Stampa questo copione

Nerone

Nerone

ATTO PRIMO

(Il matricidio)

Un quadrilatero di pareti grige; quella di fondo è ridotta a breccia da due bastioni che profilano una vasta crepa per cui dilagano all’interno il suono di una vicina risacca e i sentori della notte.

Ai lati, in avanti, due colonne dall’enorme diametro.

Segni architettonici grossolani e possenti per accennare al locale di una ‘domus’ in cui si immagina una stanza da letto. Nuda, segnalata solo da mucchi di lenzuola ammassate, come vele estenuate da una tormenta.

La luce che accende la scena fa appena in tempo a cogliere il gesto, forse pietoso, di uno sgherro che cala, con la sinistra, un telo chiaro su un corpo di donna rovesciato in terra.

Ma è un istante, e il cadavere subito scompare sepolto dalla stoffa.

Lo sgherro impugna, con la destra, una daga lucente di sangue. Anche il polso e l’avambraccio ne sono imbrattati, e così i suoi paramenti da macellaio.

L’uomo indossa una maschera di cote lustra e secca.

Come lui, altre tre figure ronzano a mosse lente attorno alla carcassa.

Tutte armate, e tutte similmente luride.

Sono ombre di cuoio. Così le chiameremo.

Il taglio nelle maschere all’altezza della bocca rende le loro voci uguali l’una all’altra. O come quelle di un’Idra dal corpo scisso in più teste.

E’ difficile, insomma, capire chi dia la replica a chi.

Ne viene una polifonia sorda, priva di smanie. Come di chi abbia già esuarito le energie che aveva messo in conto di spendere.

Il mare non  lo si vede, ma lo si sente.

Poi, nel chiarore del manto che fa da spoglia, iniziano ad affiorare aloni sanguinolenti stampati, di sotto, dal corpo involtato ed eruttante.

Le quattro ombre ne sono attratte, e avviano una strana gara puntando i loro ferri come dita a riconoscere le diverse ferite da cui si spande il sangue.

 

PRIMA OMBRA: Mia.

SECONDA OMBRA: Quale?

PRIMA OMBRA: Quella.

TERZA OMBRA: E quella è mia.

QUARTA OMBRA: Dove?

TERZA OMBRA: Sta arrivando.

SECONDA OMBRA: Nel fianco, lì, è mia.

PRIMA OMBRA: Là di dietro, ancora mia.

QUARTA OMBRA: Lì dalla testa, la riconosco: è mia.

TERZA OMBRA: Nel fianco sono due, quell’altra è mia.

QUARTA OMBRA: Dritto in faccia, però, chi è stato? Io.

TERZA OMBRA: Facile, a caso.

SECONDA OMBRA: Eccone un’altra.

PRIMA OMBRA: Se tra le gambe, è mia.

QUARTA OMBRA: Se tra le gambe, è mestruo.

TERZA OMBRA: Sicché era vergine.

PRIMA OMBRA: E Nerone non esiste.

TERZA OMBRA: Sicché, ma intanto fatto.

PRIMA OMBRA: Sicché ora è tutta fiche.

QUARTA OMBRA: Madre di Re, succhiati il Re.

SECONDA OMBRA: Madre di Re, succhia anche me.

TERZA OMBRA: E ne versa, continua.

QUARTA OMBRA: Vera cisterna.

SECONDA OMBRA: Come sgronda da sotto!

TERZA OMBRA: Il meglio dei suoi liquidi se lo teneva lì.

QUARTA OMBRA: Col suo cervello.

SECONDA OMBRA: Che è solo buco.

PRIMA OMBRA: Tutta poltiglia che andrà fatta arrosto.

(Dal fondo entra Atte. Una liberta. Bella come una puttana imperiale. Quello che è: la possiede quando può Nerone.

E’ scarmigliata, ma perché le piace esserlo.

Va a inginocchiarsi presso il panno ormai completamente invaso di sangue e d’altro; lo solleva e osserva, mentre le ombre arretrano e zittiscono.

Sotto le loro maschere possiamo immaginarle, chissà perché, terrorizzate)

ATTE: Dice che non può essere esposta così sul rogo. Che prima va riparata.

PRIMA OMBRA: Il principe non ci ha dato limiti.

ATTE: Non riferisco parole di Nerone, ma di Seneca. Portatela di là. Ha mandato il suo chirurgo per ricucire le ferite più inguardabili. (Poi fermandoli)  No, non tutti.

(Le ombre, che già si stavano accostando, rimangono di pietra.

Atte, alzatasi, va loro di fronte come a passarle in rassegna una ad una.)

ATTE: Uno tra voi dovrebbe essere quello col marchio giallo. Chi?

(Nessuna delle ombre si azzarda a rispondere)

ATTE: Tu?... (silenzio)  Tu?... (silenzio)  Nemmeno tu?... (silenzio)  Allora tu! (Silenzio). Basta un appello a farvi paura. Cos’è? Un’accusa contro il vostro principe?... (Le ombre scuotono il capo)  Oggigiorno pare che mantenersi in vita sia divenuta una scelta politica. Solo che bisogna dimostrarsi all’altezza. (Silenzio)  Strano. Ero sicura che tra voi avrebbe dovuto esserci Epafrodito. Non c’è? (Silenzio)  Il mio Nerone sta venendo per parlargli. (Una pausa)  Il nostro Nerone.

(Ancora una pausa, poi una delle ombre si decide ad avanzare di un passo)

ATTE: (Agli altri) Portatela a rappezzare. (All’ombra venuta avanti)  Tu rimani.

(I tre a cui è consentito andare si caricano il corpo avvolto nel suo sudario e lo portano via passando oltre una delle colonne frontali.

Atte va a levare la maschera all’ombra rimasta, che rivelerà una faccia tinta di vernice gialla. Con sgorbi da pellerossa)

ATTE: (Togliendogli anche la spada dalle mani)  Nerone reclamava il suo segretario particolare e non l’ha trovato. Come mai?

EPAFRODITO: Seneca. Voleva che ci fossi anch’io. Perché poi riferissi. E ha detto pure che ne avrebbe risposto per me.

ATTE: E ora perché sbianchi? La sua garanzia ti pare da poco?

EPAFRODITO: “Disobbedire a me è disobbedire a lui”. Così m’ha detto.

ATTE: E questo sangue?...

EPAFRODITO: Lo sai di chi: di Agrippina.

ATTE: Nientemeno. Della madre di Cesare. Hai ucciso la madre di Cesare.

EPAFRODITO: Ma l’ordine era...

ATTE: Non per te. Hai ucciso la madre di Cesare, e lui non te l’aveva chiesto.

EPAFRODITO: Ma se questa morte gliel’ho sentita invocare presso gli Dei!...

ATTE: E quale sarebbe il tuo posto nell’Olimpo?

EPAFRODITO: Ma Seneca ha detto...

ATTE: Hai il muso di un canarino e vai in giro a uccidere madri di imperatori! Io credo che tu abbia molto più coraggio di quanto non dimostri.

EPAFRODITO: (Crollandole ai piedi)  Oh Atte, ma tu sai qualcosa? Che mi si vuole fare?... Ti scongiuro, intercedi per me!

ATTE: Non ti vergogni a implorare la sua puttana?

EPAFRODITO: Io imploro la donna più potente del regno.

