Nascita di Salomè

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NASCITA DI SALOME’

Commedia in tre atti di Cesare Meano

PERSONAGGI

     ARISTOBULO  ANNI 60

      SALOME’               ANNI 50

      DELILA         ANNI 18

     TULLIO CASSIO     ANNI 30

MARDOCHEO

ABIMELEC

CAIO LUTEZIO

JERUBBAAL

GIUDITTA

LIA

UN CITTADINO, UN SOLDATO ROMANO

PRIMA SERVA, SECONDA SERVA

GUARDIE, SCHIAVI, MUSICI

SOLDATI, FANCIULLE, POPOLANI

Nella reggia del re Aristobulo, in Armenia, circa l’anno 60 dopo Cristo, imperando Domizio Claudio Nerone.

                     

ATTO PRIMO

Una sala disadorna, primitiva. Pareti e pi­lastri di pietra. A sinistra una vasta porta s'apre sulla campagna. Al fondo alcuni sca­lini raggiungono un'arcata chiusa da una tenda, che occupa buona parte della parete. A destra la sala si affaccia su un cortile. Un tettuccio di pelli a sinistra. Un rozzo trono

a destra.

anni 60 anni 50 anni 18 anni 30

(Viva luce mattutina. Salomé sta seduta sugli scalini del trono, e cuce. Abimelec, inginocchiato a terra, batte su un tagliere la pasta d'una focaccia. Fra trono e tettuccio, razzolano galline).

Abimelec                - Penso che potrebbe bastare. No?

Salomé                   - No. Non sarà certo morbida, se non la batti a dovere. La pasta per le focacce è come i bambini cattivi.

Abimelec                - (riprendendo il lavoro) E allora battiamola ancora.

Salomé                   - Certo. E non aver paura di stan­carti Je braccia.

Abimelec                - Ci vorrebbe altro, per stancar me!

Salomé                   - Dovrai anche badare, prima di metterla al fuoco...

(Entrano la Prima serva e la Seconda, recando panni da sciorinare).

Prima serva            - È qui che devo sciorinare?

Salomé                   - E quante volte te l'ho da dire? Al sole e alla polvere le robe si sciupano. Appendi la corda fra quei due muri. Ci sono già i chiodi. (Alla Seconda serva). E tu va a vedere che cosa fanno i ra­gazzi. (A Abimelec) Ti dicevo... Ah sì: prima di metterla al fuoco (la Seconda serva è uscita dal fondo) dovrai sgoccio­larle su un po' d'olio; e non dimenticare le foglie di lauro.

Abimelec                - Non dimenticherò.

Seconda serva        - (rientrando) In casa non c'è più nessuno. Filippo è uscito. Gli al­tri due sono andati a caccia. (Aiuta la Prima, che sta sciorinando i panni).

Salomé                   - Potevano anche venirmi a saluta­re... Come mai li hanno lasciati andar via così?... Bisognerà dire alle donne che questo non mi piace. Crescono come di peccatori, quei tre ragazzacci. Eh, la gioventù di adesso! Quand'ero piccola io, si tenevano i bambini alla catena... per modo di dire, si capisce... ma, almeno, crescevano senza tanti capricci, tanti vizi... (Entra da sinistra il ministro Mardocheo). Oh, ecco il ministro.

Mardocheo             - Il più lieto dei giorni alla no­stra graziosa regina.

Salomé                   - E anche a te, Mardocheo. Porti belle notizie?

Mardocheo             - Né belle né brutte, regina Salomé. Il nostro amato sovrano riposa ancora?

 Salomé                  - Non tarderà a venire.

Mardocheo             - Le tribù delle valli sono in­quiete. Di questo, appunto, vorrei par­lare al rc. sono inquiete perché temono la guerra.

Salomé                   - E hanno ragione di temerla?

Mardocheo             - Poiché sono inquiete, sì. Non c'è di peggio dell'inquietudine, per portare le donne al peccato, gli uomini alla mi-scria e i popoli alla guerra.

Salomé                   - Voi, ministri, avete sempre un buffo modo di ragionarc. se la guerra e da temersi solo perché le tribù sono in­quiete, e se le tribù sono inquiete solo perché temono la guerra, mi pare...

Mardocheo             - (ironico) Che cosa?

Salomé                   - Niente: non ne capisco niente. E, d'altra parte, sono affari vostri. Verrai anche tu, questa sera, ad assaggiare la focaccia che stiamo preparando? È una ricetta mia. La voglio provare oggi, per­ché è il giorno della nascita di Filippo.

Mardocheo             - Se l'amata Salomé si degna d'invitarmi...

(S'ode la voce di Aristobulo, che can­ticchia sbadigliando).

Salomé (rapida, premurosa) Aristobulo si è svegliato.

(Mardocheo, Abimelec e le Serve si levano e s'inchinano profondamente. sempre canticchiando e sbadigliando Aristobulo en­tra. Quindi Abimelec e le Serve ripren­dono il loro lavoro).

Salomé                   - Ben alzato, Aristobulo. (Senza la­sciare il suo posto bacia la mano che il re avvicinandosi le porge).

Mardocheo             - Il più lieto dei giorni al no­stro amato sovrano.

Aristobulo              - (imbronciato) Già. Il più lieto dei giorni. E intanto s'incomincia col dover vedere te... (si sdraia sul lettuccio)... Datemi da bere... (Salomé si precipita a servirlo)... e fors'anche col doverti ascol­tare.

Mardocheo             - I popoli della montagna, se­condo le ultime notizie...

Aristobulo              - Salomé, dirai in cucina che di quella salsa di ieri non ne voglio più. Ho sognato tutta la notte un cammello che mi dormiva sullo stomaco. A Mardocheo) Dunque, i popoli della monta­gna?

Mardocheo             - Sono inquieti, Aristobulo. Hanno visto passare la cavalleria, che abbiamo mandata al confine orientale, e...

Aristobulo              - Come, come? Che è andata a fare, la cavalleria, al confine orientale?

Mardocheo             - Secondo i tuoi comandi...

Aristobulo              - I miei comandi?... E da quali fatti erano motivati i miei comandi?

Mardocheo             - (paziente) Dopo che i pre­doni ebbero tentato di forzare...

Aristobulo              - Basta! Credi forse che non me ne ricordi?... Non capisci mai gli scherzi. Be': non hai altro da dirmi?

Mardocheo             - Mi pare, veramente, di non averti detto ancora nulla.

Aristobulo              - E allora, per il resto, a questa sera. Ora vorrei stare un poco tranquillo.

La voce del cittadino (di lontano) Ari­stobulo! Aristobulo!

Aristobulo              - (allarmato) Che succede? (Entra affannato il Cittadino; alcuni popolani arrivano alla soglia e vi riman­gono, curiosi e irrequieti).

Il cittadino             - I romani!

Aristobulo              - I romani?

Il cittadino             - Un generale, un proconsole, due capitani, dieci...

Aristobulo              - Chi li ha veduti?

I popolani               - (confusamente) Ammòn... l'al­bero... di lontano... ma anch'io... Ammòn...

Aristobulo              - Silenzio, voi! (Al Cittadino) Chi li ha veduti?

II cittadino             - Lo zio Ammòn, mentre coglieva i fichi, dall'albero.

Aristobulo              - Lo zio! I fichi! Ah! (gesto di rabbia) Mardocheo: corri incontro ai romani (Mardocheo esce); ma sei il primo ministro del re d'Armenia, ricordati! (cerca Abimelec). Il capo delle guardie! Abimelec, Abimelec!

Abimelec                - (levando il capo, timido) Aristo­bulo...

Aristobulo              - Eccolo! con le serve!

Abimelec                - Preparo la focaccia...

Aristobulo              - E intanto ha da essere uno zio che coglie i fichi ad avvertire il re d'Armenia dell'arrivo dei messaggeri del suo imperatore. Alzati! Svegliati! Tu sei d'ispezione, capisci?... (alle donne) Sgom­brate, intanto: via quei cenci: questa dev'essere la sala del trono. (Le donne obbediscono premurosamente; Salomé esce correndo). Tu sei d'ispezione ai posti di guardia. Elmo, corazza e spada. Saprai dalle tue guardie che i romani stanno arrivando, e correrai ad avvertirmene. Va!

Abimelec                - Ma le guardie...

Aristobulo              - (afferrando il Cittadino e so­spingendolo verso la porta). Eccone una. E lo zio Ammòn sarà un'altra. E poi tro­verai pure le guardie vere. Fa sonare l'adunata. Anzi: subito l'adunata.

Abimelec                - Ma la tromba...

Aristobulo              - (staccando una grossa tromba ch'era appesa al muro) Eccola qui. Se non ci fosse il re!

Abimelec                - Ma il trombettiere...

Aristobulo              - C'è anche il trombettiere! E tu corri! (Abimelec esce seguito dal Cittadino e dai popolani; Aristobulo im­bocca la tromba e suona più volte, frago­rosamente, suscitando un lontano brusio, che cresce e continuerà). Se non ci fosse il re! (sosta esitando, affannato). E ades­so... Che cosa facciamo? Che cosa faccio, io, mentre aspetto i messaggeri dell'im­peratore?

Salomé                   - (rientra recando sulle braccia un ricco manto) Aristobulo...

Aristobulo              - Che c'è?

Salomé                   - Il manto nuovo.

Aristobulo              - (vestendo il manto aiutato da Salomé) Ah si, il manto nuovo. Giusto. E Io scettro? Dov'è lo scettro? Cercate Io scettro!

Abimelec                - (rientra di corsa, tutto armato, con­ducendo alcune guardie, che dispone ai lati del trono, poi, sempre correndo, esce nuovamente).

Aristobulo              - (c. s. a Salomé) E tu, dimmi: che cosa debbo fare mentre aspetto i romani ?

Salomé                   - Se vuoi... potremmo giocare ai dadi.

Aristobulo              -No! Qualche cosa che sia da re, che sia... Che può fare il re d'Armenia mentre aspetta gli inviati di Cesare?

Salomé                   - Ma io non so!

Aristobulo              - Non sai mai niente. Bisogne­rebbe che io... Trovato! (a Salomé e alle donne) Su, svelte, quel sedile... qui... una tavola... questa dev'essere la sala delle udienze, il tribunale; renderò giustizia. Che c'è di più regale del rendere giusti­zia? (chiamando) Abimelec, Abimelec!

Abimelec                - (affacciandosi di dietro lo stipite della porta, a sinistra) Psst! Sono qui.

Aristobulo              - E che fai lì?

Abimelec                - (c. s.) Aspetto di venirti a dire che i romani arrivano.

Aristobulo              - Questo dovrai farlo più tardi. Ora dimmi chi c'è in prigione.

