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MONZU’

Commedia in tre atti

di LUCIO D’AMBRA E ALBERTO DONAUDY

PERSONAGGI

MONZU'

IL BARONE LICETI-BARDI

STANO LICETI-BARDI

IL COMMENDA­TORE CARENGHI

MAX

IL PRINCIPE DI TRIPODI

FLORES

IL DUCA DE PLA­TO

L'ESATTORE

LA BA­RONESSA LICETI-BARDI

ROSANNA

NIETTA

EU­GENIA

A Napoli – Oggi

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Uno di quei sa­lotti rococò che il tradizionalismo na­poletano non ha an­cora adattati, nelle vecchie case patrizie, alle esigenze moder­ne, tranne che nel lampadario, dove la luce elettrica ha so­stituito U petrolio, ma il globo è rima­sto. Non manca il vecchio pianoforte a coda, né il puf, né il grande spec­chio con la giardi­niera davanti, e tutto è sbiadito, macchiato, deteriorato: dalle tende delle finestre alle stoffe delle poltrone, dai tavolini che traballano alle sedie malsicure. C'è ancora qualche oggetto di valore qua e là, come un antico oro­logio su una consolle; ma i quadri d'autore hanno preso la via dell'antiquario e sono stati sostituiti da copie con­formi. Porte in fondo e a sinistra che danno nelle stanze interne; porta a destra che dà nell'anticamera. Le prime ore del pomeriggio.

(Seduta al pianoforte, Rosanna suona con un dito solo, ripetendo sempre lo stesso motivo e sbagliando costan­temente al medesimo punto).

Stano                             - (entra da sinistra, mordicchiando un lapis, la fronte pensierosa, l'occhio maniaco, un giornale d'enig­mistica in mano). Eh, no! Non lo trovo. Tu, Rosanna... Sapresti dirmi quale sarebbe quell'affluente del Po, di quattro lettere, che comincia con A... Zitta! Ho trovato. L'Arno!

Rosanna                        - L'Arno è un affluente del Po?

Stano                             - Hai ragione.

Rosanna                        - Se comincia con A, sarà l'Adda.

Stano                             - Benissimo! L'Adda! Tu sei un tesoro, (e, cur­vo su un tavolino, scrive col lapis sui quadratini del giornaletto che ha in mano) Adda...

Rosanna                        - Che fai? Non esci oggi?

Stano                             - (capovolgendo e agitando, tra indice e pollice, le tasche dei calzoni) Vedi se ne casca un centesimo...

Rosanna                        - Per comprare quel tuo stupido giornale però, li trovi sempre, i denari!

Stano                             - Mezza lira. E ti svaghi una settimana...

Rosanna                        - Se svago può chiamarsi...

Stano                             - Ammazzi il tempo, (tornando alle sue parole incrociate, intanto che suona il campanello dell'uscio) Oh!  Vediamo adesso... «Merletto antichissimo»... Trina? No. E' di cinque lettere; ed è di sei che dev'essere...

Rosanna                        - (a Eugenia che entra dalla porta di destra, avviandosi verso quella di fondo) Chi era?

Eugenia                         - Un altro esattore. Quello del gas, questa volta. E il gas bisogna pagarlo, se no ce lo tagliano. Vado a vedere se Monzù... (esce dalla porta di fondo).

Stano                             - (sempre alle sue parole incrociate) Pizzo? (conta sulle dita). Neanche pizzo va bene...

Nietta                            - (dalla sinistra, cappello in testa) Ah, no, cari miei! Basta, basta, basta!

Stano                             - Altre storie?

Nietta                            - Le solite. Vai da mammà: « Quel mascal­zone di tuo padre, che mi ha rovinata»... Vai da papà: « Quell'incosciente di tua madre, che continua a sperpe­rare in vestiti e cappelli quel poco che c'è rimasto... ». E intanto si deve uscire di casa senza un soldo in tasca! Ti pare una vita questa?

Stano                             - Mammà dovrebbe ancora averne...

Nietta                            - Del suo mezzo milione di dote - mi diceva adesso - non le è rimasto quasi più niente, dopo che si è lasciata stupidamente convincere a impiegare le sue ultime cinquantamila lire in quella vaccheria-modello che, secondo papà, doveva farci in pochi anni milionari...

Stano                             - E anche lì, a quanto pare, le cose vanno piut­tosto male.

Nietta                            - Cioè, per lui vanno benissimo, perché se ne serve per andarvi a letto con le sue...

Stano                             - Nietta!

Nietta                            - Credi che non lo sappia? O debbo fare l'ipo­crita? Ho già diciannove anni, alla fin dei conti, e non sono una stupida... (a Rosanna che ha ricominciato a suonare) Rosanna! Che strazio! E' da stamattina che stai li a romperci le scatole!

Rosanna                        - (richiudendo il pianoforte) Scusa il fastidio.

Stano                             - (a Nietta) Dove vai così presto?

Nietta                            - Prendo un tassì e prima vado dai Delli Ponti. Vedremo poi, con Rosetta, dove recarci: se a un cine­matografo o a prendere un tè.

Stano                             - Ma non hai detto che...

Nietta                            - Che sono in bolletta? Sì. Ma vado prima a vedere se Monzù...

Stano                             - Tempo perso! Niente da fare oggi. Intratta­bile.

Nietta                            - E' vero che con me fa sempre il tirchio, mentre... (guardando con intenzione la sorella) non è con tutti così.

Stano                             - Oggi però ha ragione: c'è stato anche il gas da pagare; e lui, quando ci sono queste spese di ordi­naria amministrazione...

Rosanna                        - (a una nuova scampanellata) Ma cos'hanno quest'oggi che non la smettono più?

Nietta                            - Sarà un altro esattore... (o Eugenia che ri­passa, facendo un gesto come per dire: «Santa pazien­za! ») Chi è? Il macellaio questa volta? Il padrone di casa?...

Eugenia                         - (continua a fare il suo gesto e a tacere).

Stano                             - Eugenia? Nietta ti ha chiesto chi ha suo­nato.

Eugenia                         - E io che sto rispondendo?

Stano                             - Niente. Tu non stai rispondendo affatto. Fai così col piede, fai così con la testa, ma questo non signi­fica rispondere...

Eugenia                         - La sarta.

Nietta                            - (prendendole la fattura di mano) Fa vedere.

Eugenia                         - Duemila e trecento.

Nietta                            - (a Stano) Però guarda... Guarda se c'è una lira spesa per me! Duemila per mammà e trecento per Rosanna.

Rosanna                        - Oh, in quanto a me, dopo due anni, è il primo inverno questo...

Nietta                            - Il primo o l'ultimo, non si dirà almeno che sono io la sciupona (esce dalla porta di destra).

Rosanna                        - (a Stano, con doloroso risentimento) L'hai sentita?

Stano                             - Ma lasciala direi

Rosanna                        - Basta vedere come va vestita lei: l'anno scorso la pelliccia, quest'anno due vestiti da ballo... Ed io che sono la maggiore...

Stano                             - (indicando Eugenia che canterella dimenando la testa) Senti però com'è allegra Eugenia quest'oggi!

Eugenia                         - Insomma, a chi debbo darla?

Stano                             - La fattura? Lasciala lì.

Eugenia                         - E l'esattore chi lo manda via? Ha detto che questa volta non se ne va, se prima non avrà almeno un acconto... (decidendosi) Be'... Sapete che faccio? Io la porto al barone!

Stano                             - Brava! Non è un'idea felicissima, ma è sem­pre un'idea.

Eugenia                         - Non importa che m'abbia tanto raccoman­dato di non andarlo mai a disturbare quando lavora...

Stano                             - Papà lavora?

Eucenia                         - S'è chiuso nel suo studio per questo, mez­z'ora fa...

Stano                             -  E tu, che stai qui da trent'anni, non hai im­parato ancora a conoscerlo?

Eugenia                         - Non ha le vacche adesso?

Stano                             - Sì... Quelle magre però, perché le grasse chissà dove sono andate a finire... Lo troverai che sta dormendo, vai... Si riposa dalle notturne fatiche! (Uscita Eugenia, a Rosanna) E tu smettila con quel muso, an­diamo!

Rosanna                        - Capirai... Certe cose dispiacciono. Io la sciupona!

Stano                             - Ma vuoi dare peso e importanza a ciò che esce di bocca a quella disgraziata?

Rosanna                        - Mammà gliene dà...

Stano                             - Logico. Per lei è la vera madre, per noi due è la matrigna. Come vuoi ch'ella non stia più dalla parte sua che dalla nostra? L'imbecille è stato nostro padre, che prima s'è rovinato per lei, quando ella non era che un'attricetta da caffè-concerto, e poi, morta nostra madre, ce l'ha anche portata in casa...

Rosanna                        - A dettare legge...

Stano                             - E si capisce. Perché ormai la ricca era lei. Non l'hai sentita Nietta poco fa? Quel mezzo milione che s'era messo da parte, togliendolo a lui, ora glielo farà pesare per tutta la vita.

Il Barone                       - (entrando, seguito da Eugenia) Calma, calma, vecchia mia! Tu ti allarmi sempre senza ragione. E così ti perdi in un bicchiere d'acqua... Dov'è questo si­gnore che osa alzare la voce in casa nostra? Che parli con me!

L'Esattore                     - (entrando) Eccomi, signor barone...

Il Barone                       - Ah! Voi state anche ad ascoltare dietro le porte?

L'Esattore                     - Che il signor barone mi scusi, ma non veniva più nessuno e allora ho un po' teso l'orecchio...

Il Barone                       - Teso l'orecchio! Dovrei tirarvelo io per insegnarvi come si entra in casa della gente per bene! (A Eugenia) Dammi quella fattura, via...

L'Esattore                     - (intanto che il barone inforca gli occhiali di tartaruga per esaminarla) Se il signor barone ri­corda, l'ultima volta mi promise...

Il Barone                       - (a Eugenia, che esce) E va a chiamare Monzù.

L'Esattore                     - ...mi promise che, almeno in parte...

Il Barone                       - (che ha dato un rapido sguardo alla fat­tura) Come, come? Duemila e trecento?

L'Esattore                     - Prezzi già convenuti con la baronessa, per cui...

Il Barone                       - Non ho domandato per questo. Non è mia abitudine defalcare le note. Ma siccome la cifra non è indifferente, e oggi non è stata una giornata d'incassi per me...

Stano                             - (sottovoce alla sorella) Vorrei conoscerla, questa giornata...

Il Barone                       - Non so se mi sarà possibile...

L'Esattore                     - Nemmeno un acconto?

Il Barone                       - Un acconto forse. Ho mandato Monzù poco fa a cambiare un biglietto da mille, per cui... (Sguardo fra Stano e la sorella) ...per cui forse qualche cosa ci sarà rimasta per voi.

Monzù                           - (entrando in tenuta da cucina, dall'alto ber­rettone bianco, seguito da Eugenia) « Monsieur le baron m'a appelé? ».

Il Barone                       - Sì, ma non cominciare col tuo francese adesso...

Monzù                           - (con uno schioccare di dita e un piccolo ru­more delle labbra, alla francese) « Oh, là là! » (pronunzia franco-italiana) Che il signor barone mi perdoni. Ma è tale l'abitudine presa... E allora?

Il Barone                       - Dammi il resto... (Monzù lo guarda: «.Quale resto? »). Avanti, sbrigati! Il resto di quelle mille lire... (Sottovoce) Non capisci mai tu! Insomma, quanto hai addosso?

Monzù                           - Io? Neanche un soldo.

Il Barone                       - E a casa tua?

Monzù                           - Tutti bene.

Il Barone                       - Senti, Raffaele. Non è il momento delle barzellette questo...

Monzù                           - E' il momento di pagare, oggi, ho finito.

Il Barone                       - (altezzoso) Oh, ma dico! Che forse ti debbo queste centinaia di migliaia di lire, alla fin dei conti?

Monzù                           - Centinaia e centinaia no, ma cinquantanovemila sì...

Il Barone                       - Che bai già avute in cambiali.

Monzù                           - (masticando amaro) Sissignore... In cambiali...

Il Barone                       - (mostrandogli la nota) Del resto, guarda. Duemila sono per la baronessa, va bene. Ma il rimanente...

Rosanna                        - Per me, vuoi dire? Trecento sole, papà...

Monzù                           - Permettete?

Il Barone                       - Perché no? (all'esattore, intanto che Monzù, rabbonito, esamina la fattura) E va bene. Avrete un acconto di cinquecento lire... Contento?

L'Esattore                     - Di cinquecento soltanto? Se il signor barone potesse...

Il Barone                       - Non un soldo di più!

Monzù                           - (dando all'esattore tre biglietti da cento) A voi.

L'Esattore                     - E che! Sono diventate trecento adesso?

Monzù                           - E' tutto ciò che m'è rimasto, barone, « delle mille » che mi avete date...

Il Barone                       - Che cosa? Già settecento volate via? E com'è possibile?

Monzù                           - Ma! Chi lo sa?

Il Barone                       - (all'esattore) Voi capite come sparisce il denaro in casa mia? Poco fa gli ho dato mille lire da cambiare... Voi le avete viste?

L'Esattore                     - Io no.

Monzù                           - (sottovoce a Eugenia) E io nemmeno.

L'Esattore                     - (per accomiatarsi) Barone, io mi sono proprio contentato per non dispiacervi...

Il Barone                       - (cerimonioso, accompagnandolo) Voi siete la gentilezza fatta persona. Da questa parte, guar­date...

L'Esattore                     - Ma no, barone. Volete scomodarvi per me?

(Suoneria al telefono).

Il Barone                       - Ah, sì, sì! I creditori, io li accompagno sempre. Perché è sempre bene accertarsi che se ne sono andati... (a Stano che aveva già staccato il ricevitore) E non correre tu sempre al telefono, Stano! Quante volte te lo debbo dire?

Stano                             - Dio, papà! Come sei insopportabile oggi! (ed esce).

Il Barone                       - Va tu, Monzù. E se è un altro seccatore... (all'esattore) Non parlo di voi, si capisce. Ma ci sono di quelle giornate in cui i seccatori sono come le ci­liege: uno tira l'altro.

L'Esattore                     - Sempre non parlando di me...

Il Barone                       - Sempre non parlando di voi, beninteso... (escono, preceduti da Eugenia).

Rosanna                        - (a Monzù, prima ch'egli risponda al telefono, mettendogli una mano sulla spalla) Le hai date per me, quelle trecento lire. E sai che non voglio...

Monzù                           - (al telefono) Allò? (Pausa). Sì, in casa del barone Liceti-Bardi... (Pausa). Eh, no; mi dispiace. Il signor barone è partito... (Pausa). Come? (Pausa). Non in viaggio di piacere, no. E' partito con la baronessa... (Pausa). Non credo che torni per oggi... (Pausa). V'ho detto e ripeto che non torna, non torna... Se volete la­sciare nome e indirizzo... (Intanto che scrive) « Très bien... ». Va benissimo... Prego... (riattacca il ricevitore. Guarda Rosanna) E allora? Perché quel musetto triste?

Rosanna                        - Niente.

Monzù                           - Niente è una parola che dice tutto... Venite qui. Fatevi guardare bene. Un'altra malefatta di quella...

                                      - (si batte una mano sulle labbra) ...di quella cara donna della baronessa? ...Sì? E' per questo?

Rosanna                        - Con me è sempre la stessa, lo sai. Dura, sgarbata, cattiva... Per lei non c'è che Nietta. E' sua figlia, va bene; ma, entrando in casa, lei aveva promesso a papà che mi avrebbe fatto le veci di madre...

Monzù                           - Eh, lo so! Ma oggi che c'è stato di nuovo? Avanti... Sentiamo.

Rosanna                        - Di nuovo niente. Ma quando lei non le fa, le cattiverie, le dice. E allora forse è peggio. Perché per me le parole sono peggiori delle cattive azioni. Da queste ci si può difendere almeno, ma da quelle no... Le parole sono senza pietà!

Monzù                           - (sentendo ch'ella sta per piangere) Ma adesso, finiamola, eh? Adesso basta!

Rosanna                        - Se sapessi come sono infelice!

