme stai già qui? E che si venute ad appiccià 'e cannele?

Aurelio                          - Pe me nce sta lo scopo 'e venì, nu poco primme, tu lo sai il perché; ma per te è una cosa curiosa.

Carlo                             - Ti dirò: io non voleva mancare alla promes­sa fatta alla Baronessa, ma non voglio lasciare S. Carlo, e perdere il ballo. Nce sta quella Taglione - 'a primma ballarina - che fa cose 'e pazze.

Aurelio                          - E tu ne sei entusiasta?

Carlo                             - A me, in generale, mi piace il teatro, ma poi per S. Carlo nce tengo nu debole. La nce sono molti amici, perciò nun manco mai la sera.

Aurelio                          - Beato te che te puoi divertì, sei solo, non hai pensieri.... 'A marina, a 'e doie, finisce 'o Tri­bunale e vaie facendo 'o vagabondo.

Carlo                             - Dimme na cosa. Tu ti sei innamorato sul se­rio di D.a Beatrice?

Aurelio                          - Che vuoi? Io amo tanto lei, per quanto odio il padre che è un usuraio porco.

Carlo                             - Fammi na finezza, tu comme t'ha spuse?

Aurelio                          - Non lo so nemmeno io!

Carlo                             - Non per farti torto, ma tu sei nu segretario 'e Monsignore, e se Monsignore te ne manne, o more, tu che posizione tieni?

Aurelio                          - Nessuna e questo é quello che mi affligge!

Carlo                             - 'O padre che ne dice?

Aurelio                          - Il padre non lo sa, non voglia Dio lo sapes­se, verrebbe il finimondo. Isso se crede di dare sua figlia ad un nobile, nu titulato...

Carlo                             - E a mamma?

Aurelio                          - Finge di non saperlo, ma - come tutte le madri - vede e se sta zitto.

Carlo                             - E per l'avvenire che pienze 'e fa?

Aurelio                          - Niente!

Carlo                             - È na bella prospettiva! Io se avesse fa ammore accussì, murarrie doppe tre ghiuorne.

Aurelio                          - Adesso so venuto nu poco primme, per avere la soddisfazione 'e parlà a solo a solo con lei.

Carlo                             - Bella soddisfazione!

Aurelio                          - A proposito, ieri che appurasti della Baro­nessa.

Carlo                             - Pe 'o fatto d' 'a Bizzoca? È proprio quello che diceva io! Quella munacella è figlia alla bon'anima di D. Michele Filaccio. Essa è la vera baronessa Filaccio perché D.Michele era il primogenito.

Aurelio                          - Siccome è una figlia spuria, così non le spetta niente.

Carlo                             - Non è legittima, ma si potrebbe legittimare, perché 'o saputo che il matrimonio in extre­mis fu fatto da un prete e quindi è un ma­trimonio valido, se io pigliarria sta causa a pettinà 'o farrìa abballà nu poco 'o Barone.

Aurelio                          - E nun sai chi è stu prete che benedisse il matrimonio?

Carlo                             - Tengo nu suspetto, ma nun lo so di certo, ma appena ne sarò sicuro facimmo l’opera io e 'o barone.

Aurelio                          - Io allora andrò peggio, perché il barone, che è intrattabile, diverrà un animale addirittura.

Carlo                             - E che nce preme? noi gl' imporremo le con­dizioni nostre, e isso adda calà 'a cape. Tu lascia fa me; e tu sai che pe mbruglià 'a gente sò fatte apposta.

Aurelio                          - E io che debbo fare?

Carlo                             - Niente, per ora, quanto è il momento, tu e D. Beatrice dovete seguire tutte chelle che vi dico io.

Aurelio                          - Ma, me ha fai spusà?

Carlo                             - Ne ho tutta la buona intenzione. Io nce tengo nu currive cu chill' uorche, perché l'altra sera al circolo dei Cavalieri se pigliaie diece pezze.

Aurelio                          - E comme se pigliaie?

Carlo                             - Me vincette 'a primera.

SCENA II.

Beatricee detti

Beatrice                         - ( da destra) Scuseme che t’aggio fatto aspettà nu poco (ripigliandosi). Ah! non siete solo, nce sta anche il paglietta!

Carlo                             - No, fate come io non ce stesse, anzi io ve pozze rendere pure qualche servizio.

Aurelio                          - D. Carluccio è così buono per noi; è adesso di questo stavamo parlando, ed egli si è of­ferto a qualunque cosa.

Carlo                             - E che nc' entra, per noi altri paglietta è un dovere, anzi è la professione che 'o porta.

Beatrice                         - Allora, giacché siete tanto buono, guardate se viene mammà, perché voglio dire due parole ad Aurelio.

Carlo                             - Perché, mammà nun sape niente?

Beatrice                         - 'O sape e nun 'o sape! In certe cose biso­gna salvare le apparenze.

Carlo                             - Insomma apparentemente non deve saperlo; ma pò 'o sape e l'approva.

Beatrice                         - Approva no! Quando poi lo dirà a papà al­lora poi...

Carlo                             - Verrà il giorno del giudizio universale! A pro­posito addò sta papà non vorrei incontrarmi con lui!

Beatrice                         - E' andato a giocà stasera, viene notte as­sai, noi neppure lo sentiamo quando ritorna.

Carlo                             - Va trova a chi spoglia stasera! L' altra sera da me se pigliaie diece pezze.

Aurelio                          - Te si fissate pe stu fatte! Che te fanno a te 12 ducati.

Carlo                             - Non per la moneta, ma p' 'o'à currive! Erano 10 pezze nove, nove a matina me l'aveva purtate nu cafone pe na causa che io 1' aveva vinto. Venette isso, frisco, frisco, e se pezzecaie.

Beatrice                         - E buon prò le faccia!

Carlo                             - ‘O cancaro! Signurì scusate che v' è padre, ma mi è uscito!

Beatrice                         - Vedite si vene mammà e nun ce facite per­dere tiempe.

Carlo                             - (si mette di guardia alla porta a destra) Ve­dete la professione dì avvocato a che è ridotta!

Aurelio                          - (piano) Beatrì io ho buone speranze da darti..

Beatrice                         - Che avite pigliato 'o terno?

Aurelio                          - Altro che terno! Noi, col paglietta, abbiamo stabilito un piano che avremo nelle mani il barone tuo padre.

Beatrice                         - E come? come?

Aurelio                          - Qui sta il segreto. Se lo divulgassi non po­trebbe più riuscire il fatto.

Beatrice                         - Ma io n'aggia sapè qualche cosa.

Aurelio                          - Tu non devi sapere niente fino al momento opportuno. Devi avere soltanto fiducia in me, e D. Carluccio.

Beatrice                         - Ma ch'aggìa fa? E' cosa difficile?

Aurelio                          - Vedremo. Per ora non abbiamo deciso niente ancora. Ti farò sapere tutto per mezzo di let­tera.

Carlo                             - (piano) Sta venenne mammà (si pone fra i due) (forte) Dunque baronessina stavamo par­lando del fatto d' 'e diece pezze! (ripigliando­si) del furto fatto a Monsignore. Lo sapete?

Beatrice                         - No! non lo so.

SCENA III.

Giulia e detti

Giulia                            - (da destra) Che d' è stu furto?

Carlo                             - Prima d' ogni altro, tanti augurii per la vo­stra nascita, e per il vostro trentacinquesimo compleanno.

Giulia                            - I burlati vanno pure in paradiso!

Carlo                             - Vuie accussi m' avete detto, ripeto le vostre parole.

Aurelio                          - Accogliete anche i miei augurii più sinceri signora baronessa.

Giulia                            - Grazie! grazie! Dunque quale è il furto che avete detto?

Carlo                             - Un furto che hanno fatto nella sacrestia della chiesa di Monsignore si hanno rubato un cassettino con 500 ducati dentro. Aiere fuie chiammate 'e presse e dovetti accorrere per assistere 1' ispettore di Pulizia.

Giulia                            - M' immagino Monsignore comme starrà?

Aurelio                          - Anzi sta allegro, pazzariello! Dice che i ladri debbono andare da lui, perché isso tene 'a chiave d' 'o casciettino, si no nun ponne apri.

Giulia                            - Davvero, arriva a questo?

Carlo                             - E chesto che d' è? niente! Chillo è rubato da tutte quante, si mette a firma carte senza av­visarmi prima. Fa nu sacco de guaie isso sulo.

Giulia                            - E voi, come suo avvocato, non gli avvisate niente!

Carlo                             - Nce 'o dico, ma nun se ne incarica. Si crede un uomo dotto, superiore a tutti e che non ha bisogno di consigli.

Giulia                            - Se stasera viene gli voglio parla io di que­sto. D. Aure sapete se viene

Aurelio                          - E chi lo sa! Fa cento pensate al minuto. Però à molta paura dei crepuscoli.

Carlo                             - (ridendo) Se capisce! Chille avette na scurriatate ncoppa 'a mano, che se 1' arricorda ancora. Me dicette Giacumino, che pe nun fa asci a sera 1' aveva cumbinato chisto servizie.

Giulia                            - Perciò disse che i crepuscoli erano seganti.

Carlo                             - E 'o scurriate 1' avette segà tutte 'e dete.

Beatrice                         - Vedite che ciuccio.

Aurelio                          - E che ne sapete, bisognerebbe leggere un poco 1' epistolario di Monsignore.

Carlo                             - Perché, fra le altre cose, è grafomane.

Giulia                            - Insomma è un vero capo d' opera.

Carlo                             - E voi altre signore ve nce spassate!

Giulia                            - Se a da passa 'o tiempo in un modo,

Beatrice                         - Ma comme 1' hanno fatto vescovo.

Carlo                             - Che vescovo! Quello è un Monsignore di ti­tolo, perché la sua famiglia ebbe questo privi­legio per tutti gli eredi che si facevano preti.

Giulia                            - Ah! mo capisco! ...

SCENA IV.

Salvatore, indi a Marchese Torrone e detti

Salvatore                       - Eccellenza son venuto il marchese e la mar­chesa Torrone, posso farli entrare?

Giulia                            - Ma s' intende, se stiamo tutti qui! (Salvatore via) Riceviamo questo Marchese cafone.

Carlo                             - Ma comme è marchese?

Giulia                            - Pecche tene 'e denare e à comprato questo titolo! Nobiltà di provincia, ma sempe nu cafone è rimasto. (Questo personaggio ha l’accento pu­gliese).

Emil.                             - Mia cara Giulia, mia carissima Beatrice (si baciono) Tanti augurii per la tua festa. Spe­riamo per cento anni di vederti così bella.

Marchese                       - Ma che è la nascita della Baronessa? e non me 1' hai detto a la casa!

Emil.                             - Te l'ho detto e te ne sei dimenticato.

Marchese                       - Tanta cosa da pensà, pensava insta alla Baronessa.

Carlo                             - (piano) E' molto accrianzato....