 Abimelec               - (rientrando, molto intimidito) In prigione... c'è un ladro di cammelli.

Aristobulo              - Poi?

Abimelec                - Un ladro di pecore.

Aristobulo              - Poi?

Abimelec                - Un ladro di galline.

Aristobulo              - Poi?

Abimelec                - Poi., un altro ladro di galline.

Salomé                   - (dopo avere cercato dappertutto, e-sce dal fondo, affannosamente).

Aristobulo              - Ah, basta! Che vuoi ch'io me ne faccia dei tuoi ladri di cammelli, di pecore, di galline? Che giustizia si può rendere con delinquenti così spregevoli? Non c'è neppure in prigione qualche as­sassino, qualche spia, qualche adultero, qualche ladro di gioielli... Devo dunque mettere te in prigione, per tradimento, diserzione e imbecillità, se voglio poter discutere coi giudici un caso che meriti la mia regale attenzione?

Abimelec                - (pavido) Aristobulo...

Salomé                   - (arrivando di corsa, con lo scettro) Lo scettro!

Aristobulo              - Lo scettro! (ad Abimelec) Ri­torna al tuo posto! (a Salomé) E dov'era lo scettro?

Salomé                   - Di là. Non arrabbiarti! L'aveva preso Filippo, povero piccino, per giocare.

Aristobulo              - Per giocare! Lo scettro del re d'Armenia per giocare! E tu non l'hai ancora adoperato per rigirare la zuppa nella pentola? Incredibile! Mentre Roma mi manda ambasciatori, mentre Cesare mi regala un segno della sua amicizia, a me, dico, un segno della sua amicizia... (per il troppo gridare gli si spezza la voce).

Salomé                   - Ma perché ti arrabbi tanto? Aristo­bulo!

Aristobulo              - (fra colpi di tosse e rantoli) Ven­gono forse a trovare il tuo Aristobulo, gli inviati di Cesare, o non forse il re? Bi­sogna dunque che trovino il re. E non è colpa mia se, per ricordarvi che qui c'è un re, devo arrabbiarmi, devo...

Abimelec                - (sporgendosi dalla porta) Ari­stobulo!

Aristobulo              - (sobbalza, si volta: tutti immo­bili).

Abimelec                - Arrivano!

Aristobulo              - E dunque annunziali!

Abimelec                - (senza capire) Arrivano.

Aristobulo              - Annunziali! ti ripeto.

Abimelec                - (c. s.) Ma come? Più che dirti che arrivano...

Aristobulo              - (spazientito si dispone con le spalle alla porta, grida contraffacendo la voce) Eccelso figlio del cielo, Aristobulo re, i nobili inviati di Cesare Augusto, massimo, onnipotente, invincibile, divi­no... (a Salomé e alle donne, che stanno spazzando) Via le donne! (come prima, continuando) ...giungono alla tua reggia! (corre al trono) Se non ci fosse il re!

(Aristobulo siede e si atteggia con solen­ne maestà. Salomé è uscita con le donne. Di fuori crescono il mormorio ed il bru­sìo, suonano trombe. Preceduti da Mar­docheo, entrano Tullio Cassio, Caio Lu­tezio e il loro seguito. I popolani riap­paiono sulla soglia).

Tullio Cassio          - Salute a te, Aristobulo, re d'Armenia, salute e prosperità alla tua persona, alla tua famiglia, ai tuoi mini­stri (compiacimento di Mardocheo), ai tuoi soldati (compiacimento di Abimelec) e ai tuoi sudditi (compiacimento dei po­polani). Nel nome del divino imperatore Domizio Claudio Nerone, a te s'inchina Tullio Cassio, generale d'armata e am­basciatore straordinario.

Caio Lutezio          - Insieme con Caio Lutezio, luogotenente.

Aristobulo              - (consigliandosi a sguardi e a cenni con Mardocheo) Benvenuto nella mia reggia, nobile messaggero del nostro adorato imperatore. Ardentemente brame­rei conoscere la ragione della tua venuta, se ancora più ardentemente non bramas­si sapere come stia in salute il divo Domizio Claudio Nerone.

Tullio Cassio          - Come stia non posso dirti, Aristobulo, ma bensì come stesse. Le sue più recenti notizie datano infatti da tre mesi or sono, ed erano, allora, buonissime.

Aristobulo              - Lode ai numi tuoi, (correg­gendosi) ai numi miei, (correggendosi ancora) ai numi di tutti quanti. £ ora voglia­te sedere, Tullio Cassio, e dirmi la ragio­ne... No: perdona. Prima ancora devi dirmi della tua salute.

Tullio Cassio          - (sedendo sul lettuccio) Fa' conto di saperlo, Aristobulo, e fa' conto ch'io già sappia altrettanto di te.

Aristobulo              - (sempre più imbarazzato) Be­ne. Vedo che sei franco: al corrente coi tempi nuovi.

Tullio Cassio          - I tempi nuovi li facciamo marciare noi; e quindi tocca a essi d'es­sere al corrente con noi.

Aristobulo              - (c. s.) Sicuro... ecco... proprio com'io dicevo... Ma intanto non conosco ancora la felice ragione della tua venuta.

Tullio Cassio          - E non sai nemmeno ancora se tale ragione sia o non sia felice.

Aristobulo              - (inquieto) E quando mai, dal divino Cesare, potrebbe giungermi cosa che non mi renda felice?

Tullio Cassio          - Bravo, Aristobulo. La. vita nel deserto non ti fa dimenticare le buo­ne creanze.

Aristobulo              - (contento) Ti pare?

Tullio Cassio          - Devo parlare con te solo.

Aristobulo              - (gesto violento, a destra) Via! (a sinistra) Via!

(Abimelec e le guardie raggiungono i po­polani. Tutti escono, tranne il romano ed il re. Questi spia con lo sguardo timoroso l'ospite, che per qualche attimo tace, am­biguo, poi)

Tullio Cassio          - Dov'è la regina?

Aristobulo              - (indifferente) E chi lo sa?

Tullio Cassio          - Già. Non usi farla sedere accanto a te, sul trono.

Aristobulo              - (ridendo) Sul trono? Lei?... Oh no!

Tullio Cassio          - (dopo un'altra pausa) Ari­stobulo, sono autorizzato ad ampliare il tuo regno.

Aristobulo              - (sbigottito) Come?

Tullio Cassio          - Due province.

Aristobulo              - Forse non ho capito.

Tullio Cassio          - Hai capito perfettamente. Però occorrerà che tu acconsenta alla vo­lontà di Cesare.

Aristobulo              - (felice) Cesare non ha che da comandare. Quando mai Aristobulo non ha obbedito?

Tullio Cassio          - (un cenno di approvazione).

Aristobulo              - Hai detto: due province...

Tullio Cassio          - Due province. Ma vorrei... Aristobulo: non ho ancora salutato la re­gina.

Aristobulo              - Lascia stare le convenienze. (È sceso dal trono, ha riempito di vino due coppe, ne porge una al romano) Bevi e dimmi: di che si tratta?

Tullio Cassio          - Potresti già averlo capito.

Aristobulo              - Come vuoi che abbia capito? Bevi!

Tullio Cassio          - Si tratta della regina.

Aristobulo              - (stupito) - Salomé?

Tullio Cassio          - Salomé. (Pausa) Sei sor­preso? Non pensavi che la notizia fosse arrivata a Roma... L'hanno portata quei poveracci di cristiani, insieme con le sto­rie dei loro profeti. E che parlare se n'è fatto! L'imperatore, puoi immaginare, con la sua fantasia, la sua anima... Tu sai ch'egli è un grande poeta?

Aristobulo              - (sempre più stupito) Oh sì: lo so. Ma di quale notizia parli?

Tullio Cassio          - Breve, Aristobulo: l'impe­ratore Domizio Claudio Nerone ti com­penserà con due province, se tu aderirai di buon grado a un capriccio del poeta Domizio Claudio Nerone. E segneremo nelle storie, a grandi lettere, il caso d'un poeta che ha trovato un imperatore pron­to a pagare un suo capriccio a prezzo di province.

Aristobulo              - Ma... il capriccio?

Tullio Cassio          - Salomé, Salomé!

Aristobulo              - Ah... già... Salomé!

Tullio Cassio          - Finalmente!... Tu, però, non potrai venire.

Aristobulo              - Dove?

Tullio Cassio          - A Roma.

Aristobulo              - A Roma?

Tullio Cassio          - Naturalmente, dovrò con­durla a Roma.

Aristobulo              - (rimuginando) Naturalmente, la regina a Roma... e io...

 Tullio Cassio         - Ti dispiace?

Aristobulo              - (c. s.) Due province...

Tullio Cassio          - (ridendo) Mi pare d'aver capito.

Aristobulo              - (scotendosi) Che cosa?

Tullio Cassio          - Io ti domandavo se ti spiace, e tu mi hai risposto: due province. Ciò vuol dire che, sì, ti spiace, ma quelle due province... (ride).

Aristobulo              - (ride anche lui, rumorosamente, poi, quasi subito, si riprende) No, non ridere, Tullio Cassio. Piuttosto dimmi tut­to, ma con calma, con chiarezza, come se io non sapessi ancora nulla... perché, vedi, ho capito... ho capito benissimo... ma vor­rei capire meglio.

Tullio Cassio          - (con tono di rimprovero scher­zoso) Aristobulo, Aristobulo!

Aristobulo              - Dunque?

Tullio Cassio          - Tu mi lascerai portare la re­gina a Roma... Oh, una cosa da nulla: i capricci di Cesare durano poco: una pas­seggiata per andare, un'altra passeggiata per ritornare. E ti guadagnerai due pro­vince.

Aristobulo              - Ma che può importare a Cesa sare della regina!

Tullio Cassio          - E sei tu a domandarmelo? Tu, che la conosci meglio di tutti? Sei astuto, Aristobulo! E, d'altra parte, tutto il mondo ha già avuto le prove della tua astuzia. Te ne stavi zitto zitto con quel tesoro. Tenevi il tuo forziere sepolto nel­l'orto. E, invece, la fama è corsa di pae­se in paese, è arrivata fino a Roma, è salita sul trono di Cesare, e ha rivelato tutto, Aristobulo, tutto... (entusiasman­dosi) La bellezza sovrumana della regi­na, la sua danza meravigliosa, sotto le stelle di Galilea, sui terrazzi di marmi della reggia, fra gli incensi e i profumi che salivano dai giardini; poi l'improvvisa follia del tetrarca Erode, e il prezzo della danza, il prezzo da lei richiesto per istigazione della madre: la testa del pro­feta... Che si può immaginare di più af­fascinante? Io stesso, Aristobulo, io, Tul­lio Cassio, generale d'armata, sono arri­vato alle tue terre sognando di vedere l'eroina d'un tale poema. Lungo il cam­mino me ne hanno ancora parlato: anzi, c'è stato un tale che mi ha parlato anche di te. « Aristobulo è furbo come un leo­pardo — mi ha detto — egli dorme i suoi sonni tranquilli, sul suo talamo fe­lice, poiché crede che s'ignori la faccenda dell'eterna giovinezza concessa alla regi­na dai numi, e s'illude che il mondo, a tanti anni da quegli avvenimenti, pensi oramai vecchia, finita, la divina Salomé ». Ah, furbo, furbo come un leopardo!