Monzù                           - E questo non voglio neanche sentirvelo dire... Inghiottiamole dunque, subito subito, quelle lagrimucce che stavano già per spuntare, e facciamo a Monzù uno di quei bei sorrisetti che mi facevate da bambina, quando venivate in cucina a darmi il bacio a pizzichino... (Rosanna gli sorride tra le lacrime). Brava! Così... Infe­lice! E io qui, allora, che ci sto a fare?

Rosanna                        - Questo è vero. Se non avessi te... Stano sempre fuori... Papà con la testa ad altro...

Monzù                           - Vi vuole bene però.

Rosanna                        - A modo suo. Sempre con la paura di di­mostrarmelo. Mentre che tu...

Monzù                           -  Ve ne voglio anch'io, si capisce. Vi ho vista nascere. E so quanto ve ne voleva lei, povera baronessa - parlo della vera, si capisce, di quella santa donna di vo­stra madre - che sapeva tutto, che capiva tutto...

Rosanna                        - Povera mamma!

Monzù                           - Ed era anche certa che quella lì, un giorno, sarebbe entrata qui da padrona...

Rosanna                        - E tu per questo sei tornato!

Monzù                           - Io? Anche per questo, sì, non lo nego.

Rosanna                        - Solo per questo!

Monzù                           - Parigi era bella...

Rosanna                        - Per me!

Monzù                           - Ma venticinque anni senza vedere più Na­poli sono troppi per un napoletano...

Rosanna                        - Per me, per me! Lassù ti pagavano a peso d'oro, ho saputo.

Monzù                           - Quei pochi denari che ho messi da parte mi bastano e mi soverchiano per la vecchiaia...

Rosanna                        - M'hanno detto che un giorno il « Carlton », per toglierti al « Ritz », non so che paga arrivò ad of­frirti... Da primo ministro.

Monzù                           - Non mi sarei contentato.

Rosanna                        - Una paga favolosa insomma...

Monzù                           - (cara orgoglio professionale) Ah, questo sì! Di Raffaele Pìscopo, a Parigi, « on parlerà toujours », cre­dete a me! Perché si dice, è vero, la cucina francese. Ma è la mano che conta, non la ricetta. E in quanto a mano d'opera, credetemi pure... (con fierezza nazionale) non ci siamo che noi italiani in tutto il mondo, qua­lunque cosa facciamo...

Il Barone                       - (rientrando) Chi era?

Monzù                           - Al telefono? Un certo... L'ho scritto qui il nome... Mi ha dato il numero del telefono anche...

Il Barone                       - Denari?

Monzù                           - Non me l'ha detto, ma insisteva troppo per non essere un creditore... (leggendo) Carenghi.

Il Barone                       - Ugo Carenghi? Da Milano?

Monzù                           - No, da qui. Dal « Grand Hotel ».

Il Barone                       - E tu che gli hai risposto?

Monzù                           - Come sempre: che il barone era partito.

Il Barone                       - Ma Carenghi è quello del lanificio, im­becille! E' una nostra preziosa conoscenza...

Monzù                           - Saperlo.

Il Barone                       - E tu, Rosanna, devi anche ricordartene... No? Hai ragione. Quell'anno tu e Nietta eravate andate a Sorrento, da zia Clotilde, mentre io e mammà eravamo andati una quindicina di giorni a Vallombrosa... E fu lì che conoscemmo questo commendatore Carenghi, per­sona facoltosissima, proprietario d'uno dei più grandi la­nifici lombardi. Ora per volermi vedere...

Monzù                           - D'urgenza...

Il Barone                       - Così t'ha detto?

Monzù                           - E anche perciò io l'ho preso per un credi­tore.

Il Barone                       - Ora mi domando se si può essere più imbecilli di così!

Monzù                           - Ma scusate... Mi dice Carenghi: nome mai sentito nominare; insiste per vedervi in giornata: insi­stenza sospettosa; mi domanda quando, all'incirca, pote­vate tornare...

Il Barone                       - E che gli hai risposto?

Monzù                           - «Non torna, il barone... Non torna...».

Il Barone                       - (con la stessa cantilena) Bello fesso che sei tu! Bello fesso! Dammi qui il numero, via. (e va a girare il disco del telefono) Pronto? Il «Grand Hotel »?... Per favore, è in camera il commendatore Carenghi? (Pausa). Sì, grazie. (A Monza) Fortunatamente non è ancora uscito...

Monzù                           - Meno male.

Il Barone                       - (al telefono) Pronto?

Monzù                           - E allora posso andare?

Il Barone                       - (trattenendolo per un braccio) Pronto?

Monzù                           - Lasciatemi andare, barone. Ho in cucina...

Il Barone                       - Caro commendatore! Sono io... Il barone Liceti-Bardi... (Pausa). Sono tornato proprio in questo momento, sì, da un mio giro d'affari... (Pausa). Eh, già! Siamo colleghi adesso...

Monzù                           - (sempre trattenuto da lui per un braccio) Io debbo tornare in cucina, barone...

Il Barone                       - Ma come? Non lo sapete? Ho anch'io, 6Ì, una mia piccola industria: una vaccheria modello... E siccome m'era giunta stamattina dalla Svizzera una ma­gnifica vacca lattifera...

Monzù                           - (sottovoce) Badate che gli ho detto ch'era­vate partito con la baronessa...

Il Barone                       - (ai telefono) ...così, per installarla bene, io e la vacca... (correggendosi) Io e la baronessa... (tor­nando a correggersi) Io, la vacca e la baronessa... (A Monzù, coprendo con la mano il microfono) Mi combini certi guai tu! (Al telefono) Come? (Pausa). Ma sì! Vi aspettiamo con immenso piacere, immaginatevi! (Pausa). Anche in giornata, se volete... Arrivederci, caro commen­datore... (riattacca. A Rosanna) Viene subito. E desidera vedere anche tua madre... Va a dirglielo.

Rosanna                        - Credo che stia per uscire...

Il Barone                       - Ebbene, che non esca oggi.. O che esca più tardi... Va, corri.

Monzù                           - (uscita Rosanna) E io? Me ne posso andare?

Il Barone                       - Tu? E che ci stai a fare ancora qui?

Monzù                           - Oh, bella questa!

Il Barone                       - . Anzi, chi t'ha mai pregato di stare sem­pre a sentire tutti i fatti nostri? Tu non fai altro, caro Raffaele, lascia che te lo dica una buona volta; e ti confesso che ciò comincia a seccarmi.

Monzù                           - Barone, ma bisogna allora dire che pro­prio... « 'a capa » non v'aiuta più.

Il Barone                       - Insolente!

Monzù                           - Ma scusate... Se siete stato proprio voi... (imita, afferrandosi un braccio, il gesto fatto dal barone poco prima).

Il Barone                       - (battendosi sulla fronte) Hai ragione! Quando si hanno tanti pensieri per la testa! Che volevo domandarti?... Ah, ecco! Vieni qui... Ma vieni più vicino! Possibile che si debba sempre gridare quando si parla con te? (Sottovoce) Volevo domandarti se c'eri poi an­dato stamattina... (A un cenno affermativo di Monzù) Sì? E che ti ha risposto?

Monzù                           - E' su tutte le furie. E, ad essere giusti, non ha poi tutti i torti.

Il Barone                       - Non glielo avrai detto, speriamo bene...

Monzù                           - Non gliel'ho detto, ma è così. Se glielo avete promesso, queste famoso collo di pelliccia, dovete pure darglielo...

Il Barone                       - Bravo! Facile a dirsi. Glielo compri tu? Lo vuole di volpe, capisci?, e di volpe argentata per giunta!

Monzù                           - E voi neanche nichelata glielo darete mai...

Il Barone                       - . Le hai almeno raccomandato che non ardisca telefonarmi qui?

Monzù                           - Avete ragione. Questo l'ho dimenticato ve­ramente...

Il Barone                       - La sapevo! E se quella sciagurata tele­fona?... Ma vedi come sei? E' inutile! Su te non c'è da fare mai affidamento!

Monzù                           -  Ora io non capisco perché voi, padre di famiglia, alla vostra età, dovete andarvi a mettere ancora in questi pasticci!

Il Barone                       - Raffaele, lo sai... Io non smetto.

Monzù                           - E finirete col rimetterci anche la salute, vi avverto.

Il Barone                       - Non smetto! Debbo morire sulla breccia.

Monzù                           - E morirete...

Il Barone                       - Alla faccia tua!

Monzù                           - Se continuate di questo passo, me ne direte un giorno qualche cosa... Ma possibile che, alla vostra età, non dobbiate avere altro pensiero per la testa?

Il Barone                       - E torna con l'età! Come se parlasse poi questo giovanottino... Si può sapere tu quanti anni hai?

Monzù                           - Io? Cinquanta.

Il Barone                       - Ed io appena quarantasette.

Monzù                           - Che portate malissimo. Vi siete guardato oggi allo specchio?

Il Barone                       - No. Perché? Ho una brutta faccia?

Monzù                           - Guardatevi. (Mentre il barone si specchia) La faccia del vizio. Perché non è tanto l'età che conta quanto il fatto che... Barone, volete propria che ve lo dica? Bello, chiaro e tondo?... E allora datemi retta. Non vi fa bene!

Il Barone                       - Tu che ne sai?

Monzù                           - Non vi fa bene. (Lo so.

Il Barone                       - E' arrivato quest'Esculapio, è arrivato!...

Monzù                           - Vi vedo sempre dormire, dalla mattina alla sera. Dormite dopa colazione, dormite dopo pranzo, dor­mite se c'è aperta la radio, dormite se vi mettete in mano un giornale... E che diavolo! Volete scommettere che, se io mi sto zitto un momento, voi v'addormentate in piedi come i cavalli?

Il Barone                       - Non fa bene dormire?

Monzù                           - Continuamente no: è un brutto segno... Poi, ogni tanto venite in cucina: «Raffaele, un bicchiere d'ac­qua: oggi m'hanno fatto male i peperoni... », «Raffaele, un bicchiere d'acqua: oggi m'ha fatto male il ragù... »,

Il Barone                       - E non bisogna neanche bere?

Monzù                           - Sì, ma non tutta la giornata. Voi lo chia­mate peperoni, lo chiamate ragù, e sapete come dovete chiamarlo? (Il barone fa segno di sì). Oh! I francesi, che in questo genere di cose sono maestri, dicono sem­pre: « Si te donne faim, sa va bien; si a t'endort, va moins fort; si sa t'altère, plus le faire... ».

Il Barone                       - E perciò?

Monzù                           - Scommetto che non avete capito.

Il Barone                       - i No.

Monzù                           - Ma come? Neanche il francese sapete?

Il Barone                       - Non fare l'istruito adesso, perché sei stato venticinque anni a Parigi! Traduci.

Monzù                           - Significa: «Se ti dà fame, va bene...».

Il Barone                       - (mezzo addormentato) Che cosa?

Monzù                           - Oh, Madonna!

Il Barone                       - Ah sì, ho capito... Continua.

Monzù                           - Se ti dà fame, va bene; se t'addormenta, va meno bene; se ti dà sete, non, va proprio più! »

Il Barone                       - (allarmato) Non va proprio più?

Monzù                           - Già.

Il Barone                       - E io dormo dodici ore di fila ogni notte, Raffaele...

Monzù                           - Avete visto?

Il Barone                       - E se sto un momento senza fare niente, hai ragione, piglio subito sonno...

Monzù                           - Più chiaro di così?

Il Barone                       - Ho sete, Raffaele...

Monzù                           - «Monsieur le baron, vous ètes foutu! ».

La Baronessa                - (entra dalla porta di fondo, seguita da Rosanna. E' il classico tipo dell'ex-cantante di caffè-concerto salita di rango, che ora si dà arie di nobiltà e involontariamente, imitando Monzù, mette anche lei, qua e là, ma a sproposito, qualche parola di francese) Ni­cola mio bello! Ma come? Tu proponi e disponi della mia persona senza neanche sapere che cosa io faccio, che cosa non faccio?... (Monzù esce, strizzando gli occhi a Rosanna).

Il Barone                       - Io propongo e dispongo?...

La Baronessa                - Ma sì! M'ha detto Rosanna che non posso uscire perché aspettiamo una visita, e io oggi ho un tè dalla contessa Autuori, alle cinque.

Il Barone                       -  Vuol dire che per oggi pigli invece un caffè, e resti a casa.

La Baronessa                - E' facile dirlo... La contessa m'aspet­ta... E, poi, alle sette debbo anche andare dalla marchesa Delli Ponti, dove ho dato appuntamento a Nietta. « C'est embètant. », capirai...

Il Barone                       - Non cominciare anche tu col francese adesso!

La Baronessa                - Eh, già! Perché solo Monzù...

Il Barone                       - Monzù lo sa parlare e tu no.

La Baronessa                - Insomma, non posso certo piantare Nietta così, capirai... Se la marchesa avesse il telefono, potrei almeno avvisarla...

Il Barone                       - Manderemo Rosanna dalla marchesa.

Rosanna                        - Ma sì, papà. Vado io. (esce).

Il Barone                       - Hai visto? A tutto c'è rimedio...

La Baronessa                - Che cosa dobbiamo poi raccontare a questo signore milanese che abbiamo visto una sola volta in vita nostra, io proprio non lo so.

Il Barone                       - Per volermi vedere con tanta premura, è segno che ha qualche cosa di molto importante da dirmi... Anzi, tu cerca di parlare il meno che puoi, mi raccomando: non fare come al solito...

La Baronessa                - Sì. perché quando parli tu, parla il pozzo della scienza!

Il Barone                       - Il pozzo della scienza no; ma, quando non so una cosa, io non la dico; e tu invece, meno la sai e più ci tieni a dirla... Chi aprirà la porta?

La Baronessa                - Monzù. Al quale ho già detto di met­tersi in livrea. Per la prima volta che quel signore viene in casa nostra, non voglio che ci prenda per degli strac­cioni. E, poi, dalla marchesa Delli Ponti, che come no­biltà vale molto meno della nostra, il cameriere è sem­pre in livrea, dalla mattina alla sera.

Il Barone                       - Il cameriere... Ma siccome noi non l'ab­biamo più...

La Baronessa                - Monzù ne farà le veci. E non ci trovo proprio nulla di straordinario... Che altro volevo dirti? Ah! (Dandogli una lettera che trae dal seno) Tieni. L'ho ricevuta poco fa...

Il Barone                       - Una lettera d'affari?

La Baronessa                - E che affari! Leggi, leggi...

Il Barone                       - (dopo d'avervi dato una scorsa, con aria scandalizzata) Oh!

La Baronessa                - Finisci di leggere...

Il Barone                       - Ma è un'infamia!

La Baronessa                - Sicché, sono queste le tue occupa­zioni, non è vero? Sono queste le ore che dici di pas­sare nella tua vaccheria-modello?

Il Barone                       - Ma è una lettera anonima, cara! Che vuoi farci? Non c'è come difendersene! E' la pugnalata alle spalle...

La Baronessa                - Quella è la pugnalata?... Ah, sì? E questo? (gli dà un ceffone). Questo ch'è stato?

Il Barone                       - Che è stato?... «'Nu paccaro ».

La Baronessa                - E impara una buona volta a parlare italiano!

Il Barone                       - Lo chiamerò ceffone, se preferisci. (Stro­finandosi la guancia) Ma mi fa male lo stesso.

Monzù                           - (dalla soglia, in livrea, annunziando) Il com­mendatore Carenghi.

La Baronessa                - Sorbiamoci intanto questa bella scoc­ciatura! (andandogli incontro festosa, intanto che Monzù s'inchina e s'allontana) Caro commendatore... Ma che ma­gnifica sorpresa ci avete fatta! Come siamo contenti di rivedervi... Prego... Accomodatevi...

Carenchi                        - (offrendole un cartoccio, dopo il baciamano) Se permettete...

La Baronessa                - Oh, ma che belle! Hai visto, Nicola? Orchidee! Chi sa quanto le avrete pagate!

Il Barone                       - Nini!

La Baronessa                - Ma sì! Perché vanno ai cieli di que­sta stagione. L'altro giorno volevo... (interrompendosi a un'occhiata del barone) E allora? Arrivato quando?