Marchese                       - Basta, mo te faccio tanta di questi giorni e tanti di questi giorni che tu nun ne vuò chiù!

Carlo                             - (Ha fatta 'a carità!)

Giulia                            - Grazie marchese, conosco il vostro cuore!

Marchese                       - È questa è figlia toia? Belloccia sa! Parite doie surelle!

Giulia                            - E' un complimento che mi fate?

Marchese                       - No, è la verità, tu tiene l'annicielle ncuolle, ma te li nascunne sotte a la coda.

Emil.                             - Mìncuccio, che cosa sono questi discorsi.

Marchese                       - No.... le voglio dire la verità a la Baro­nessa che nce è amica.... Quante anne faie ogge Na cinquantinella.... Li porte buone, a perola mia!

Giulia                            - (piano) Che cafone scustumato.

Emil.                             - Mincuccio, fate silenzio! Nella buona società queste cose non si dicono.

Marchese                       - Che nc' entra questo! Nu marchese dice sempe 'a verità.

Emil.                             - Giulia compie appena 35 anni.

Marchese                       - Tu vuò burlà a me, nun vide che tene na figlia grossa.

Giulia                            - (Mo 'a spezzo io) Marchese a proposito vi presento 1' avvocato D. Carlo Strozza.

Marchese                       - Pagliette si tu?

Carlo                             - (Avimme magnate a qualche taverna assieme) Sicuro sono avvocato.

Marchese                       - Haie da essere nu mbruglione!

Carlo                             - Pecchè v' aggio nbrugliato quacche vota?

Marchese                       - E stai frisco, da me 'e pagliette nun se pigliano manco nu tarì. E perdo 'e denare, ma cause nun ne faccio.

 

Carlo                             - E fate bene! Io vorrei essere un debitore vo­stro, pe num ve dà niente chiù!

Marchese                       - E chiste aute giovine chi è? e pure pagliet­te? .. Io nun te saccio a te?

Aurelio                          - E io manco a vuie e stamme pace! Io sono il segretario di Monsignor Perrelli.

Marchese                       - De chille ciuccione, 'e chille bestione!

Carlo                             - (Ha parlato chi sto mostro 'escienza!)

Marchese                       - Aiere facette perdere la capa alla mar­chesa mia moglie, pe le truvà 'a tabbacchera pe tutta la casa! Emilia racconta 'o fatto alla baronessa.

Emil.                             - Vedete che lettera mi scrive Monsignore (gliela porge)

Giulia                            - (leggendo) Quante bestialità, va trova chi l'ha scritta?

Aurelio                          - Io signora Baronessa!

Marchese                       - 'E si na bestia pure tu, che faie perdere 'a capa a la Marchesa. Comme faie 'o segreta­rio tu quanne scrive chesti ciucciarie?

Aurelio                          - (piano) Mo 'o sciacche Marchese e buono! (forte) La lettera mi fu dettata da Monsignore.

Emil.                             - E questo è niente! volti il foglio e leggi che cosa dice.

Giulia                            - (legge) «Non v' incomodate a cercare la tabbacchiera perché 1' ho trovata che giaceva supina nella mia scrivania ». E allora perché te la mandò?

Carlo                             - E si nun facesse sti cose nun sarria chiù isso!

Marchese                       - Ma che specie 'e ciuccio! A lu paese mio nun nce stanne ciucce accussì!

Carlo                             - Se capisce! Sò emigrate tutte pe Napule!

Beatrice                         - (guarda dalla finestra) Mammà sta pio­vendo forte!

Marchese                       - E che fa nuie tenimme 'a carrozze!

Giulia                            - Mi dispiace perché monsignore mi disse che se era cattivo tempo non sarebbe venuto.

Carlo                             - E di fatti poca gente è venuta, per causa del tempo pessimo.

SCENA V.

Salvatore indi la Contessa

Salvatore                       - (annunziando). La contessa del Cerriglio!

Giulia                            - Uh! Caterina, falla entrare?

Carlo                             - E che puteva mancà, chesta s'avvia cu tutte 'e tiempe.

Giulia                            - È na bona amica Caterina! È un poco pagliettessa, fa 'a concurrenza a voi!

Carlo                             - Sputa bene, ogni voncole 'e chesta manera!

Marchese                       - Statte zitte tu! Chesta è la nvidia che te fa parlà.

Contessa                       - Felice sera Signori; Giulia mia che te pozze augurà? Cento e cento di queste serate con tutta sta bella compagnia attuorne e a chesta bella figlia un bello matrimonio, cu un giovine bello, ricco e titolato. Che se ne fa nu spian­tato 'e chisto che nun tene ne Cielo a vedè ne terra a cammenà!

Giulia                            - (che le è andato incontro). Caterina mia ti rin­grazio maggiormente, perché cu stu cattivo tempo ai pensato a me.

Contessa                       - Le antiche amiche si rispettano sempre! Nuie simme state in Collegio nzieme, e nce avimme voluto sempe bene. ‘O può dì?

Carlo                             - Questo è un triste ricordo per la barunessa?

Giulia                            - Vi comme ve prode 'a capa a vuie!

Marchese                       - È paglietta e tanto basta.

Contessa                       - Uh! 'o paglietta mio! Comme va che avite fatto stu sforze 'e venì ca stasera. Vuie iate sempe appriessa a 'e ballarine e 'a sera state sempe occupato.

Carlo                             - Ò mantenuta una mia promessa alla Baro­nessa, ma doppe vaco a S. Carlo.

Contessa                       - E che puteva mancà pe na serata a S. Carlo?

Giulia                            - Nell'istesso modo comme il Barone, mio ma­rito, nun pò mancà pe na serata al Circolo.

Contessa                       - Chillo pò maritete è giucatore! È nu brutto vizio, pò mannà a casa a ruvine.

Carlo                             - Non credete, Contessa, isso vince sempe, e l'altra sera se pigliaie da me diece pezze!

Aurelio                          - (piano). È na fissazione cu stu fatto, d' 'e 10 pezze!

Marchese                       - Io non gioco mai, pecchè 'e denare miei nun 'e voglio dà a nisciuno.

Ortensia                        - E facite buone! Tale e quale come la bonanima del Conte mio marito! E se è truvate buone pecchè tutte 'e danare suoie me 'a la­sciate a me!

Carlo                             - Tale e quale, come farà il marchese con la moglie.

Marchese                       - Io 'e lasce alla mia prole perché io e la mar­chesa siamo giovani ancora.

Carlo                             - La Marchesa va bene... ma per la vostra prole ho le mie difficoltà...

Marchese                       - Oh! vedete che scrianzate, scustumate.

Giulia                            - Va bene, l'avvocato scherza! Ebbè 1' avete ncuietato tanto voi prima... e adesso si à presa la rivincita!

SCENA VI.

Salvatore indi Monsignore (di dentro) e detti

Salvatore                       - Eccellenza abbascio 'o purtone nce sta un Signore che 'a mannata sta lettera, dice che aspetta la risposta.

Giulia                            - Vedimme chi è che scrive. Signori con per­messo (legge la firma). Uh! Monsignore!

Tutti                              - Monsignore?

Giulia                            - Quanto mi dispiace, è segno che non viene! D. Aurè voi che siete il suo Segretario leggete voi la lettera.

Aurelio                          - Vi servo subito (legge) Colendissima Si.a Baronessa » 'o solito! (legge). « Oggi che ricorre il vostro santo Natale vi aveva promessa di farvi gli augurii di felicità e prosperità, e non potendo venire con la mia propria persona, perché sto pieno di dolori rematici, così ve li auguro, da casa mia, centuplicati a voi ed a tutta la famiglia.

Giulia                            - All'ossa soia! Ma vo fa venì 'e dulure a me?

Carlo                             - No... gli augurii 'e sotte si riferiscono alla felicità 'e coppa.

Contessa                       - Ma cheste nun se capisce.

Carlo                             - E' na lettera 'e Monsignore, che ne vulite?

Aurelio                          - A ca nce sta nu poscritto.

Emil.                             - E' fanatico pei poscritti.

Giulia                            - Sentimme che dice 'o poscritto.

Aurelio                          - (legge). « Non avendo trovato nessuno che « vi porta questa lettera, così ve la porto io « stesso, e aspetto la risposta. »

Giulia                            - Allora è chiaro che isso sta aspettanno ab­bascio.

Marchese                       - Ma che dice... nun pò essere chesto!

Aurelio                          - E' capace altro di questo!

Carlo                             - Mo ve levo io la difficoltà (si affaccia alla finestra). Sissignore! ... isso è... Riconosco 'o cappiello suio sotto 'o fanale d' 'o guardaporta.

Giulia                            - Chiamatelo, accussì ce ne assicuriamo meglio.

Carlo                             - (chiamando) Monsignò.... Monsignò…….

Monsignore                   - (di dentro) Chi siete? Che volete?

Carlo                             - Io sono D. Carluccio, 'o paglietta. Dice la baronessa perchè non salite?

Monsignore                   - (di dentro). Ringraziatemi la baronessa, di­tele che io non vengo perché piove e sto tutto raffredato. Ci vedremo un'altra sera.

Carlo                             - E mo site arrivate fino a cà, pecchè non sa­lite?

Monsignore                   - (di dentro). Potrei bagnarmi quando me ne vado.

Giulia                            - Ditegli che me piglio collera se nun saglie.

Carlo                             - Monsignò, La Baronessa dice, che se non salite, se piglia collera.

Monsignore                   - (di dentro). Mi dispiace che se piglia colle­ra; ma io cu chesta serata nun pozzo fa visite, se no, me bagno!

Carlo                             - Aspettate nu mumento che mo scendo io. (si ritira dalla finestra). E' tuoste sà! dice che se bagna.

Giulia                            - E chille già si è bagnato!

Carlo                             - E chesto è chello che nun capisce. Permet­tetemi, mo nce vado io e lo persuado (via con Salvatore).

Marchese                       - Ma tene na coccia, tene!

Contessa                       - Ma se isso stesso ha purtato 'a lettera! Io nun me credeva che era accussì ciuccio!

Emil.                             - Voi come fate a fare il Segretario 'e Mon­signore, c'è da perdere la testa!

Aurelio                          - Eppure io mi sono abituato a quelle strambezze, che non mi fanno più impressione. Pec­chè se ci levate chesto è un gran buon uomo!

Marchese                       - Tu nce tiene tutta sta pacienza!

Contessa                       - Io a quanto tiempo l'avarria mannate a chille paese!

Giulia                            - Intanto te piace 'e ridere.

Contessa                       - Quanne fa 'e cosa curiose me nce spasse pure io...

SCENA VII.

Monsignore, Carlo, Salvatore e detti

Carlo                             - Eccolo qua! L'ho persuaso a salire!

Monsignore                   - (con cappotto ed ombrello, verde, tutto bagnato). Vedete in che stato son ridotto, come puteva venì? Solo D.Carluccio mi ha persuaso!