Aristobulo              - (ha seguito esterrefatto le parole del romano, e tuttavia non si riscuote).

Tullio Cassio          - A ogni modo, Aristobulo, i misteri sono tutti svelati: e l'hai visto. Il tuo giochetto non regge più. Hai capito?

Aristobulo              - (ancora medita, esita, tentenna).

Tullio Cassio          - (come per svegliarlo) Ari­stobulo!

Aristobulo              - Eh?... Già... certo... Tutto chia­rissimo... Ma se io... (risoluto) Tullio Cassio, ascolta bene: se io per caso ti dicessi che la regina di cui tu parli, la regina che Cesare vorrebbe conoscere, non è... non ce... insomma: io non la conosco, non ne so nulla, non credo neppure che esista... Se ti dicessi questo?

Tullio Cassio          - Non faresti che darmi una chiara prova del tuo desiderio di valoriz­zare lo sforzo che compirai per acconten­tare Cesare.

Aristobulo              - Già... perché...

Tullio Cassio          - Perché sei un politico sopraf­fino, e non due nuove province meritere­sti, ma quattro.

Aristobulo              - Quattro!... Oh, Tullio Cassio! Ma se io ti dicessi che quella regina esiste, sì, però non intendo mandarla a Roma, non intendo neppure mostrartela?

Tullio Cassio          - Vuoi forse farmi credere che un politico par tuo non sappia come a Cesare si possa dire qualsiasi cosa, ma non mai il contrario di ciò ch'egli de­sidera?

Aristobulo              - E se tu vedessi coi tuoi stessi occhi che non è vero niente?

Tullio Cassio          - (freddamente) Mi dispia­cerebbe... per le tue nuove province.

Aristobulo              - (dopo una pausa) Sei veramen­te un degno ambasciatore di Cesare.

Tullio Cassio          - E un tuo degno antagoni­sta, Aristobulo.

Aristobulo              - Se già non fosti ministro di Cesare, ti farei ministro di Aristobulo.

Tullio Cassio          - (levandosi, come per conclu­dere) Mi permetti dunque di compor­tarmi come se fossi ministro tuo?

Aristobulo              - Vediamo.

Tullio Cassio          - Prima di stasera mi farai incontrare con la regina. Domani all'al­ba mi farai partire con lei.

Aristobulo              - E questo sarebbe, secondo te, comportarsi come se fossi mio ministro?

Tullio Cassio          - Certo, Aristobulo: facen­doti fare quello che voglio io.

Aristobulo              - Però è meglio che tu rimanga ministro di Cesare, e come tale ti comporti.

Tullio Cassio          - Ottimamente. Prima di sta­sera mi farai incontrare con la regina. Domani all'alba mi farai partire con lei.

Aristobulo              - Ma dunque, come ministro di Cesare, tu fai quello che hai fatto come ministro di Aristobulo.

Tullio Cassio          - Oh no! Come ministro tuo ti ho detto di fare ciò che volevo io, co­me ministro di Cesare ti chiedo di fare ciò che vuole Cesare. (Si dispone ad uscire) Prima di stasera, dunque, potrò inchi­narmi alla regina. (Passaggio) E ora con­cedi, o re d'Armenia, ch'io raggiunga la mia gente e prenda riposo. L'ultima tap­pa del viaggio è stata lunga. Ti rivedrò più tardi.

Aristobulo              - (reagendo al suo stupore) Ma le province... senti... sarebbero due o quattro?

Tullio Cassio          - (dalla soglia di sinistra) -Credo di poterti dire che sarebbero... an­zi: saranno quattro.

Aristobulo              - Quattro!

Tullio Cassio          - Salute a te.

(Tullio Cassio è uscito. S'odono trombe lontane. Intorno allo stupore di Aristo­bulo si crea una lunga pausa. Mardocheo, Abimelec, le Guardie e le Serve si affac­ciano da tutte le parti, curiosi. A un gesto di Aristobulo, che continua a rimuginare le cose udite, tutti si ritirano di scatto; poi riappaiono, guardinghi, scambiandosi cen­ni inquieti).

Aristobulo              - (chiamando quasi senza voce) -Mardocheo...

Mardocheo             - (si avvicina cauto).

Aristobulo              - Caccia via tutti e ascolta.

Mardocheo             - (eseguisce a cenni il comando, poi torna ad avvicinarsi).

Aristobulo              - Sei sicuro ch'io sia Aristo­bulo?

Mardocheo             - (inquieto) Che vuoi dire? Aristobulo     - Sei sicuro ch'io sia vivo?

Mardocheo             - (c. s.) Aspetta: provo a guar­darti più da lontano... (fa per allonta­narsi, timoroso).

Aristobulo              - Stupido! Avvicinati: sei il mio primo ministro, e... Che volevo di­re?... Ah, ecco: tu conosci bene la storia?

Mardocheo             - La storia del tuo regno?

Aristobulo              - La storia di mia moglie.

Mardocheo             - (come recitando) Salomé, fi­glia di Erodiade e di Erode Filippo, visse alcun tempo nella reggia dello zio Erode Antipa. All'età di sedici anni sposò il pro­zio Filippo e non ne ebbe alcun figlio di cui si abbia notizia. Giunta all'età di tren­totto anni, essendo da tempo vedova, andò sposa al prediletto figlio del cielo Aristo­bulo, che sposò con lei la sua quarta moglie e ne ebbe tre figli da aggiungere ai quattordici avuti da precedenti matri­moni, il primo dei quali...

Aristobulo              - (interrompendolo) Questa è la storia mia, non quella di mia moglie.

Mardocheo             - La storia della regina te l'ho già detta.

Aristobulo              - E dunque tu non sai ch'ella ha danzato con la testa del profeta... no... ch'ella ha voluto... una testa, ecco, una testa, e quella testa... quella danza... Ah, basta! (furioso) Chiama la regina, chiama la regina... la regina! (resta annichilito, anelante).

(Mardocheo esce precipitosamente dal fondo e subito rientra).

 Mardocheo            - (senza voce) La regina! (poi esce di sinistra, chiudendo alle proprie spalle la porta).

Salomé                   - (entra dal fondo, asciugandosi le mani in un grembiale, si avvicina al re).

Aristobulo              - (riprendendosi a poco a poco) ~ Vieni qui, Salomé.

Salomé                   - Che c'è, Aristobulo?

Aristobulo              - Zitta! Fatti guardare. (La guarda di fronte, di profilo, da vicino, da lontano: fa di no con la testa; poi) Quanti anni hai?

Salomé                   - E chi se ne ricorda? Oramai non hanno più importanza, gli anni. Lascia che ti tolga questo manto; t'impaccia... Ma mi sembri stanco, oppresso.

Aristobulo              - Cerca di ricordarc. salomé         - Che?

Aristobulo              - I tuoi anni.

Salomé                   - Quando tu mi hai sposata ne ave­vo... (pensa).

Aristobulo              - Trentotto.

Salomé                   - Te ne ricordi? Come sei caro! Proprio trentotto. Ora il nostro Erode ne ha dodici... Vuoi provare a fare il conto?

Aristobulo              - Trentotto, dodici e... non ha importanza. Piuttosto... (non trova le parole che vorrebbe dire).

Salomé                   - Ma che hai, Aristobulo? Il romano ti ha portato qualche brutta notizia?

Aristobulo              - Senti: tu non hai nascosto mai nulla al tuo Aristobulo?

Salomé                   - Nulla di che?

Aristobulo              - Della tua vita, del tuo pas­sato.

Salomé                   - Aristobulo, diventi geloso? Adesso?

Aristobulo              - Che c'entra? Non scherzare: ti domando se non c'è qualche segreto, nella tua vita.

Salomé                   - Nella mia vita? Oh Aristobulo! La vita d'una povera donna.

Aristobulo              - Ma tu, quand'eri giovane, eri bella?

Salomé                   - Io? Forse. Credo di sì. Certo gli uomini mi guardavano. Una volta c'è stato un capitano che mi ha fatta bere troppo, poi... Ero tanto bambina! Ma per­ché vuoi sapere queste cose?

Aristobulo              - E quand'eri giovane e bella, dimmi, ti piaceva ballare?

Salomé                   - Oh sii Piace a tutte le bambine.

Aristobulo              - E quand'eri nella reggia di E-rode, ascolta bene, quand'eri nella reggia di Erode, non ti è accaduto, una sera, di ballare...

Salomé                   - Si ballava tutte le sere.

Aristobulo              - Ma di ballare in un modo... come diceva Tullio Cassio?... Una danza meravigliosa... mentre c'erano le stelle... sopra i terrazzi di marmo... con gli incen­sieri... e c'era il giardino...

Salomé                   - C'era sempre, il giardino.

Aristobulo              - Ma non ti ricordi, fra tutte le sere, una sera più... più importante?

Salomé                   - Oh, Aristobulo! Mi inquieti.

Aristobulo              - (uno scatto) No: non t'inquieto affatto. Ho pur diritto di sapere...

Salomé                   - Sì, tutto quello che vuoi, ma cal­mati.

Aristobulo              - Non ti ricordi d'una sera che, mentre ballavi, il tetrarca ti ha guardata... è impazzito...

Salomé                   - Impazzito? Non so. Ma è certo che mi guardava sempre. E questo dispiaceva alla mamma. Sai, lo zio Erode era un uomo piuttosto... (gesto).

Aristobulo              - E non ti ricordi d'aver voluto ch'egli pagasse la tua danza con una testa?

Salomé                   - Una testa?

Aristobulo              - Sì: una testa: la testa d'un profeta.

Salomé                   - Ma come puoi pensare queste brut­te cose?

Aristobulo              - Salomé, Salomé, io mi perdo, io ho bisogno di capire. Ci sono quattro province se riesco ad accontentare Cesare... Dimmi ancora: non ti ricordi nemmeno di quando hanno tagliato la testa a un profeta ?