ATTE: Quel che ho detto: la sua puttana! (Prendendolo per i capelli e rovesciandogli la faccia all’insù)  “Seneca dice, Seneca dice”... Seneca dice che tu così mi chiami. Ma se per te l’essere puttana significa tanto, non posso che ringranziarti. (sempre strattonandolo, quasi distrattamente, per la capigliatura) Cos’è che sarebbe il mio deretano? Il talamo di Cesare!?... E ogni mia fessura?... Una corona per il suo uccello!... Mi riconosco in pieno. Allora? Chi preferisci che interceda per te? L’uomo più potente del regno, o la donna più potente del regno. Un filosofo, o una puttana? Chi?

EPAFRODITO: Tu... fallo tu!

(Atte lo molla lasciandolo ricadere in terra)

ATTE: Con Agrippina ti sei trovato più a tuo agio?

EPAFRODITO: Seneca voleva solo che fossi con gli altri per poter rendere testimonianza. Tutto qui, nient’altro.

ATTE: E perché?

EPAFRODITO: Forse, prima di essere giustiziata, avrebbe potuto dire cose che gli altri  sarebbe stato meglio non sentissero. Per questo.

ATTE: E, che tu sappia,  chi fra i tuoi compagni era incaricato di controllare te?

EPAFRODITO: Cosa c’entro io se ero qui per loro?...

ATTE: Le tortuosità di una puttana sanno essere molto più ardite di quelle di un filosofo.

EPAFRODITO: Io non posso che fare da testimone a me stesso.

ATTE: Un buon procalma. Te l’ha confezionato il tuo Seneca come antidoto?

EPAFRODITO: Lui non è il mio Seneca, è solo il primo fra i servi del mio signore.

ATTE: Questa pure mi sa che non è tua.

EPAFRODITO: Sono le sole parole che ho per pronunciare il mio pensiero.

ATTE: Niente è tuo. Neanche il tuo pensiero. Ma neanche il nome che porti. Epafrodito. Non si chiamava così il primo pupillo del nostro Nerone?...

EPAFRODITO: Prova a dirglielo e ti sgozza. Lui ci crede e non vuole che si sappia.

ATTE: E’ un vero artista, Cesare, e questo lo dimostra. Sa forgiare fantasie a cui è capace di credere lui per primo. Tutti a Roma lo sappiamo come gliel’abbiano ucciso presto quel suo primo valletto. Anch’io lo so, non so tu. E come da allora voglia vivere convinto che il suo Epafridito non sia morto e non possa mai morire. Ma poiché a crepare siete in molti, lui insiste implacabile a rigenerarvi. Vi rifà simili tingendovi la faccia e ridandovi lo stesso nome. La vuoi una confidenza? Ti viene dalle mie lenzuola, puoi crederci.  Ha già una lista lunghissima di altri che ti somigliano e che t’incalzano alle spalle a tua insaputa.

EPAFRODITO: Non è vero. Quell’Epafrodito che dici è stato l’unico. Dopo di lui, solo io e basta.

ATTE: Ah, sì?... E com’è che io ne ho conosciuti già quattro di Epafroditi? Quattro. Sei buffo: riesco a vederti impallidire anche sotto la pittura.

EPAFRODITO: Perché lo fai?... A che ti serve trattarmi così?

ATTE: Si dice che, dopo il suo precettore, Nerone non abbia orecchie che per te. Ma stanotte le cose sono cambiate, e vorrei capire quale il mio nuovo posto nella gerarchia. Un consiglio: non eccedere nel pronuciare il nome di Seneca dando a intendere di essere tu il primo di cui si fida. Converrà a te, ma non a me. E questo non ti conviene. Anch’io, spesso, sono messa a parte delle strategie del vecchio, e da lui in persona. Per cui... via questa spada (la getta). Tu non l’hai mai impugnata. Nessuno ti ha mai chiesto di farlo e non è sato lui a mandarti qui. Abbastanza chiaro?... E’ Atte che, a nome di Seneca,  è venuta a dire cosa andasse fatto per dare uno straccio di dignità a ciò che fu voluto da Nerone, ma concepito dal suo maestro. Abbastanza chiaro, Epafrodito?... Al posto tuo mi rifarei un po’ di trucco, ti sta colando. (Dandogli della cipria)  Sbrigati, o si riconoscerà troppo chi sei.

(Per quanto beffarda, l’offerta di Atte non viene ricusata. Epafrodito prende la cipria e prova a rabberciarsi la tintura ma combinando un bel pasticcio.

Atte ride di lui che, allarmatissimo, va in cerca di una superficie in cui specchiarsi.

Entra, dal fondo, Nerone. Svagato e melanconico.

Già sulla soglia pronuncia le sue prime parole, che poi lascia lì sospese)

NERONE: Bestia. M’ha detto: bestia. Ma senza rabbia. Mah, non so... non capisco.

(Avanza senza badare né ad Atte né a Epafrodito. Guarda la stanza. Si aggira andando distrattamente a caccia di dettagli. Prende tra le mani qualche suppellettile; lo osserva. Sembra che ricordi. Come uno che ritorni in una casa in cui sia vissuto a lungo e che abbia lasciato da tempo. Si direbbe che gli prudano le spalle; ma ha le mani ingombre e prova a scacciar via il fastidio contraendo i muscoli delle scapole)

NERONE: Che luna matta! Si è messa in testa di rimanermi appiccicata addosso. Colpa del mare. La luna quando si impasta col vento delle coste me ne combina di tutti i colori. E prude. Insomma... quello m’ha detto proprio ‘Bestia’... “E’ lui la bestia”. ‘Lui’... Parlava a me, e mi chiamava ‘lui’. ‘E’ lui la bestia’. Ah, questa Luna... mi è colata dapertutto! (Prova a grattarsi, lo fa anche freneticamente ma con difficoltà poiché insiste a non lasciare gli oggetti che ha in mano. Soprattutto uno, che scopriremo essere una statuetta. Ora indirizzandosi ad Atte...)  Perché la luna, con me, fa così. A volte mi entra nei vestiti come vetro grattuggiato. Tu credi che siano graffi tuoi, invece è lei.

ATTE: Che c’entra parlare di bestia?

NERONE: Orribile, vero!... Me l’ha detto in sogno, che potevo fargli?

ATTE: Ma chi?

NERONE: Un uomo molto magro. E vecchio. Mi stava lontano, ma col braccio arrivava quasi a toccarmi. Ah, e aveva un libro! Io mi domandavo se lo stesse leggendo o se lo stesse scrivendo. Poi ho capito che faceva entrambe le cose insieme. Componeva una frase, e subito si sorpendeva per quello che aveva scritto. Allora sollevava lo sguardo su di me, e la sua frase sai che faceva? Gli scorreva lungo il braccio alzato e mi si versava addosso, da qui: dall’unghia che era adunca come un uncino, e mi macchiava tutto di porpora costringendomi a sentirla. “Lui sta venendo”. Cioè: io, capisci?... “Lui percorre il mondo che lo accoglie in silenzio”. Sempre io, capisci?... Quel ‘lui’ ero sempre io. Per questo dico che è strano. (Ad Atte, mostrandole la statuetta che ha preso in mano)  Sai, amore mio, questa testa di Giano è il primo regalo che abbia fatto a mia madre da quando sono principe. Lei dice che lo tiene come il più caro dei miei doni. Più di dieci anni fa. L’ho fatta io. Mi piaceva impastare la terra. Dare forme alle cose. L’ho sempre trovata molto brutta. Lo è, non è vero?...

ATTE: No, per niente. Anzi. Sembrerebbe di uno sculture autentico.

NERONE: (Dandogliela)  Guardala bene. A me pare bruttissima.