Giulia                            - Monsignore la vostra presenza è sempre de­siderata! E poi una volta che siete arrivato fin qui…..

Monsignore                   - Io non vuleva venì per non bagnarmi.

Contessa                       - Vuie state accussì arruvinate, che aviveve ba­gnà chiù?

Giulia                            - Salvatò pigliete sta roba 'e Monsignore, miet­tile ad asciuttà.

Salvatore                       - Vi servo Eccellenza (toglie mantello, cappello e via).

Giulia                            - Qui ci sta anche il Marchese e la Marchesa Torrone e la Contessa del Cerriglio.

Monsignore                   - (salutando) Sig.a Contessa, Sig.a Marchesa... Io poi la tabacchiera la trovai, e ve lo scrissi.

Emil.                             - Intanto me facisteve sbarià, per un ora, per tutta la casa.

Contessa                       - (piano) Faccio buono io che quanno me scrivo, io non 'o donche rette.

Marchesa                       - Quanto sì curiuse tu? Scrive la lettera e la puorte tu stesso.

Monsignore                   - Non ho trovato nessuno per mandarla, perché Giacumino stavo occupato co 'e cavalle! ‘O guardaporta nun se può muovere di sera, così, per non sembrare uno scostumato con la Baronessa, 1' ho portata io!

Giulia                            - Ed io vi ringrazio della bontà che avete avuto per me.

Carlo                             - A proposito, Monsignò, 'e cavalle comme stanne?

Monsignore                   - Bene, anzi benone! Nun se movene, nun se lamentene, nun fanno niente, povere bestie! Sultanto nu poco deboli, ma è una cosa che pas­serà. Hanno avuta una scossa, ma passata l'impressione finirà tutto.

Marchesa                       - Che fai tu? Nun dai a magnà è cavalle?

Contessa                       - 'E miei se mangiano 10 rotole 'e biade 'o giorno, e stanno bello turzute, turzute!

Monsignore                   - I vostri moriranno crepati?

Contessa                       - All' ossa 'e chi nce vo male!

Monsignore                   - I miei invece si faranno docili, come agnelli. Allora verrete tutti da me per sapere il mio segreto, ed io non ve lo dirò.

Contessa                       - E facite buone teniteville pe vuie sti segreti!!

SCENA VIII.

 Salvatore e detti indi Giacomino

Salvatore                       - Eccellenza fuori nce sta 'o servitore è Monzignore, che deve fare una imbasciata urgente al padrone.

Monsignore                   - Ciacumino? E che vorrà? Mo vengo io fora!

Giulia                            - No fallo entrare, è tanto curiuse Giacumino che mi piace di sentirlo!

Salvatore                       - (parla nell'interno) Sapete.... a voi potete en­trare! (via).

Giacomino                    - (fuori) Uh! Signore mio! Che disgrazia è successo! A uno a vota hanno calata 'a capa e sò muorte!

Tutti                              - Chi sò muorte.

Giacomino                    - Cicciotte e Niculine, poveri criature sò muorte tutte e duie dinte a nu mumento.

Monsignore                   - Sò muorte 'e cavalle?

Hiac.                             - Sissignore, sò muorte cu 'a lengna a fora e a vocca aperta!

Monsignore                   - E poi andate a negarmi il fato! Chille mò si erano mparate a nun mangia, hanno avuta murì!

Carlo                             - Allora, credete che nun sò muorte pecchè stevene diune?

Monsignore                   - Si capisce! È chiaro che nun sò morte pe chesto! Pecchè si erano abituati, ed era finito tutto! Poi qualche nuova malattia sopra giunta li ha portati alla tomba.

Contessa                       - Io ve farrie a vuie 'a tomba, pe chello che avite fatte a chelle povere bestie!

Giacomino                    - Vedite chelle che avite fa, pecchè 'e vulimme fa atterrà, comme a duie galantuomene.

Monsignore                   - Se capisce! Penseremo a tutto gli faremo so­lenni funerali: anzi voglio fare, per la circo­stanza, un elogio funebre!

Tutti                              - Pe cavalle?

Monsignore                   - Se li meritano, povere bestie! Sono venuti sempre con me, di giorno di notte, di sera, al­l'alba mai uno sgarbo mai un lamento?

Marchesa                       - Ma chisto è ciuccio overo, sa!

Contessa                       - Invece 'e le di tutte sti chiacchere, era meglio che 'e diveve a magna, almeno nun sarriene muorte!

Monsignore                   - Ma voi credete veramente che siano morti per fame?

Contessa                       - Si no 'e che moreveno?

Monsignore                   - Per un attacco cerebrale! (a Giacomo) Gia­cumi! aspetteme fore che nce ne jammo assieme. (Giacumino via).

SCENA IX.

Salvatore e detti

Salvatore                       - (piano a Giulia) Eccellenza, è tutto pronto (via)

Giulia                            - Se i signori vogliono passare nella stanza da pranzo, per sorbire un pò di cioccolata; e man­giarsi due sfogliatelle che m' hanno mandato 'e moneche.

Monsignore                   - Nun me parlate 'e sti cose mi toccate sul debole!

Contessa                       - Monsignore se a fa cu tutte 'e monache, 'o trattene bene a dolci.

Monsignore                   - Adesso tengo na munacella 'a casa, che ogni giorno me sta facendo un dolce nuovo.

Contessa                       - E chi è sta monacella? Ce data a pensà! Ve 'a facite pure cu 'e munacelle?

Marchese                       - Te fanno truvà pure lu buccone doce! comme te pare?

Monsignore                   - È nipote di una mia antica cameriera, che tra giorni dovrà farsi monaca. Frattanto passa questi giorni in casa mia. (via chiacchierando).

Carlo                             - (piano a Giulia) Baronè io vi debbo parlare.

Giulia                            - (c. s.) Aspettateme che io mo vengo.

Aurelio                          - (piano a Carlo) Come tu non vieni?

Carlo                             - (c. s.) Aspetto cà 'a baronessa, perché le vo­glio parlà d' 'o fatto tuio! (Aurelio via) (forte) Mo che vene 'a baronessa io le debbo netta­mente mettere a terra la quistione; e la debbo interessare di scovrire la verità per sapere ogni cosa sul fatto di Cecilia.

SCENA X.

Giulia e Carlo

Giulia                            - Eccomi qua, ho sistemato a loro e sono ve­nuta da voi per sapere che volevate da me?

Carlo                             - Barone, parliamoci, senza maschera, e sopra tutto senza fare dello spirito!

Giulia                            - Perché, mi sapete per spiritosa?

Carlo                             - Ecco che incominciate a scherzare, e questo non dovete fare.

Giulia                            - Insomma che vulite a me?

Carlo                             - Voi siete a parte degli amori di D,a Beatrice vostra figlia, con D. Aurelio mio amico.

Giulia                            - Cioè a parte! Lo so e non so, Ci sta na simpatia fra di loro, ma il padre non ne sa niente, e fintanto che non lo sa il padre io non debbo saperlo! Che dimandi la mano al padre.

Carlo                             - E chesto so venuto a fare io! Isso, o vò o nun vò dovrà acconsentire a questo matri­monio.

Giulia                            - Voi che dite? Quell’ è un animale, mo fra 1' altro, alla vecchiaia gli è venuta la gelosia in testa, ed è gelosa di Beatrice e di me! Dice che a sera nuie ricevimmo 'e nammurate.

Carlo                             - E fosse anche geloso di me?

Giulia                            - Potrebbe darsi! Se ve vede ca ncoppa, vi pi­glia pe nu nammurate nuoste.

Carlo                             - Ma parliamo d' 'o fatto di D. Beatrice, perché si fa tardi, ed io nun voglio mancà a S. Carlo. Voi conoscete la storia di vostro cognato D. Michele, che ebbe una figlia naturale cu 'a cammarera...

Giulia                            - E chesta figlia sé chiama Cecilia, perché nacque il dì 22 novembre 1804, il giorno di S. Cecilia,

Carlo                             - E che la madre di chesta piccerella, si chia­ma Ortensia Pappagallo.

Giulia                            - E con questo che vulite dì? chesta e na fi­glia naturale 'e D. Michele, e non ha diritto a niente. Deve avere gli alimenti, e perciò 'o Barone le passa sei, ducati al mese.

Carlo                             - ‘O fa stu sforzo! Io invece vi dico che Or­tensia sposò D. Michele Filancio «in extremis, » e che la figlia è la vera erede di tutto, anche del titolo di Baronessa.

Giulia                            - Oh! Pagliè a me nun me nbrugliate! Che matrimonio me iate cuntanne, là nce fu na be­nedizione 'e nu prevete all'ultimo ora, pe 'o fa sta cuieto 'e cuscienza.

Carlo                             - E quella benedizione era un matrimonio, pec­chè allora nun nce steva 'o state Civile. D. Michele è morto al sei, lo stato Civile è stato istituito al nove. Tutto sta adesso di ritrovare il prete che ha fatto stu matrimonio.

Giulia                            - E truvatele, lloco stu 'o difficile! ‘O sapite vuie? No! a chest'ora sarrà pure muorte!

Carlo                             - Non lo so di certo, ma l'induisco!

SCENA XI.

Monsignore e detti

Monsignore                   - (dal fondo, con piatto e salvietta). Barone vi faccio i miei complimenti, sti sfugliatelle sono eccellenti! - Queste so d' 'a Croce 'e Lucca? Io me ne intendo di queste cose! E quella ciucculata era magnifica, per non disprezzare il cuoco della Marchesa Torrone, il vostro è anche un buon cuoco!

Carlo                             - (piano a Giulia). Ecco il prete che sposò D. Michele.

Giulia                            - (irritata). Siete una bestia, dite sempre scioc­chezze!

Monsignore                   - Comme io songhe na bestia? e dico scioc­chezze '?

Carlo                             - (piano a Giulia). Se prima lo supponeva, ades­so ne sono certo! perché vi siete turbata.

Giulia                            - Monsignò io non l'ho con voi, parlava a 'o pagliette che dice nu sacco 'e scemità.

Monsignore                   - Ah! Beh! Perché io non dico mai bestia­lità! sempre cose dotte, erudite potete sentire; da me.

Carlo                             - (Mo vedimino si so scemità). Ditemi una cosa Monzignò, un prete semplice tiene la facoltà di sposare.

Monsignore                   - Sempre! Il matrimonio è un sacramento, che può essere amministrato da tutti i preti.

Carlo                             - E se vi chiamassero per un uomo che sta in fin di vita, voi potreste sposarlo?

Monsignore                   - Tanto bello! Ebbè io nun fuie chiammato...

Carlo                             - No, nun può essere, avete sbagliato! Non avete questa facoltà.

Monsignore                   - Sissignore io fui chiamato da D. Miche....

Giulia                            -  Stateve zitte, iatevenne dinte, non sentite che vi chiamano!... (lo spinge dentro).