Salomé                   - Eh! Ne tagliavano tante, di teste, al palazzo dello zio. Non era mica come qui, la vita. Adesso mi fa pena vedere sgozzare una pecora, ma allora... ne vede­vo di cose orribili! Ed è anche per questo che mi trovavo male in quella reggia, e ho sposato quel povero Filippo, per andarme­ne via. Non ero fatta per quella vita, io. E tu l'hai visto, lo vedi. Ero fatta per es­sere la moglie del mio Aristobulo, per in­vecchiare con lui, per allevare i suoi figli e aspettare di diventare nonna. Quando saremo vecchi...

Aristobulo              - Zitta, zitta, Salomé! Ci sono quattro province... S'io ti dicessi che si racconta d'una principessa bellissima, che una volta danzò davanti a Erode e, dopo aver danzato, volle che Erode facesse tagliare la testa a un uomo, un grande uomo, un profeta... S'io ti dicessi che quella princicipessa eri tu, che cosa risponderesti?

Salomé                   - (serena) Quello che ti ho già rispo­sto. Ballavo tutte le sere. Lo zio mi guar­dava sempre. E per quanto riguarda la testa... può benissimo darsi che mia madre abbia voluto ch'io dicessi al tetrarca di tagliarla... (Aristobulo ascolta con più vivo interesse) Ma perché vuoi farmi ri­cordare queste malinconie? Ero di là che preparavo la focaccia...

Aristobulo              - (disperato) Povero me, povero me!

Salomé                   - Ma perché?

Aristobulo              - Perché tutto può essere vero, anzi: tutto, forse, è vero, tranne una cosa: la cosa più importante, Salomé: l'eterna giovinezza!

Salomé                   - (allarmatissima) Aristobulo!

Aristobulo              - Compatiscimi, Salomé! Ho per­duto quattro province.

FINE PRIMO ATTO

ATTO SECONDO

 (Luci calde di pomeriggio inoltrato. La porta di sinistra è chiusa. Aristobulo è adagiato sul tettuccio, sofferentc. salomé, affettuosa e ansiosa, lo assiste, rinfrescandogli di quando in quando la fronte con cenci bagnati. Mar­docheo cammina in su e in giù, ostentando profonda meditazione).

Aristobulo              - (gemendo) Ahi!

Salomé                   - Ti duole ancora?

Aristobulo              - Oh, sì: tanto. (Chiamando) Mardocheo!

Mardocheo             - (senza interrompere il suo an­dare e venire, risponde con un mugolio).

Aristobulo              - Hai pensato?

Mardocheo             - (c. s.).

Aristobulo              - Hai trovato?

Mardocheo             - (c. s.).

Aristobulo              - (sconfortato) Non troverai niente. D'altronde, che cosa potresti tro­vare, tu?

Abimelec                - (socchiude la porta di sinistra e sì affaccia) Aristobulo!

Aristobulo              - Ebbene?

Abimelec                - Dorme ancora.

Aristobulo              - Hai parlato con qualcuno? Hai detto quello che io...?

Abimelec                - Sì. Ho parlato con un capitano. Gli ho detto che tu pregavi Tullio Cassio di pazientare, di aspettare fino a che non l'avessi chiamato.

Aristobulo              - E il capitano?

Abimelec                - Ha riso.

Aristobulo              - Sì?

Abimelec                - Poi ha detto: « Che furbo quel-l'Aristobulo! ».

Aristobulo              - (dopo una pausa) E, in paese, che cosa si dice?

Abimelec                - Si dice... (guarda Salomé) Devo osare?

Aristobulo              - (imperioso) Osa!

Abimelec                - Si dice che Cesare ha mandato Tullio Cassio perché... perché ha delle in­tenzioni... come dire?... delle intenzioni... sulla regina.

Salomé                   - (indignata) Aristobulo! E tu permet­ti che credano...?

Aristobulo              - No! Non permetto niente! (ad Abimelec) Va, corri, di' a tutti che non è vero... cioè: è vero, ma non del tutto, per­ché la regina non c'entra, non è... insom­ma: è, ma non è... Oh, via, basta! Di' a tutti che farò tagliare la lingua al primo che oserà parlare di queste cose! Via! (Abi­melec esce di corsa e richiude la porta) Ahi... ahi... (Aristobulo ricade sul tettuc­cio).

Salomé                   - Caro, senti: non sarebbe meglio...?

 Aristobulo             - Mardocheo!

Mardocheo             - (c. s.).

Aristobulo              - Ancora niente?

Mardocheo             - (c.s..).

Aristobulo              - (disperato) E quello è il mio primo ministro! Bella, bellissima la sorte di questo re! Cesare mi offre quattro pro­vince, e io devo rifiutarle, io devo rima­nere qui, con un regno di straccioni e di pecore, con un ministro somaro, tre figli piagnoni e una moglie... una moglie che non serve a niente!

Salomé                   - Aristobulo!

Aristobulo              - (esaltandosi) E che cosa dovrei fare, adesso? Chiamare il romano, vero?chiamare l'inviato del mio amico Cesare e dirgli: ecco, questa è mia moglie, questa è la regina, questa la principessa dall'eter­na giovinezza, quella che ha ballato, là, con la testa del profeta, questa è la bellis­sima fra le belle, è il sogno del divino Ce­sare, imperatore e poeta... questa, questa è Salomé!

Salomé                   - (sul punto di piangere) Taci! Non capisci quello che dici, non ti accorgi del male che mi fai. Maledetto Cesare!

Aristobulo              - (terrorizzato) Sssst!

Mardocheo             - (partecipa al terrore di Aristo­bulo) Sssst!

Salomé                   - Maledetti i romani! Maledetta la tua ambizione!

Aristobulo              - Zitta!

Salomé                   - Tu, tu, zitto! E, se ancora mi parle­rai come mi hai parlato, me ne andrò via, per sempre, mi prenderò i miei tre figlio­li, mi prenderò Pasinella bianca, me ne andrò nel deserto, chi sa dove, per non vederti più, per non sentirti più... (piange).

Aristobulo              - (commosso senza volerlo mani­festare) Ecco! E adesso ho anche una moglie che piange!

Salomé                   - Sei tu che mi fai piangere.

Aristobulo              - Io? E perché? Che ti ho detto? Infine ho pur diritto di rimpiangere le mie quattro province... E poi, sto così male!

Salomé                   - (premurosa) Ancora?

Aristobulo              - Sì: la testa, e qui, sul fianco, e dappertutto... sto male!

Salomé                   - Povero Aristobulo... e povera me! Eravamo così contenti!

Aristobulo              - Sì: è vero. Eravamo... ahi... così contenti!

Salomé                   - E ora non lo saremo mai più.

Aristobulo              - Anche questo è vero. Non lo saremo mai più. Non sarà più possibile esserlo... ahi!

Mardocheo             - (fermandosi "di botto e quasi gri­dando) Aristobulo!

Aristobulo              - (sobbalzando) Che?

 Mardocheo            - (avvicinandosi, solenne) Quan­do avrai le quattro province nuove, sarò ancora tuo primo ministro?

Aristobulo              - Che dici?

Mardocheo             - Ho trovato.

Aristobulo              - Hai...? (ricadendo) Impossibile.

Mardocheo             - Trovato. Rimarrò primo mi­nistro?

Aristobulo              - (incalzandolo) Parla!

Mardocheo             - (sfuggendo) Caccerai via il gran sacerdote?

Aristobulo              - Parla!

Mardocheo             - Mi darai cento talenti?

Aristobulo              - (minaccioso)       - Cento talenti, sì, ma anche cento bastonate, se non parli subito.

Mardocheo             - (sottovoce) Il romano non co­nosce la regina...

Aristobulo              - No, certo.

Mardocheo             - Nessuno di loro la conosce?

Aristobulo              - E credi che, se la conoscesse­ro, sarebbero venuti fin qui a cercarla?

Salomé                   - Aristobulo!

Mardocheo             - Dunque, se tu presentassi lo­ro una donna qualsiasi <e dicessi che quella donna è Salomé...

Salomé                   - Ma come?

Aristobulo              - Zitta! (a Mardocheo) Con­tinua.

Mardocheo             - ...essi potrebbero credere...

Aristobulo              - (pensoso) Certo potrebbero cre­dere... Ma la gente di qua...

Mardocheo             - Tu dianzi hai ordinato di far tagliare la lingua a chiunque parlasse di ciò.

Aristobulo              - Sì. .

Mardocheo             - E allora... (conclusivo) La più bella ragazza della tua capitale. Intendi? Bella e scaltra. Sguinzagliamo subito le guardie. Cerchiamo le più belle ragazze e conduciamole qui. Sceglierai tu fra que­ste. E poi tu e la regina insegnerete alla prescelta quello che dovrete insegnarle; e lei ne sarà felice: Roma, pensa, la gra­zia di Cesare, la gloria... Inventeremo Salomé, Aristobulo: inventeremo la prin­cipessa che non esiste.

Aristobulo              - Ma dev'essere bella: bella co­me una dea. Se tu avessi sentito il roma­no, come ne parlava! E poi, la sua danza...

Mardocheo             - Aristobulo, se tu fossi pagano e, a un tratto, ti dicessero: Venere! guar­da Venere! tu guarderesti e...

Aristobulo              - Oh... chiuderei gli occhi.

Mardocheo             - Ecco. Accade sempre qualche cosa di simile per le dee e per le principesse meravigliose come per i re... Non credi?... Eppure ho inteso io stesso un tuo suddito, che ti aveva veduto sul trono, dire che tu sei bello.

 Aristobulo             - Bello?

Mardocheo             - E imponente... con una luce negli occhi...

Aristobulo              - Tutto questo per me?

Mardocheo             - Puoi dunque immaginare che cosa si vedrà nella bella figliola che mostreremo splendidamente vestita, ornata di gioielli, e presenteremo con quel nome: Salomé.

Salomé                   - (trasale, sospira, poi rimane assorta, triste).

Aristobulo              - Sei un insolente, ma... forse, forse, non sei uno stupido... (con improvvisa gioia) Mardocheo, Mardocheo mio, Salomé, è fatta: quattro province, quat­tro province!

Abimelec                - (si affaccia alla porta, come prima)- Aristobulo!

Aristobulo              - Si è svegliato?

Abimelec                - Non ancora. Io ho eseguito....

Aristobulo              - Dorma, dorma fino a stasera; venga qui appena sarà notte. Hai capito? Appena sarà notte. E avrà qualcosa da vedere! (Abimelec fa per allontanarsi) Aspetta! Ti avevo detto, poco fa, che avrei fatto tagliare la lingua a chi avesse par­lato di questo.

Abimelec                - Sì.

Aristobulo              - E ora ti dico, bada bene, ti dico che, a chi parlerà, farò tagliare la testa. Anzi: farò tagliare la testa a chiun­que si lascerà trovare non per mio ordine nella strada, o sulla porta di casa, o alle finestre, prima di domani. Va!