(Atte osserva l’oggetto da ogni lato, ma in tutta franchezza non sa che aggiungere)

NERONE: Grazie, m’hai risposto. Siamo perfettamente d’accordo. (A Epafrodito)  E tu che mi dici?...

(Ed Epafrodito si ritrova, a propria volta, quell’imbarazzante testina tra le mani)

NERONE: O povero il mio prediletto... ti capisco, sai... il problema non è da poco. Che sarà preferibile? Lusingare la vanità del principe dandogli torto e dicendo: “Non la penso come te, Cesare: è bella”, o assecondarlo confermando la mediocrità della sua ispirazione dichiarando: “Come sempre hai ragione, Cesare: è orrenda”?

EPAFRODITO: No, Cesare! Orrenda no!

NERONE: (Recuperando la statuetta)  Ringraziami. Se avessi detto ‘brutta’ non avresti potuto salvarti così a buon mercato. E’ stato un mio gentilissimo dono quest’orrenda che ti ha consentito una via di mezzo altrimenti impossibile. Sii gentile, Epafrodito... t’ho chiesto di ringraziarmi.

EPAFRODITO: Grazie, Cesare.

NERONE: Invece è davvero orrenda. L’avessi regalata a un’amante... ma pretendere di offrirla a mia madre... o no, non ho mai fatto niente di più atroce(e lanciando con mossa indolente la statuetta, la manda in mille pezzi).

ATTE: Ti sarà servita, perlomeno, a intuire che l’arte doveva essere nel tuo destino.

(Nerone la guarda come se lei gli si fosse rivolta in una lingua ignota)

NERONE: Sai di cosa soffro, Atte?... Di essere confuso spesso con i miei predecessori. Tante volte mi si teme come se io fossi uno di loro. Ma come? Se io stesso sarei morto di spavento a trovarmici di fronte?.... Dì, Epafrodito... cornucopia di tutte le virtù... mi sai spiegare perché prima ti sei sciolto in flussi di merda solo a sentirti richiedere un’opinione? Mi dicono voci che fosse questa la maniera di comportarsi davanti a Caligola. O al vecchio Tiberio. Ma io non sono abituato a parlare con i miei amici tenendoli in piedi sul bordo di piscine infestate da murene. Io no. A me non interessano le spose dei miei amici. A me no. Eppure è così: mi corre dentro una violenza che non nasce con me, ma che io sono costretto a far proseguire in me. E’ molto doloroso. Molto molto molto molto. Moltissimo doloroso. (Andando a grattarsi compulsivamente la schiena contro uno spigolo)  Pensavo di averne avute a sufficienza per stanotte, invece no. Com’è vero che solo gli amici hanno totale potestà su di noi. Nulla è degno di intristirci seriamente, tranne l’amico incapace di confortarci.

ATTE: Non mi sento chiamata in causa. Se parli di amici, non parli di amanti.

NERONE: Quando gli amanti non sanno essere amici.

ATTE: L’amico addormenta l’amante, e l’amante fa piazza pulita dell’amico.

NERONE: Sbagli. Se a legare due amanti è il membro e non è l’utero, lo sponsale può compiersi perfetto. (A Epafrodito)  Di te, ad esempio, chi potrebbe dire che non sarai sempre dove sarò pur io?

EPAFRODITO: Nessuno, Cesare. La mia esistenza è fatta per compiersi nella tua.

NERONE: Eppure come mai ogni tanto mi volto e non ci sei? Oggi, ad esempio... è da stamane che mi provo a vederti e non ti vedo, a sentirti e non ti sento. Mi sveglio, apro gli occhi... e Epafrodito?... Non c’è. Mangio, mi guardo allato... e Epafrodito? Non c’è.

EPAFRODITO: Se non sono con te sarà perché lavoro per te.

ATTE: O forse perché chi sta agli ordini di Cesare non è solo agli ordini di Cesare.

NERONE: Bella freccia per non dire: ‘di Seneca’! Non c’è dubbio: divido nefandezze col cervello più virile dell’Impero. (A Epafrodito)  Vieni qui, mio intramontabile sollievo, fammi da scudo tu! (Epafrodito lo raggiunge e si lascia cingere alla vita)  Dimostriamo a questo impasto di arguzie l’eccellenza dell’affetto che ci fonde. Per essere amici siamo amici... un punto su cui spero tu sia d’accordo.

EPAFRODITO: Oh, mille volte amici. Sino ai limiti di quanto mi consenti.

NERONE: E questo è assodato. Poi. Raccontale un po’ cos’altro hai assaggiato di mio oltre quest’amicizia che nessuno al mondo potrebbe mai negare.

EPAFRODITO: Beh... tutti i tuoi benefici, direi.

NERONE: Non a me: a lei, a lei! Spiegalo a lei.

EAPFRODITO: Dicevo... penso tutti i tuoi... i suoi benefici, soprattutto.

NERONE: Ossia?

EPAFRODITO: Ah, beh... la carica che ho... il prestigio di cui m’investi...

NERONE: Come sei pudico. A te bisogna imbeccarti sempre.

ATTE: E già, muso di canarino!

NERONE: (A lui)   Sù, avanti, avanti!

EPAFRODITO: Tutto quello che ho. I miei beni. La casa dove vivo.

NERONE: Ah, ma sei duro! E va bene, mettiamola così. (Toccandolo sui glutei)  Sei vergine tu?

EPAFRODITO: Lì sì, Cesare.

NERONE: Sicuro?

EPAFRODITO: Ma sì. Sicuro.

NERONE: Tu vergine?... Qui?...

EPAFRODITO: Vuoi che non lo sappia?

NERONE: Strano. Io invece so tutt’altro. 

EPAFRODITO: Ma se dici lì, ti assicuro che sono vergine.

NERONE: Che bugiardo! O forse non ti ricordi bene. Sarà perché non ti frequento più da tempo. Tu che dici: può essere per questo?

EPAFRODITO: Io non lo so, Cesare... ricordare che?...

NERONE: Come ‘ricodare che’!?...Ma se non c’è uomo o donna che riuscirebbe a darsi più di quanto ti sia dato tu a me? Allora? Ti ricordi o no? O sta’ a vedere che mi sbaglio!... Non sei Epafrodito tu?

EPAFRODITO: Ma certo che lo sono.

NERONE: E allora?

ATTE: (Rasentando Epafrodito, quasi a buttargli la battuta in un orecchio) Il secondo della lista si faceva sbattere tutte le notti. E poiché tu sei lui, sbrigati a ricordartelo.

NERONE: (Scurendosi)  Il secondo di quale lista? Non capisco...

ATTE: Niente. Un gioco nostro di prima.

NERONE: Io non so di nessuna lista.

ATTE: Ma appunto. Era per un’altra cosa che non c’entra affatto.

NERONE: (All’altro)  Allora fingevi. Come una puttanella qualsiasi! I tuoi mugolii non erano che esercizi vocali e nient’altro. Sicché, è vero! L’amico imbecillisce l’amante e l’amante sbudella l’amico. Ma è tremendo.

EPAFRODITO: Ucciderei chi fingesse con te.

NERONE: Frasacce! Ci vomito sopra. Io voglio risposte. Ti ricordi o no?...

EPAFRODITO: Un poco... un poco forse sì, Cesare.

NERONE: E cosa?