Monsignore                   - Ah! mò steva rompenne 'o sigillo! (via).

Carlo                             - Vi siete persuasa che il prete c' è, è vivo e nun è muorto!

Giulia                            - E che volite dire con questo?

Carlo                             - Che io ve pozzo fa na causa e levarvi 'e denare e 'o titolo!

Giulia                            - E fatela vedite se ve riesce?

Carlo                             - Per riuscirmi è una cosa facile; ma possiamo venire ad un' accordo. Sentite, voi siete na buona Signora. Credete che sìa giusto che chella povera guaglìona se a da fa monaca, pecchè è una miserabile, mentre voi vi dovete godere tutti i danari suoi.

Giulia                            - Pigliatevelle con mio marito, che vuole così.

Carlo                             - Io me 'a piglio pure con voi, perché voi, per arricchire vostra figlia, permettete che un'altra si sagrìfichi per lei!

Giulia                            - Ma chella è figlia 'e na cammarera!

Carlo                             - E che colpa ne ha? Che à voluto nascere lei? Cercate di persuadere quell'avaraccio del baro­ne a darle una dote, e cosè si potrà maritare a suo piacere.

Giulia                            - Già, pe ve a fa spusà a vuie!

Carlo                             - Sicuro! Mi avete data una bella idea! Ed io stupido nun nce aveva pensato! 'A guaglio­ne è bella me piace; sta pò a sapere se io piace a essa!

Giulia                            - Chella esce a dinto 'o monastero! Le piace­ne tutte l'uommene! Se spose pure a nu ciuc­cio! basta che è ommo!

Carlo                             - Vene a dì che 'o ciuccio, sarei io?

Giulia                            - Eh! …. me pare.

Carlo                             - Io v'aggio ditto che con voi non si può par­lare mai seriamente.

Giulia                            - Ma insomma io nun aggio putute capì che vulite?

Carlo                             - Che voi vi uniate a me per pensare alla fe­licità di D.a Beatrice, che vò spusà ad Aurelio.

Giulia                            - E che nce trase pe mieze 'o fatto 'e D. Mi­chele?

Carlo                             - Ce trase benissimo! Pecchè sarà il movente, per far acconsentire 'o barone a questo ma­trimonio. Gli detteremo le condizioni!

Giulia                            - Se è per questo, io vi darò il mio appoggio, pe vedè cuntenta Beatrice, faccio qualunque cosa.

Carlo                             - Benissimo! 'A primma cosa D.a Beatrice, se ne a da scappà…

Giulia                            - Comme?...

Carlo                             - In casa di Monsignore! Là attireremo il ne­mico nella fortezza e lo faremo capitolare.

Giulia                            - Me pare che nun ne cacciate niente!

Carlo                             - Vuie facite chello ve dico, ed al resto ci pen­serò io!

  

SCENA XII.

Salvatore e detti

Salvatore                       - Eccellenza, il Signor Barone sta saglienne 'e scale.

Giulia                            - (sbigottita). Tu che dice, ne si sicuro?

Salvatore                       - L'aggio visto d' 'a fenesta, d' 'a cucina!

Giulia                            - E comme và accussi priesto?

Carlo                             - (guardando l’orologio). È vicino mezzanotte.

Salvatore                       - Se sarà inteso poco bene! perciò si ritira chiù presto, pe solito isse vene a 'e doie, 'e tre; pure a ghiuorne!

Giulia                            - Salvatò nun aprì 'a porta, fa avvedè che te si addurmute. (Salvatore via e torna). D. Carlù cu na scuse purtatevelle a tutte quante, si no io me ncuieto, cu chille uorche!

Carlo                             - Mo ve servo io - tanto più che arrivo a scappà nu mumento a S. Carlo (via in fondo).

Salvatore                       - Eccellenza, il signore ha sunato! Fallo aspettà fingi che te si addurmuto; comincia a stutà sti lume (Salvatore esegue).

SCENA XIII.

Carlo seguito da tutti indi Giacomino

Marchese                       - Come nu marchese cumme a me! a questa ora se ne deve andare, e io che me ne vaco facenno?

Emil.                             - Ti ritiri a casa con la tua cara moglie.

Giulia                            - Vi domando scusa, ma una indisposizione so­pravvenuta a mio marito, non mi permette di godere della vostra compagnia.

Contessa                       - Arrivederci Giulia ci vedremo a miglior tem­po, sempre di giorno però!

Carlo                             - Io mò ascuro, aggia truvà 'o cappiello mio?

Salvatore                       - Eccellenza, ha sunato n'auta vota...

Giulia                            - Fingi di non sentire ti ho detto, finisci di smorzare.

Carlo                             - Ah! eccolo qua... Aurelio andiamo. Barone nce vedimme da Monsignore.

Giulia                            - Scendete per la scala di servizio che è la più comoda! (Tutti viano salutando in fretta).

Monsignore                   - Neh! 'a roba mia chi me dà?

Salvatore                       - Nu mumento se sta asciuttanne dinta a cucina.

Monsignore                   - E io comme me ne vaco, senza cappiello, senza cappotto!

Giulia                            - Restate un mnmento all'oscuro verrà Salva­tore e vi porterà tutto!

Monsignore                   - Chiamate a Giacumine fore a sala.

Giacomino                    - (fuori) Facite prieste che cà nce mettimme appaura.

Giulia                            - Nu poco di pazienza e tutto si aggiusterà. Io me ne vado per non farmi vedere da mio ma­rito. Beatrì andiamo (piglia uno dei candelieri con cera accesa). Salvatò può andà ad aprire. Felicenotte (via a destra).

Salvatore                       - Eccomi Eccellenza (piglia l'altro candeliere, e resta la scena completamente all'oscuro).

Monsignore                   - E! Felicenotte! E me hanno rimaste all'o­scuro! Giacumì, tu addò staie?

Giacomino                    - Stongo qua… vicino a vuie, e vuie addò state?

Monsignore                   - Zitto nun fiatà, nun te movere si nò abbuscamme.

Giacomino                    - Ah! cà se corre stu pericolo?

SCENA XIV.

Il Barone, Salvatore e detti

Barone                          - ( di dentro) E nce vuleva tanto pe arapi sta porta? Che stive facenno?

Salvatore                       - (di dentro). Eccellenza, m' era scappato a suonno!

Barone                          - (di dentro). N' auta vota che t' adduorme, te sceto io cu na bona frustata nfaccie 'e gamme!

Salvatore                       - (di dentro). Sissignore, Eccellenza!

Giacomino                    - (piano) ‘O sentite l'uorco 'o sentite!

Barone                          - (attraversa il fondo della scena, si ferma sotto l’arco della porta). 'A signora e 'a Signurine che stanne facenno?

Salvatore                       - Stanne durmenno a chiù 'e doie ore!

Barone                          - E ca nun nce è state nisciune?

Salvatore                       - E chi vulite.che me stesse? nce sto io Ec­cellenza.

Barone                          - Accumpagneme dinte, all’umme 'o lume e po’ te vaie a curcà (viano a destra in fondo).

Monsignore                   - Eh! anima di zì Filippo I.° aiutatemi voi! Vedete quanta guaie sto passanno! Quasi che il cuore me lo avesse presagito, io nun vuleva saglì; ho obbligazione a 'o paglietto che me à fatto chisto guaie!

Giacomino                    - Sapite pecchè stamme passanne chisti guaie? Sono le anime de quelle povere bestie, che l'avimme fatte muri 'e famme, che gridono ven­detta contro di noi!

Monsignore                   - Zitto!... veggo un raggio luminoso!

Giacomino                    - Sarrà na stella cu 'a coda!

Salvatore                       - (con candeliere acceso, col cappotto, il cappello e l’ombrello). Tenite chesta è 'a roba vosta. Facite priesto, iatevenne zitto, zitto, senza man­co rifiatà!

Monsignore                   - Tu ti chiami Salvatore, e sei il nostro Sal­vatore.

Salvatore                       - Spicciateve, mettiteve sta roba (lo aiuta a vestire). Chisto è un canneliere, faciteve lume p'è scale vuio stesso; pò dimane me 'o mannate pe 'o servitore vuoste! Ma ve raccumanno nun me 'o facite, perdere, vedite a chi 'o date, chiste è nu canneliere d'argiente che fa 'a pareglia cu chille che tene 'a signora.

Monsignore                   - Non dubitare per questo, lo hai consegnato a me? e basta! Grazie... grazie...

Giacomino                    - E tu comme faie ascuro?

Salvatore                       - Io songo comme 'e gatte, nce veco 'e tutte manera! Mo ve arape 'a porta zitto, zitto, pe nun fa rummore. (Escono a punta dì piedi tutti e tre) (Salvatore ritorna) Finalmente se ne so ghiute! Se hanno pigliate chella semmentella? Voglio vedè d' 'a feneste, se arrivene nzalvamiento abbascio 'o purtone! (va alla finestra). E vi là! E comme scennene 'e pressa! Ah! sò arrivate! Mo me pozze andà a curcà cuieto! (via a tentoni).

SCENA XIV.

Il Barone, indi Monsignore e Giacomo

Barone                          - (dal fondo all''oscuro, con pistola). Aggio ntiso nu ciù ciù cà fora, che nce fòsse qualcheduno? Meno male che io nun m'era ancora curcato! Io songhe preparato a tutto! Io aggio saputo' a 'o Circolo che mia moglie, quanno io esco 'a sera, riceve 'o nammurato suio e chille d' 'a figlia! Evviva hanno fatto società! 'E voglio accuncià io p' 'e feste. Se me venene dinte 'e mane stì duie D. Ciccille 'e voglio scannà com­me a duie piecore! Ah! 'o Cielo m'avarria dà 'o piacere 'e me fa truvà cà ncoppa! (Si sente un fioco suono di campanello). Aggio ntiso 'o campaniello? Che fossero lloro? (Si ripete il suono leggiero). Sì, nun me sbaglio, è 'o cam­paniello! Ah! nce site capitate dinte 'e mane, piezze 'e carugnune! Mo l'arape 'a porte e me annasconne, e 'e faccio trasì; e pò hanno che fa cu me! ( va al fondo e torna di nuovo) 'E vvì lloco, l'aggio ncappate dinte 'o mastrillo! (si mette in disparte).

Monsignore                   - (fuori con candeliere). Salvatò Salvatò.... questo è 'o candeliere che m' avete prestato... io subito lo vengo a ristituì.

Giacomino                    - Nuie, ereme arrivate buono, abbascio, pecché avite vuluto saglì n'auta vota ascura.

Monsignore                   - Salvatore mi aveva raccomandato tanto 'o candeliere; ho voluto fa avvedè che sapeva fà il mio dovere!

Giacomino                    - E mò comme nce ne iamme ascuro n' auta vota?

Barone                          - Tu non te ne anderai, pecchè primme è 'a parlà cu me!