Abimelec                - (sparisce precipitosamente e richiu­de la porta).

Aristobulo              - (a Mardocheo) E tu manda a cercare le ragazze, subito. (Piano) Ce n'è una sulla strada dei pozzi... l'ultima casa a destra... graziosa!

Mardocheo             - (anch'egli a bassa voce) Ce n'è un'altra sulla piazza: la figlia di Jerubbaal.

Aristobulo              - Sì, sì. E un'altra nella casa accanto.

Mardocheo             - Ci penso io, Aristobulo? Po­chi minuti. (Esce di sinistra).

Aristobulo              - È fatta, Salomé. Hai visto? Mardocheo è grande: il mio ministro: de­gno di me, di Aristobulo, re dell'Arme­nia e di quattro province aggiunte. Quattro province! Bisognerà fare un proclama ai miei nuovi popoli. Aiutami, Salomé. Come si potrebbe incominciare? « Il divo Domizio Claudio Nerone imperatore... » E poi?... Salomé!

Salomé                   - (scotendosi) Come?

Aristobulo              - Ti pregavo di aiutarmi: bi­sogna fare un proclama.

Salomé                   - Sì? Io ti volevo invece domandare che cosa farai di me, adesso.

Aristobulo              - Di te?

Salomé                   - Sì: di fronte al romano.

 Aristobulo             - Niente. Che vuoi che faccia? Quand'è venuto non ti ha vista; quando ritornerà, non ti farai vedere.

Salomé                   - Già.

Aristobulo              - Forse ti spiace? Eppure non hai mai amato le cerimonie, tu; non so­no mai riuscito a farti sedere in trono. Ti ricordi di quella volta che mi hai rispo­sto: siedo sul trono se mi lasci tenere in grembo Filippo?

Salomé                   - Sì, mi ricordo. Ma dimmi: quan­do il romano verrà, tu gli presenterai...

Aristobulo              - Salomé!

Salomé                   - Ecco. Quell'altra. Quella che sarà...

Aristobulo              - Salomé!

Salomé                   - E tutti la chiameranno: Salomé. E partirà per Roma. E a Roma la chiame-rano Salomé; la guarderanno tutti; quan­do passerà si toccheranno col gomito, si leveranno in punta di piedi...

Aristobulo              - Sicuro. Ecco Salomé, diranno, ecco la principessa che fece impazzire il tetrarca Erode, la principessa che danzò e si fece pagare a teste tagliate; ecco la mo­glie di Aristobulo.

Salomé                   - La moglie di Aristobulo... E anche Cesare la crederà Salomé.

Aristobulo              - Naturalmente. Ma perché sei così perlessa? Dovresti ridere, rallegrarti; mi guadagno quattro province senza trop­pa fatica, e tu non ci perdi proprio nulla.

Salomé                   - Credi?... Che strano! Mi dà una grande malinconia, questa idea. Sono pur stata io, anche se non me ne sono accorta, la donna che ha fatto nascere quella sto­ria che è piaciuta a Cesare... Ora, certo, mi sembra impossibile. Ballavo; ero bel­la... Strano, strano. Mi viene in mente quel capitano che già ti dicevo: quello che mi fece bere troppo.

Aristobulo              - Ma ti sembra il caso di pen­sare a quel capitano?

Salomé                   - E tu? A chi pensi?

Aristobulo              - Io? Penso alle ragazze che aspetto, a quella che sceglierò.

Salomé                   - E io penso alla ragazza che ero, alla ragazza che tu cercherai di far rivivere, perché la gente crede ch'io sia rima­sta giovane... Chi sa che non fossi davve­ro molto bella!

Aristobulo              - Possibile. Quand'io t'ho cono­sciuta... Ma ora tutto questo non c'entra. Io devo pensare a ben altro.

Salomé                   - (docile) Hai ragione.

Mardocheo             - (si affaccia alla porta di sinistra: gesto, come per dire: Siamo qui).

Salomé                   - Eccole. Arrivano. Io me ne vado. Non so neppure se i ragazzi sono tornati. Vado a cercarli. (Esce dal fondo, rapida, furtiva).

Mardocheo             - (entra e fa entrare, nominandole una per una, le ragazze, che si dispongono prostrate a sinistra, fra risa sommesse e soffocati bisbigli) Giuditta, figlia di Ge­deone; Delila, figlia di Jerubbaal; Lia, fi­glia di Joas; Sara, figlia di Chemuel; Agar, figlia di Betuel; Debra, figlia di Efron; Dina, figlia di Pàran; Imma, fi­glia di Iòlan; Zilpa, figlia di Butz; Ai-noàm, figlia di Aòn; Bilà, figlia di...

Aristobulo              - (la cui impazienza è andata cre­scendo) Basta, Mardocheo, basta! Io non potrò mai scegliere fra tante... Povero Ari­stobulo! Sono troppe, troppe!

Mardocheo             - (ambiguo) Già: hai ragione: troppe. Aspetta... (elegge tre ragazze: Delila, Giuditta e Lia) Tu... tu... e Lia, ec­co... (manda via le altre, coi gesti e la voce, e richiude dietro di loro la porta) Via, voi altre, in fretta. E silenzio. Via, via!

Aristobulo              - (con sollievo) Oh.... così va bene... (si avvicina alle ragazze, curioso e divertito) Su le teste. Vediamo... (guarda la prima) Eh... sì! (la seconda) Oh... sì, sì... (la terza) Ah... sì, sì, sì: che bella bambina!

Mardocheo             - (impaziente) Hai deciso?

Aristobulo              - (jermo sulla prima, che è De­lila) Sì, ho deciso; (ma lo sguardo gli cade sulla seconda) no, no: non ho deci­so... Che bella bambina anche tu! E tu sci figlia di... Joas.

Mardocheo             - Ma non avevi deciso?

Aristobulo              - No, non ancora. Aspetta, (a Giuditta) E tu, di chi sei figlia?

Giuditta                 - Figlia di Gedeone.

Aristobulo              - Che vocina! (a Lia) E anche tu hai una così bella vocina?

Lia                          - Se i tuoi regali orecchi si degnano di apprezzarla.

Aristobulo              - Ah, compita, spiritosa... E tu? (a Delila) Anche tu così spiritosa?

Delila                     - Chi può dar luce quand'è dinanzi al sole? Chi può avere spirito quando parla con te?

Aristobulo              - Oh, magnifico! Mardocheo, hai sentito?

Mardocheo             - Mi pare che si possa conclu­dere.

Aristobulo              - Sì, certo: è concluso. (A Lia e a Giuditta) Voi due, care figliole, potete alzarvi, potete andare... (le due ragazze obbediscono) Ma che belle stature!... Mar­docheo, che te ne pare?

Mardocheo             - (ferentorio, a Delila tuttavia prostrata) Delila, alzati.

Aristobulo              - (guardando Delila) Ah, an­che tu, anche tu... dunque si può conclu­dere, come prima... (a Lia e a Giuditta) Andate, figliole, e ritornate domani; voglio donarvi...

Giuditta                 - Nulla ci puoi donare, Aristobulo re, più gradito di quanto ci donasti oggi, rivolgendo a noi la parola.

Aristobulo              - (di nuovo incerto) Hai senti­to, Mardocheo?

Tullio Cassio          - Il sole ha toccato il deserto, e io ritorno alla tua reggia. Ma la ritro­vo triste, come non era quando sono ar~ rivato.

Mardocheo             - (funebre) Una nuvola sulla fac­cia del sole rattrista tutto il cielo.

Tullio Cassio          - Vuoi dunque dire che il re è triste?

Aristobulo              - (un gemito) Oh!

Tullio Cassio          - Anche la città, d'altronde, mi è parsa deserta e muta come certo non era al mio arrivo.

Mardocheo             - Chi oserebbe passeggiare, mo­strarsi alla finestra, cantare, poiché tutti oramai sanno che la regina... (un sin­ghiozzo).

Aristobulo              - (uno scoppio puerile ài pianto).

Tullio Cassio          - Dunque, è deciso.

Aristobulo              - (fatale) È deciso.

Tullio Cassio          - Non aspettavo di meno, da te, Aristobulo.

Aristobulo              - Ma dirai a Cesare che mi hai visto piangere? che hai visto piangere il suo servo Aristobulo? Riferirai a Roma che la povera Armenia si è... si è... come dire, Mardocheo?

Mardocheo             - Si è oscurata, si è intristita, si è coperta di cenere...

Aristobulo              - Precisamentc. si è coperta di cenere, non appena la regina...

Mardocheo             - ...la divina Salomé...

Aristobulo              - ... ha lasciato la sua reggia...

Mardocheo             - ... ha lasciato i suoi sudditi an­gosciati...

Aristobulo              - ...e addio... addio, Salomé!

Tullio Cassio          - Ma dov'è questa Salomé che partendo cagiona una così terribile ambascia?

Aristobulo              - La vedrai, Tullio Cassio. Io la condurrò davanti a te. Io stesso l'avvierò sulla strada che la porterà lontano, a Roma...

Mardocheo             - ... nella luce di Cesare...

Aristobulo              - ... nella luce di Cesare. Te la condurrò e te l'affiderò.

Tullio Cassio          - Ma quando?

Aristobulo              - Più tardi.

Tullio Cassio          - Ancora? Vuoi farmi anco­ra aspettare? Aristobulo, non vorrei che tu ricominciassi il tuo giuoco d'astuzia. Oramai non varrebbe più.

Aristobulo              - Nessuna astuzia, Tullio Cas­sio. Ti sembra che un uomo affranto...

Mardocheo             - ...un cuore spezzato...

Aristobulo              - ...possa giocare d'astuzia? Io farò ciò che Cesare vuole. Il mio dolore senza misura e senza prezzo sarà pagato, ahimé, con quelle vili cinque province!

Tullio Cassio          - (correggendolo) Quattro.

Aristobulo              - Sì, è vero: quattro. Ma chi consolerà la mia solitudine?

 Mardocheo            - Quel fiore di bellezza e di gio­vinezza non sarà più qui.

Aristobulo              - Hai sentito? Non sarà più qui. Non sarà più accanto a me. Io non ve­drò più le sue danze.

Tullio Cassio          - Danza ancora?

Aristobulo              - Oh, come danza! Tutte le sere, dinanzi ai miei occhi, ella ripete la danza... Tullio Cassio, la danza che le fu pa­gata con la testa del profeta. Oh, vedrai, vedrai tutto. Ma ora devi concedermi l'ul­tima beatitudine: le mie ultime ore ac­canto a lei.

Tullio Cassio          - Parli come se non dovesse mai più tornare.