(Epafrodito cerca con sguardo smarrito aiuto presso Atte)

NERONE: Ti supplico, dimmi che!... Ho bisogno di sentirmi dire cose belle. Belle! Belle! Belle! Belle! Tu puoi. Ma lo vedi in quale notte mi trovo a vivere!... Ho bisogno di ricordi belli. Ho un bisogno disperato dei nostri ricordi insieme, Epafrodito... ne ho talmente pochi altrove. Ridammeli! Ti scongiuro, ti scongiuro, ti scongiuro!... (E scivola giù ad abbracciare le caviglie del suo liberto, che ancora insiste a chiedere conforto ad Atte, ma quasi non più perché lo salvi, quanto perché lei gli suggerisca le parole da dire. Nerone solleva il volto a guardarlo. Non potrebbe essere più vero di così)  Perché non vuoi? Non ti costa nulla. Giuro... non ti chiedo ricordi per chiederti altro, ma solo ricordi e basta.

EPAFRODITO: Mi hai... mi hai dato molto piacere, principe.

NERONE: Eh?...

EPAFRODITO: Mi hai dato mo...

NERONE: (Tirandosi sù in ginocchio)  Non sento. Più forte!

EPAFRODITO: Mi hai dato molto piacere, principe.

NERONE: Tu! Sei tu che ne hai dato a me. Ma ancora! Voglio sentire ancora.

EPAFRODITO: Non pensavo che un uomo... che non una donna ma che un uomo potesse darmi quello che una donna... (Nerone lo guarda torvo)  che un uomo... che nessun altro uomo... in quel modo, con quella forza...

NERONE: Parlami del mio membro, Epafrodito.

EPAFRODITO: Io... l’ho amato tanto.

NERONE: Oh, lo so. Tu lo capivi molto più di quanto non lo capisca lei. Ti fa piacere sentirtelo dire?

EPAFRODITO: Certo, molto.

NERONE: Ti commuove?... Davvero?...

EPAFRODITO: Molto. Molto, sì. Grazie, Cesare.

NERONE: Ti ho fatto soffrire tanto scegliendone un’altra?

EPAFRODITO: Se per il tuo godimento...

NERONE: Ma dunque lui non ti manca? Nemmeno un po’?

EPAFRODITO: Mi basta essere certo della sua felicità.

NERONE: Possibile che non vuoi altro?

EPAFRODITO: Non più quello che non posso più avere.

NERONE: Ti prego, non essere terribilmente buono con me o mi affogherai nei rimorsi. (Parlando, gli si accoccola con la testa sul grembo)  Atte è una vacca meravigliosa, ma ci voleva il soffio di Giunone a darle la forma che ha; e lei l’ha ricevuto quel soffio capace di avvolgere invisibile le creature che predilige. Solo pochi, pochissimi, sono destinati a percepirlo, e quei pochissimi non hanno scampo: se incontrano il prediletto, gli rimarranno avvinti senza pietà per sempre. Come io a lei. Senza nessunissima pietà. Mi perdoni? Ma voglio un sì o un no, niente espressioni tornite! Mi perdoni sì o no?

EPAFRODITO: Sì.

NERONE: Chiamami per nome e ripeti che mi perdoni.

EPAFRODITO: Ti perdono, Nerone.

NERONE: (Con un soprassalto) Lei che fa?... Sta lì?...  Mi sta ascoltando?...

EPAFRODITO: E’ un po’ distante, non mi sembra.

NERONE: (Si risdraia)  Il soffio di Giunone è ogni volta diverso per ciascuna delle sue prede. E’ un marchio che dipende dalla carne in cui si stampa. Vuoi sapere, ad esempio, cos’è che fa denso attorno ad Atte il vento che la fascia?... L’odio che prova per lei mia madre. Lei dice no, e io sì. Lei no; io sì. No! Sì! - No! Sì! - No! Sì! - Sì! Sì! Sì! Sì! E questo mio sì è per me l’estremo della lascivia, ma così non sarebbe se non maciullando stritolando incenerendo quel no in cui Agrippina versa sino all’ultima goccia tutti i succhi del suo malumore. Nessuno deve venirmelo a spiegare. Lo so da me perché amo chi amo. Lo so da me a che mi serve Atte. E chi non capisce mi tradisce, ecco che penso. Per questo, forse, mi hai sentito un po’ distante negli ultimi tempi: ho dovuto troppo badare a me stesso. Ma non confondere le cose. Sarebbe inclemente giudicare male l’amico che vediamo battersi  per la sua sopravvivenza.

EPAFRODITO: Chi veda l’amico battersi per la propria vita, ha poco da giudicare. Deve restargli affianco e basta. 

(Nerone, d’improvviso, si tirà su con la schiena come distratto da chissacché)

EPAFRODITO: Cesare... che cerchi?...

(Nerone si avventura per lo spazio come un automa seguito dagli sguardi spaesati di Atte e di Epafrodito)  

NERONE: Dov’è mia madre?... Cosa le è accaduto?... ( Si gratta. Furiosamente)

ATTE: Di là.

NERONE: A fare che?

ATTE: ‘A farle fare che’, vorrai dire. Non ‘a fare che’.

NERONE: Ah...

ATTE: Non ricordi nulla?

NERONE: Già. Mi riguarda. Si era presa una decisione.

ATTE: No. Veramente è stato emesso un verdetto.

NERONE: Ma questo ieri.

ATTE: E ieri si è stabilito che l’esecuzione fosse per oggi.

NERONE: (Grattandosi)  Luna maledetta!... Mi sta scorticando la schiena.

ATTE: Forse hai fatto sogni molto vivaci. Debbo ricordarti che ora sei sveglio?

NERONE: Sono sveglio, Epafrodito? Non stavo dormendo sulle tue ginocchia?...

EPAFRODITO: Parlandomi, non dormendo. 

ATTE: Debbo ricordarti che sei qui, e che sai benissimo perché?...

NERONE: Non toccherebbe a te. Ho il mio segretario particolare per questi promemoria. (A lui)  Dimmelo tu, mimosetta... primo: dove sono? Secondo: perché sono qui? Terzo: è vero che dovrei saperlo?

EPAFRODITO: Sei a Baia, nella casa dove hai ordinato che vivesse tua madre. E questa è la notte in cui ordinato che morisse tua madre. Manovri il mondo, Cesare. Per cui: o tutto avviene nella realtà, o l’intero mondo è immerso nel sonno. Il che, a ogni modo, non basterebbe a salvarlo, poiché in tal caso starebbe sognando ciò che tu gli imponi.

NERONE: Mi hai aggiornato in maniera illminante: col garbo di non dire nulla che mi fosse ignoto. Ora non posso non riconoscere. (Abbassa lo sguardo in terra, presso le sue suole)  Questo pavimento insudiciato di rosso debbo dunque presumerlo come una ferrea conseguenza delle mie parole.

ATTE: Che a propria volta furono conseguenza di trame che andavano interrotte.

NERONE: L’immagine non mi è nuova. No, no... non mi è per niente nuova. Di trame che andavano interrotte. (Estrae un rotolo di sotto la tunica. Controlla)  E sì, giusto... ‘trame che andavano interrotte’. Come mai, Atte?... Seneca ti ha per caso messo a parte del discorso che mi ha preparato da pronunciare in Senato?

ATTE: Sarà una frase che mi avrà sentito dire. Ne sono lusingata.