Monsignore                   - E chesta nun è 'a voce 'e Salvatore!

Giacomino                    - Mamma mia, chesta è 'a voce 'e l'uorco?

Monsignore                   - Ah! siamo perduti! (va per fuggire).

Barone                          - (afferrandolo pel braccio). Tu nun tè 'a mo­vere, m' è 'a dicere chi sì? e pecchè sì venuto cà ncoppa?

Monsignore                   - Lasciatemi per carità! non mi uccidete io nun aggio fatto niente.

Barone                          - Vuie m'avite dà cunto, pecchè site venute 'e notte dinte 'a casa mia? Vuie site duie mariuole, o duie nammurate!

Monsignore                   - Ne l'uno, né l'altro! Signor Barone, io sono nu prete!

Barone                          - Che prevete e prevete! ... Te sì vestuto da prevete pe te annasconnere! Tu sì 'o nammurato 'e mugliereme, e chest'auto è 'o nammurato 'e figlieme!

Monsignore                   - Ve lo giuro sull' anima di zi Filippo sull’anima dei miei antenati, che io non conosco a vostra moglie.

Barone                          - Nun 'a saie? E allora perché stai cà?

Giacomino                    -  Simme venute a purtà 'o canneliere!

Barone                          - Vene a dicere che ve l’anno dato stu canne­liere?

Monsignore                   - Per carità, salvatemi la vita, e domani vi spiegherò tutto!

Barone                          - Dimane?... Dimane? dimane site muorte.

Monsignore                   - (grida) Aiuto! per carità! gente!

Barone                          - Zitte, carugnune! nun strillate! difendetevi!

Monsignore                   - Giacumì! Difendiamoci! Arape 'o mbrello! (Giacomo esegue). Abbiate pietà di noi!

Barone                          - Teh! pigliete cheste! (Spara un colpo di pi­stola),

Monsign.-Giacom.        - Simme muorte! (cadono con l’ombrello aperto).

SCENA XVI.

Giulia, Beatrice, Salvatore e detti (con lumi)

Giulia – Beatrice           - Che è succiesso?

Salvatore                       - Sò trasute 'e mariuole?

Barone                          - Signora, ho ucciso il vostro amante!

Giulia – Beatrice           - Che è fatto?

Monsignore                   - (facendo cadere l'ombrella) Io son vivo (con voce fioca).

Tutti                              - Monsignore! !!

Fine del secondo atto.

ATTO TERZO

La medesima scena dell'atto primo.

SCENA I.

Mariannella indi Giacomino.

Mariannella                   - (dal fondo) Mamma mia che ammuine nce sta dinte 'a sta casa. A che steveme sulo sulo cuieto, cuieto, so venute nu sacco 'e gente, pe nce fa perdere 'a pace nosta! 'A bizzoca nzieme cu 'a bizzuchella, cu 'a scusa 'e cucenà, se so nghiummate e min se so muoppete chiù. ‘O canonico e 'o nipote 'e Monzignore, hanno assapurato 'o dolce, e manco se ne vanno; e mò - pe nghionte 'e ruotele - aiere sera venetta 'a figlia d' 'a Baronessa! Pecchè è venuta chella? che è venuta a fa? Chi 'o sape? È na vera Babbilonia, chi afferra, afferra, e Monsi­gnore pave.

Giacomino                    - (fuori). Neh? mugliè! Tu staie cà? Ebbe io t'aggio ditto che avisso scetate 'a Monsignore, pecchè io aveva fa nu servizio.

Mariannella                   - E 1' aggio scetato, se è susuto e mo se sta vestenno; dice che va 'e pressa, va trova addò a da andà?

Giacomino                    - Iere sera me dicette che aveva ire ncoppa 'a Specula, pecchè a dà vede 'a Grisse!

Mariannella                   - E che è 'a grisse?

Giacomino                    - Quanno s'appicccchene 'o Sole e' a Luna!

Mariannella                   - Che r' è, se appiccechene 'o Sole e 'a Luna? pure lloro fanne sti cose?

Giacomino                    - Nce appiccecamme tanta vota nuio; e nisciune ne sape niente; s'appiccechene lloro, che songhe chiù gruosse, 'o fanno sapè a tutte quante!!

SCENA II.

Aurelio e detti

Aurelio                          - (con lettera) (a Giacomo). Giusto di te an­dava in cerca.

Giacomino                    - 'E che se tratta?

Aurelio                          - Dovresti andare un momento fino dal ba­rone Filaccio, e portargli questa lettera che gli manda sua figlia.

Giacomino                    - Iuste a me vulite mannà? Io ve faccio paz­zo! Io, se passo sultanto vicino 'o purtone, avota 'a faccia all'auta parte! M'arricordo an­cora chillo guaio che passaieme 1' auta sera. N'auto poco mureva accise pe scagno.

Mariannella                   - Lasciatelo sta a isso, mannatece a quacch'auto!

Aurelio                          - Io non ho nessuno per il momento. Tu, quando vai là; consegni la lettera al guardaporta e te ne vai.

Giacomino                    - Ma io nun voglio trasì dinte 'o palazzo, pò essere che chille me vede 'a coppa! 'A paura fa 90.

Aurelio                          - Che pauroso che sei! E' tanto facile dare una lettera al portiere.

Giacomino                    - Quanne è tanto facile, pecchè nun nce ha purtate vuie.

Aurelio                          - ' Io debbo stare quì per altri fini miei!

Mariannella                   - 'E sapimme sti fine vuoste! Vuie tenite l'auciello dinte 'a gaiola e nun 'o vulite fa fuì? è 'o vero?

Giacomino                    - E chi nce ha posto dinte 'a gaiola?

Mariannella                   - Nce à posto isso medesimo! 'A figliola, è bella, è bona, è geniale e D. Aurelio vò fa 'o butto gruosse! Nun è vero?

Aurelio                          - Se tu lo sai, ti prego di non dirlo a Mon­signore, perché è uno scherzo che voglio fare.

Mariannella                   - Comme? Vuie purtate na figliola cà dinte, e vulite fa nu scherzo?

Giacomino                    - Pecché nun scherzate cu me, invece 'e scherzà cu 'a figliola? mò aggio capito, chìsto era l'auciello che steva dinte 'a gaiola! Mò nce vaco a dicere tutte cose a Monzignore?

Aurelio                          - Giacomino... non lo fare... tu rovini a me ed a lei! ...

SCENA III.

Monsignore e detti.

Monsignore                   - (da sinistra, con cappello e bastone). Neh! io me ne vaco... vaco 'e pressa pecchè non vo­glio perdere questo grande spettacolo dell' Ecclissi totale del Sole! Io non so se vengo mangiato o no! si vene 'o pagliette dicitele che venesse dimane, pecchè io cu 'o mangià ncoppe 'o stomeche nun pozze parlà dì affari!

Aurelio                          - Vuie 'e st'affare vuoste, quanne ne vulite parlà? Maie!

Monsignore                   - Facite vuie, facite vuie! Io che so versato nella scienza non me pozzo occupà 'e denare,.. stì cose me seccano... De miniinis non curat pretor! (a Giacomo). Tu mò nun è capito nien­te? Eh! povero ciuccio, nun saie manco 'o la­tine... Che nce campe a fa?

Giacomino                    - E vuie nun sapite manco 'o fatto d' 'a ga­iola? Che nce state 'a fa ncoppa 'a terra?

Aurelio                          - (Fa segni di tacere). Monsignore andate pre­sto, altrimenti vi troverete in ritardo per l'Ecclissi!

Monsignore                   - Nun fa niente... ‘O Direttore è amico mio; nun cumincia se io nun arrivo.

Giacomino                    - ('A pigliate p' 'o teatre 'e D.a Peppa! )

Monsignore                   - Stateve bene... stateve bene

Mariannella                   - Eccellenza facite bona iurnata!

Monsignore                   - Grazie! ... Addio!

Aurelio                          - Monsignò divertitevi!

Giacomino                    - (E isso se diverte ccà!) (Monsignore via).

Aurelio                          - Io ò sudato una camicia, per farti tacere! Adesso però che se ne andato Monsignore, puoi farmi quel favore che ti ho detto.

Giacomino                    - E n'auta vota sbariate cu 'a lettera! Io da chill'uorche nun nce vaco, v' 'o putite levà a capa!

SCENA IIII.

Cecilia, Beatrice e detti

Giacomino                    - ( vedendo Beatrice ). Ecco l'auciello dinta 'a gaiola!

Cecilia                           - D. Aurè, sapite che dice sta Signurina? Che nuie simme cugine. È 'o vero?

Aurelio                          - Si, è verissimo.

Cecilia                           - E comme va sta parentela? Pecchè essa è ricca e io sò puverella, e m' hanno chiuso pe carità dinte a nu munastero?

Aurelio                          - Tutte queste spiegazioni non posso darvele, ve le darà 'o paglietta quanno vene. .

Beatrice                         - Ma tengo uà bella cugina, decite 'a verità?

Aurelio                          - Ma chi vi à informata di questo fatto? (a Beatrice).

Beatrice                         - E' stata mammà che mi ha detto che Ceci­lia, era figlia a un fratello di papà.

Aurelio                          - Ah! ve lo à detto mammà? ! ('E femmene nun sanno tene tre cicere nmocca! )

Beatrice                         - Avite mannata chella lettera 'a papà? !

Aurelio                          - Ed io pecchesto stava pregando Giacumino, il quale non vuole andarvi.

Giacomino                    - Chi nce va da chille animale? Io passaie tutte chilli guaie.

Beatrice                         - Giacumì devi farmi stu piacere, lo faie a me! E' una Signorina che te ne prega! Potresti accon­discendere?

Mariannella                   - Và, Giacumì, fa stu piacere 'a Signorina!

Giacomino                    - Io nun me pozzo annià a vuie, pecchè tengo sempe nu trasporto pe 'e belle figliole!

Mariannella                   - Ebbiva isso! Tu sì brutto e nzurato! e vaie pure parlanno! Nun te ne miette scuorne!

Giacomino                    - Nzurato va bene... ma brutto nun me può chiammà, songhe state sempe 'o capo simpa­ticone!

Aurelio                          - Va buò, ve 'e facìte n'auta vota sti cerimonie; per ora pigliati la lettera e vattenne (gliela dà).

Giacomino                    - Io me ne vaco, ma v'avviso che 'a lettera 'a lascio, abbascio a 'o purtone e me ne fuie.

Aurelio                          - Fa comme vuò tu, abbasta che nce vaie.

Beatrice                         - Papà deve venire qui, a momenti, capisci...

Giacomino                    - Ah! Isso vene cà? e me ne vaco io! (via in­ fretta). 

Mariannella                   - Signorì, dateme 'o permesse pure a me! (se­gue Giacomo).

Beatrice                         - Fai, che papà e mammà venene?