Carenghi                       - Ieri sera. E riparto domattina. Una visita a volo d'uccello.

La Baronessa                - Siete arrivato in areoplana?

Carenghi                       - No, in treno.

La Baronessa                - Avevo sentilo « a volo »...

Carenghi                       - Sì, ma d'uccello... E' un modo di dire.

Il Barone                       - E poi non si dice « areoplana », Nini...

La Baronessa                - Non fare sempre il pedante! E' ma­scolino, lo so. Areoplano... (A Carenghi) Li ho sempre visti da lontano, capirete, e allora come si fa a distin­guerne il sesso?

Il Barone                       - (tra sé, la mano nei capelli) Ah, po­vero me! Già comincia!

Carenghi                       - Però che incantevole città la vostra! Ogni volta che ci si ritorna, la si ritrova sempre più bella...

La Baronessa                - E allora perché non vi rimanete qual­che giorno di più?

Carenghi                       - Potessi! Ma ho a Milano un opificio con tremila operai, e siamo in pieno lavoro...

La Baronessa                - Sino a dopodomani, via! Cosi verrete da noi a pranzo domani sera. Abbiamo un monzù che - modestia a parte - è il migliore di quanti ce ne sono a Napoli in questo momento...

Carenghi                       - Un monzù?

Il Barone                       - Un cuoco. Da noi, nel Mezzogiorno d'Ita­lia, i cucchi li chiamiamo così...

Carenghi                       - Ah, capisco. Dal francese « monsieur »... (Alzatosi per andare a guardare un quadro da vicino) Questo che cos'è? Un Raffaello?

La Baronessa                - Nicola, a te domanda. Quel quadro che cos'è? (Gesto del barone: «Ma che dev'essere!») Un Raffaello, si... Piccolo però... Un Raffaellino...

Il Barone                       - (per tagliare corto) Sicché, a che dob­biamo, commendatore, il piacere di questa vostra visita?

La Baronessa                - (dopo bavere suonato a un campanello) E lasciami prima fare gli onori di casa, Nicola... Che fretta! (o Raffaele che riappare) Il tè, Battista. (Raffaele esce).

Carenghi                       - Oh, ma non disturbatevi per me...

La Baronessa                - Il nostro dovere, prego... Una si­garetta?

Carenghi                       - Dopo, grazie... Dunque voi sapete ch'io a Milano ha un'industria d'una certa importanza...

La Baronessa                - Il vostro lanificio? E come volete che non lo sappiamo? Pare che... (fa un gesto di magni­ficenza, agitando una mano sul viso).

Carenghi i                     - Vada a rotoli?

La Baronessa                - Ma no! (rifacendo il gesto) Il con­trario...

Il Barone                       - Quello è un gesto tutto nostro, meridio­nale, per dire: è una cosa grandiosa, una meraviglia...

Carenghi                       - Una meraviglia no, ma certo uno dei più importanti della Lombardia... Ora, siccome io ho tre figli da mettere a posto e voglio che tutti lavorino come me, che tutti producano...

La Baronessa                - Voi avete tre figli?

Carenghi                       - Sicuro.

La Baronessa                - E come li avete fatti?

Carenghi                       - Oh Dio, baronessa... Come si fanno sempre.

La Baronessa                - Volevo dire: avete un'aria così gio­vanile!

Carenghi                       - Non illudetevi. Guardate quanti capelli bianchi...

La Baronessa                - (allusiva) Oh! I capelli bianchi si tingono.

Il Barone                       - (subito a Carenghi) E allora dicevate?

Carenghi                       - Siccome ho tre figli da mettere a posto, di cui il maggiore ha già venticinque anni, così ho pen­sato di aprire tre filiali in Italia, in ognuna delle quali metterei a capo uno di loro.

Il Barone                       - Magnifica idea!

 Carenghi                      - (intanto che Raffaele entra e depone su un tavolino un vassoio con teiera, tazze e dolciumi) Co­mincerei con la filiale di Napoli, naturalmente, dove contiamo una più numerosa clientela e dove insedierei il maggiore dei miei ragazzi.

Il Barone                       - (già mezz'addormentato) Giovanni...

Carenghi                       - Quale Giovanni?

Il Barone                       - Non avete detto che si chiama Giovanni?

Carenghi                       - Si chiama Filippo. Ho detto che ha ven­ticinque anni.

Il Barone                       - Ah, già! Trentacinque...

Carenghi                       - Venticinque, barone.

La Baronessa                - Dio mio, Nicola! Come sei sempre con la testa nella nuvolaglia, tu!

Carenghi                       - (prendendo la tazza che la baronessa gli porge) Grazie, baronessa...

La Baronessa                - Uno di questi «ponpons »?...

Monzù                           - (sottovoce al barone) «Bonbons»...

Il Barone                       - Lascia correre; è andata.

La Baronessa                - (risedendosi) Sicché, dicevate?

Carenghi                       - Dicevo che, per quanto sia buona l'idea, ho però una paura...

Il Barone                       - Che vostro figlio, ho capito, non s'intenda ancora molto di affari.

Carenghi                       - Oh, no!  In quanto a questo, mio figlio ne sa già quasi quanto me...

La Baronessa                - Eh, già! I milanesi nascono con la « box » degli affari...

Monzù                           - (tra sé, trattenendosi dal ridere) La «box »! Ha detto la «box»... L'ha preso per un lottatore!

Carenghi                       - Ma Napoli è una città pericolosa, e ven­ticinque anni sono più pericolosi ancora...

La Baronessa                - Per cui vorreste accasarlo, hacapito (a Raffaele, che s'indugia per stare a sentire) Voi, Bat­tista, potete andare.

Carenghi                       - Vorrei mettergli accanto sì, una fanciulla per bene, appartenente a una famiglia come si deve...

La Baronessa                - Saggissima idea! Potete andare, Bat­tista. (Raffaele esce).

Carenghi                       - Ora siccome, se ben ricordo, quando due anni fa ebbi il piacere di conoscervi a Vallombrosa...

Il Barone                       - Il piacere fu tutto nostro, commendatore.

Carenghi                       - Non so chi di voi - il barone, credo - mi mostrò un ritrattino d'una vostra figlia, che mi piac­que tanto...

La Baronessa                - Il ritratto di quale delle due?

Carenghi                       - Non so... Di quella che mi diceste avesse allora ventidue anni, se ben ricordo...

Il Barone                       - Il ritratto di Rosanna, ho capito. Ne ha ventiquattro adesso... Il conto torna.

La Baronessa                - (mostrando a Carenghi una fotografia in cornice che ha presa da sopra un tavolino) E guardate quest'altra...

Carenghi                       - Bella anche lei... (La seconda?

La Baronessa                - Sì, Nietta. Bella e intelligentissima questa. (Raffaele è rientrato con la scusa di riprendere il vassoio con le tazze). Non fo poi per dire, ma in quanto a virtù... una vera casta Susanna.

Carenghi                       - Insomma, l'una o l'altra, l'importante è che io possa imparentarmi con una famiglia rispettabile come la vostra...

Il Barone                       - Commendatore, voi così ci lusingate troppo...

Carenghi                       - In quanto poi a scegliere tra le due ragazze, penserà lui... E, siccome egli è qui con me, potrem­mo vederci stasera stessa, se a voi non dispiace...

La Baronessa                - (dandogli con la palma della mano un formidabile colpo su una gamba che lo fa trasalire, in­tanto che Raffaele esce con il suo vassoio) Bravo, com­mendatore! Voi fate tutto a «tambour battant »! E a me così piacciono gli uomini, non come certe pappe molli (allusiva) ... che noi qui ci vediamo troppo spesso attor­no... Attivi, sbrigativi, senza tante chiacchiere, senza tante fisime per la testa... (e, a ogni nuovo elogio, è un nuovo colpo sulla gamba di Carenghi).

Il Barone                       - Sì, ma tu così lo rovini, povero commen­datore... (a Carenghi) Vogliate scusarla, ma è il suo tem­peramento questo.

Carenghi                       -  Temperamento di meridionale, si capisce, che a me piace tanto.. .

La Baronessa                - (al barone) Hai visto? E' solo a te che non piacciono le mie virtù! (a Carenghi) Ma allora fac­ciamo così, commendatore bello... Perché non venite qui da noi a pranzo, con vostro figlio, stasera?

Carenghi                       - Ma no...

La Baronessa                - Ma sì! Sono appena le tre... Non posso certo promettervi un pranzo «comme il faut », perché il tempo stringe; ma siccome, non fo per vantarmi, abbiamo un cuoco...

Carenghi i                     - Monzù...!

Il Barone                       - Gliel’hai già detto, Nini.

La Baronessa                - Ah, è vero... E allora?

Carenghi                       - Come voi volete... A tanta cortesia come si fa a ricusarsi? (guardando l'orologio) Ma io debbo ora scappare, scusatemi...

La Baronessa                - Alle otto precise allora, badate. Perché mio marito è la puntualità impersonificata!

Carenghi                       - (salutando) Alle otto, va bene, (al barone che l'accompagna) Ma non v'incomodate per me...

Il Barone                       - Che dite mai? Prego... (escono).

La Baronessa                - (appena sola, va subito a comporre un numero al telefono) Pronto?... C'è zia Clotilde?... Da parte della baronessa Liceti-Bardi... (Pausa). Sei tu, Clo­tilde? Senti un po'... Potresti trattenere da te a pranzo Ro­sanna stasera? Mi faresti un immenso favore... (Pausa). Grazie. Senza dirle, si capisce, che sono stata io a pre­gartene... (Pausa). Poi ti dirò... E trattienila, se puoi, sino a mezzanotte... (Pausa). Che so io? Conducila a un teatro, a un cinematografo... Insomma, vedi tu... (Pausa). E al­lora ci posso contare?... Grazie (riattacca il ricevitore).

Il Barone                       - (rientrando) E' una grande fortuna, sai, che il cielo ci manda!  Imparentarsi con i Carenghi di Mi­lano! Sai che colpo d'ala per una firma traballante come la mia?

La Baronessa                - Però dev'essere Nietta, bada bene!

Il Barone                       - Deciderà il giovanotto...

La Baronessa                - Ho già deciso io.

Il Barone                       - Ma scusa... Delle due, Rosanna è la mag­giore...

La Baronessa                - (premendo il bottone del campanello) E Nietta è mia figlia. Ora capirai che, d'un'occasione si­mile, non posso permettere che goda una estranea...

Il Barone                       - Un'estranea? Ma Nini! Rosanna, se non sbaglio...

La Baronessa                - Insomma, ho deciso' e basta! (Monzù che entra) Sentite, Monzù. Stasera, alle otto, ab­biamo due persone a pranzo. Il tempo è un po' ristretto, lo so...

Monzù                           - Oh, non è una difficoltà questa per me. In casa della viscontessa de La Motte Poitière una sera...

La Baronessa                - Mi direte un'altra volta, Raffaele. Per adesso...

Monzù                           - Per adesso, baronessa, la difficoltà maggiore è che sto proprio...

La Baronessa                - Ho capito. Agli sgoccioli. Quanto vi ha dato stamattina per la spesa il barone?

Monzù                           - Niente.

La Baronessa                - E vi siete arrangiato. Dunque arran­giatevi anche per stasera e domani ne parleremo... Intanto, guardate. Uscendo per la spesa, dovreste farmi un pia­cere... Dovreste andare dalla marchesa Dellì Ponti e farvi chiamare Rosanna, che troverete già lì. Le direte che ha telefonato zia Clotilde poco fa, la quale la vuole a pranzo stasera.... Che ci vada assolutamente, perché la zia ha qualche cosa di molto importante da dirle... Capito? Che non manchi per nessuna ragione... (Trilla il telefono). Lasciate. Vado io...

Il Barone                       - T'assicuro, Nini, che quello che fai...

La Baronessa                - (al telefono) Pronto?

Il Barone                       - ...non è giusto, ecco. Quando sei entrata in casa, tu m'hai promesso che avresti considerata Ro­sanna come una figlia...

La Baronessa                - (c. s) Non capisco...

Il Barone                       - Ora, comportandoti così...

La Baronessa                - (sempre al telefono, mutando gradata­mente espressione) Il collo?... Quale collo?

Monzù                           - (dalla soglia della porta di fondo, dove s'è indu­giato nell'uscire) Oh, Madonna!

La Baronessa                - (c. s) Il collo di pelliccia?

Il Barone                       - Lascia... Sarà per me...

La Baronessa                - (c. s.) Ah, sì? Vi ha promesso un collo?...

Il Barone                       - Torcicollo... Non puoi capire. Parleranno dalla vaccheria...

La Baronessa                - (dandogli il ricevitore) Sì, infatti, è una delle tue... (esitando, per non dirla troppo grossa) delle tue... « vaches »!  (ed esce).

Monzù                           - Volete che ve lo traduca, barone?

Il Barone                       - No, grazie. Questo l'ho capito da me.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

La medesima scena del primo atto. Il pomeriggio.

(Il barone Liceti-Bardi, seduto alla piccola scrivania ch'è addossata alla parete destra, occhiali sul naso, rivede con Monzù i conti di fine settimana. La baronessa è oc­cupata a fare, sopra il tavolino di sinistra, un gioco di cartomanzia, fumando sigarette su sigarette. Nietta è sdraiata su una poltrona accanto a lei, sfogliando una ri­vista illustrata. Con la fronte appoggiate ai cristalli della finestra, Rosanna rumina malinconia. ' Il giovane Stano, in preda a vivissima agitazione, le mani in tasca, passeggia di continuo per l'intero appartamento, entrando da una porta e uscendo dall’altra, prendendo ogni volta una sigaretta dal pacchetto ch'è posato accanto alla baronessa e un fiammifero, per accenderla, dalla scatoletta che il ba­rone ha in tasca).

Il Barone                       - Ma come, Monzù? Sei chili di pomodoro in un solo giorno?

Monzù                           - Lì non c'è scritto due?

Il Barone                       - Qui due... Poi due più sotto... E in fondo altri due... Il che fa sei, se la matematica non è un'opi­nione.

Monzù                           - Distrazione!

Il Barone                       - (con un risolino, guardandolo al di sopra delle lenti) Oppure... imbroglione?

Monzù                           - Signor barone!

Il Barone                       - Ecco, vedi? Così abbiamo fatto una bella poesia.

La Baronessa                - (fra i denti) In cui solo manca min­chione...

Monzù                           - « Pardon, madame »?

Il Barone                       - (dandogli a rivedere il conto) Guarda un po' tu, se non ne sei persuaso.

Nietta                            - (a Stano che entra dalla porta di destra) La porta, Stano, la porta! E' già la terza volta che entri e la lasci aperta; e qui viene tale una corrente d'aria... (e poiché Stano non chiude, s'alza e va a chiudere lei) Santa pazienza!

La Baronessa                - (mentre Stano le prende la sigaretta) Ma Stano... Io non sono una tabaccheria, sai? Questa è la quarta...

Il Barone                       - Poi viene qui... Eccolo infatti che arriva! Mi prende i fiammiferi di tasca... Senza chiedermene il permesso, s'intende, perché lui non ha mai saputo dove sta di casa l'educazione... L'accende... E se ne va.

Stano                             - (uscendo) Che noiosi!

Il Barone                       - (a Monza) Hai trovato?

Monzù                           - Carciofi, ci sono...

Il Barone                       - Monzù, ti fai vecchio...

Monzù                           - Frutta forse?

Il Barone                       - E la memoria se ne va... Brutto segno!

Monzù                           - Rifate la somma e vediamo...

La Baronessa                - (fra carta e carta) Va tu, Rosanna, ad aiutare tuo padre. Sai ch'è così facile imbrogliarlo, quel gran contabile!

Il Barone                       - (trattenendo Monzù che vorrebbe rispon­dere) Sta fermo! (alla baronessa) Siamo alle solite, Nini. Se non pungi, se non ferisci, tu non sei mai con­tenta, (a Monzù) Dunque, vieni qui. Troviamo insieme.

La Baronessa                - (a Nietta, indicandole Rosanna)  Che cosa faccia poi quella stupida, lì ferma da un'ora, dietro i vetri di quella finestra, io proprio non arrivo a capirlo...