NERONE: (Ostentando il rotolo) Lui vorrebbe che lo imparassi a memoria. Dice che, data la circostanza, una certa  spontaneità potrebbe avere un bell’effetto. Ha provato pure a insegnarmi come iniziare dando l’idea di recitare qualcosa di saputo per poi fingere un deragliamento improvviso. Lui non se n’è accorto, ma io lo ascoltavo sorridendo. “Maestro, stavo per dirgli, ma che ti sei messo in testa? Di insegnarmi a recitare? Tu a me?”, invece era bravo, altroché. Tanto che ho deciso di comporre un’ode apposta da affidare a lui. Però, mi raccomando, dev’essere una sorpresa, non diteglielo. Farà finta di no, ma ne sarà contento. Comunque questo non c’entra... volevo parlare d’altro... di che? Di che?...

ATTE: Dicevi del Senato.

NERONE: No, non è quello!

EPAFRODITO: Forse del suggerimento di improvvisare.

NERONE: Sì, ma non esattamente... è qualcosa di più... di più...

ATTE: Degli insegnamenti di Seneca in generale?...

NERONE: Ah, luna infame... io lo so che è tutta colpa tua.

EPAFRODITO: Sicché, è la luna.

NERONE: Ma no, che c’entra la luna!

EPAFRODITO: Come ‘che c’entra’?... Sei tu che ora hai detto...

NERONE: La luna c’entra a non farmi ricordare quel che c’entra. (Di slancio) Ah, certo! Che ho ammazzato mi madre, ecco che! E che... (brandendo il rotolo)  nonostante tutto, c’è da piangere una regina. E quanto insiste su questo ‘nonostante tutto’! Che, nonostante tutto, bisognava bisognava bisognava. O piangere lei, o suo figlio. Se la tutrice dell’Impero, o l’Impero stesso. (Controlla sul foglio)  Sì, così. Eppure temo di non soffrire abbastanza. (Si china  sul sangue in terra. Lo spalma con la mani aperte sulle piastrelle attorno)  E’ il suo, vero?... Certo, di chi altri?... Difendersi con mani di donna contro zanne d’acciaio!... Povera mamma, a cosa ti ho costretta!... (Sollevando lo sguardo su Atte)  Ma dov’è? Dove l’hanno portata?

ATTE: A rendere presentabili le sue spoglie.

NERONE: Dove?

ATTE: Lì in fondo. Seneca ha mandato un chirurgo perché provvedesse.

(Nerone è combattuto. Si gratta con furia inverosimile. Soprattutto la testa)

ATTE: Finirai con lo scotennarti. Va’. Forse ti spazzerà via la luna di dosso.

(Dopo un’ulteriore esitazione, Nerone si decide e va.

Atte ed Epafrodito rimangono di nuovo soli)

ATTE: Ora tu levati dai piedi!

EPAFRODITO: E se mi cerca?

ATTE: Gli dirò quello che è: “Ha esaudito una mia preghiera’”. Elogerò la tua discrezione.

EPAFRODITO: Io non ci credo a quello che m’hai detto: di tutti quegli altri prima di me. Volevi mi comportassi in un certo modo e l’ho fatto. Ma adesso dimmelo che non è vero.

ATTE: Vedila così: finora è stato vero, ma può essere che non lo sia più in futuro. Sembra che tu gli sia molto gradito, e potrebbe anche fermarsi a te. Quella tintura che ti confonde la faccia è il tuo alleato più fedele. Che lui non debba mai, mai, mai dubitare di chi sei. Tieni. Un mio piccolo dono(e gli porge la cipria che già gli aveva offerto in precedenza). Mi vuoi come complice o no?... Se sì, levati dai piedi.

(Si capisce che Epafrodito non sa decifrare bene il senso di tutto ciò che gli è stato detto. Purtuttavia, prende la scatola di cipria e se ne va dal fondo. Il rumore della risacca notturna sembra assorbirlo e vaporizzarlo.

Atte rimane sola; evidente padrona del campo. Non può far altro che aspettare. Tutto di lei ci dice che, se necessario, sarebbe anche disposta a restare di guardia  sino all’alba.

Si siede tenendo d’occhio l’uscita per cui si è allontanato Nerone.

Infine, capiamo che lo sta vedendo tornare.

Nerone si affaccia sulla soglia stringendo tra le mani il drappo sanguinolente in cui è stato portato via il corpo di sua madre.

Si abbandona esasusto in un  punto distante da quello dove se ne sta la donna)

NERONE: Sembra fatta di crema. Come se non fosse mai stata viva. Ma nemmeno morta. Tutto sommato, a dirmelo c’è solo il fatto che non respira. Il che, ho verificato, è fuori discussione. (Mostrando una scheggia scintillante) Guarda... questo lo specchio che me l’ha detto. Gliel’ho accostato alle labbra. Nel riflesso erano perfette. Niente le velava. Era un gioco che facevo sin da piccolo. Di rubarle il fiato qui dentro mentre dormiva. Poi mi piaceva stamparci sopra la forma della mia bocca. Una sudiceria che neanche ero in grado di assaporare appieno. Ora invece: mute e spente. Ma non del tutto: appena appena. Morire è davvero il gesto meno radicale che mia madre abbia saputo compiere. La facevo più capace di sembrarmi stecchita. Mi sono sempre immaginato che lei sarebbe morta come nessun’altra al mondo. Gigantescamente. Trascendendo in uno strepito capace di stravolgere l’Ade e di rifondarlo da cima a fondo. Mia madre, pensavo, morendo inventerà la vera morte. Se ne farà rostro, orazione e monumento. Il troppo pieno che lei è da viva, pensavo, non potrà non produrre l’eccesso del suo contrario: un magnificente vuoto. Questo pensavo. Sin da quando facevo il gioco dello specchio che mi piaceva arroventare nei roghi del suo respiro. Invece, macché. Va’ a vedere. L’hanno ricomposta così a regola d’arte che non dico tutta, ma a chiazze la si direbbe quasi vivacetta. Ho dovuto rimproverarlo quel medico. Troppo diligente. A ogni modo, m’ha deluso il fatto che lei gliel’abbia consentito. (Si fissa ad osservare lo specchietto)  Bello scrigno, non ti pare?... Un’intera messe di sue labbra è sigillata qui dentro. Il mio forziere più prezioso. L’ho usato tante volte al posto di certi ritratti per i miei trastulli solitari. Mai ci ho visto niente di mio, ma solo il meglio di lei. E mi è servito, credimi, tantissimo. Mah. Dammi da bere.

ATTE: Se mi dici dove. Non conosco la casa.

NERONE: Impara. E ti prego anche di farlo in fretta. Dammi da bere.

(Atte si aggira attorno  un po’ spaesata)

NERONE: Voglio da bere! Dammi da bere.

(Infine, lei riesce a trovare quel che cerca e può portargli da bere)

NERONE: Vedi, non ci hai messo poi molto. E se te lo chiedessi di nuovo ci metteresti ancora meno. Come avrebbe fatto lei, che qui l’avevo lasciata padrona di tutto. Come, ad esempio, di riporre a suo piacere le cose e di sapere dove fossero. (Porgendo la coppa vuota)  Ancora!

(Atte, sotto lo sguardo di Nerone, va e torna.

Nerone beve e gliene chiede subito un’altra coppa.

Atte stavolta è ancora più rapida nell’eseguire l’ordine ricevuto)

NERONE: Bene. Credo che tu sia pronta. Sdraiati. No, non qui: lì. Sì, m’hai capito benissimo: in quello stagno lì.

(Atte, con evidente ripugnanza, si sdraia nel punto in cui giaceva Agrippina.

Dunque, dov’è ancora allagato di sangue.