Mardocheo             - E tu sei forse sicuro, quando vedi tramontare il sole, che il giorno dopo esso debba tornare?

Aristobulo              - (a Tullio Cassio) Hai senti­to?... Proprio così. Dopo tanti anni di vita in comune... oh, io e Salomé, se tu sa­pessi! Sempre legati, notte e giorno, gior­no e notte... Tullio Cassio, io vado. An­cora una notte d'amore, di follia, con lei. Me lo concedi?

Tullio Cassio          - Te lo concedo, a dispetto dell'invidia che provo per te.

Aristobulo              - (si avvicina all'uscita di fondo; agisce e parla misteriosamente, mentre la sala si fa buia) È di là.

Tullio Cassio          - Di là?

Aristobulo              - Oltre questa tenda c'è un'altra tenda, poi... l'alcova... (chiama) Salomé... Salomé... (tace, come aspettando una ri­sposta: e tutti aspettano con lui; poi) Non risponde... Mi starà aspettando... « Non piangere » le dissi dianzi...

Mardocheo             - Non spegnere con le lacrime il fuoco dei tuoi occhi.

Caio Lutezio          - Ma questi sono versi d'un poeta persiano!

Mardocheo             - (rapido) Certo: e sono stati scritti, appunto, per Salomé.

Aristobulo              - Per Salomé. (Sale gli scalini di fondo, si appresta a schiudere la ten­da e a uscire) Tullio Cassio: ti farò por­tare il mio vino e il mio pane, perché tu possa attendere senza troppa noia, men­tre io... (sul punto d'uscire) Ah, Salomé, mi pare che la notte... che il mio cuore... che il mare...

Mardocheo             - ... il mare entri nel mio petto e lo gonfi.

Aristobulo              - Ecco: entri nel mio petto e lo... (Improvvisamente Salomé appare nell'a­pertura della tenda; porta un canestro di frutti; s'inchina ad Aristobulo e sorride, timida, umile).

Aristobulo              - (dopo essersi interrotto, fra lo stupore e la paura, volgendosi a Mardocheo) Mardocheo! (e accenna a Salomé).

Mardocheo             - (un colpo di tosse, un atto in­deciso, come per intervenire a salvare la situazione).

 Salomé                  - (tranquilla) I frutti, re Aristobulo: ho portato agli inviati del divino Cesare i frutti dei tuoi orti. Sono la serva più anziana...

Mardocheo             - Già: la serva più anziana.

Salomé                   - ... e ho pensato che fosse mio do­vere...

Mardocheo             - (incoraggiando a cenni Aristo­bulo) Certo, certo!

Aristobulo              - (ancora indeciso) Certo...

Salomé                   - E ora manderò il vino, manderò il pane... e anche un agnello arrosto... (volgendosi a Caio Lutezio e al seguitò) Un agnello arrosto!

Caio Lutezio          - Benone!

Salomé                   - E poi volevo dirti, re Aristobulo... (Comincia, all'interno, una musica lenta e soave). Senti? Anche la musica. Ho prepa­rato tutto, di là... Va, re Aristobulo. Va dalla tua Salomé, dalla tua regina. E la vecchia serva baderà agli ospiti.

Mardocheo             - (mentre Aristobulo esita anco­ra) Sì, ecco: la vecchia serva baderà agli ospiti. Aristobulo: io ti precedo.

Aristobulo              - (scotendosi) Vengo...

Salomé                   - (in disparte) Non avere paura: non ti tradirò, sarò buona. Ma anche tu, vero?

Mardocheo             - (forte e declamato, volgendosi verso l'interno) Salomé! Re Aristobulo si avvicina al tuo talamo.

Aristobulo              - (seguendolo e riprendendo il to­no di prima) Al tuo talamo, Salomé! Ah, per l'ultima volta!

Mardocheo             - (uscendo e facendo strada al ré) Odi quale musica celestiale, Aristobulo.

Aristobulo              - (uscendo a sua volta) Oh, Sa­lomé!

Mardocheo             - (di fuori) La notte è piena di incanto. È bella come la tua Salomé.

Aristobulo              - (di fuori) No. La mia Salomé è più bella. Non c'è nessuna cosa che sia bella come la mia Salomé!

Salomé                   - (avvicinandosi a Tullio Cassio che s'è adagiato sul tettuccio) Povero re Ari­stobulo! Quanto amore!

Voce di Aristobulo     - (esitando, come ri­petendo ancora parole suggerite, e a poco a poco allontanandosi) Né la notte né il giorno... né il giorno né la notte... né la notte né... la notte...

Salomé                   - (depone il cesto dinanzi a Tullio Cassio, s'inginocchia) Senti? Non sa neppure più parlare. Troppo commosso!

Voce di Aristobulo     - Né l'aurora né il tramonto...

Salomé                   - (a Tullio Cassio) E partirete pro­prio all'alba? Andrete a Roma? Quando arriverete a Roma?

Tullio Cassio          - Sei curiosa.

Salomé                   - Io? Eh già! Tu sai: le vecchie serve...

Voce di Aristobulo     - Né le stelle né la luna... né il mare né la terra... non esi­ste giardino che sia più profumato di te... non esiste fontana che sia fresca come te... non esiste... (si perde: e non s'ode più che la musica).

Salomé                   - (sempre molto timidamente) E Cesare, dimmi, Cesare è proprio tanto cu­rioso di conoscere Salomé?... E che cosa farà di lei?... La terrà nel suo palazzo?... Chi sa com'è bello il suo palazzo! Certo più bello della reggia di Aristobulo. E Salomé, dimmi, abiterà proprio nel palaz­zo di Cesare?

Tullio Cassio          - (spazientito) E basta! Sono tutte ciarliere come te le vecchie serve d'Armenia? Che t'importa di ciò che fa­remo? di ciò che farà Cesare? Nemmeno se fossi tu Salomé!

Caio Lutezio          - (scoppiando a ridere fragoro­samente) Oh... Salomé! Lei... Salomé!

I soldati                  - (ridendo con lui) Salomé! Salomé!

Tullio Cassio          - (imperioso) Silenzio!

 (Tutti tacciono, Salomé è rimasta sperdu­ta, tremante, sempre a ginocchi, guardan­dosi intorno. Ora, nel silenzio sopravve­nuto, mentre continua la musica lontana, ella ride a sua volta, ma piano, forzata­mente).

Salomé                   - Oh sì... è proprio ridicolo... io, Sa­lomé... io... (sta per rompere in pianto, si frena, trangugia i singhiozzi, toglie dal cesto un grappolo d'uva, lo porge al ro­mano) Vuoi un grappolo d'uva?

FINE DELL'ATTO SECONDO

ATTO TERZO

(Nottc. scarsa luce di fiaccole. I romani, qua e là, addormentati. Tullio Cassio sul tettuc­cio, Caio Lutezio sul trono. Un soldato ro­mano è di sentinella sulla porta di sinistra, a traverso la quale si scorge il cielo notturno).

Jerubbaal                - (giunge alla porta di sinistra, dal­l'esterno, e vorrebbe entrare).

Il soldato                - (sbarrandogli la via) Non si passa.

Jerubbaal                - (lamentoso) Devo passare.

Il soldato                - Non si passa.

Jerubbaal                - Ho bisogno di parlare al re; la­sciami entrare.

Tullio Cassio          - (leva il capo e ascolta).

Il soldato                - Non si passa.

Jerubbaal                - E allora va tu ad avvertirlo che c'è qui il suo servo indegnissimo Jerubbaal, il padre di Delila, nobile fiore, e di­gli che Jerubbaal vuole parlargli, subito, perché ha cambiato idea: ieri ha detto di sì e oggi, invece, dice di no. Va a riferirgli questo.

Il soldato                - Non posso allontanarmi.

Tullio Cassio          - (si alza curioso, si avvicina alla porta).

Jerubbaal                - Ma devo dunque lasciar partire così la mia figliola, la mia tenerezza, il sole dei miei giorni, la luna delle mie not­ti, Delila, Delila mia dagli occhi d'oro... oh... oh...

Il soldato                - Silenzio!

Jerubbaal                - Lasciami entrare o sveglio tutti!

Tullio Cassio          - (al Soldato) Lascialo en­trare.

Il soldato                - (si volge sorpreso e subito obbe­disce).

Jerubbaal                - (entrando, a Tullio Cassio) Il cielo ti rimeriti. Sei grande, sei eccelso, sei il romano, e hai pietà del povero Je­rubbaal.

Tullio Cassio          - (ritornando al tettuccio) Parla piano.

Jerubbaal                - (pianissimo) Hai pietà del povero Jerubbaal.

Tullio Cassio          - (annoiato) Non ho pietà di nessun Jerubbaal; ma sono stanco di aspet­tare in silenzio; raccontami qualche storia, vecchia pecora.

Jerubbaal                - Oh, aquila di Roma, e quale storia vuoi che ti racconti?

Tullio Cassio          - Parlavi della tua figliola. Dovrebbe partire con la regina?

Jerubbaal                - (allarmato) Già... ecco... con la regina. E io vorrei parlare col rc. se tu volessi chiamarlo, o lasciarmi andare di là...

Tullio Cassio          - Non ti basta parlare con me?

 Jerubbaal               - Oh sì, mi basta: e come puoi dubitarne? Un simile onore al verme ch'io sono. Ma quello che devo dire... Insom­ma: occorre Aristobulo.

Tullio Cassio          - Credi forse che fra Aristo­bulo e me possano esservi dei segreti?

Jerubbaal                - No, certo; ma io... (timoroso) Forse è meglio che ti lasci. Aspetterò fuo­ri che il re si svegli, o si svegli Mar­docheo.

Tullio Cassio          - (insospettito) Rimani qui. (Sicuro). So tutto.

Jerubbaal                - (incerto) Sii... Ma allora perché, dianzi, mi hai domandato se la mia figliola parte con la regina?

Tullio Cassio          - (sempre più interessato) Te l'ho domandato per... per vedere se sapevi tenere il segreto.

Jerubbaal                - (sollevato) Ah, ecco. E d'altra parte è naturale: sei il romano. Allora posso dirti...

Tullio Cassio          - Tutto.

Jerubbaal                - Anche se non sono che il padre d'una regina per burla...

Tullio Cassio          - (frena a stento un sussulto) Parla, come parleresti al tuo re. (Chia­mando) Caio Lutezio!

Caio Lutezio          - (balzando dal sonno) Eh?

Tullio Cassio          - Svegliati!

Caio Lutezio          - Che c'è?

Tullio Cassio          - (un cenno d'intesa a Caio Lutezio, poi, a Jerubbaal) Dunque, per questa tua faccenda...