Nietta                            - Guarda se viene il postino, mamma.

La Baronessa                - Che smanie! Aspetta ogni giorno una lettera?

Nietta                            - Lei è rimasta al tempo delle palafitte. E non sa che gli innamorati moderni scrivono una volta alla settimana, se pure. Anzi, telegrafano.

Rosanna                        - (finalmente uscendo dalla sua immobilità) Il mio scrive invece ogni giorno. Sarà del tempo delle palafitte anche lui, come me...

La Baronessa                - Che cos'è quest'altra storia adesso? Come parlate difficile, ragazze mie! Si può sapere che cosa sono queste parafine?

Il Barone                       - Sì, paracalli... Palafitte, Nini!

La Baronessa                - E che sono? Avanti! Rispondi tu che fai il saccente... (e poiché il barone non risponde) Hai visto? Neanche tu lo sai. E comincio a credere che non lo sappiate nessuno!

Rosanna                        - Per tempo delle palafitte s'intende parlare dei tempi primitivi, mamma, quando gli uomini costrui­vano con pali ficcati in terra e rivestiti di fango, che il sole prosciugava e solidificava.

Il Barone                       - (compiaciuto) Non faccio per dire, Mon­zù... Ma che bella cultura ha mia figlia!

Nietta                            - (a Stano che rientra) Stano! La porta! (e poiché Stano non chiude, tornando a chiudere lei) E sono quattro!

La Baronessa                - (non riuscendo a salvare in tempo il pac­chetto di sigarette) E sono cinque!

Stano                             - Sei, sette, otto, nove... Perché non prendete un contabile? Beate voi che non avete altro per la testa! (sta ora rovistando inutilmente nelle tasche del barone, che intanto ha cambiato di posto i fiammiferi) Dove dia­volo... (ringraziando Monzù, che gli ha offerto un cerino acceso) Grazie, Monzù.

Monzù                           - (sottovoce) Ma si può sapere, signorino, che avete oggi? Vi vedo entrare ed uscire senza ragione...

Stano                             - Ho che... che non ne posso più, Raffaele!

Monzù                           - Affari di cuore?

Stano                             - (sempre sottovoce) Ma che cuore! Ho gio­cato, stanotte... Giocato forte. E ho perduto. Dodicimila. Somma che debbo assolutamente pagare nelle ventiquattr'ore, altrimenti...

Monzù                           - E' l'affissione, lo so.

Stano                             - Meno male che lo sai! E in un Circolo dove un Liceti-Bardi, mio nonno, fu presidente due volte...

Monzù                           - E vostro padre è socio fondatore...

Stano                             - Dovrei essere io socio affisso?

Monzù i                         - Ognuno fa quel che può.

Stano                             - (volgendogli le spalle) Imbecille! (e torna a uscire).

Monzù                           - (accorrendo accanto al barone, che lo ha ri­chiamato a sé battendo palma a palma) Eccomi, si­gnor barone!

Il Barone                       - E che diamine! Mi pianti qui solo come se fossi anch'io una palafitta?

Monzù                           - Il signorino mi diceva...

Il Barone                       - Ha perduto al gioco, lo so. E bussava a denari. Ma non dargli retta... Dunque?

Monzù                           - Adesso bisognerà segnare le spese di fine mese...

Il Barone                       - E avanti! Sbrigati!

Monzù                           - Rate tasse: settecentocinquanta...

Il Barone                       - (terminando di scrivere) Cinquanta...

Monzù                           - Stipendio a Eugenia: centoventicinque...

Il Barone                       - (c.s.) Venticinque...

Nietta                            - (sempre alle sue riviste sportive) Che vo­lata ha fatto Varzi al circuito di Merano! Hai letto, mamma? A centosettanta: come il fulmine! E guardalo al volante... E' magnifico!

La Baronessa                - Non mi distrarre, Nietta. Basta in questo momento sbagliare una carta e tutto va a rotoli.

Nietta                            - Che stai facendo di così interessante?

La Baronessa                - Si tratta proprio di te, piccola ca­naglia.

Nietta                            - Di me? Fammi vedere allora... (sedendole accanto) Io sarei?

La Baronessa                - La dama di fiori. Alla quale un solo fante per adesso è vicino. Ma non è quello ch'io spero per te...

Il Barone                       - (terminando di tirare la somma) Che di­sastro! Quattromila e trecento!...

Monzù                           - A chi lo dite, barone? Io sono all'asciutto!

Il Barone                       - E perciò fai la cresta?

Monzù                           - Che c'entra! Un cuoco che si rispetta la cresta deve farla sempre... Anche se non la fa che a sé stesso...

Il Barone                       - Sfacciato!

Monzù                           - Per il momento, si capisce. Non dico che non l'avrò più, il mio denaro. C'è un santo per tutti in Paradiso...

Il Barone                       - Insomma, per te la cresta sulla spesa è una specie di malattia professionale, ho capito.

Monzù                           - E' come il crampo dello scrittore. Non sa­pete che lo scrittore, alle volte, a forza di scrivere, ri­mane con la mano così? E il cuoco invece, a furia d'andare al mercato, rimane con la mano così...

Il Barone                       - Tutte tu le trovi!

Monzù                           - Il visconte de la Motte Poitière, da cui fui a lavorare per tre anni, mi chiamava alle volte e mi diceva: «Raffaele, domani ho un grande pranzo. Tu di che cosa hai bisogno: d'un cappello, d'un paio di cal­zoni? Te li regalo subito, purché non rubi...». «E' inu­tile - rispondevo io. Sarei un disonesto ad accet­tare. Voi mi date il cappello, voi mi date il paio di calzoni, e io vi ruberò lo stesso... ».

La Baronessa                - (che ha già nascosto le sigarette, a Stano che rientra) Tabaccheria chiusa!

Nietta                            - Tieni. Ne ho una io.

La Baronessa                - Fai male a dargliela, Nietta. Fumi meno e le comperi.

Stano                             - Con le grosse rendite che voi mi date? (a Monza ch'è tornato a offrirgli, acceso, un cerino) Grazie. Se tu dessi i biglietti da mille con la stessa facilità con cui dai i cerini... (e stendendo una mano) Monzù, do­dici... (Monza fa l'atto di mettere la mano nella tasca interna della giacca) Che fai? Me li dai davvero? (Monza gli ha messo in mano qualche cosa) Ma no! Non dodici cerini, imbecille!

Monzù                           - Vedo che anche questi vi mancano...

La Baronessa                - (dopo Saver disposto l'ultima carta) Ah, che bellezza!

Nietta                            - Riuscito bene?

La Baronessa                - Anche tu, Nietta, sposerai nell'anno!

Nietta                            - (con un'alzata di spalle) Oh!

La Baronessa                - Non ci credi? Vedrai. Questa dispo­sizione me l'insegnò la Contessa Azzurra, che, come car­tomante, fu famosa ai suoi tempi... E questa volta, esse parlano chiaro. La dama di picche, guarda, è Rosanna, e la dama di fiori, come t'ho detto, sei tu. Ebbene, spo­serete tutt'e due dentro l'anno e sposerete due fratelli: il fante di cuori e quello di quadri. Il fante di cuori si sa chi è: il primogenito dei Carenghi che, per l'in­fernale opera di quell'anima nera vestita di bianco (ha indicato Monza), ha conosciuto Rosanna prima di co­noscere te, e così finirà per fidanzarsi con lei, se è vero che ne è tanto innamorato. Io ne ho i miei dubbi... Ma i Carenghi non hanno un figlio solo e il padre ci disse, quella volta che fu qui, che vuole sposarli tutti e tre. Ebbene, tu sposerai il fante di quadri, ch'è il se­condogenito dei Carenghi, il più intelligente e il più bello.

Nietta                            - Come fai a saperlo, mamma, se non lo co­nosci ancora?

La Baronessa                - Se il destino l'ha assegnato a te, che sei mia figlia, vuol dire che non può essere che così, vedrai... (a Stano che rientra) Ma vuoi finirla, Stano, con questo tuo continuo andare e venire?

Stano                             - Un telegramma.

La Baronessa                - Diretto a me?

Stano                             - A te e a papà. Ma che non si consegna che contro la rimessa di due pacchetti di sigarette e di una scatola di cerini... E qui c'è - lo sento dal peso - una grossa notizia.

La Baronessa                - Ecco le sigarette, ricattatore!

Stano                             - (prendendo le sigarette, ma non dando il te­legramma) No! E' il genitore che deve aprirlo... Ri­spettiamo l'età!

Il Barone                       - Imbecille!

Stano                             - Sì, ma qui la scatola di cerini prima di tutto!

Il Barone                       - (dandogliela di mala voglia) Comprata stamattina...

Stano                             - (sottovoce a Monzù, dopo d'aver consegnato il telegramma) E allora? (e a un cenno negativo di Monzù) Monzù, mi fai schifo!

Il Barone                       - (dopo che ha letto) E' Carenghi che ar­riva!

Rosanna                        - (con un sobbalzo, staccandosi dalla finestra)

                                      - Filippo?

Il Barone                       - Padre e figlio. In areoplano. Alle quat­tro. Per la domanda ufficiale.

Rosanna                        - (correndo ad abbracciarlo) Ah, babbo!

Il Barone                       - Eh? Come vedi, quei quindici giorni a Sorrento, con il ragazzo infiammabile - idea mia! non sono stati perduti. Il ragazzo ha preso fuoca e ti sposa.

Rosanna                        - Mi sposa e io l'adoro!

Monzù                           - Contenta dunque?

Rosanna                        - Contenta soltanto? Felice!

Monzù                           - Se sapeste come lo sono anch'io! Ma at­tenta! La baronessa ci guarda! E se potesse incenerir­mi... (fa le viste, per rimanere ancora, di riordinare i conti sulla scrivania).

Il Barone                       - Sempre milanesi però! Gente di parola!

Rosanna                        - Sì, ma così presto chi se l'aspettava? A che ora hai detto che giungeranno?

Il Barone                       - Alle quattro. Sicché non perdere tempo, va. Sono già le tra e mezzo...

Rosanna                        - Corro subito.

La Baronessa                - (uscita Rosanna) Nietta? Va a ve­stirti anche tu.

Nietta                            - E io che c'entro?

La Baronessa                - Va a vestirti e basta! So ben io che cosa c'entri. (Allusiva) Siccome qui comando io, sino a prova contraria, e si fa e si farà sempre ciò che vo­glio io, così ubbidisci e lasciami fare, (e, uscita Nietta) Vedremo, signor barone, chi l'avrà vinta!

Il Barone                       - Chi l'avrà vinta? E io che c'entro?

La Baronessa                - Parlo all'asino perché m'intenda il padrone...

Il Barone                       - (sottovoce a Monzù) Hai capito?

Monzù                           - Siete voi il padrone...

Il Barone                       - Ma che! Sempre l'asino sono stato qui dentro!

La Baronessa                - E mi pare che ne sia venuto il mo­mento. Siccome voi vi siete fatto mettere sempre nel sacco da tutti, anche da gente che non conta e che non avrebbe mai dovuto contare in casa nostra, così voglio vedere se questa gente metterà nel sacco anche me! Ma non mi ci metterà, statene certo. Ha sperato! Ma altro è sperare, altro è ottenere! Perché, se voi curvate sem­pre la testa e fate così, io invece   (cenno d'una pedata) alzo il piede e faccio così!

Monzù                           - (con un inchino, sberrettandosi) «Madame la baronne »... (fa per uscire).

La Baronessa                - Sì, sì... (rifacendolo) « Madame la baronne »... Con una smorfia e un inchino, questo mezzo francese della malora crede d'avere saldato i suoi conti. Ma non v'illudete! Fra me e il barone da una parte...

Il Barone                       - E mette sempre me di mezzo!

La Baronessa                - E voi dall'altra, i conti non sono stati saldati ancora!

Monzù                           - Lo so. (Sguardo al libretto che ha in mano) Io sono in credito, infatti, di sessantasettemila lire.

La Baronessa                - (alzando le spalle) Non parlo di queste miserie! Questa piccola contabilità non riguarda che il barone soltanto. Io parlo di ben altri interessi: interessi di famiglia; interessi nei quali voi avete osato introdurvi per spadroneggiare a modo vostro, come se il barone non esistesse, come se io non esistessi, come se non esisteste che voi in questa casa... Ah, che gente! Del resto, non è neanche una novità: lo sanno tutti. Domestici, cuochi, camerieri, sciaffùr? Tutti gli stessi! Nemici pagati!

Monzù                           - Nemici forse... Pagati no.

La Baronessa                - (al barone) Ma lo senti?

Il Barone                       - E non è la verità, cara?

La Baronessa                - Ecco! La verità! Lui subito abbassa la testa...

Il Barone                       - E come posso alzarla, se, appena faccio così, ci batto sopra? (a Monza, vestendosi d'autorità) Certo, Raffaele, tu dovresti avere un poco più di ri­spetto...

La Baronessa                - (scoppiando) Ma che rispetto vuoi che abbia questo padrone di casa nostra, questo insop­portabile factotum, questo prezzemolo d'ogni minestra, questo intrigante che ci troviamo sempre tra i piedi, come se non si potesse vivere senza di lui? Non vedi che non si può più muovere foglia qui dentro, se prima egli non ha detto la sua? Ed eccolo infatti, lampante, uno dei più bei risultati delle sue intramettenze!

Il Barone                       - Inframettenze, Nini...

La Baronessa                - Non mi scocciare! (In quarta velo­cità) Due mesi fa, quando venne qui Carenghi la prima volta ed io l'invitai a pranzo per quella stessa sera col figlio, non li invitai certamente per averne questo bel risultato!

Il Barone                       - E perché allora?

La Baronessa                - Perché! Ma lo sai... Te lo dissi al­lora... Fu lui a cambiarmi le carte in tavola! Io avevo telefonato a zia Clotilde di trovare una scusa per trat­tenere a pranzo Rosanna per quella sera; e, poiché Ro­sanna era già andata con Nietta dai Delli Ponti, mi ser­vii di lui, stupidamente, per mandarla ad avvertire. E lui che fece? Con la scusa di aver capito male, avvertì Nietta, invece di avvertire Rosanna... Capisci? Mandò invece Nietta dalla zia; e qui, a pranzo, a conoscere il ragazzo, fece venire la sua protetta! (Il Barone lo guarda fra meravigliato e contento, intanto che Monzù gli strizza l’occhio, ridendone sotto il naso). Lo vedi? Non nega! Non sente neanche quest'elementare dovere! Sorride anzi... Ne è soddisfatto. Se ne infischia. Ma non mi conosce. E non sa che, come non disarmai allora, non disarmo neanche adesso... Allora, sperai che quei quindici giorni che andammo a trascorrere insieme a Sorrento sarebbero bastati ad aprire gli occhi a quel mammalucco e a fargli comprendere che, fra Rosanna e Nietta, non c'è neanche da far paragone...

Il Barone                       - E lui se ne innamorò, invece...

La Baronessa                - Ma che! Innamorarsi di quella stu­pida lì? Si sarà creduto compromesso da quel loro pri­mo incontro e, timido com'è, non avrà saputo farsi più indietro... Questa la pura e nuda verità! Ecco, infatti, che, quando meno ce l'aspettavamo, già siamo alla do­manda ufficiale...

Il Barone                       - Che dovrebbe farti piacere...

La Baronessa                - E perché piacere? Perché anche Ro­sanna, come tu dici, è mia figlia? Ma ammetterai, spero, che, se capita una buona occasione, una madre, che non sia snaturata, preferirà sempre, di due figlie, quella che è la vera, la sua, e non quella che lo è di nome sol­tanto... E sta certo che l'avrei spuntata, se non ci si fosse messo di mezzo questo maledettissimo uomo, que­st'anima nera vestita di bianco, che sorride, che s'in­china, che riesce simpatico a tutti, ed è l'essere piùdetestabile ch'io abbia mai conosciuto... Oh! Ma il mio fiuto non sbaglia! Che ti dissi io, fin da quando lui tornò da Parigi? « Non mi piace ». E tu avresti do­vuto mandarlo via fin da allora, se non fossi quel mol­lusco che sei, sempre remissivo, sempre lì curvo       - (il ba­rone si raddrizza), con le mani in tasca (il barone se le toglie di tasca), con le mani penzoloni..., con le mani in mano...