L’azione è lenta. Il corpo della donna soggiace a un lungo fremito. Lui si alza)

NERONE: Non volermene. Tu pensa solo che nulla è fatto contro di te, ma solo per me. Dovrebbe bastarti. L’amore che professi mi dà il diritto di crederlo.

(Atte è paralizzata dall’orrore.

Nerone le si accosta. Stringe sempre tra le mani l’atroce sudario di Agrippina)

NERONE: Come si sta liggiù? Raccontami.

ATTE: (Con la balbuzie di un’assiderata)  Come... da un’altra parte, Nerone.

NERONE: Da un’altra parte?... Curioso. E ha un nome dov’è che sei?

ATTE: (c.s.)  In un punto del tuo cervello. Fammi rialzare.

NERONE: Ma no, dì meglio!

ATTE: (c.s.)  Nell’oltremondo in cui si penetra attraversando i tuoi incubi.

NERONE: Non sarà per caso che ti senti di penetrare negli Inferi?...

ATTE: (c.s.) E’ già avvenuto. Ci sono dentro... completamente dentro.

NERONE: E che si prova? Che vedi?

ATTE: (c.s.)  Ombre di ghiaccio. Fammi rialzare.

NERONE: E si accorgono di te?

ATTE: (c.s.)  Mi abbracciano. Mi abbracciano tutte.

NERONE: E come puoi sentirle? Sei un’ombra anche tu?

ATTE: Mi riconoscono. Mi vogliono. Fammi alzare!

NERONE: Te o qualcun’altra? Chi è che riconoscono?

ATTE: Ah!... Sono gelide come serpi.

NERONE: E’ per questo che tremi?

ATTE: Non si può immaginare il freddo di qui sotto.

NERONE: E allora scaldati! (E con un gesto improvviso le stende sopra la tela impregnata di sangue)

(Lei reagisce come in preda a una crisi isterica. Si divincola, morde.

Lui le monta addosso premendola giù con forza, quasi a soffocarla.

Comincia la farsa)

NERONE: Non guaire! L’acqua ghiacciata non scorre né gorgoglia. Per cui, cos’è? Dici bugie?... Ferma! (Atte sembra calmarsi. Ma forse solo per un crollo di energie. Come se ormai si fosse piegata a sopportare di tutto. Lui inizia a comporne la postura)  Giù le braccia... così. Più morbide... morbide. Hai visto come sei stata brava a orientarti qui nella sua casa?... Stendi le gambe, per piacere (e, manipolandole attraverso il manto, gliele manovra lui stesso). Bene, perfetto. Il viso in sù. Ottimo. Insomma, dicevo, senza nessuna difficiltà: t’ho chiesto il bicchiere e m’hai portato il bicchiere. L’avessi chiesto a lei avrebbe fatto esattamente come te; che hai fatto esattamente come avrebbe fatto lei. C’è un disegno in tutto ciò. (Toccondola punto per punto secondo quello che dice) Oh, quanto sangue! Come sarebbe possibile non immaginarvi, sotto, il corpo da cui proviene?... Sotto il sangue della spalla, la spalla. Sotto quello del viso, la faccia. Sotto il sangue del seno, il seno. Sotto il sangue del grembo, il grembo. Sotto quello delle cosce, le cosce. La padrona di casa sa dove stanno le cose e porta l’acqua. La padrona di casa macchia del proprio sangue il lenzuolo che la cinge. Se qualcosa venisse a dirmi “No, ti sbagli”, beh che dovrei pensare? Ma che gli Dei hanno sgomberato il cielo dalla loro presenza, e i corpi dalle loro ombre. Per cui: grazie, madre, di essere qui! (Estraendo la mano di Atte da sotto il fatidico panno e palpandone le dita una ad una)  Povera mano, quanto mi hai voluto! Povere dita, inutilmente pronte a ogni servizio. Ma io, schifiltoso... pudibondo come una troia ancora vergine, io no: sempre a mettere freni, a scansare, a togliere. Desiderato da te! Chi non avrebbe voluto sapersi tale? Chi non avrebbe rassegnato un pezzo del prorpio corpo pur di lasciare il rimanente a te? Purché maschio, chi?...E Nerone lo era. Maschio, e desiderato. Da te. Il primo, mi dicevi. Quello più di tutti, mi dicevi. Tuo figlio. A onta di chiunque. E io a scacciarti, stupefacente mano!... Oh maledettissimo avaro! Sempre pronto, contro di te, a farmi convinto delle cose peggiori pur di contrastare le tue suppliche. “Le userebbe tutte! Anche il tuo membro come maniglia per tirare a sé l’Impero!”. Il punto è che, purtroppo, le cose peggiori erano quelle vere. E così, il nemico di me stesso: ecco chi sono divenuto. E l’impresa è compiuta. Ringraziati, Nerone: ce l’hai fatta a raggiungere quel troppo tardi in cui, da stanotte in poi, ti ritroverai a mollo per sempre. Insoddisfatto dinnanzi all’eternità! Hai stretto lacci attorno all’inguine per arrivarci e finalmente eccoti: qui sei. Lo volevi? Hai di che masturbarti sino al declino dei tempi. Tua madre non ti ha avuto. Né tu lei. E allora cavane almeno quanto ne avanza. Ti sei segato le carni per dartene il diritto, fallo! (E si struscia la mano di Atte tra le gambe. Lei sembra accennare un minimo di corresponsione ma lui gliela impedisce stritolandole il polso in una morsa che la fa gemere)  Sta’ ferma! Se sei morta, fa’ la morta!... Non lo vedi che questo fuoco si è fatto terra secca?... Sfilacciatura che chiede nervi al vento. Uno straccio per pulirsi dopo, e non quanto servirebbe prima. Ma  allora perché mi piace lo stesso?... Perché mi piace lo stesso?... Perché mi piace lo stesso?... (e, grugnendo, insiste a strusciarsi la mano addosso)  O madre... che mai mi avresti fatto, tu viva! tu piena!,  se solo un tuo residuo basta a soffocarmi con le dolcezze dell’infinito?!...

(E preme ancora, preme ancora, preme ancora, sino a darsi finalmente pace. Dopodiché, si comprime laddove immaginiamo si sia liberato.

Nello scostarsi da Atte, la cui mano ricasca inerte, i suoi gesti appaiono impacciati.

Se ne resta accovacciato in terra; si volta di schiena e cerca di sistemarsi come può.

La donna, sotto il lenzuolo, non azzarda movimento alcuno. A parte il respiro.

Lui si volta di nuovo verso di lei, e tira via il manto che la ricopre.

Difficile dire quanto Atte abbia finto e quanto sia stata realmente travolta dalla messinscena. Possiamo supporre che anche Nerone stenti a darsi una risposta)

NERONE: Tirati sù.

(Lei obbedisce. Rimane seduta sul pavimento con la schiena ben rigida. E lurida. Lui le va alle spalle, che inizia a detergere con i pochi angoli puliti del solito telo)

NERONE: Io ora pulisco la tua, tu però dopo la gratti la mia?

(Atte, passivamente, annuisce)

NERONE: (Strofinandola)  Epafrodito?

ATTE: Gli ho fatto immaginare che volevamo rimanere soli.

NERONE: (c.s.)  E l’ha trovata dura da credere?

ATTE: L’avrà trovata più dura da digerire. E’ un invidioso.

NERONE: (c.s.)  Capisco. Ora che possiamo distrarci da mia madre, sei a corto di nemici.

ATTE: Non credo che tu l’abbia eliminata per me.