Jerubbaal                - Ieri ho detto di sì, e oggi dico di no. Capirai, ieri sono stato sorpreso, non ho avuto il tempo di ragionare. C'era Mardocheo, che aveva premura, e la ra­gazza, si sa, l'idea di andare a Roma, al posto della vecchia regina...

Tullio Cassio          - Già: una bella figliola.

Jerubbaal                - Oh, aquila di Roma: una stella, un giglio, una nuvoletta all'aurora.

Tullio Cassio          - E tu, oggi, non vorresti più lasciarla partire.

Caio Lutezio          - (vorrebbe parlare, ma un cen­no di Tullio Cassio lo trattiene).

Jerubbaal                - No, no, non è questo. Io vorrei... Vedi: ieri ho accettato i venti talenti che mi ha dato Mardocheo, ma oggi penso che sia troppo poco, anche perché non de­vo dir nulla di ciò che è accaduto, fuor della reggia, s'intende, e nemmeno mia moglie deve parlare, e questo, per mia moglie, è molto difficile, e bisogna pagar­la bene perché stia zitta: o pagarla o ba­stonarla; e io bastonarla non posso, non posso... perché non faccio in tempo a pren­dere il bastone, che già mi bastona lei.

Tullio Cassio          - Dunque, vorresti?

 Jerubbaal               - Almeno cinquanta talenti.

Tullio Cassio          - (violento, ma sempre a bassa voce) Vattene!

Jerubbaal                - Come?

Tullio Cassio          - Se non sparisci ti faccio frustare.

Jerubbaal                - Oh aquila di Roma! Ma allora...

Tullio Cassio          - Via!

Jerubbaal                - (sospinto fin sulla porta dalla voce e dai modi di Tullio Cassio, sparisce terrorizzato).

Tullio Cassio          - (dopo una breve pausa, a Caio Lutezio) Hai capito?

Caio Lutezio          - Incredibile! La regina Sa­lomé...

Tullio Cassio          - Sarà la figlia di quella vec­chia pecora. Aristobulo non vuole perdere le sue nuove province.

Caio Lutezio          - Ma la regina vera...

Tullio Cassio          - Vecchia, vecchia, Caio! Co­munque non vedremo Salomé, fra poco, bensì la figlia di Jerubbaal.

Caio Lutezio          - Ah no, Tullio Cassio! Bi­sogna sventare l'inganno, smascherare l'impostore. Insorgiamo, corriamo di là, sorprendiamo Aristobulo... (corre alla ten­da di fondo, fa per aprirla, ma, d'improv­viso, s'odono suoni di arpa e di flauti).

Tullio Cassio          - Taci... vengono... avvicinati e rimani qui, accanto a me... Silenzio!

Mardocheo             - (appare al fondo, e richiude die­tro di sé la tenda) Aristobulo re a Tullio Cassio, messaggero del divino Cesare, in­via salute. (Un colpo di tosse per schia­rirsi la voce, poi) Già i primi barlumi del giorno appaiono a oriente. Già le ultime tenebre della notte fuggono verso occi­dente. In mezzo al cielo non è rimasta che una sola stella, triste e abbandonata come il cuore del re.

Tullio Cassio          - (ironico) Vuoi dire che è giunta l'ora della conclusione.

Mardocheo             - (sempre solenne) Se tali fred­de parole potessero impunemente risonare in quest'ora.

Tullio Cassio          - Vorresti forse che parlassi come piace parlare a te?

Mardocheo             - No; ma come piace ascoltare a Salomé.

(Mardocheo scende nella sala. I romani si sono tutti alzati. Fuori appare il primo chiarore dell'alba. La musica continua. Lentamente, dopo che Mardocheo ha bat­tuto tre volte le mani, si apre la tenda di fondo. Tra rosse luci, Delila è ritta in ieratico atteggiamento, ornata di veli, gem­me, ori. Aristobulo è alla sua sinistra, col manto regale, desolatissimo; alla sua destra Abimelec; alte sue spalle i sonatori e, ac­canto ai sonatori, le guadie, te serve, i ser­vi che reggono incensieri fumanti).

Mardocheo             - (litaniando) Eccoti bella, regi­na nostra, eccoti bella.

Abimelec                - (rispondendogli) Giglio delle valli, rosa di Saron, cerbiatta delle montagne.

Mardocheo             - Tu sali dal deserto, simile a una colonna di fumo, profumata di mirra e d'incenso.

Abimelec                - Fonte degli orti, pozzo d'acqua viva, ruscello che scorri dal Libano.

Mardocheo             - Degnati di muovere i tuoi pie­di tinti di iosa come quelli delle colombe.

Abimelec                - Degnati di posare su di noi il tuo sguardo.

Mardocheo             - Degnati di udire la voce che ti parlerà.

(La musica tace. Delila è sempre immo­bile: un idolo).

Tullio Cassio          - (si avvicina a lei; la guarda; si accosta per guardarla meglio; la riguarda ancora da un lato e dall'altro, mentre gli occhi di tutti — Aristobulo, Mardo­cheo, Abimelec, Caio Lutezio — lo se­guono ansiosi; finalmente, dopo la lunga pausa, con inaspettata serietà) Regina Sa-lomé, nel nome del divo Claudio Domizio Nerone, imperatore e poeta, io,. Tullio Cassio, mi inchino a te.

Caio Lutezio          - (insorgendo) Tullio Cassio!

Tullio Cassio          - Che ha da dire il mio luo­gotenente?

Caio Lutezio          - (smarrito) Ma poco fa... tu stesso...

Tullio Cassio          - Non so che cosa tu voglia intendere, e non mi sembra, questo, il momento più opportuno per qualche tuo spro­loquio.

Aristobulo              - (inquieto, scambia sguardi con Mardocheo).

Caio Lutezio          - Tullio Cassio, quella vecchia pecora, prima che arrivassero..,

Tullio Cassio          - Quale vecchia pecora? Pri­ma che arrivassero tu dormivi, Caio. Ti hanno svegliato gli accordi dell'arpa. Non ti rammenti? Forse in quel punto sognavi la tua vecchia pecora, e ora confondi i tuoi sogni...

Caio Lutezio          - Ma non è possibile!

Tullio Cassio          - È così. Tu dormivi e sogna­vi. E anche adesso, probabilmente, dormi e sogni chi sa quali malinconie, mentre una simile bellezza splende dinanzi a noi. Non vedi Salomé? Non è questa la divina Salomé? Non senti rivivere, guardandola, la sua storia incantevole?

Caio Lutezio          - Tullio Cassio, non nego... ma pure...

Tullio Cassio          - Basta! (A Delila) Regina Salomé, perdona la vana diatriba. La bel­lezza trova sempre qualche luogotenente pronto a non credere in essa.

Aristobulo              - Ma io non capisco perché quel luogotenente...

Tullio Cassio          - Non c'è nulla da capire, Aristobulo, e non c'è nulla da dire. (A De­lila) Regina Salomé, tu sei la prima don­na che sia più bella di come io la sognassi. Delila (come prima: sempre immobile).

Aristobulo              - (felice) Sì?... (guarda Mardo­cheo insuperbito) Dunque, Tullio Cassio; ora vedi.

Tullio Cassio          - Vedo.

Aristobulo              - Ora comprendi le mie esita­zioni, i miei timori, i miei giuochi d'a­stuzia... Povero Aristobulo!... E che dirai, che penserai, fra poco, quando Salomé avrà rievocato la notte nella quale...

Mardocheo             - ...nacque la sua goria?

Aristobulo              - Nacque la sua gloria! Perché ora Salomé rievocherà quella notte, affinché tu possa misurare tutto il suo valore, e portarla a Roma come porteresti... co­me porteresti...

Mardocheo             - ...il suo stesso cuore.

Aristobulo              - Musici, al mio comando voi eseguirete la canzone che la regina Salomé v'insegnò, quella che, da allora, ella canta tutte le notti. Attento, Tullio Cassio: dovrai narrare a Cesare ciò che ora ve­drai. (Comincia a agire con atti ostentata­mente misteriosi: uno stregone) Salomé... (come ipnotizzata, Delila scende nella sa­la e quivi riprende la sua immobilità) Qui; rimani qui. Tullio Cassio, attento: io sono il tetrarca Erode buon'anima. Questo (accenna a Mardocheo) non è che il mio ministro, ma dirà ciò che disse, allora, la regina Erodiade; e Salomé... Sa­lomé sarà Salomé. (Pausa) Ecco: c'è la notte, col giardino, gli incensieri, le stel­le: ma non una notte come questa, una notte qualsiasi... bensì: quella notte. Ora io sono ancora nella sala del convito, coi miei cortigiani, ma Salomé è già sul ter­razzo, e a lei s'avvicina sua madre Ero-diade, ch'era anche mia moglie, dico la moglie di Erode.

Mardocheo             - (avvicinandosi a Delila e con­traffacendo la voce) Salomé.

Delila                     - Madre mia, il mio cuore si apre, per ascoltarti, come le rose al mattino.

Mardocheo             - (c. s.) Se quel demonio di tuo zio vorrà che tu danzi, dovrai dirgli: non danzo.

Delila                     - Io gli dirò: non moverò nella dan­za il mio corpo d'incantato serpente.

Mardocheo             - (c. s.) E se lui ti domanderà: perche no? gli risponderai: perché voglio che tu paghi la mia danza.

Delila                     - Perché voglio che la mia danza abbia da te la mercede che le conviene.

Mardocheo             - (c. s.) E allora egli ti doman­derà: che cosa vuoi?; e tu gli risponderai: voglio la testa del profeta.

Delila                     - Io gli risponderò: voglio la testa del profeta.

Aristobulo              - (intervenendo) Attenti. (Siede sul trono) Ora anch'io sono sul terrazzo, io, Erode Tetrarca, e dico a Salomé di danzare, e Salomé, come sapete, mi risponde che vuole la testa del profeta, e al­lora io, che sono impazzito per la sua bellezza, le dico di sì. Ma non subito. Pri­ma si discute, Ascoltate. (Recitando) No, Salomé, perversa figlia della tua perversa madre, non ti darò quella testa.

Delila                     - Tetrarca, per la luce delle stelle e per le fiamme del deserto, per i frutti della terra e per le onde del mare, io vo­glio quella testa.

Aristobulo              - Ti darò ciò che vorrai, ma non quella testa.

Delila                     - Nulla voglio, se non quella testa. E se non mi darai quella testa io... ah! io chiamerò i cavalieri di Numidia; io griderò: galoppate, galoppate, cavalieri di Numidia, io sono Salomé, che ha la notte negli occhi.

Aristobulo              - E allora... allora datele quella testa !

(/ musici, al comando di Mardocheo, co­minciano a sonare; Delila danza).