Il Barone                       - Oh, insomma! (nascondendole dietro la schiena) Senza mani! Va bene così?

La Baronessa                - Ma ora che siamo ai ferri corti, le detterò io, le mie condizioni. E le mie condizioni sono queste: il primogenito dei Carenghi sposerà Rosanna solo se il secondogenito sposerà Nietta. O tutt'e due, o nessuna! E, se il commendatore rifiuta, che se ne torni pure al suo paese, che qui, grazie a Dio, di mariti, non ce ne mancano!

Il Barone                       - Da come parli, non si direbbe. Ma, a ogni modo, non dico di no. Piazzare le due figlie in­vece d'una sola - prendere, come si diceva ai miei tempi, due piccioni a una fava - non sarebbe certo una cattiva idea. Senonchè, non capisco quest'aut-aut. Prima piazziamone una...

La Baronessa                - E se l'altra non si piazza?

Il Barone                       - Dici che sei certa di sì; sostieni ch'è la più bella delle due, ch'è la più intelligente...

La Baronessa                - E se lui, il suocero - come spesso avviene - s'attacca più alla prima nuora che alla se­conda?

Il Barone                       - E che s'attacchi pure...

La Baronessa                - Ah, no! In questo caso sarà la pri­ma, quando lui creperà, che porterà via all'altra la mag­gior parte dell'asso ereditario...

Il Barone                       - Sì. L'asso di coppe!

La Baronessa                - E così Rosanna sarebbe la più ric­ca... No, no! Lasciami fare, Nicola. E soprattutto non immischiarti, te ne prego. Fa come se tu non ci fossi...

Il Barone                       - (remissivo) E fa pure come se io non ci fossi... Va bene?

Monzù                           - (tranquillo, facendosi avanti) Ma ci sono io.

La Baronessa                - Eh? Che cosa? E voi osereste™ E voi osate... Ah, non si va al di là! Questo poi è il colmo! Ma l'hai sentito, Nicola? (Colto di sorpresa, il barone non sa di nuovo dove mettere le mani) Hai sentito di che cosa costui è capace? (a Monzù, il braccio teso) Intanto, per cominciare, via di qua! In cucina! Basta con questa libertà di mettere in salotto la vostra esosa persona, come se foste un nostro pari! Il cuoco in cucina finalmente, tra i suoi fornelli e le sue cas­seruole!

Monzù                           - E' troppo giusto.

Il Barone                       - Nini.»

La Baronessa                - La debolezza di mio marito vi ha permesso finora di alzare superbia. Ma oggi vi rimetto a posto io!

Il Barone                       - Calmati, Nini...

La Baronessa                - Niente affatto! Io non mi calmerò se non quando costui se ne sarà andato da qui! E non gli permetterò più di rimettere piede in salotto            - ca­pito? né di rivolgere la parola a me, o a mio ma­rito, o ai miei figli... Via! Andate di là, miserabile lacchè! E non osate mai più ricomparirmi davanti!

Il Barone                       - Ma Nini! Nini...

Monzù                           - Lasciate andare, signor barone. La signora baronessa dice bene. In queste nostre disuguali condi­zioni, come si può mai rimanere a discorrere? Il cuoco in cucina, è giustissimo. E lui infatti non se lo fa dire due volte. Signor barone... signora baronessa... Il cuoco, non dubitate, qui voi non lo vedrete mai più (esce).

La Baronessa                - Finalmente respiro! Era da due mesi che l'avevo su lo stomaco tutto questo che gli ho detto!

Il Barone                       - Sì; ma, nella tua boria, tu l'hai offeso a morte.

La Baronessa                - Meglio così!

Il Barone                       - Meglio niente affatto. E per tante ra­gioni. Le sentimentali, lasciamole andare. Cuoco per tanti anni in casa nostra, egli vi è rimasto così affezionato che lasciò a Parigi una posizione invidiabilissima per ritornarvi...

La Baronessa                - Come ciò mi commuove!

Il Barone                       - E perciò ho detto lasciamo andare: que­ste sono ragioni che non possono avere presa su te. Ma ce ne sono altre... Altre d'ordine materiale, e quindi, gravissime. Egli, volendo, potrebbe anche tagliarci i vi­veri in questi momenti...

La Baronessa                - E che ce li tagli pure! Del resto, da qualche tempo, non ci dà che delle mezze porzioni...

Il Barone                       - Tagliare i viveri non vuol dire questo, cara, ma vuol dire non darci più da mangiare...

La Baronessa                - Non temere. C'è la mia collana.

Il Barone                       - Come no? Senonchè, questa tua collana c'è sempre, ma poi, quando è il momento di metterla fuori, allora non c'è più.

La Baronessa                - Tutto, anziché farci mettere i piedi sul collo da quel miserabile!

Il Barone                       - Sì, ma sarebbe stato meglio non arri­vare a questi estremi...

La Baronessa                - Tu sei la solita pecora, lo so. Hai paura tu! Paura di Monzù!

Il Barone                       - Non ho paura di lui, ma dei nostri de­biti con lui...

La Baronessa                - Alla peggio, che può fare? Andar­sene? E che se ne vada pure al diavolo una buona volta!

Monzù                           - (rientrando) « Exactement, chère mada­me »... (ha ora indosso un abito grigio, elegantissimo, che porta con linea e maniere da gran signore). « Je m'en vais. Mais, avant de m'en aller, j'ai quelque chose à vous dire... Quelque cbose de très serieux... Oh, pardon »!  Voi non capite il francese... Dunque ho qual­che cosa di molto serio da dirvi prima d'andarmene, cara baronessa... E ora ne ho pienamente il diritto. Voi avevate perfettamente ragione poco fa: c'era troppa di­suguaglianza tra noi due. Ma adesso guardatemi: disu­guaglianze, non ce ne sono più...

La Baronessa                - Ah, davvero?

Monzù                           - Non vedete? Io non sono più vestito di bianco. Sicché possiamo finalmente parlare da pari a pari...

La Baronessa                - (con un sobbalzo) Eh?

Monzù                           - (con un lezioso inchino) « Prenez place », Lilì Bouchon.

La Baronessa                - Ah! Ah, Nicola!... Una simile...

Monzù                           - Che cosa? Impertinenza? E perché? Così vestito, io sono un gentiluomo. Così vestita, voi siete una gentildonna. Ma, se io non mi sono dimenticato per questo d'essere stato, sino a cinque minuti fa, un lavapiatti, perché dovreste voi dimenticarvi d'essere stata, sino a venti anni fa, una canzonettista?

La Baronessa                - Cafone!

Il Barone                       - Raffaele, no! Questa volta...

Monzù                           - Non vi sono piaciuto? Pazienza, barone. Lei l'aveva da due mesi sullo stomaco, ciò che mi ha detto. Io l'avevo invece sulla punta della lingua, fin da quando l'ho conosciuta...

Il Barone                       - Ma lei è mia moglie!

Monzù                           - E io chi sono? Vestito così, non potrei an­che essere un amico di famiglia? Barone, un abito di questa stoffa, e tagliato a questo modo, voi non l'avete mai avuto nel vostro guardaroba, ve lo dico io. Questa è opera d'uno dei primi sarti di Londra, e voi portate invece addosso, da quando v'ho rivisto, certe giacchette che sentono mille miglia lontano la miseria del «prez­zo fisso », reparto « Mode e confezioni ». Io, invece, guardate... E potete dirlo anche voi, baronessa... No?

La Baronessa                - Io vi dico soltanto che mi meravi­glia che voi osiate ancora rivolgermi la parola, sguat­tero che non siete altro! Io già vi ho messo alla porta...

Monzù                           - Ma io, baronessa, alla porta non mi ci sono fatto mettere mai. Una volta, a Parigi, l'Ambasciatore d'Inghilterra, per un pranzo mal riuscito, mi mandò a dire che me ne andassi via su due piedi. Gli feci ri­spettosamente rispondere che, su due piedi, l'avrebbe mandato via, un giorno o l'altro, il suo Governo. E così infatti avvenne. Il giorno dopo Londra lo richia­mò, per un'intesa diplomatica sbagliata. Ed io rimasi invece, con tutto il mio arrosto bruciato, col suo suc­cessore. «Chère madame», Monzù è fatto così: non se ne va... Manda via gli altri.

La Baronessa                - Ancora sfide, minacce, insolenze... (al barone) Lo senti?

Il Barone                       - (intervenendo) Monzù, io non ti rico­nosco più, parola d'onore. Ma che ti piglia oggi?

Monzù                           -  Per voi, lo sapete, ho sempre avuto il più grande rispetto...

Il Barone                       - E dunque? Come per me, tu devi an­che averlo per lei, dal momento che l'ho sposata...

La Baronessa                - Ma insomma, tu che stai più a di­scutere? Mandalo via! Che vuole più costui in casa nostra?

Monzù                           - Una cosa semplicissima, baronessa: riavere il mio. Io ho prestato in tre anni, alla famiglia, sessan­tasettemila lire, senza badare ai centesimi e senza con­tarvi gli interessi. Questi ve li abbuono; ma il capitale no. Il capitale intendo riaverlo per intero prima di andarmene.

La Baronessa                - Il barone, se non sbaglio...

Monzù                           - Sì. Mi ha sempre dato in cambio delle belle striscioline di carta, munite della sua rispettabilissima firma; senonchè, siccome questa firma non ha più pur­troppo il valore, commercialmente parlando, che certo meriterebbe, io ho tutte le ragioni per credere che dif­ficilmente quelle striscioline ridiventeranno un giorno il mio bello e onesto denaro d'una volta. E' vero che, an­che in tal caso, quel mio denaro potrebbe oggi servire a qualche cosa di buono... Baronessa, parliamoci chia­ro: o voi non fate nessun tentativo di silurare all'ulti­mo momento, come avete detto poco fa, il matrimonio della signorina Rosanna, o queste cambiali, per quanto è vero Dio, vanno subito in banca; e la banca, alla scadenza, vi manda l'avviso di pagamento: e, alla pri­ma insolvenza, avrete in casa gli uscieri.

Il Barone                       - (insorgendo)  Ah, insomma, basta!

La Baronessa                - Capisci? Capisci di che cosa quest'uomo, che tanto proteggi, è capace?

Il Barone                       - Basta, Raffaele! Francamente, adesso tu varchi ogni limite!

La Baronessa                - Hai imparato a conoscerlo adesso?

Il Barone                       - Nella casa dei Liceti-Bardi, per tua nor­ma, non sono mai entrati gli uscieri!

Monzù                           - Non ne sono usciti che i mobili, è vero...

La Baronessa                - Ma caccialo via!

Il Barone                       - Aspetta. Ne è uscito qualche orologio, sì, qualche quadro di valore, ma non mai per mano della legge! Io ho sempre tenuto alto, per tua norma, il nome dei miei antenati!

Monzù                           - Oh, là, là! Gli antenati!

Il Barone                       - Perché? Anche su di essi trovi a ridire?

Monzù                           - Ma voi che ne sapete dei vostri antenati, caro barone, dato che la nobiltà, più antica è, e più si perde nella notte dei tempi? Era gente rispettabile quel­la? E chi lo sa? Ho anche io i miei antenati; ma per me non è notte: è giorno chiaro. Il primo Pìscopo di cui noi ci ricordiamo è il mio bisnonno, cuoco anche lui: cuoco alla Corte di Gioacchino Murat, quand'era re di Napoli. E ha pure inventato un pasticcio, il mio antenato: « Marengo de spaghetti à la Piscopò ». No­biltà di cucina, signor barone, ma di cucina napoleo­nica. Potete voi dirmi invece, esattamente, chi fosse il fondatore del vostro albero? Poteva anche essere, nelle montagne calabresi, un brigante. Eh, si! Quando allora i briganti facevano fortuna e potevano comprarsi un pezzo di terra, poi l'allargavano, l'assestavano, lo miglio­ravano, e, attraverso i secoli, dimenticando il brigan­taggio, diventavano baroni.

Il Barone                       - (scattando in piedi) Monzù! Io non ti permetto...

La Baronessa                - Ben ti sta! Ci ho piacere!

Il Barone                       - Ma che posso farci, Nini! Tappargli la bocca? Imbavagliarlo con un fazzoletto?

Monzù                           - Non sia mai, barone mio! Voi rivelereste, così, un'indiscutibile eredità brigantesca. E poi, volete anche un mio consiglio? Non parlate tanto della baro­nia. Un giorno, per tappare la bocca alla baronessa che ne va così superba, sono andato in camera della signo­rina Rosanna e vi ho sfogliato il Tommaseo. Ebbene, sapete come spiega il Tommaseo il verbo « baronare »?  «Fare il vagabondo, il furfante». E c'è anche un so­stantivo: «baronata». E Tommaseo insegna: «Azione da barone, o meglio, bricconata». E c'è un diminuitivo: « baroncello ». E Tommaseo traduce: «bricconcello». E, al rigo di sotto, «baroneria» è spiegata così: «furfante­ria »... Barone, che volete farci? Andate a prendervela con Tommaseo! (Dopo una lunga pausa, durante la quale il barone non ha fatto che andare su e giù) E allora?

Il Barone                       - Monzù, le cose lunghe diventano serpi...

Monzù                           - E perciò conchiudiamo. Io non sto aspet­tando che questo.

Il Barone                       - Anche a te, Nini, chiedo la grazia di essere più ragionevole. Possibile che la testa a posto, qui dentro, non debba averla che io? Monzù non se ne va...

Monzù                           - No, barone. Io me ne vado.

Il Barone                       - A ogni modo, prima d'andarsene, lui ti chiede scusa... (a Monzù) Non è vero che tu le chiedi scusa?

Monzù                           - Se ho potuto mancare di rispetto ad una signora, questo sì, con piacere...

Il Barone                       - E non porterà le cambiali alla banca.

Monzù                           - E non le porterò alla banca.

Il Barone                       - (alla moglie) Vedi come si accomoda tutto con le buone maniere?

Monzù                           - Ma a quale condizione?

Il Barone                       - Sentiamo questa condizione.

Monzù                           - Ma ve l'ho già detta, barone, e non capi­sco perché non dobbiate accettarla... Voi siete un si­gnore; e anche un signore, va bene, può attraversare dei momenti difficili e non pagare le sue cambiali. Ma, se gli si propone un altro modo di fare onore alla pro­pria firma, egli non deve rifiutare; tanto più poi se, in questo modo, egli compie anche un'opera buona a favore della felicità di sua figlia: opera che di solito i padri compiono disinteressatamente, senza dovere rispon­dere al loro ex-cuoco di sessantasettemila lire di cam­biali e senza dovergli chiedere che, in contraccambio, egli non le porti alla banca... (Dopo un'altra pausa) No?

Il Barone                       - Monzù... mi hai commosso! Se tu par­lavi subito così... E hai commosso anche lei. Non è vero, Nini? E va bene. Non si metteranno condizioni per il matrimonio di Rosanna: avrai anche questa cambiale.

Monzù                           - Che firma lei pure?

Il Barone                       - Nini?

La Baronessa                - (a denti stretti, inghiottendo amaro) Che firmo anch'io.

Monzù                           - Del resto, baronessa, è meglio per tutti così. Ad un'imposizione come la vostra, nulla di più facile che il commendatore Carenghi non voglia sottostare, e invece vedrete che, sposata la prima...

Stano                             - (entrando) Sono già arrivati, sapete?

Il Barone                       - Padre e figlio? Vieni, Nini... Dove sono?

Stano                             - Li ho lasciati con Rosanna in giardino.

Il Barone                       - Vieni, vieni. Andiamo incontro al com­mendatore... (a Monzù) E tu?

Monzù                           - Io vado a fare le valigie.

Stano                             - Quali valigie?

Monzù                           - La baronessa non mi ha licenziato?

Il Barone                       - Ma non prendere sempre le cose alla lettera! Ne riparleremo più tardi, vai...