NERONE: (c.s.) Eliminata? Quandomai! Io ho solo organizzato le cose in maniera che ognuno se ne andasse per la sua strada. Noi da una parte e lei dall’altra. Sei asciutta. Sù, tocca a te.

(Nerone si volta e Atte inizia a grattargli la schiena)

NERONE: Io l’amavo.

ATTE: (c.s.)  Ma ami anche te stesso. Sarà per questo che l’hai uccisa.

NERONE: Ti sto dicendo che, se l’ho fatto, è stato a prescindere dall’amore e non a causa sua.

ATTE: (c.s.) Io parlavo del tuo amore per te.

NERONE: Il suo per me non era da meno.

ATTE: (c.s.) Tu l’amavi e l’hai uccisa; lei ti amava e ti avrebbe ucciso. L’amore c’entra, eccome!

NERONE: La questione era politica.

ATTE: (c.s.) Anche il suo desiderarti.

NERONE: E il tuo desiderarmi?

ATTE: (c.s.)  Perché no! Forse.

NERONE: Ah.

ATTE: (c.s.)  E comunque, il mio volerti servirebbe ad affiancarmi a te, non a sostituirti.

NERONE: Li hai origliati bene gli insegnamenti di cui m’ingozza Seneca. Come dubitare d’una che venga a dichiararmi i limiti della sua fedeltà?

ATTE: (c.s.) Anche questo non l’ho imparato da Seneca, ma da te.

NERONE: Peggio. Ridotto a livello di un portavoce. Smania per lasciarmi, lo sai?

ATTE: E tu accontentalo. Ti richiede la sua vecchiaia, non è poi molto.

NERONE: Fa’ più forte! Più forte!

ATTE: (Sospendendo affranta)  Ho tutte le unghie nere; e mi fanno male le braccia.

NERONE: Ma la vedi? Ce ne sta ancora?

ATTE: Di che?

NERONE: Di luna. Ce n’è?

ATTE: A me non sembra.

NERONE: Eppure la sento. Stringimi! Stringimi! Stropicciati addosso!

(Atte lo stringe da dietro)

NERONE: Non è più solo fastidio. Mi corrode, mi scava... ma perché?

ATTE: (Stringendolo)  Lo pensi. Lo stai solo pensando.

NERONE: (Come attratto da qualcosa che gli giunga da fuori)  Già l’alba? Possibile?... Cosa c’entra quella luce laggiù?

(E, turbato, vorrebbe alzarsi ma lei lo trattiene nelle spire del suo abbraccio)

ATTE: Non mi lasciare sola, resta.

NERONE: (Senza più ribellarsi alla stretta che lo inchioda)  Il cielo sembra che si muova scosso da bagliori esalati dal mare. Oh... sai, amore, cosa credo che sia?... Sì, per forza... qualcosa di simile accadde quand’era vivo Tiberio, forse l’avrai sentito: è come una strana aurora che sorge a notte fonda. Vieni... andiamo a vedere se è questo.

ATTE:(Ancora stringendolo)  No, ho freddo. E’ ancora il freddo di prima, rimani!

NERONE: (Incapace di distrarsi dalla sua visione)  Eppure no... non è oltre, ma è davanti... è prima del mare. Oh, lasciami!

(E stavolta davvero si alza per accostarsi alla soglia e vedere meglio.

Atte non lo segue neanche con lo sguardo. Come sapesse.

Sul volto di Nerone, sporto a capire che sia quella strana luce, l’orrore s’imprime con l’evidenza di una pittura)

NERONE: Ma è fuoco!... Non è luce, è fuoco! E’ ancora la mia città, ancora il fuoco! Ancora il fuoco! (Crolla in terra in preda a una crisi)  Oh, non stanotte! Qualcuno mi aiuti! Qualcuno ci aiuti tutti! Aiutate la mia città! Oh, povera la mia città! Aiutatela! Aiutatela! Aiutatela!...(E piagnucola come un neonato)

(Atte, perentoria, si solleva in piedi)

ATTE: Smettila, Nerone! Non è Roma. E’ solo il corpo di tua madre che brucia.

(Fine dell’atto)


ATTO II

(Il parricidio)

Un poggio. Il verde digrada davanti e ai lati lasciando immaginare, a perdita d’occhio verso il fondo, una veduta amplissima.

Scopriremo che Roma non è distante. Pochi chilometri appena.

Il cielo, a conca, chiude la scena con il nitore di un limpidissimo pomeriggio che vada spegnendosi.

In cima al poggio, in un punto di assoluta predilezione, è collocato un seggio.

Nei pressi del seggio, un bicchiere a coppa e una caraffa poggiati in terra.

Sul sedile è accomodato un vecchio che indossa una tunica vastissima di colore ocra. Ci penserà la pulizia dell’aria a farla quasi lucida, d’oro.

Il vecchio ha tra le mani un libro. Uno scritto che gli dà da pensare.

Si versa da bere chinandosi a fatica per recuperare bicchiere e caraffa.

Questo vecchio è Seneca)

SENECA: Parlare ad alta voce. (Per meglio stampare nel vuoto il timbro della battuta)  A - da - lta - vo - ce. Certo. Anch’io lo credo. Sestio ha ragione, dovrebbe essere il nostro quotidiano esercizio serale. Solo così... (e si raschia la gola; beve) parlando ad alta voce, non tra sé e sé, ma ad alta voce, da soli, quando la giornata l’abbiamo alle spalle, sarà possibile comprendere, e fissare, il vero bene e il vero male che vi abbiamo distribuito. E chiamare la giornata a giudizio. Chiamarla ad alta voce, e parlarle ad alta voce. (Si raschia ancora)  Ma dicendoci tutto. Noi, a noi stessi. Io, a me stesso. A me stesso... io. (Una pausa)  Io... io... io... io... io... iiiiiooooo... io!... (Beve ancora. Vuota il bicchiere. Si alza)  E passarsi al setaccio attraverso il proprio fiato. Anche così, dandosi... dell’io. (Pare giocare col proprio, bizzarissimo, esercizio)  Il trucco è... ad alta voce. Cominciare, ad esempio, chiamandosi per nome. Ogni bambino sa come questa sia la più intensa delle esperienze magiche. Ripetere, di notte, il proprio nome nel buio sino a farlo uscire sempre più da noi. Sino a che non si libri nell’aria, come emesso da una gola diversa... come da quella di qualcuno che stia lì e che non sia più noi. Chiudere gli occhi e recludersi, non c’è bisogno d’altro. (Chiude gli occhi e sembra attendere il momento propizio)  Seneca. Seneca. Seneca... Seneca Seneca Seneca. Se-ne-ca... Se-ne-ca... Se-ne-ca... Se-ne-ca... (Riapre gli occhi, un po’ stordito)  Sì, credo che Sestio abbia davvero ragione. (Va al libro, lo sfoglia. Poi si decide a deporlo. Prova a darsi un centro camminando) Allora... chiamo a comparire la giornata d’oggi... (Si schiarisce ancora la voce, ma l’imbarazzo permane)  Dio... quando si smetterà di essere filosofi principianti?... Troppi rigagnoli, troppi rigagnoli, mentre la voce deve essere tutto! Se invece lascio che la mia frase corra fiancheggiata da altre dieci, ma allora niente avrà più senso. Io debbo dire solo quello che penso, e non pensare ad altro che non sia quello che dico. Spingere tutto nella cosa pronunciata. Solo lì!... E’ lì che sta il mio giudice. E’ sua la voce che mi torna dal buio di quando mi chiamavo al buio.  (Lancia una mano come ad afferrarlo. Una pausa, e ancora sconforto)  Ecco, vedi... quanti pensieri in questo breve silenzio, e io li ho dissipati tutti. Ma ora, perlomeno, per-lo-me-no, so come dare consistenza al tribunale di cui ho bisogno. Anche a costo di mostrarmi ridicolo ai miei occhi. Il che, oltretutto, è di per sé un giudizio. (Torna a sedere serrando nuovamente le palpebre)

(Sopravviene, non visto, Nerone. E’ vestito con abiti umili.