Aurelio                          - Mo che ànno la lettera, 'e vide venì subito.

Beatrice                         - E Monsignore nun ce stà?

Aurelio                          - Troveranno invece D. Carluccio, il quale sape tutte cose. Ed a proposito, ti dovrei mettere a parte di tutto; col permesso della signorina, parlamme nu poco.

Cecilia                           - Si è pe me, facite cunte comme io nun nce stessa.

Beatrice                         - Cecilia, mi è cugina, e non se pò piglià col­lera!

Cecilia                           - Anze, me fa piacere!.... Veate a te che può parlà cu nu bello giovene; e io aggia sta chiu­so dinte 'o Munastero, e nun veco maie nisciun' omme!

Aurelio                          - E corne? voi avete tanta vocazione per farvi monaca!

Cecilia                           - ‘O dice 'a zia, e Monsignore; e io 1' ubbidi­sco pecchè senza mamma e senza padre addò jarrìa? Mieze 'a strada?

Beatrice                         - 'E ha ragione! povera figliola! nce ne voglio parlà a papà!

Aurelio                          - Seh! mò l'è nduvinate!? (ironico) Basta, la­sciate fare la provvidenza, che se aggiusteremo il fatto nostro, penseremo anche per voi. (re­sta a parlare con Beatrice).

Cecilia                           - Che fortuna avere un bel giovane per fidanzato, e poterci parlà a sulo a sulo! e io?... Pecchè so nata accussì sventurata?!

SCENA IV.

Filippetto e detti

Filippetto                      - (da destra) Oh! Buon giorno Signorina... come state?

Cecilia                           - Bene!

Filippetto                      - Avete detto le vostre orazioni?

Cecilia                           - Sissignore! appena me so alzata!

Filippetto                      - (scorge Aurelio e Beatrice che parlano) Che fa quella Signorina, con D. Aurelio?

Cecilia                           - Chille sò duie fidanzate! Stanne parlanne nu poche - poveri giovani - lasciateli parlà!

Filippetto                      - Che scandalo! che scandalo! nella casa di Mon­signore!

Cecilia                           - Che fa! nun nce sta niente 'e male!

Filippetto                      - Nun nce sta niente 'e male? Voi che dite, se lo sapesse Monsignore!

Cecilia                           - Monsignore, che è tanto buono, li compati­rebbe...

Filippetto                      - È troppo buono! ma una cosa di queste gli farebbe dispiacere! già vuie sti cose nun 'e capite perché fate una vita spirituale!

Cecilia                           - Altri pochi giorni mi restano, per star fuori perché poi ritorno a 'o Munastero e non esco più! Mi seppellisco!

Aurelio                          - Beatrì iammuncenne dinte, pecchè chisti duie me seccano (viano discorrendo).

Filippetto                      - Eh! beato voi! beato voi! Che ci state a fare in questo mondo.... almeno là dentro godete la pace vostra.... pregate sempre... 'E dolce pure 'e fate, è vero?

Cecilia                           - Uh! avete voglia! da 'a matina 'a sera nun facimmo che dolci.

Filippetto                      - Io, quanto sarò prete, vi verrò a trovare spesso. A me me piacene assaie 'e dolce.

Cecilia                           - Ma vuie veramente ve facite prevete?

Filippetto                      - E che pazziaveme? Vuie sapite ch' io debbo essere Filippo III?

Cecilia                           - E che vene 'a di?

Filippetto                      - Che se io non mi faccio prevete, si perde il Monsignorato di famiglia.

Cecilia                           - Ah.! vuie pure sarete Monsignore, comme 'o zie?

Filippetto                      - Se capisce.... 'a n' altri 100 anni che zi-zio muore, a me spett' 'o titolo.

Cecilia                           - Io allora sarraggio monaca 'a tanto tiempo... chi sa se non sarò pure Badessa.

Filippetto                      - Così speriamo... così speriamo...

Cecilia                           - Sentite... Quann'io so Badessa e vuio Monsi­gnore, io ve scelgo pe confessore mio. Vulite essere 'o cunfessore mio?

Filippetto                      - Ma, con tutto il cuore... ve pare, chi non avrebbe piacere di confessarvi?

Cecilia                           - Vuie quanno venite io vi faccio truvà 'o caf­fè... 'e freselline! ... Faciteme abbedè quanne venite a confessarmi, comme facite?

Filippetto                      - Ecco qua... Voi che nome vi metterete quando vi farete monaca?

Cecilia                           - Nun nce aggio pensato ancora... Ma me piace tanto « Maria Celeste »...

Filippetto                      - Io quanno vengo 'a purtaria, avviso: Faciteme scendere Maria Celeste.

Cecilia                           - Io pò sò chiammata 'a grade, e subito scenno! E primma cosa v'aggia vasà 'a mane.

Filippetto                      - (ritirando la mano) Lasciate stà... lasciate stà..

Cecilia                           - Nonsignore, io saccio 'o duvere mio... (bacia la mano a Filippo).

Filippetto                      - Queste sono brutte tentazioni!

Cecilia                           - Oh! Munsignò cumme state? Comme avete passate 'a nuttata...

Filippetto                      - Sempre pensando a voi! ( ripigliandosi ) (Che le diceva a chesta!) Sempre pensando al vostro bene spirituale!

Cecilia                           - Avite pensat' a me?... è segno che me vulite bene!

Filippetto                      - Sicuro... sicuro, come una buona sorella.

Cecilia                           - Monsignò e me vulite fa 'a carità 'e confes­sarmi?

Filippetto                      - Ma vi pare, io per questo son venuto.

Cecilia                           - Pigliateve na seggia, assettateve nu poco (gli porge la sedia).

Filippetto                      - Grazie, grazie... quanto site bona M. Celeste. E voi non vi sedete?

Cecilia                           - Se io so 'a penitente me debbo inginecchià vicino a voi!

Filippetto                      - Ah! già... voi siete na bona penitente... An­datemi dicendo: che ci sta di nuovo?

Cecilia                           - Di nuovo niente... Tutto chello che ve dicette 'a settimana passata, l'aggio fatto pure mo.

Filippetto                      - Eh, Si va male! molto male?... e che altro nce sta?

Cecilia                           - Padre, tengo nu pinole gruosse ncoppa 'a cuscienza!

Filippetto                      - Dite, dite... 'e che se tratta? Dite 'a verità? Fosse un caso riservato?

Cecilia                           - Non signore! Io che m' astipava 'a fa stu ccaso? ...

Filippetto                      - Seh, se stipava 'a muzzarella! ... io voglio dire è nu fatto grave?

Cecilia                           - Sissignore! ...

Filippetto                      - E ditemmelle, nun ve mettite scuorne!

Cecilia                           - E vutateve a là... pecchè si no, me faccio ros­sa, rossa...!

Filippetto                      - Mo mi volto per farvi contenta, (si volta) Va bene?

Cecilia                           - Padre io faccio ammore cu nu giovine.

Filippetto                      - Ammore? queste cose si fanno, ma non si di­cono, cheste so brutte cose assai, specialmente per una suora. Cacciatelo stu giovine. Quest' è 'o diavolo che ve tenta.

Cecilia                           - Comme nu caccio, se nun 'o vede cchiù, e isso nun sape niente.

Filippetto                      - Isso nun sape niente? E allora comme nce fa­cite ammore.

Cecilia                           - Pecchè 'a notte me sonne sempe a isso.

Filippetto                      - Coinm' io me sonne a vuie!


Cecilia                           - E vuie pecchè ve sunnate a me? (si alza).

Filippetto                      - Io nun 'o saccio( E' certo che dall'altro giorno che vi ho vista, io vi tengo sempre avanti agli occhi!... E' na tentazione per me, ma è na tentazione che mi fa tanto piacere. Maria Celè scusate faciteme bacià 'a mano?...

Cecilia                           - Questo non stà... io ve l'aggia bacià a voi!

Filippetto                      - No... io ve 'a voglio vasà a vuìe (si baciano le mani contemporaneamente) pecchè site Ba­dessa! ...

SCENA V.

Giacomino indi Baldassare, Aurelio e detti

Giacomino                    - (dal fondo) Seh! hanno fatto chesta cova 'e palumme? Mo vaco 'a chiammà ò Canonico!

(via).

Filippetto                      - Sentite, io appena esco d' ò Seminario, 'e vengo 'a sta cu zi-zio, ve vengo 'a truvà ogni giorno 'a ò Munistero.

Cecilia                           - Nun putite venì pecchè io so nuvizia.... e 'e nuvizie hanna parlà nnanze 'a Badessa.

Filippetto                      - E che fa'? io me porto a zi Monsignore appriesso, accussì isso se trattene 'a parlà cu 'a badessa, e nuie restamme sulo.

Cecilia                           - Avite vedè si Monsignore vò venì?

Filippetto                      - Zi-zio è nu scemo, fa tutto quello che vo­glio io.

Giacomino                    - (Fuori con Baldassare) Eccoli quà! vide che t' hanno cumbinato!

Baldassarre                   - Seh! Mi piace! Questo è il profitto che fate in Seminario? Ve mettite 'a parlà cu na figliola, voi solo! Se lo sapesse il padre e ret­tore vi farebbe stare 15 giorni dentro 'a cella pane ed acqua.

Filippetto                      - Noi stavame parlando di tutte cose sante! E vero M. Celè?...

Cecilia                           - Sicuro si parlava di confessione! ...

Giacomino                    - E ve 'o pozzo accertà pure io.... pecchè, poco primule, pe 'a troppa santità se vasavane tutte 'e duie!

Baldassarre                   - Se vasavene tutte è duie? Orrore! Tu che mi dici? Voi date questi scandali in casa di un sant' uomo!

Cecilia                           - Non è vero io stevo vasanno 'a mane 'a Mon­signore!

Filippetto                      - E io 'a vasave 'a Badessa.

Baldassarre                   - E chi è monsignore? Chisto lazzariello? Sa quanta calci ti dò, e te faccio vutà tuorno, tuorno... Isso se permette di farsi chiammà Monsignore? Ne 'a mangià pane nire primme d'arrivà 'a prendere gli ordini.

Filippetto                      - Ma io debbo essere Monsignore... embè, io sò Filppo III!

Baldassarre                   - Cammina dentro! Si no te piglia pe 'a recchia e te porto' strascenanno appriesso! E mo proprio, dobbiamo partire per Cicciano, e rac­conterò tutto a 'o nonno, e 'a nonna!

Filippetto                      - (piangendo) D. Baldassà, io nun aggio fatto niente....

Baldassarre                   - Te faccio sta otto giorni inginocchiato cu 'o granone sott' è ginocchie.

Giacomino                    - Lazzariello.... scostumato.

Baldassarre                   - E tu te 'a sta zitto! tu che nce trase ca mieze?

Giacomino                    - In mancanza di Monsignore facc' io 'a parte d' ò zio!