Monzù                           - No, barone. Non posso stare più qui. E' deciso. E ora andate... Non fate aspettare il commen­datore...

Il Barone                       - (uscendo con la baronessa) Mi hai ta­gliato il braccio destro!

La Baronessa                - Potessi tagliarti anche il collo!... Cammina. (Escono).

Stano                             - (a Monza, trattenendolo) Sicché?

Monzù                           - Sicché, addio...

Stano                             - Che disastro! Se non tutte dodicimila, almeno una metà, pensavo, avresti potuto darmela...

Monzù                           - C'è adesso il commendatore... L'industriale ricchissimo...

Stano                             - E vuoi ch'io vada a chiedere a lui?

Monzù                           - Monzù, « rien ne va plus »... (e, prendendo tra le dita il mento di Stano) Capito?  Enne, i, ni... « C'est fini! » (ed esce dalla porta di fondo).

Stano                             - (raggiungendolo) Ma no! Vieni qui! Sta a sentire... Monzù?...

Il Barone                       - (rientrando con la baronessa e Carenghi) Una vera sorpresa per noi, commendatore caro! Tutto potevamo aspettarci, capirete, tranne che di rivedervi così presto... Accomodatevi, prego.

Carenghi                       - Così presto dite? Ma per me si è perduto anche troppo tempo... I ragazzi si vogliono bene? A Sorrento si sono già intesi? E allora? Che altro aspet­tiamo?

Il Barone                       - (alla baronessa) Settentrionali, capisci? Gente che va per le spicce... (a Carenghi) Qui a Na­poli, invece, sapete spesso che avviene? Avviene che due giovani prima amoreggiano per tre anni, a dir poco; poi, per altri tre anni, rimangono fidanzati - lei deve ancora farsi il corredo e lui trovarsi un impiego -  e finalmente, a corredo fatto e impiego trovato, il matri­monio non si fa più.

Carenghi                       -  E si capisce. Sono già «tufi! No, no. Per me anche il periodo del fidanzamento si dovrebbe abo­lire. Non è che una scuola d'ipocrisia per marito e moglie: ipocrisia che non prepara ad altro che agli inganni futuri.

Il Barone                       - Sì, ma non cadiamo per questo da una esagerazione nell'altra. Secondo voi, allora, due giovani si conoscono, si piacciono, si guardano negli occhi e si sposano?

Carenghi                       - E perché no? L'istinto è la guida più sicura del giudizio. Se, in quei pochi minuti in cui si sono guardati negli occhi, essi non si sono compresi, state pur certo che non si comprenderanno mai più. (Sguardo all'orologio). Ma che ora è, per favore? Il mio orologio s'è fermato...

Il Barone                       - Spero che non vorrete già andarvene... Le quattro e dieci.

Carenghi                       - Siccome proseguo per Palermo stasera, ho ancora parecchie cose da sbrigare... Ma Filippo lo lascerò qui, non dubitate, con la sua fidanzata. Tornerò a riprenderlo fra tre giorni... Dunque, quando vogliamo sposarli, questi cari ragazzi?

Il Barone                       - Ma non so...

Carenghi                       - A fine mese va bene?

Il Barone                       - Voi fate tutto a duecento chilometri l'ora. Altro che Varzi! E va bene. A fine mese.

Carenghi                       - Questo dunque è già a posto. Veniamo adesso alla questione interessi. (Sguardo preoccupato del barone alla baronessa) Mio figlio, come voi già sapete, verrà a dirigere a Napoli la prima delle filiali ch'io sto per impiantare nel Mezzogiorno d'Italia. Ciò gli ren­derà per adesso, tra stipendio e cointeressenze, quasi un centinaio di migliaia di lire l'anno. (Sguardo rinfrancato del barone alla baronessa) E speriamo, fra non molto, di poter raddoppiare...

Il Barone                       - Voi date con ciò, commendatore, al mio cuore di padre tale una gioia che...

La Baronessa                - Scusa, Nicola, (a Carenghi) L'altra volta, se non sbaglio, voi ci diceste che anche a Palermo avete intenzione d'impiantare...

Carenghi                       - Una seconda filiale, sì.

La Baronessa                - Che sarà diretta dal vostro secondo­genito...

Carenghi                       - Che sarà diretta dal mio secondogenito. Ma non adesso. E poi, ciò non ha a che vedere con il nostro argomento. Non divaghiamo. I due ragazzi, dun­que, potranno vivere agiatamente, se non lussuosamente, i primi tempi: avranno, cioè, la loro bella casetta - e non in queste vecchie strade senz'aria né luce in cui vi compiacete di vivere ancora voi patrizi napoletani, ma lassù, in collina, a questo bel sole di Napoli che voi mostrate così poco d'apprezzare! , avranno il loro piccolo giardino, la loro macchina, le loro due o tre persone di servizio, i loro svaghi - Insomma, non avranno di che lamentarsi. A tutte queste spese natu­ralmente - com'è buona consuetudine in casa

Carenghi                       - non dovrà provvedere che il marito soltanto.

Il Barone                       - Bravo, commendatore!

Carenghi                       - La moglie non deve mai entrarci, nelle spese di casa...

Il Barone                       - Mai entrarci! Benissimo! Questi sì che sono onesti e sani principii!

Carenghi                       - La dote della moglie, vistosa o esigua che sia...

Il Barone                       - Non ci deve essere!

Carenghi                       - Ci deve essere... (Sobbalzo del barone). Ma solo per servire da spillatico a lei - abiti, scarpe, cappelli, parrucchiere, sigarette e via dicendo - nel caso che non sia vistosa; o per servire ad ogni eventualità futura, tolto lo spillatico, nel caso che sia tale da poter consentire un accantonamento...

Il Barone                       - Non capisco...

Carenghi                       - Mi spiego. Vostra figlia ha anche lei, mettiamo, un reddito di centomila lire l'anno... (Altro sobbalzo del barone). Mettiamo, ho detto. E' un'ipotesi. Ebbene, in questo caso, venti, trentamila lire, le spen­derà ogni anno per sé, e, delle altre, farà un castelletto che andrà un giorno ai figlioli, se ce ne saranno, o che potrà far fronte a qualsiasi eventualità, in caso di estremo bisogno. Vostra figlia, invece, non ha che un reddito esiguo, di venti, di quindici, di diecimila lire l'anno... (Ogni cifra è, per il barone, come un pugno dietro la schiena). Ebbene, in tal caso, niente castelletto. Quello di cui ella dispone non servirà annualmente che a lei. No? Mi sembra che sia così chiaro! Ora io desi­dero sapere adesso a quanto ammonta il reddito netta della signorina Rosanna e come è investito. Immobili? Rendite? Canoni? Usufrutti?

Il Barone                       - Vedete, commendatore...

Carenghi                       - Un po' di tutto?

Il Barone                       - Noialtri...

Carenghi                       - Sì, sì. Un po' di tutto, ho già capito. Il « giardinetto », come diciamo noi in Borsa.

Il Barone                       - Quale giardinetto?

Carenghi                       - Noi chiamiamo così l'investimento del nostro capitale in varie industrie, anziché in una sola: sistema prudentissimo, che riduce al minimo l'alea dei rischi, cioè che li suddivide nei vari titoli in cui il capi­tale è investito... Benissimo. Meglio così. Anzi, vi confesso che io non avrei mai immaginato, in un patrizio, tanta sagacia amministrativa. (Lapis e taccuino in mano) Vogliamo allora specificare?

Il Barone                       - Che cosa? Ah! Il giardinetto?

Carenghi                       - E non preoccupatevi se non è vistosa la cifra globale. Per me ha più importanza la solidità dell'investimento che il suo ammontare. La mia divisa è questa: poter contare sui poco, ma sul sicuro... E allora? La cifra complessiva anzitutto... Quattrocentomila? Tre­centomila? Duecentocinquanta? (Pausa). Badate che, all'interesse del quattro per cento, la somma di duecento­cinquantamila sarebbe il minimo compatibile, perché non darebbe che un reddito di diecimila lire l'anno; cioè quanto è appena necessario perché una signora possa oggi vestirsi, calzarsi e sopperire alle sue piccole spese…. Dunque?

La Baronessa                - (dopo una più lunga pausa) Nicola?

Il Barone                       - Eh?

La Baronessa                - Ti sei addormentato?

Il Barone                       - Stavo... calcolando.

La Baronessa                - Sì, ma il commendatore non ha tempo da perdere, hai inteso... E, dunque, deciditi.

Il Barone                       - Un po' di tutto, lui dice, e capirai... Non è facile.

Carenghi                       - Ma no! Non prendetelo alla lettera, ciò che v'ho detto. Se si tratta d'un reddito unico, purché solido', per me fa lo stesso.

Il Barone                       - E allora sentite... Io potrei assegnarle... metà delle mie azioni.

Carenghi                       - Quali azioni?

Il Barone                       - Quelle della mia vaccheria-modello.

Carenghi                       - Ah no, no! Niente cattive azioni!

Il Baione                       - Cattive azioni le mie?

Carenghi                       - Non parlo delle vostre, s'intende, ma di quelle industriali in generale. E sono io per il primo un industriale, badate! Ma perciò ne sto in guardia. Buone per nei che ci stiamo dentro, ma non per chi deve farci assegnamento per tutta la vita.

Il Barone                       - Eppure v'assicuro che, come investimento di capitale, non credo che ci sia... ( guarda la baronessa) Eh?

La Baronessa                - Investimento migliore.

Carenghi                       - Del che mi rallegro. Ma... fino a quando?

Il Barone                       - Che vuol dire: fino a quando?

Carenghi                       - Chi vi garantisce che vi andrà sempre bene così? Oggi le vostre azioni possono valere mille e domani invece, voi facciate o non facciate le corna...

Il Barone                       - Io?

Carenghi                       - Tocchiate o non tocchiate ferro... Patatrac! Valgono zero, (alzandosi) Ma non state lì a scervellarvi per questo. Ripensateci. E ne riparleremo quando io sarò di ritorno da Palermo... Va bene?

Il Barone                       - Come credete.

Carenghi                       - Vuol dire che, per ora, noi lasceremo tutto in sospeso...

Il Barone                       - Anche il matrimonio?

Carenghi                       - Ah, si capisce.

Il Barone                       - Ma scusatemi. Non avete detto poco fa che, secondo i vostri retti principii, è solo il marito che deve provvedere a tutto?

Carenghi                       - Precisamente.

Il Barone                       - E ciò che vuol dire? Vuol dire che alla questione interessi voi non davate nessuna importanza...

Carenghi                       - E vi sembra proprio un matrimonio d'in­teresse quello che farebbe mio figlio? Ma andiamo! Se a un apporto di centomila lire l'anno da parte sua, io chiedo che non ne corrispondano che appena diecimila da parte della moglie, questo non è, per mio figlie che un matrimonio d'amore.

Il Barone                       - Perfettamente d'accordo. I ragazzi si amano: e dunque? Diecimila più, diecimila meno...

Carenghi                       - Ah, no! E allora voi mi aprite gli occhi, caro barone. E siccome, per i Carenghi, quella che vi ho esposta è una questione di principio alla quale, come alle altre, essi non hanno mai derogato, temo che tutto andrà in fumo. Mio padre mandò a monte un mio primo matrimonio per una causa simile a questa. Famiglia rispet­tabilissima anch'essa, quella della prima mia fidanzata, con cuoco e cameriere, cioè dalle apparenze abbastanza agiate; e, invece poi, gratta gratta, indebitata sino ai capelli...

Il Barone                       - E voi che avete grattato, scusate? Di noi che potete dire?

Carenghi                       - Lasciamo andare.

Il Barone                       - Ah ne!  Se fate di questi paragoni, dovete pure spiegarci...

Carenghi                       - Nessun paragone. Non avrei mai osato. Ma è bene capirsi in tempo. Sicché io, per adesso, pur la­sciando a Napoli Filippo, gli dirò di non rimettere più piede in casa vostra sino al mio ritorno da Palermo... Vuol dire che, al mio ritorno, si deciderà. Va bene? E allora i miei rispetti, signor barone... I miei omaggi, signora baronessa... (Baciamano). Non incomodatevi, prego... So già la mia strada - (esce).

Il Barone                       - (dopo un silenzio, alla baronessa) Hai capito?

La Baronessa                - Io sì. E tu?

Il Barone                       - Questa proprio non me l'aspettavo. Aveva cominciato così bene! E poi, da un momento all'altro, il castelletto... il giardinetto... il lazzaretto che se lo pigli e lo faccia crepare di peste, lui e i suoi severi principii... Ma come? Un individuo che può assegnare al figlio cen­tomila lire l'anno, va a preoccuparsi se la moglie ha, o non ha, quel tanto che le occorre per comprarsi le siga­rette, i cerini... Ma c'è gente più stravagante di questa? E, poi, ciò che non permetterò più a quel signore è di immischiarsi nei miei affari e di venirmi anche a fare da jettatore... La vaccheria va a mille, va a zero... E lui che ne sa? Ma lascia che torni, e glielo darò io, il giar­dinetto...

Rosanna                        - (rientrando, lo sgomento nella voce) E al­lora?

Il Barone                       - Se n'è andato adesso...

Rosanna                        - Lo so. Riparte per Palermo, m'ha detto. Ma perché ha condotto anche Filippo con sé? Speravo che me lo lasciasse più a lungo...

Il Barone                       - Avrà da fare anche lui.

Rosanna                        -  Che avete stabilito?

Il Barone                       - Stabilito nulla per adesso... Cioè, nulla... Nel complesso siamo d'accordo... Solo che bisogna ancora discutere alcuni punti controversi...

Rosanna                        - Quali?

Il Barone                       - (intanto che Monza riappare, con una va­ligia per ciascuna mano, e si ferma sulla soglia di fondo) Ti spiego subito, se mi dai un po' di tempo... Ecco qui. Anzitutto, nessuna cosa, come sai, s'è mai fatta dall'oggi all'indomani. E perciò.»

La Baronessa                - E' avvenuto questo...

Il Barone                       - Lascia che le spieghi io.

La Baronessa                - Tu finiresti domani sera, e non è il caso di fare tutti questi misteri con Rosanna, che non è poi una bambina, (a Rosanna) E' avvenuto semplice­mente questo: che il tuo matrimonio non si farà più.

Rosanna                        - Che cosa?... Che il mio matrimonio...

Monzù                           - (sempre fermo lì, sulla soglia della porta di fondo, ha lasciato cadere a terra le due valigie).

Il Barone                       - Nini!

La Baronessa                - Se doveva saperlo, non è meglio che l'abbia saputo subito? Io proprio non ti capisco alle volte... A che scopo dovrebbe farsi ancora illusioni? (a Rosanna) Il commendatore s'aspettava una dote. Duecen­tocinquantamila lire, a dir poco: questo il grande amore che il tuo Filippo aveva per te! E siccome la dote non c'è... Ecco tutto. (Nel frattempo sono anche entrati Stano ed Eugenia, venuti per congratularsi, e subito lì impie­triti dall'inattesa notizia).

Il Barone                       - (sottovoce alla baronessa) Sei stata fe­roce però!

La Baronessa                - Preferivi ingannarla?

Il Barone                       - Preferivo dirglielo in un'altra maniera.

La Baronessa                - (avviandosi per uscire) Ma fammi il piacere!

Il Barone                       - (seguendola)  E non te la perdono, sai? Te ne ho perdonate tante sinora... Ma questa non te la perdono! (escono da sinistra).

Monzù                           - (dopo d'aver fatto cenno a Eugenia di portare via le due valigie, s'è avvicinato a Rosanna che vede lì smarrita, come se cercasse un appoggio) Signorina Ro­sanna...

Rosanna                        - Monzù!

Monzù                           - Non datele ascolto. Vedrete che tutto s'acco­moderà...

Rosanna                        - Ne, no... E' così! Il matrimonio non si farà più! E gli voglio tanto bene, sapessi! Con lui sarei stata tanto felice! Ma non è il mio destino quello di non do­vere mai essere felice in vita mia? Perdetti la mamma quando ancora... (s'abbatte in lagrime su una poltrona).

Monzù                           - (accarezzandola sui capelli) Povera piccola!