Aristobulo              - Ecco, Tullio Cassio; la musica di Salomé... Ah, io non posso più essere Erodc. sono di nuovo Aristobulo; e, al suono di quella musica, il mio cuore... il mio cuore... (cercando aiuto) Mardocheo!

Mardocheo             - (con un rapido cenno allude a Delila che danza e ordina al re il silenzio).

Aristobulo              - (segue il cenno di Mardocheo, vede Delila, la guarda e, a poco a poco, si entusiasma di lei ed esprime il proprio entusiasmo con sguardi, gesti, sospiri, sor­risi, fino a quando, terminata la danza, Delila si arresta, e la musica si conclude).

Delila                     - Tetrarca, ho danzato.

Aristobulo              - (lasciando il trono, dimentico della finzione) No, non fermarti. Dan­za ancora. Era così grazioso quel tuo mo­do... ancora, ancora!

Tullio Cassio          - (impaziente) Re Aristobulo, è l'alba.

Aristobulo              - Non è vero. L'alba è ancora lontana. Non è l'alba quel barlume che tu vedi. È la luna che tramonta.

Tullio Cassio          - Non c'era luna questa notte.

Mardocheo             - (ad Aristobulo) Il romano ha ragione.

Aristobulo              - (con sincera tristezza) Ma non vorrete partire così... ancora un poco di festa...

Tullio Cassio          - Ci aspettano a Roma, le feste, e anche lungo il cammino.

Aristobulo              - Ma saranno per voi, non per me. Io me ne rimarrò qui tutto solo, sen­za più questa bellezza... (è accanto a De­lila, quasi l'abbraccia) Ancora una pic­cola danza.

Tullio Cassio          - (perentorio) Caio Lutezio, fa sonare le trombe. Voglio il mio cavallo alla porta, subito, e il baldacchino della regina.

Caio Lutezio          - (esce).

Aristobulo              - È male, Tullio Cassio, quello che tu fai: io ho accondisceso a darti ciò che volevi...

Tullio Cassio          - Riceverai in consegna i tuoi nuovi dominii, forse domani stesso, dal governatore. (Le trombe squillano).

Aristobulo              - (prorompendo) No, non voglio, non voglio! Per quattro sudice province... Niente affatto! Tienti le tue province; di' a Cesare che Aristobulo non sa che farsene.

Mardocheo             - (a Tullio Cassio) Non dargli retta!

Aristobulo              - E chi è il re, dunque? Sei tu, forse, il re? O è Tullio Cassio, il re? Io sono, io, e voglio dire ciò che ora penso, ciò che sento... Tullio Cassio, puoi ripar­tirtene. Io non intendo più accondiscende­re al vostro mercato. Quattro province non pagano la mia Salomé.

Tullio Cassio          - (freddamente) Ma pagano assai bene la figlia di Jerubbaal.

Caio Lutezio          - (mentre rientra ode le parole di Tullio Cassio e sobbalza. Tutti gli al­tri sono immobili, impietrati. Di fuori giungono voci, calpestio di cavalli, tintin­nio di sonagliere).

Aristobulo              - (in un soffio, dopo una pausa) -Mardocheo...

Caio Lutezio          - (gioioso) Ma allora non è vero ch'io abbia sognato.

Tullio Cassio          - (dopo averli guardati a uno a uno) Poveri noi! Quanta fatica per dare realtà a una bella fiaba; o, meglio, quante menzogne per creare una bella realtà!

Mardocheo             - (cercando argomenti) Ma che cosa hai voluto dire? Chi è quella fi­glia...? quel Jerubbaal?

Tullio Cassio          - Non affannarti, Aristobulo. Questa non è Salomé.

Aristobulo              - Mardocheo, hai sentito?

Tullio Cassio          - Non è Salomé... ma (con in­tenzione) può ottimamente essere Salomé. (Ad Aristobulo) Non hai dimostrato di pensarla così, or ora, tu stesso? E io stes­so, per quanto un generale d'armata può subire simili avvenimenti, io stesso, quan­do l'ho vista, non ho forse deciso d'accet­tarla per vera, pur già sapendo che non lo era?

Aristobulo              - Ma no, no... Mardocheo!

Mardocheo             - Tullio Cassio, tu sciupi la tua eloquenza. Quello che dici non ha ra­gione.

Aristobulo              - Nessuna ragione!

Mardocheo             - A meno che tu non lo faccia per convincere il re ad arrendersi, a lasciartela...

Aristobulo              - Ma io sono già convinto. Il mio malumore è passato. Povero Aristo­bulo!

Mardocheo             - (sempre a Tullio Cassio) Tu hai parlato d'un Jerubbaal, d'una Sa­lomé non vera... Ah, Tullio Cassio: pet­tegolezzi!

Aristobulo              - SI, sì, pettegolezzi! Se tu sa­pessi come sono pettegoli i miei sudditi!

 Tullio Cassio         - Per i re e i governatori, i sudditi sono sempre pettegoli.

Mardocheo             - E non lo sono, forse, per i ge­nerali d'armata? Pettegolezzi, ti dico: ignobili insinuazioni.

Aristobulo              - (intimidito, quasi umiliato) Cre­di, credi, Tullio Cassio; puoi partire tranquillo con lei... (a Delila) con te, Salomé.

Delila                     - (rabbrividendo) Ho freddo. (Le serve accorrono ad avvolgerla in un manto).

Tullio Cassio          - (guarda ancora Delila, sorri­de) Forse, Aristobulo, hai ragione.

Aristobulo              - (un'esclamazione di sollievo e un cenno d'intesa con Mardocheo).

Caio Lutezio          - Ma no! Se è vero ch'io non ho sognato deve pur contare ciò che ha detto quel vecchio.

Tullio Cassio          - Caio, non hai inteso? Pet­tegolezzi !

Caio Lutezio          - Tullio Cassio, perdona: ma non mi pare questa una tesi da accettarsi con tanta facilità. (Ambiguo) A meno che non ti piaccia molto.

Tullio Cassio          - Che?

Caio Lutezio          - (precipitoso) La tesi, natu­ralmente: voglio dire che ti piaccia mol­to la tesi.

Tullio Cassio          - (come chi tende a una mira segreta) Regina Salomé, tu non hai nulla da dire al mio luogotenente?

Delila                     - Tullio Cassio, io non ho neppure ascoltato ciò che voi avete detto. Mentre parlavate, sognavo. E adesso... adesso mi duole il cuore nel lasciare la mia reggia, il mio popolo, il mio sposo...

Aristobulo              - (al romano) Senti?

Delila                     - ...e, ciò nonostante, pur dolendo, il mio cuore già vola sulla via di Roma. Io vedo il deserto, Tullio Cassio; io ve­do... Caio Lutezio; vedo le nostre lunghe notti all'addiaccio, sotto le stelle. Le lan­ce dei vostri soldati saranno intorno a noi, per difenderci, proteggerci... Caio Lute­zio, tu dovrai narrarmi lunghe storie pie­ne di sogni. E io, ascoltandoti, sorriderò.

Caio Lutezio          - (turbato dalle parole e dallo sguardo di lei) Eh, sì... proverò... pro­verò a fare quello che dici... (risolutamen­te) Tullio Cassio, hai ragione: pettegolezzi. Ma che sudditi,, che sudditi!

Tullio Cassio          - (fra il sollievo di tutti) E dunque andiamo. Regina Salomé, vorreb­be la tua divina grazia accondiscendere? (le porge la mano).

Aristobulo              - No, aspetta. L'accompagnerò io. Abimclec, precedi con le guardie e manda avanti i musici. Scorterete la re­gina fino alle soglie del deserto (Abime-lec s'avvia con le guardie e i musici) e io l'accompagnerò fino alla porta dei miei giardini. Dammi la mano, regina Salo­mé: e tutti i tuoi pensieri, in questo mo­mento, siano per il povero Aristobulo. An­diamo.

 (Musica. Tutti escono. La luce triste del­l'alba invade la sala vuota. Voci, cal­pestio e musica si allontanano. Dal fon­do, in punta di piedi, entra Salomé. Si af­faccia alla porta di sinistra: guarda e ascol­ta; poi vede il lettuccio disordinato, lo riordina, raccoglie una coppa caduta, si muove senza rumore, scotendo piano il ca­po sul ritmo della musica oramai lonta­nissima; finché Aristobulo non appare sulla soglia, lento, imbronciato).

Aristobulo              - Ah... sei tu... E riuscita, sai? È stata un po' complicata, ma è riusci­ta... Bisognerà, però, far bastonare Jerub­baal. Non doveva parlare! Ci penseremo. (Sbadiglia, si adagia sul lettuccio).

Salomé                   - Sei stanco?

Aristobulo              - Tanto!... E poi, non so... nien­te allegro, il tuo Aristobulo!

Salomé                   - (sedendo accanto al Re) Hai biso­gno di dormire.

Aristobulo              - Forse... Ma pensa, pensa che bellezza, se tutto fosse stato vero!

Salomé                   - Vero in che modo?

Aristobulo              - (a poco a poco assopendosi) -Se quella ragazza fosse proprio stata Salomé, la principessa sempre giovane, e io l'avessi dovuta lasciare...

Salomé                   - Ti pare che sarebbe stato bello?

Aristobulo              - Sì... non so perché, ma penso che sarebbe stato bello.

Salomé                   - Eppure non ci sarei io, qui, accan­to a te, a consolarti: io, la vera Salomé, la madre dei tuoi figlioli.

Aristobulo              - Quei diavoli!

Salomé                   - Saresti solo, sperduto, triste, assai più di adesso. E anch'io sarei triste, se fossi sulla via di Roma con quegli stra­nieri: triste e sola, nonostante la giovi­nezza e la bellezza che avrei.

Aristobulo              - Sei buona, Salomé. La vera Salomé è soltanto buona. La moglie di Aristobulo. E, in fondo in fondo, non mi dispiace d'essere qui... ho un po' freddo... (Salomé lo copre) non mi dispiace di sen­tirti vicina, mentre mi addormento... per­ché io, adesso, mi addormento... già non capisco più, non ricordo... Domizio Clau­dio Nerone è imperatore e poeta... io sono soltanto Aristobulo... (si addormenta). (La luce cresce. I galli cantano).

Una serva               - (affacciandosi dal fondo, dopo una pausa) Regina Salomé.

Salomé                   - Piano!

La serva                 - Filippo si è svegliato. Piange.

Salomé                   - Sta male?

La serva                 - Non so. Ti vuole.

Salomé                   - Vado subito. E tu bada che nes­suno entri. Mettiti sulla porta e...

La serva                 - (si dispone sulla porta di sinistra).

Salomé                   - (avviandosi verso il fondo) ...non fiatare! Il re dorme. (Esce).

FINE