Baldassarre                   - Tu mi fai fare una figura da burattino!... Chillo nun me rispetta cchiù.

Cecilia                           - Canò perdonatelo, nun dite niente 'o nonne; si no nun 'o fann' ascì chiù d' ò Semminario.

Baldassarre                   - Ah! voi pure ne prendete le difese! E' se­gno che nce stà il dolo!... il dolo nc' è! An­datevi a confessare tutto quello che avete fatto... farvi baciare la mano da un chericonzolo.... fosse stato nu canonico, eh! meno male, la cosa poteva passà.

Giacomino                    - Eggià pe isso ieve buone' ò fatto!

Baldassarre                   - Ma da un chiericonzolo... è troppo! Se io fossi il vostro confessore non vi assolverei.

Aurelio                          - (dal fondo) Canò, va bene, come la fate lunga, la potete finì, so cose da ragazzi.

Baldassarre                   - Di ragazzi dite? Le prendete per un' inezia!... dalla mattina si vede il buon giorno! Voi che siete un giovine adulto, avreste potuto fare almeno di fare certe scene scandalose in presenza di ragazzi per farli apprendere quello che non sanno.

Filippetto                      - Maria Celè, stateve bene, nuie nce spartimme...

Cecilia                           - Arricurdateve 'e me, nce vedimme 'a ò Munastero.

Filippetto                      - Tante pe tante, aggia stà 'a pane 'è acqua, mo le vase n' auta vota 'a mano, (esegue)

Baldassarre                   - Ah! Galeota! Pure nanze 'a me 'o faie dentro (lo stacca a forza e via).

Giacomino                    - (a Cecilia) E essa comme se 'o faceva fa! Nce, aveva truvate sfizio 'a Munacella?

Cecilia                           - E che male nce sta? Noi siamo fratello e sorella.

(via a destra)

Giacomino                    - Comme, site frate è sora?

Aurelio                          - Dice che so fratello 'e sorella spirituali.

Giacomino                    - Ma frattanto spuzzuliavene corporalmente!...

SCENA VI.

Mariannella, Monsignore, Carlo e detti

Mariannella                   - Signurì, sta saglienno Monsignore sott' o braccio d' ò paglietta, e me pare che sta tutto sbattuto. Quacche cosa le sarà succiesso.

Giacomino                    - (con premura) 'O barone avarrà vattuto a Monsignore, (guardando)

Aurelio                          - Monsignore tutto sbigottito! e che sarà ?

Giacomino                    - Comme, Munsignore è sbiguttite?

Carlo                             - (appoggiando Monsignore) Monsignò rincoratevi che è cosa 'e niente; quanto nce stong' io nun ve mettite maie appaura.

Monsignore                   - Non è che ò avuto paura, ma sono nu poco sbigottito!

Aurelio                          - Ma che è succiesso?

Carlo                             - Niente, un' inezia.... Monsignò assettateve, bevete un poco d' acqua.... Marriannè un bic­chiere d'acqua. (Marianna via e torna con l' acqua)

Monsignore                   - Vi ringrazio, perché se non eravate voi ci sarei proprio capitato come a lego legis.

Mariannella                   - Chesta è 1' acqua.

Monsignore                   - Grazie (bene) Che manigoldo quel barone.... me l’aveva combinato 'o piattino!

Giacomino                    - Ovvì che nce sta 'o barone per mmiezo! Di­ceva buono io!

Carlo                             - Ma nce avete colpa voi! Perché io, da diversi giorni, vi ho pregato, parliamo d'affari e voi avete risposto sempre pò se ne parla!

Aurelio                          - Ma, se è lecito, di che si tratta?

Carlo                             - Monsignore steve capitando in mano agli uscieri, che 'o vulevano purtà a Cuncordia!

Giacomino                    - 'A Cuncordia? vene a dicere carcerate pe diebbete?

Monsignore                   - Per un' inezia... per poche centinaia di du­cati.

Carlo                             - Monsignò, nun so poche centinaia, ma so po­che migliaia, ricurdateve buone! Vuie nun sapite chello che avite cumbinate.

Monsignore                   - Quanne me servivano denari, me purtavene 'e carte e io firmava e zitto!

Carlo                             - E mo ve truvate cu 'e guaie ncoppe 'e spalle!

Giacomino                    - Vuie nun site iute chiù a vedè 'a Grisse?

Monsignore                   - Non ò potuto; ma ò scritto però che l'aves­sero rimandata, perché io non poteva andarvi.

Carlo                             - ‘O vedite! Vuie cu tutti sti guaie che ve 'a fatte 'o Barone penzate sempe a 'e scemità voste.

Monsignore                   - Voi un' Ecclissi così importante, me la chiammate na scemità?

Carlo                             - Non per 1' Ecclissi, per quello che dite voi!

Aurelio                          - Ma il barone, come è vostro creditore?

Monsignore                   - Io debiti con lui non ne tengo, comme nce trase mmieze? 

Carlo                             - Ha dovuto comprarli dagli altri usurai suoi colleglli, Chillo chesto va facendo. L'aggio sti­pato nu servizio che s'arrecrea!

Aurelio                          - (a Carlo). E tu come lo hai saputo?

Carlo                             - Io sapeva che la posta era stata fatta da qui alla Chiesa, quindi non appena aggio visto Mon­signore 'a luntane, gli son corso dietro, e lo ho obbligato di salire dint'à caruzzella.

Monsignore                   - (ridendo). L'Usciere me vuleva afferrà men­tre saglieva dinte 'a cittadina, ma nun è arri­vate a tiempo!

Carlo                             - Io l'aggio ditto; tocca cucchiè, e ce ne simme scappate!

Monsignore                   - E io 'a dinte 'a carrozzella, le faceva segno che isso era rimasto cu tanto nu palmo 'e naso (fa il gesto con la mano).

Carlo                             - Monsignò, sentite a me, vi è riuscita bona na vota, ma pensate 'a casi vostri, e lovateve 'e diebbete, perché non bis in idem.

Monsignore                   - E giusto quello che dite! Io ho però fatto una pensata per tacitare i miei creditori. Vedite se ve piace?

Aurelio                          - E sarebbe? Ve vulite vendere qualche fondo?

Monsignore                   - No... darei un dispiacere a chille povere vicchiarielle 'e papà. Vorrei invece vendermi tutti i miei manoscritti, che contengono. tutte le opere scientifiche che ò fatto io - specialmente per gli studii sulla storia naturale! diamine! se non me vonne pagà niente, mi debbono dare dodicimila Ducati. Per esempio: tutti si do­mandano perché le acque del mare sono salate?

Carlo                             - Voi lo sapete?

Monsignore                   - Eh! ... eh! ... Io ho scritto tre volumi per di­mostrare questo fatto! Lo dico a voi, ma questo è un segreto scientifico, non lo dite a nes­suno!

Carlo                             - Oh! vi pare! ...

Monsignore                   - Voi sapete che il mare è popolato da milioni e.milioni di alici! queste alici sono salate? quindi hanno rese salate anche 1’acque del mare. Questa è una verità indiscutibile!

Giacomino                    - Monsignò, che state pazzianne?

Monsignore                   - Tu che ne capisci, bestia! Chisto è 'o mumento 'e pazzia?

Carlo                             - Il consiglio che vi posso dare io, è quello che pigliate tutte 'e carte che tenite, 'e fàcite pe­sà, 'e mannate a nu putecare pe vedè quante ne putite avè.

Monsignore                   - Come i miei manoscritti non valgono niente?

Aurelio                          - Scusami, pagliè, che io non sia della tua opinione! Ma io credo che nce sta qualche cosa di Monsignore che i nostri nipoti, un giorno, l'andranno a cercare.

Monsignore                   - Lo sentite; lo sentite,... voi non mi avete ben capito, il mio Segretario, che mi conosce, sape che io resto celebre!

Giacomino                    - Chesto è overo! ‘O Signore mio resta cele­bre assaie!

SCENA VII.

Marianna, il Barone, Giulia e detti

Mariannella                   - Eccellenza, stanne saglienno 'o Barone e 'a Baronessa Filoscie.

Carlo                             - 'A pigliate pe na frittata?

Monsignore                   - Che stupita, si dice: Sfilaccio, bestia! (Ma­rianna via e torna).

Giacomino                    - E isso pure l'ha anduvinate!

Aurelio                          - La cosa è riuscita.

Carlo                             - Il colpo è andato bene!

Monsignore                   - Ma che cosa? che colpo? faciteme capì? Forse chiste venesse pe avè denare, ma io nun ne tengo?

Aurelio                          - Monsignore essi vengono per la figlia, vi raccomando di parlare per me e per lei!

Monsignore                   - E che nce trase io, cu 'a figlia?

Carlo                             - Vuie nun avite fa niente, mo parlo io, e voi rispondete sempre di sì, che vi trovate bene!

Mariannella                   - (fuori). Favorite Signò, Monsignore sta ca!

Monsignore                   - (si alza). Signor Barone... Sig.a Baronessa... a che debbo attribuire 1' onore di una vostra visita?

Barone                          - E me l'addimmannate? Che n'avite fatta di mia figlia?

Monsignore                   - A figlia vosta! e io che ne saccio?

Giulia                            - Monsignore, siamo venuti a riprendere Bea­trice. Vi preghiamo di darcela.

Monsignore                   - Signori miei, scusate, io credo che site asciute pazze.

Barone                          - E' inutile che negate. Vuie site nu prevete sprevetate! Vuie 'a tenite nascosta cà dinte!

Giulia                            - Essa cce l'ha scritto!

Monsignore                   - Neh! avvucà, parlate voi, io nun ne saccio niente!

Carlo                             - Sissignore, la signorina Beatrice ieri sera se ne è fuggita con questo giovine D. Aurelio Pao­ne, il quale per farla star sicura d'ogni sospetto l'ha condotta a casa di sua zia e di Monsi­gnore!

Monsignore                   - 'A casa mia? Neh! Segretà, iate facenne sti cose? almeno avvisatemmelle primme.

Aurelio                          - Signor Barone ho l'onore di domandare la mano di vostra figlia Beatrice.

Barone                          - E vi pigliate pure l'ardire di dirlo? siete nu straccione pezzentone... Che titolo tenite?... Che beni possedete?... niente! e ve volite pi­glià mia figlia?

Giulia                            - Mi meraviglio 'e Monsignore che ha lasciato la sua scienza s'è posto a fa 'o rucco, rucco! ...

Monsignore                   - E' visto? ma faie sentì chesti cose pe causa toia!

Carlo                             - Giacchè il Barone ha ricevuto così male il mìo amico, gli voglio parlà da un altro affare? ! Giacumì, fammi venire D.a Ortensia!... (Giacomo via e riesce).

Barone                          - (D.a Ortensia? Che fosse 'a cammarera?)