Stano                             - Su, Rosanna... Non è il caso di disperarsi così. Vedrai che...

Monzù                           - (sottovoce a Stano, dopo d'averlo tratto in di­sparte) Dite un po'. Quando dovete pagarla?

Stano                             - Che cosa?

Monzù                           - La perdita di ieri notte...

Stano                             - Nelle ventiquattr'ore. Perché?

Monzù                           - Niente... Un'idea, (a Rosanna che singhiozza sempre) E voi, signorina, coraggio! Non vedete? (Lì ben saldo, la mano sul petto) Monzù... sta ancora qua!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Il bar del Circolo dei Nobili, poco prima di mezza­notte, durante una festa da ballo. In fondo il banco di mescita, con i suoi alti sgabelli sul davanti, e, dietro, il « barman » in calzoni neri e giacchetta bianca. Poltrone di pelle e tavolini qua e là. Un apparecchio telefonico sul banco. Due porte: quella di destra mette nelle sale da gioco, quella di sinistra nelle altre sale.

Trìpodi                          - (appollaiato con Flores sopra uno degli sga­belli del banco) E ha pagato?

Flores                            - (pizzicando patatine fritte) Puntualissimo. Un'ora Sa. (al «barman») Vero, Max?

Max                               - (intanto che agita nello « sharker » un « cocktail ») Dodici bei bigliettoni.

Trìpodi                          - Sicché tu hai riaperto il cuore alla spe­ranza... No? (A un gesto di Max, evasivo e discreto) Non fare l'ipocrita, via! Non ti deve milleduecento lire di sole consumazioni?

Max                               - Pagate anche quelle.

Trìpodi                          - Voi mi fate trasecolare! Ma con i denari di chi, se non trova più chi gli presti un centesimo?

Flores                            - (indicando Max) Lui deve saperne qualche cosa, perché ha il sorriso del sornione...

Max                               - (nell'avviarsi con i suoi tre « coktails » sopra un vassoio, soffermandosi un momento, confidenziale) Gran matrimonio!

Flores                            - Di Stano?

Max                               - D'una delle due sorelle. Col figlio d'un grande industriale milanese.

Trìpodi                          - E allora capisco. Ciò dà nuove ali a una fir­ma... (Attraverso la porta di sinistra, che Max nell'uscire ha lasciata socchiusa, giunge adesso dal lontano salone, molto attenuato, il suono d'un jazz). Ma di là che fanno?

Flores                            - (con un sospiro) C'è ballo stasera! Prima domenica di carnevale. E ne avremo, ahimè, sino all'alba! (Indicandogli De Plato, che intanto è entrato dalla porta di destra) Guarda De Plato, che faccia!

Trìpodi                          - Cos'è? Sei stato prosciugato anche tu?

De Plato                        - Deve avere il diavolo addosso quel dan­nato francese!

Flores                            - Eppure eri il solo, sino a poco fa, a tenergli testa.

De Plato                        - Ero anche riuscito a rifarmi. Ma gli chia­mo banco. E l'ispirazione era buona. Sto con un sette. Lui scopre un sei. Quale banchiere ha mai chiamato con un sei? Ma lui chiama. E fa nove! Ora io vi domando se questo significa saper giocare!

Trìpodi                          - Significa saper vincere...

Flores                            - Il che vale molto di più.

Trìpodi                          - Grosso colpo?

De Plato                        - Una ventina di migliaia di lire sul ta­volino. Ma lui deve guadagnarne più di duecentomila, a giudicare dalla montagna di biglietti che ha davanti... (a Stano che si dirige, appena entrato, all'apparecchio telefonico) Bel servizio che ci hai reso, Stano, con quei tuo francese della malora!

Stano                             - (intanto che compone un numero) Non è sim­patico?

De Plato                        - Simpaticissimo; ma se tu avessi avuto la buona ispirazione di condurlo a giocare in un altro Cir­colo stasera, invece di condurlo qui...

Stano                             - (al telefono) Pronto?... Sono io di nuovo, Rosanna. Posso venirti a prendere? Ma sì! Se ti vengo a prendere, una ragione dev'esserci... Ti dirò a voce... E telefoneremo dopo a Filippo, non dubitare. Allora salto in un tassì e vengo subito (riaggancia).

De Plato                        - (a Stano che sta per uscire) L'hai cono­sciuto a Cannes, non è vero?

Stano                             - « Monsieur » de Gournay? A Cannes, sì, al « Palm-Beaeh ». E lì perdeva come un dannato! (esce).

De Plato                        - Lì perdeva e qui è venuto a rifarsi! Da una quindicina ch'eravamo, non sono rimasti che tre o quattro lì dentro... Che il diavolo se lo porti!

Flores                            - Quando si sedette a tavolino però, se non sbaglio, non mi pare che tu la pensassi così...

Trìpodi                          - Avevate creduto d'aver trovato una nuova grossa gallina da spennare...

Flores                            - i E vi ha spennati lui, invece!

De Plato                        - Ed anche con gli altri avrà fatto « tabula rasa », perché vengono tutti qui adesso...

Monzù                           - (entrando con i suoi tre ultimi compagni di tavolino, inappuntabile nella sua marsina, fiore all'oc­chiello, accento caricatamente francese, sigaro in bocca) Oh, «la veine »! Sino a un certe punto, amici miei... Nel gioco, più che « la veine », è « le flair » ciò che conta... Come dite voi «le flair» in italiano?

De Plato                        - L'odorato...

Monzù                           - No. L'odorato è dell'uomo. Abbiamo noi pure l'«odorat». E «le flair» invece... Come spiegarvi? (a Max, sedendo su uno sgabello) «Un porto-flip, s'il vous plait »... (Agli altri) « Le flair » è di chi fa così... (annusa in giro). E' del cane da caccia, insomma... (battendo una mano sulla spalla di De Plato) Capito, mio caro scu­gnizzo?

De Plato                        - Scugnizzo. Con l'accento sull’« i ».

Monzù                           - «Et dites moi... Abbaseio 'o puorto qu'est-ce-qn'on fait? On s'appicciche più »?

Trìpodi                          - (in un gruppo a parte) Delizioso!

Flores                            - Come dice le cose! Con che grazia, con che signorilità!

Monzù                           - (a De Plato) Come vedete, comincio a parlare meglio napoletano io, che italiano...

Max                               - (a Monzù, porgendogli il « porto-flip ») « Voilà, monsieur »... (D'improvviso, come se ravvisandolo) Ma...

Monzù                           - (dopo d'avegli rapidamente accennato di tacere, dandogli un biglietto da cento lire e rifiutando il resto) « Tenez »...

Max                               - «Merci, monsieur».

Monzù                           - (guardandosi intorno) «Et Stanò? On est-il ce cher Stanò »?

Trìpodi                          - Tornerà subito, ha detto. Ma se voi volete venire intanto a ballare con noi nel salone...

Monzù                           - A ballare? Oh, no, no! « A mon àge »? Alla mia tenera età? Preferisco aspettarlo qui... «Mais vous allez, je vous en prie »... Vuol dire che io darò intanto «un coup de téléphone »...

Flores                            - E allora, se permettete...

Monzù                           - « Mais certainement... Au revoir, messieurs... Et mille mergi... Au revoir»... (Dopo d'aver composto sul disco un numero a caso) « Allò»?

De Plato                        - (avviandosi con gli cltri) A chi ha detto arrivederci?

Trìpodi                          - Anche a te...

 De Plato                       - (con un inchino, sottovoce) Ah no, gra­zie... Mai più! (esce per ultimo).

Monzù                           - (sempre al telefono) « Allò, allò... Le Grand Hotel»?

Max                               - (togliendogli il ricevitore di mano) Ma piantala!

Monzù                           - Se ne sono andati?

Max                               - Non vedi? E spiegami subito... Ti confesso che, là per là, io non credevo ai miei occhi... Raffaele qui? E da banchiere ginevrino per giunta?

Monzù                           - Semplice non è, hai ragione. Il barone Liceti-Bardi, dal quale sono venuto a servire dopo che ci lasciammo a Parigi...

Max                               - Non ti paga?

Monzù                           - Ha un debito con me, che sino ad oggi am­monta a sessantasettemila lire...

Max                               - Briscola!

Monzù                           - E siccome anche il baroncino stasera, non sa­pendo come pagare un suo debito di gioco, me ne ha chieste - conto a parte - altre dodicimila, io ho posto questa volta le mie condizioni: venire qui con lui, essere presentato ai suoi nobilissimi amici, potermi sedere con loro a tavolino, pelarli o farmi pelare... Insomma, « en avoir quelque chose pour mon argent»!

Max                               - Tu sei stato sempre un originale.

Monzù                           -Ho voluto fare anch'io, per una sera, il gran signore!

Max                               - E ci sei riuscito benissimo.

Monzù                           - Non è vero?

Max                               - E li hai anche ben spennati, ho saputo.

Monzù                           - Sì, ma di questo non mi faccio un merito. Capirai... (facendo fatto di spennare una gallina) L'abi­tudine (ridono).

Max                               - Hai vinto molto?

Monzù                           - Abbastanza.

Max                               - Sicché lasci i Liceti-Bardi?

Monzù                           - Sì, ma non per questo. Ne ero stato già licen­ziato.

Max                               - Possibile?

Monzù                           - Dalla baronessa, sì. Ma è con lei che comin­cia il divertimento adesso... Anzi, posso chiederti un fa­vore?

Max                               - Figurati!

Monzù                           - Dopo che torna il baroncino, e finche mi ve­drai qui con qualcuno della famiglia, tu cerca di rientrare il meno che puoi...

Max                               - Va benissimo.

Monzù                           - Te ne dirò dopo il perché.

Max                               - Vuoi un altro « porto-flip »?

Monzù                           - - No, queste porcherie riserbale a loro. Dammi un caffè, piuttosto. (Intanto che Max lo prepara) E dimmi qualche cosa di te adesso. Sei qui anche tu da un pezzo?

Max                               - Purtroppo!

Monzù                           - Ci stai rimettendo anche tu allora?

Max                               - E come!  Ti ricordi più, Raffaele, dei bei tempi del « Ritz »?  Lì sì che ne abbiamo fatto, quattrini!

Monzù                           - Non bevono?

Max                               - Si danno qui appuntamento - «Vediamoci al bar » - seggono sugli sgabelli, pizzicano patatine fritte, ma, in quanto a bere, sono come i cammelli. Non hanno mai sete.

Monzù                           - Eppure t'ho visto poco fa in gran da fare...

Max                               - Quando c'è qualche festa da ballo, allora sì... Ma sono le signore che bevono. A tavola no, per non ingrassare. Ma, fuori di casa, bevono come spugne. Con la differenza che le spugne si contentano dell'acqua di mare, mentre le signore non fanno eccezione che per lo sciampagna...

Monzù                           - Quando non pagano loro...

Max                               - Ah, si capisce. Altrimenti, continuano a morire di sete...

Stano                             - (entrando) Sai dirmi, Max, dove diavolo... «Ah, vous voilà»! (andando incontro a Monza, intanto che Max s'allontana) « J'étais obligé à sortir un mo­ment »...

Monzù                           - Parlate italiano, signorino...

Stano                             - Se n'è andato, Max?

Monzù                           - Prima perché Max se n'è andato, e poi perché voi parlate il francese come una vacca lo spagnolo...

Stano                             -: Non si dice: «j'étais obligé»? No? Come si dice?

Monzù                           - E vi pare il momento, questo, di mettervi a imparare il francese? Lasciate correre. Fate come il ba­rone, quando la baronessa l'ha detta troppo grossa e si consola dicendo: «E' andata!». Ditemi della signorina Rosanna, piuttosto...

Stano                             - Tu sai che stasera non era voluta venire al ballo per il dispiacere...

Monzù                           - Mentre la baronessa e Nietta c'erano venute per la gioia, lo so. E allora?

Stano                             - E allora io sono corso a prenderla adesso, e lei è andata a dir loro che, passato il mal di testa, mi ha telefonato e si è decisa a venire.

Monzù                           - Le avete annunziato che avrà le sue duecen­tocinquantamila lire di dote?

Stano                             - Non voleva crederci.

Monzù                           - Ne è felice?

Stano                             - Me lo domandi? Ma non le accetterà che a una sola condizione, bada: che possa dirlo a Filippo, ap­pena sposatolo, in modo ch'egli provveda un giorno a re­stituirtele...

Monzù                           - Di questo parleremo a suo tempo. L'impor­tante per adesso è che lei sposi, che lei sia felice e che la baronessa ne muoia dalla rabbia... Dov'è? Andate a chiamarla...

Stano                             - Chi?

Monzù                           - La baronessa. Per darla anche a lei, la bella notizia.

Stano                             - Gliela darò io domani, non dubitare.

Monzù                           - No, no. Questa sera stessa deve saperlo. E da me.

Stano                             - Ma sei pazzo?

Monzù                           - Non sono stato mai tanto savio.

Stano                             - Vuoi che ti trovi qui, in mezzo a noi, vestito in frac...? Chi ti ci può aver condotto? Mi coprirai di vergogna.

Monzù                           - Vi ho già coperto abbastanza di denaro.

Stano                             - Succederà uno scandalo! Riflettici. Come se non la conoscessi...

Monzù                           - Appunto perché la conosco vi dico d'andarla a chiamare. Non succederà nulla, non dubitate. Solo a casa sua lei può ancora permettersi di tornare alle ori­gini. Qui deve fare la baronessa.

Stano                             - Ma scusa... Tu mi avevi promesso...

Monzù                           - Sissignore. Che me ne sarei andato subito dopo la vincita.

Stano                             - E non l'hai fatta?

Monzù                           - No.

Stano                             - Come no? E le duecentocinquantamila lire?

 Monzù                     - La mia vera vincita non è stata quella... (ha indicato la porta di destra) ma sarà quest'altra! (indica la porta di sinistra).

Stano                             - Monza...

Monzù                           - Insomma, o lei viene qui, o le vado incontro io nel salone.

Stano                             - Per carità!

Monzù                           - Non è meglio che tutto rimanga in famiglia?

Stano                             - Ma qui tornerà Max a momenti...

Monzù                           - Ho pensato anche a questo. Gli ho dato una grossa mancia o gli ho detto di non venire se non chia­mato... (da uno spiraglio che ha aperto alla porta di si­nistra) Del resto, eccola lì! Non è lei quella?

Stano                             - Sì, ma sta parlando con Trìpodi adesso...

Monzù                           - Trovate una scusa.

Stano                             - Monzù...

Monzù                           - Che venga qui subito e vi prometto che in cinque minuti tutto sarà liquidato.

Stano                             - (avviandosi) Sei peggio d'un carnefice tu!

Monzù                           - (uscito Stano, va a scegliere fra alcuni giornali il « Figaro », accende un'avana, va a sprofondarsi in una poltrona e, col giornale spiegato davanti, in modo da non essere subito visto da chi entra, si mostra immerso nella lettura).

La Baronessa                - (più rumorosa che mai, giunge trasci­nando con sé Trìpodi che ha agguantato per un braccio e seguita da Stano col suo passo da condannato a morte) Ebbene, che volete? Mio figlio così è fatto. Quando guadagna, i denari gli friggono in tasca... (saltando su uno sgabello con una grazia birichina) Che ci offri di buono, Stano? Se sciampagna, lo voglio «frappé», bada, molto « bien frappé »!

Stano                             - Attenta che caschi.

La Baronessa                - Non aver paura.

Siano                             - Aspetta...

La Baronessa                - Ma no, che non caseo!  Come se fosse la prima volta questa che siedo ad un bar!

Stano                             - Trìpodi, però, lascialo andare...

La Baronessa                - A lui non vuoi offrire?

Stano                             - Con immenso piacere. Ma siccome t'ha già detto che andava a ballare...

La Baronessa                - Eva bene. Ballerà dopo, il nostro bel principino... Per adesso si contenterà della compagnia di questa vecchia signora...

Trìpodi                          - Che dite mai, baronessa?

La Baronessa                - Se pure, a trentacinque anni, può chiamarsi vecchia una donna.

Monzù                           - (sottovoce, dietro il suo giornale) Trenta­nove, trentanove...