Giulia                            - (Il colpo è stato preparato! )

Monsignore                   - E che nce trase D.a Ortensia? Io mò che ca­pisco a volo d'uccello, tutte le cose? 'E stu fatto nun aggio capito niente. Sto comme all' asino nimieze 'e suone!

Carlo                             - Mo vene pure a parta vosta, non dubitate!

SCENA VIII.

 Ortensia e detti

Ortensia                        - (fuori) Monsignò, m'avite chiammate?

Carlo                             - Sono stato io, per presentarvi al Barone.

Ortensia                        - Ah! io, 'o Signore, 'o conosco a tant'anne!

Barone                          - Chesta è a cammarera, di mio fratello Mi­chele, e io le sto passanno sei ducati al mese; pecchè? che volete dire ccu cheste?

Carlo                             - Voleva sapere la ragione pecchè le passate sta mesata!

Barone                          - E v' aggia da cunto a vuie? perché nce 'e voglio passà pe llemmosina!

Carlo                             - Levate sta brutta parola! 'A llemmosina 'a facite a 'e puverielle. Ma questa qui è la ve­dova di vostro fratello D. Michele.

Ortensia                        - Verola? Vuio che dicite? Io so zita verace ?

Monsignore                   - E zita in capillis! questo mi costa!

Carlo                             - Monzignò, comme ve costa?

Monsignore                   - Mi costa... pecchè me l'ha detto essa!

Barone                          - E che nce trase stu fatto, cu mia figlia? Da­temi subito Beatrice! ... Io la voglio!

Carlo                             - Aspettate nu mumento che nce truvate sfizio! Dunque la sig.a D.a Ortensia, qui presente, cu tutto che è zita in capillis, ebbe una figlia da vo­stro fratello D. Michele. Questo non lo potete negà?

Barone                          - Sé na figlia.., che io nun aggio voluto mai ri­conoscere, e le passo sei ducati al mese per alimento.

Carlo                             - Vuie nun sapite però che 'a guaglione, è friccecarella, e ve vo fa na causa, pe avè tutta 'a roba d' 'o padre e anche il titolo, perché D.a Michele era il primogenito!

Barone                          - E avarria truvà mi paglietta pazzo... perché mio fratello nun era nzurato.

Carlo                             - E chisto pazzo songh'io!

Barone                          - E nun puteva essere diversamente.

Carlo                             - Io ho saputo, che vostro fratello, ha fatto un matrimonio in extremis.

Barone                          - Che matrimonio, avette na benedizione a nu prevete pe farlo murì cuntente.

Carlo                             - D. Ortensia, ve ricurdate 'e stu fatte?

Ortensia                        - Io nun ne saccio niente, io sti cose nun 'e capisco, io so zitella verace!

Carlo                             - Vuie vedite quante è cocciuta, sta bizzoca d' 'o diavole!

Aurelio                          - Monsignò, dite qualche cosa anche voi! ...

Monsignore                   - Eh' aggia di, io nun saccio niente.

Carlo                             - Come voi faceste stu matrimonio fra D. Mi­chele e D. Ortensia, ve ne ricordate?

Monsignore                   - Io mai.... Mi ricordo che fui chiamato na sera, perché era amico di casa, e mi fecero fa nu spusalizio zitto, zitto.... ma sotto sigillo di confessione, però io non posso svelarlo a nes­suno, lo tengo segreto fino alla tomba.

Carlo                             - E voi mò 1' avite ditte? !

Monsignore                   - Che aggio ditto?

Carlo                             - Che avite fatto 'o matrimonio!

Barone                          - (Che specie di animale! )

Monsignore                   - Oh! allora nun volendo, ho rotto 'o sigille! Che guaio! Mo so scummunicato! Mi avete ro­vinato!

Aurelio                          - Monsignò, nun ve pigliate collera, perché vuie nun site state mai confessore!

Monsignore                   - (ripigliandosi) Ah! già, io nun so cunfessore 'o sigillo nun 'o tengo! ...  

Carlo                             - D. Ortensia, mo nun site cchiù zitella!

Ortensia                        - E' stato Monsignore che ha scnmmigliat' ò fatto! Ma io 'a benedizione 1' avette.

Monsignore                   - Si è vero siete vedova in capillis!

Carlo                             - E pecchè nun 'o diciveve primme?

Ortensia                        - Si non me levavene 'e sei ducate ò mese.

Barone                          - Faciteme ciente cause.... ma io a Beatrice nun 'a donche 'a nu straccione!....

Giulia                            - Barò.... senti persuaditi.... 'e femmene ne sanno cchiù di voi uomini.

Barone                          - Ah! tu pure si d' ò complotto?

Giulia                            - Chiste nun è complotto?! D. Aurelio è nu buono giovine... Cecilia, tua nipote, se cuntenta è na cusarella, e fenisce tutte cose che ghiamme facenne a fà cause?

Carlo                             - ‘O peggio nce vaco io, che perdo na bella causa ‘a mane.... 'a mane!... Barò, me vulite dà chelle diece pezze?

Barone                          - Vuie ancora nce pensate? Insomma a mia ni­pote quanto le debbo dare?

Carlo                             - Venti mila ducate.

Barone                          - Ventimila? A mè, me vene nu tocco!

Carlo                             - D. Michele ha rimasto 80 mila ducati di pro­prietà. Allora nun ve venett' ò tocco.

Giulia                            - E 'o titolo! nun 'o cunto?

Barone                          - Chella che se ne 'a da fare d' 'e denare? Se s' ha da fa monaca?

Ortensia                        - E nun ce stongh' io che so 'a vedova è D. Michele Filaccio?

Carlo                             - Mo è vedova, mò.... Ha ntise 'e denare, è fenuta 'a zitellanza...

Barone                          - Pe diecemila ducate se pò cuntentà! ...

Carlo                             - Barò, è inutile, hanno da essere ventimila, si no ve faccio lassà tutte cose.

Barone                          - 'E va bene! Me l' avite fatto! Aggia calà la capa!

Carlo                             - Mettiteve là, e scrivete due dichiarazioni: Con la l.a dat' ò cunsenso a vostra figlia Bea­trice; con la seconda dichiarate 'e riconoscete vostra nipote Cecilia e le date una dote di ventimila ducati.

Monsignore                   - Adesso ve le detto io!

Carlo                             - Zitto per carità vuie nce vulite fa passà nu guaie.

Barone                          - Tutto va bene.... e 'e denare che me deve dà Monsignore?

 

Monsignore                   - Quelli ve li restituirò appena vendo i miei manoscritti.

Barone                          - (a Carlo) Che ha da vennere?

Carlo                             - Certi fondi che tene fora.... Vuie scrivete che pò nce penz' io a chesto! (Barone va alla scrivania)

Aurelio                          - Vi ringrazio Baronessa di tutto e vi bacio le mani come madre.

Carlo                             - (a Giulia) Baronessa tutto è andato bene.

Giulia                            - Vuie pò mi avete tratta in inganno, pe appurà 'e nutizie.

Carlo                             - E perciò simme pagliette (a Giacomo) Griacumì va 'a chiammà subito 'e signurine.

Monsignore                   - Io ho pensato che me voglio ritirà al paese, cu papà è mammà; là faccio un pò d' econo­mia e posso scrivere delle altre opere per la­sciarle ai posteri.

Carlo                             - Fate bene, fate bene! Non private la poste­rità dei vostri capolavori.

SCENA ULTIMA

Mariannella, Giacomo, Beatrice, Cecilia indi Baldassare e Filippetto e detti

Mariannella                   - Ecco qua 'e Signurine.

Beatrice                         - Oh! Mamma mia vi ringrazio (s' abbracciono e parla con Aurelia)

Carlo                             - Sig.na Cecilia, vostro zio, il Barone Filaccio, qui presente, vi riconosce e vi costituisce una dote di 20mila ducati..

Cecilia                           - Ma io 'e chi so figlia?

Carlo                             - Siete figlia di D. Michele Filaccio e di D. Ortensia Pappagallo, qui presente!

Ortensia                        - Si..., figlia mia... mo te dico 'a verità.

Cecilia                           - Mammà.... io l'avevo capito a tanto tiempo!..

Carlo                             - (A guagliona ne tene stoppa ncuorpe! )

Cecilia                           - Ma mo tengo 20mila ducati me voglio marità e nun me voglio fa cchiù monaca.

Monsignore                   - Uh! E tutt' è preparative che steve facenne per la monacazione? Sono tutte inutili, Nèh! nce stesse qualche altra che se vo fa monaca?

Giacomino                    - Mo 'a iamme truvanne cu campaniello d' 'a Parrocchia.

Baldassarre                   - (fuori con Filippo ) Monsignò noi partiamo pecchè vostro nipote s' è fatto troppo discolo, e debbo condurlo presto in Seminario.

Filippetto                      - lo voglio resta cà, cu 'a munacella.

Cecilia                           - Che munacella! Io nun me faccio cchiù mo­naca!

Filippetto                      - Allora io nun me faccio cchiù prevete.

Cecilia                           - Invece, nce vulimme spusà.

Filippetto                      - Con tutto il cuore (si danno la mano)

Baldassarre                   - Monsignò, voi vedete questo scandolo?

Monsignore                   - No! .. mio nipote non si può ammogliare, pecchè deve essere Filippo III, si no 'a me, chi mme rimpiazza?

Giacomino                    - ‘O truvate n' auto Filippo.

Monsignore                   - Pe mo iammoncene tutte 'a Cicciane, e là parlamme 'e chiste fatto.

Carlo                             - Monsignò vuie partite per Cicciano, e a Napule nun nce turnate chiù?

Monsignore                   - Come non ritornavo? Io qui son nato, e qui debbo morire, ed anche dopo morto resterà tale una fama della mia scienza, che il nome di Monsignor Perrelli sarà ricordato per ommia secula seculorum!

Tutti                              - Amen! ....

FINE

Note

Filippo Maria Perrelli nacque in Napoli il 4 ago­sto 1771 da nobile e cospicua famiglia napoletana, e fu avviato nella carriera ecclesiastica. Nel 1816, fu elevato al titolo di Monsignore avendo il rettorato della Chiesa delle Croccile al Ghiatamone, Chiesa che era di proprietà della famiglia Perrelli, come lo è oggi dei suoi eredi.

Furono tali e tante le sue sciocchezze e le sue stra­nezze, che segnò un'epoca in Napoli, e tutti gli aned­doti di questa commediola, sono tutti tolti dalle ero-nache dei giornali dell'epoca; e sono noti a tutti i na­poletani che ricordano i fatti del Perrelli.

Morì nella prima metà del secolo decimonono, ed i suoi nipoti, ebbero da Be Ferdinando Borbone, vai rescritto per cambiare di cognome; ed infatti nella sua Chiesa fu cancellato il nome di Perrelli sostituendovi il nome nuovo.

 E ora del povero Monsignore non resta, per chi vo­glia vederlo, chee il ritratto su tela, nella Sagrestia della Chiesa delle Croccile al Ghiatamone.