La Baronessa                - Eh?

Stano                             - Non ho parlato.

Monzù                           - (c. s.) Se ne leva già quattro... Brutto segno!

La Baronessa                - (sbirciando verso la porta di sinistra) Ma quello non è tuo padre, Stano? (Lo chiama sbrac­ciandosi e traballando sul suo sgabello) Nicola? (a Stano) E lasciami, che non cado!... Nicola?... E' lui, o no?

Stano                             - Sì, ma..

La Baronessa                - E' sordo come una campana quell'uomo, (a Stano) Va a chiamarlo tu...

Stano                             - Non è solo...

La Baronessa                - E fa venire anche gli altri, che dia­mine! (tornando a sbracciarsi) Nicola? Qui, qui... E' da qui che ti chiamo...

Il Barone                       - (entrando con Flores e De Plato) C'è incendio?

La Baronessa                - C'è che Stano è in soldi stasera... Offre a tutti!

Il Barone                       - Stano? (a Stano) Tu cifri qualche cosa anche a tuo padre e a tua madre? (avvicinandosi a ta­stargli il polso) Vieni qui, ragazzo mio... Ti senti bene?

Stano i                           - Purtroppo!

Il Barone                       - Come, purtroppo?

Stano                             - Perché invidio la gente che sta tre metri sotto terra!

Il Barone                       - Ma allora tu stai male davvero... (alla baronessa) L'hai sentito, Nini? Prima ci offre da bere e poi dice che vorrebbe trovarsi tre metri sotto terra...

La Baronessa                - Pose, Nicola! Tutte pose della gio­ventù estemporanea! Vuole fare anche lui il Daniele Cortis!

Il Barone                       - (le mani nei capelli) Ecco che già co­mincia! (alla baronessa) Jacopo Ortis, Nini!

La Baronessa                - Jacopo, Daniele... Come sei sempre capilloso tu! (battendo palma a palma) Ma Max viene, o non viene?

Stano                             - Verrà, mamma, pazienza... Non t'agitare cosi. (sottovoce a Monza) Monzù! Ventiquattromila!

Monzù                           - Se me ne vado?

Stano                             - Ti raddoppio quello che m'hai prestato... No? (a un suo cenno negativo) Neanche se te ne prego a mani giunte?

Monzù                           - Emi avete preso per San Gennaro? Io non stendo il braccio. Io non arresto la lava del Vesuvio... Io lascio correre.

La Baronessa                - (tornando a battere palma a palma) Ma insomma...

Il Barone                       - Vado a chiamarlo io, Nini. Sta tranquilla...

La Baronessa                - Non capisco. Questo Max è tome l'arabo infelice. Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nes­sun lo «a...

Il Barone                       - (turandosi le orecchie nell'uscire) Come l'arabo infelice!... Gesù, Gesù, Gesù!

La Baronessa                - Meno male che ci possiamo consolare, per adesso, con le patatine fritte...

Stano                             - (sempre sottovoce a Monzù) Capisci, Raf­faele? Che la cosa almeno resti in famiglia... Con tanta gente qui, tome vuoi che...

Monzù                           - Potrò rinunziare a parlarle del matrimonio di Rosanna, va bene. Ma ad esserle presentato non ci ri­nunzio per tutto l'oro del mondo!

Stano                             - Come « monsieur » de Gournay?

Monzù                           - Come m'avete presentato agli altri.

Stano                             - Ti maledico!

Monzù                           -  E lei deve starsene zitta! E mi deve strin­gere la mano! E deve stare anche a sentire i complimenti che mi fanno! E, se non crepa stanotte, vuol dire che non si muore d'un accidente!

La Baronessa                - (sottovoce a De Plato) Ma ditemi un po'... Chi è quel signore che parla con Stano?

De Plato                        - Non ve l'ha presentato?

La Baronessa                - Stano? E lui sa forse dove sta di casa l'educazione? Se ha conosciuto qualcuno, è sempre a sua madre che lo presenta per ultimo.

De Plato                        - E' quel tale banchiere ginevrino di cui vi parlavo poco fa...

La Baronessa                - Quello che vi ha fatto pelo e contro­pelo?... Da qui non ne vede la faccia, ma mi ha l'aria molto distinta... Stano? (e Stano che le si avvicina) Che cosa aspetti, per presentarmelo, quel tuo banchiere?

Stano                             - Sta leggendo, mamma...

La Baronessa                - E perciò?

Stano                             - E lui, quando legge, non vuol essere distur­bato.

La Baronessa                - Ma fammi il piacere! Disturbato, quando si può avere l'onore di conoscere la baronessa Liceti-Bardi? Sarà banchiere quanto vuoi, ma...

Max                               - (entrando) Eccomi, signora baronessa...

La Baronessa                - Finalmente! E' da mezz'ora che vi stiamo aspettando!  Dateci del « Mumme », Max... « Frap­pé ». Molto «bien frappé», (a Stano) E allora? Vuoi presentarmelo, o no?

Stano                             - (con un filo di voce) « Mo... Monsieur » de Gournay?... (e, poiché Monzù fa le viste di non aver sentito, alla baronessa) Più tardi, mamma... Non vedi? Quando lui è immerso...

La Baronessa                - Ma che immerso d'Egitto! L'hai preso per un palombaro? Tu chiamalo più forte e vedrai...

Stano                             - (a voce più alta, ma che gli si strozza in gola)  « Monsieur » de... (al barone che rientra) Falle tu le presentazioni, papà... Mi chiamano al telefono... (ed esce)-

Il Barone                       - (sbalordito, guardandosi intorno) Io? E chi debbo presentare?

Trìpodi                          -  Volete scommettere che neanche lui lo co­nosce?

Il Barone                       - Ma chi?

Trìpodi                          - Che bel tipo, però, quello Stano!... «Mon­sieur » de Gournay?

Monzù                           - (abbassa di colpo il giornale).

Trìpodi                          - (alla baronessa e al barone, rimasti Zi con gli occhi sbarrati, presentando) « Le banquier de Gour­nay..., le baron et la baronne Liceti-Bardi »...

Monzù                           - (chinandosi a baciare la mano della baronessa) « Enchanté, madame la baronne ».

La Baronessa                - (sostenendosi a Tripodi) Principo... Mi sento male!

Il Barone                       - (sottovoce a Monzù) Ma che succede, Raf­faele? Che pazzie sono queste?

Monzù                           - Barone... Avevo un dente che mi faceva troppo male...

Il Barone                       - E giusto qui dovevi venire a levartelo?

Max                               - (che va in giro col suo vassoio in mano offrendo lo sciampagna, a Monzù) «Monsieur»?...

Monzù                           - (togliendone un bicchiere di sciampagna) «Oh, pardon»! (e, rivolto alla baronessa) «A vòtre sante, madame»..

Il Barone                       - Nini?... Il banchiere beve alla tua salute...

La Baronessa                - Ah? (a denti stretti) «Merci»...

Il Barone                       - Bevi dunque tu pure alla sua...

La Baronessa                - «Et... Et... Et à la vò... ». Io ci crepo!

Il Barone                       - Ma perché non torniamo di là? Si rico­mincia a ballare...

La Baronessa                - Si, Nicola... Portami via!

Flores                            - «Vous aussi, monsieur»?...

Monzù                           - Molto volentieri, ma... (Sguardo all'orologio) Oh, là là! S'è fatto molto tardi per me. Ed è tempo che « je rentre dans mes draps »... Che io me ne vada a dor­mire, (inchinandosi) Nuovamente arrivederci, signori...

De Plato                        - (torna a lanciargli uno sguardo torvo, nell'uscire come ultimo).

Max                               - (a Monzù, complimentandolo) Sei stato grande!

Monzù                           - Eh? Grande e soddisfatto! Sicché ora me ne posso andare a casa contento! (porgendogli la mano) Addio, Massimino... Ci rivedremo?

Max                               - Mi troverai sempre qui.

Monzù                           - Sì, ma io qui non ci torno più. Però, aspetta... Un'idea.

Max                               - Arrischiata?

Monzù                           - Tranquilla. Sai che dobbiamo fare? Apriamo un bar.

Max                               - Io e te?

Monzù                           -  Sissignore.

Max                               - Americano?

Monzù                           - Ma che americano! Un bar popolare, plebeo, partenopeo... A via Foria, a Toledo...

Max                               - Ho capito. Dove passa molta gente qualunque...

Monzù                           - E dove non possono entrare i signori...

Max                               - Questi bei signoroni che ci hanno spogliati!

Monzù                           - - Un piccolo bar senza specchi, senza sgabelli, dove non ti chiedono che uno sciroppo d'orzata, una spremuta di limone, un espresso - roba semplice in­somma, sana, italiana - e dove non entra che una clien­tela solida, di quella che non mangia patatine fritte, che non succhia col cannellino, ma beve grosso...

Max                               - E paga a pronti contanti!

Monzù                           - Che ne dici?

Max                               - Ci sto!

Monzù                           - Tu, più giovine, allo spaccio; io, più an­ziano, alla cassa... E si continua a lavorare, finché Dio ci dà vita.

Max                               - Perché non ti sposi?

Monzù                           - Alla mia età?

Max                               - Sei ancora in tempo. Anche perché un figlio devi assolutamente farlo... Anzi, no. Un figlio l'ho già io. Una figlia. Di modo che, quando si saranno fatti grandi, noi ci ritiriamo dall'esercizio, essi si sposano...

Monzù                           - (lento, un po' commosso) Una figlia, sì... Le vorrei più bene...

Max                               - E il bar sarà loro!

Monzù                           - (dopo d'averlo guardato con un leggero bat­tito di palpebre, dandogli la mano) Massimino. E' stato il Signore a mandarmi qui!

Max                               - E ora lasciami scappare (corre a prendere da sopra il banco un vassoio con dei bicchieri che aveva già riempiti) Sarà da mezz'ora che di là mi aspettano... (incontrandosi sulla soglia con Rosanna, che credeva di trovare solo Monzù e che perciò si è arrestata con un «Oh! » di sorpresa, ma togliendola subito d'imbarazzo) Cercavate forse del barone, signorina?

Rosanna                        - Sì...

Max                               - Era qui sino a poco fa... Con permesso (ed esce).

Rosanna                        - (di impeto, correndogli accanto) Monzù!

Monzù                           - Il signorino Stano vi ha detto?

Rosanna                        - Sì...

Monzù                           - Ed è di me che cercavate?

Rosanna                        - Per ringraziarti...

Monzù                           - Di quel poco che ho fatto?

Rosanna                        - Poco lo chiami?

Monzù                           - E' lei che dovete ringraziare: la vostra santa di lassù... E' stata lei a ispirarmi; lei ad assistermi sino a poco fa; lei a suggerirmi - chi aveva mai giocato a baccarà? «Non prendere carta, Raffaele! Oppure: «Prendila». «Con un sei?». «Non importa. Prendila Io stesso...». E facevo nove!

Rosanna                        - Bada però che io non accetterò che a una condizione...

Monzù                           - Va bene. Il signorino Stano mi ha detto...

Rosanna                        - Alla condizione di dir ogni cosa a Filippo, appena sposati, in modo da poterti restituire, con le economie che faremo, tutto ciò che ti devo, compresi gli interessi...

Monzù                           - E dunque? Lasciate che sia io a ringra­ziarvi piuttosto, perché ho finito col farci io un ma­gnifico affare... (Rosanna s'è seduta e ora lo guarda in­tensamente). No? Non è così? (Rosanna continua a guardarlo in silenzio). Perché mi guardate? Che altro c'è?... Finirete col mettermi in soggezione...

Rosanna                        - (lenta, fissandolo sempre) Perché l'hai fatto?

Monzù                           - Che cosa?

Rosanna                        - Tutto questo...

Monzù                           - Lo sapete già.

Rosanna                        - No, Raffaele. Te l'ho sempre chiesto, sì, ma tu non mi hai mai detto la verità. Perché l'hai fatto? (Dopo un'altra pausa, continuando a fissarlo) E' vero che io «le» somiglio?

Monzù                           - A chi?

Rosanna                        - Alla piccola che tu perdesti a Parigi...

Monzù                           - Alla piccola?... E da chi avete saputo?

Rosanna                        - L'ha detto Max a Stano, poco fa... E' stato per questo?

Monzù                           - (non rispondendo subito, come se vincendo un'ultima riluttanza) Non per questo soltanto. Di so­miglianza con voi ella aveva qualche mossetta, sì... e anche un non so che nella voce, nello sguardo... Ma è stato soprattutto per quel bisogno che m'era rimasto nel cuore di voler bene a una creatura mia, di proteg­gerla, dì guidarla... Questo sì. Tanto più che lei oggi avrebbe quasi la vostra stessa età, essendomi nata po­chi mesi dopo che voi nasceste...

Rosanna                        - Dalla bambinaia di Stano, non è vero?

Monzù                           - Max vi ha detto anche questo?

Rosanna                        - Una friulana che tu non potesti sposare...

Monzù                           - O, meglio, che sposai in punto di morte, perché la poveretta mi morì mettendo al mondo la pic­cola... Non so perché confidai tutto questo a Max un giorno, a Parigi; ma la sola grande mia confidente non era stata fin allora che la baronessa, buon'anima. Fu lei a farle il corredino, a trovare dove metterla a balia, a pagare i mensili per me... Poi anche quella santa se ne andò; e allora, non volendo io rimanere in casa vo­stra sotto un'altra padrona, emigrai a Parigi con la mia creaturina, che lassù fu tutto per me, come io fui tutto per lei... Bella, sapete? Più bella del sole! (ha tratto un ritrattino dal portafogli e glielo porge).

Rosanna                        - Oh, che splendore!

Monzù                           - Dodici anni lì... Fatto il giorno della sua festa; lo stesso giorno in cui, sapendo che le piaceva tanto d'andare in macchina, io pregai il conduttore dell'albergo di portarci con lui a San Germano... E fu al ritorno, a un passaggio a livello, che...

Rosanna                        - Povero Raffaele! Ora sì che mi rendo conto di tutto. E non so perché tu me l'abbia sempre taciuto. Ti avrei voluto più bene...

Monzù                           - No, signorina. Non era lo stesso. Ci sa­rebbe anche entrata un po' di compassione..., e non era questo il bene che volevo da voi, ma quell'altro..., quello che mi avete sempre voluto, fin da quando eravate piccola così, e non c'era per Voi che « monciù »..., e, se vi facevano piangere, venivate subito in cucina, a ver­sarle sul suo grembiule le vostre lagrimucce... (aiutan­dola ad alzarsi) Ma andate adesso. Il signor Filippo è venuto?

Rosanna                        - Credo di sì.

Monzù                           - E allora correte. Potrebbe sorprendervi qui con me, e non deve assolutamente...

Rosanna                        - Verrai qualche volta a trovarmi?

Monzù                           - Se volete. Salendo dalla scala di servizio però... Di nascosto. Come due innamorati... (trattenen­dola) Ma non andate così! Aspettate un momento... (le asciuga gli occhi col suo fazzoletto che ha prima intinto in un bicchiere d'acqua). Deve vederli sfolgoranti, e non rossi di pianto, i vostri occhi, la signora baronessa!... Così.

Il Barone                       - (entrando) La mamma vuole andare, Rosanna... Dice che ha l'emicrania... E tu? Lasciati guar­dare... Felice?

Rosanna                        - (per abbracciarlo) Papà... 

Il Barone                       - (trattenendola) No, no... Lascia stare. E abbraccia lui piuttosto... Lui che. come padre, è riuscito molto meglio di me! (ma, ergendosi subito sulla per­sona, intanto che Rosanna va ad abbracciare Monzù) Tutto però nella vita ci può sempre servire da lezione! E vedrete, da domani, chi sarà il solo a comandare in casa mia!

La Baronessa                - (entrando come una ventata) Nicola?

Il Barone                       - Eh?

La Baronessa                - (fulminandolo) E allora?

Il Barone                       - (subito ammansito) Le stavo dicendo...

La Baronessa                - (l'indice teso) Cammina!

Il Barone                       - E jammo, jammo... (s'avvia curvo, a piccoli passi, seguito da Rosanna).

                                     

FINE