Il volto mezzo sprofondato nella balza sollevata di un mantello senza distintivi.

Non avanza. Osserva e ascolta)

SENECA: Dunque. (Senza riaprire gli occhi)  Innanzitutto ho molto riflettuto su quanto mi lusinghi sentirmi il loro Dio. Accettare di far finta di credere... di fargli credere che credo... di essere il Dio in cui confidano. Questo stamane. Poi ho raccontato ad Anneo l’episodio della pazza che non sapeva rendersi conto di essere divenuta cieca. L’ho spinto a ridere e ne abbiamo riso insieme. (Tace)  Seneca... Seneca... Seneca...  Seneca... Seneca... Seneca...

NERONE: Seneca!

(Seneca, come scosso da una frustata, si alza in piedi sbarrando gli occhi)

SENECA: Dove?...

NERONE: Non sei tu, sono io.

SENECA: (Accorgendosi)  Stazio?

NERONE: No.

SENECA: Io è Stazio che aspetto.

NERONE: Di cosa hai bisogno? Potrei sostituirlo io il tuo Stazio.

SENECA: Sei un medico tu?

NERONE: (Abbassando il lembo del mantello)  No, un principe.

SENECA: (Calmandosi, si risiede)  Non mi serve. Mi serve Stazio.

NERONE: Sono il tuo principe, Seneca.

SENECA: Lo so. Il mio Lucio.

NERONE: Che non vedi da quanto?

SENECA: Da anni. Come tu me.

NERONE: Perché ti serve il medico?

SENECA: Non ne ho mai fatto a meno.

NERONE: Tu che confessi una necessità?... Da bravo stoico dovresti rifiutarla.

SENECA: Lo sai. Nella mia setta è consuetudine sentirci tutti un poco infermi.

NERONE: Ah, ecco. Sono arrivato all’ora dei giochi.

SENECA: Più o meno.

NERONE: (Prendendo il libro dalle ginocchia di Seneca)  Qui sarebbero le regole?

SENECA: Più o meno.

NERONE: (Controllando)  Un altro autore perfettamente ignoto. Tu solo i falliti.

SENECA: (Recuperando il suo libro e stringendolo a sé)  Io solo chi cerca.

NERONE: Un tempo mi avresti assalito per una bestemmia del genere.

SENECA: Può essere che l’abbia fatto dentro di me.

NERONE: Ma un tempo te lo portavi sopra la tunica il tuo dentro di te.

SENECA: Infatti è stato al limite di quel tempo che ti sono venuto a chiedere: fammi andare dove non sia più richiesto d’aggredire. Se tu ora mi avessi trovato diverso, avrebbe significato: Seneca ti ha mentito. Meglio così, non credi?

(Nerone va a versarsi da bere)

NERONE: Roma è una città infame. (Beve). Io vorrei che tu sapessi quello che sta succedendo. (Seneca tace)  Sempre che tu non lo sappia già! (Seneca fa di no col capo)  Mi sento schiacciato dai torti.

SENECA: Non esistono.

NERONE: Che?

SENECA: I torti: non esistono.

NERONE: E da quale assurda cosmogonia prenderebbe senso una simile scemenza?

SENECA: Dalla mia. Siamo sempre inclini a cercare nelle avversità una sorta di colloquio tra la realtà e noi. Ma è presunzione. I torti non esistono.

NERONE: A chi lo dici? Al cielo?... Qui siamo io e te. I miei torti non sono i  torti, ma solo i miei. Come i tuoi sono i tuoi.

SENECA: Mio, tuo... sono la peste del mondo.

NERONE: E questa? Non è la tua  casa?...  E quell’abito non è la tua  tunica?... E tutto ciò non ti viene per caso dal mio  potere?... Non vedo niente nella tuavita che non dipenda da ciò che è mio e da ciò che è tuo.

SENECA: Nulla di quello che ho ha mai reso povero qualcuno.

NERONE: Parole che a picchiarle rimbombano vuote.

SENECA: Vorrà dire che non ne mascherano altre. 

NERONE: Ah, la voglia che avrei di  aprirti il torace, di ficcarci le mani sino i polsi e vedere che se ne tira fuori: se un cuore o un precetto!

SENECA: Non hai bisogno di scavarmi con un coltello, ti basterebbe un sentiero di  parole giuste. Il mio cuore è un argomento che sto elaborando a fatica.

NERONE: Non mi confondere, per carità! Lo avevo così chiaro quello che ero venuto a dirti!...

SENECA: Quello che invece non è chiaro a me è a chi debbo dare il benvenuto: se al mio Lucio o ai suoi nervi. Vieni qui sfuggendo Roma, e fra non molto scapperai per cercare di nuovo pace a Roma. Ti auguro che almeno durante il tragitto tu ti senta un poco a casa. Allora?... Cos’è quest’ansia?...

NERONE: Casomai fretta, non ansia.

SENECA: Di che?

NERONE: Di riaverti davanti.

SENECA: Eccomi. Dì.

(Nerone stenta a rispondere)

NERONE: Mi manchi.

SENECA: E’ un invito a tornare?

NERONE: No. Non lo so. E’ una cosa che sento.

SENECA: Non chiedermelo, rifiuterei. Puoi solo ordinarmelo.

NERONE: Ma non lo vedi come sono vestito? Cosa vuoi che ordini conciato così?

SENECA: Ti ho visto dirigere l’Impero anche da nudo.

NERONE: Più plausibile. Nessuno è più se stesso di quando è nudo.

SENECA: E se ora non sei te stesso, chi è che sarebbe venuto a trovarmi?

NERONE: Uno che ha conti da regolare con te. E che ha bisogno dei tuoi consigli.

SENECA: Non pensavo che la mia presenza avesse lasciato strascichi.

NERONE: La tua presenza non so, ma la tua assenza ci è riuscita benissimo.

SENECA: Quindi nei consigli che mi chiederai dovrò anche leggerci informazioni che mi riguardano.

NERONE: Mentre io già so che dovrò assumerli con molta cautela. La loro natura la conosciamo in due, io e te: liquidi che smerci per propinare gocce del tuo veleno.

SENECA: C’è chi è preso da crampi per medicine da cui altri vengono curati.

NERONE: Ecco qualcosa su cui mi sono interrogato a lungo da quando te ne sei andato: la nostra incompatibilità. Ma per adesso mettiamola da parte. Resta il fatto che mi manchi.

SENECA: Pensavo di averti convinto.

NERONE:(Giocando nel fingere di comunicare con se stesso)  Hai sentito, Nerone?... Risulta che dovresti essere convinto... (Pausa, auscultandosi come ad attendere risposta. A Seneca)  E difatti, mi si risponde di sì... però aspetta, c’è dell’altro!... (Di nuovo a sé)  Ah, capisco! (A Seneca)  Capita, mi si riferisce, che convinzione e dispiacere possano andare di pari passo.

SENECA: Anche necessità e dispiacere sanno andare di pari passo, e se ti ho chiesto di sciogliermi dai miei impegni l’ho fatto solo perché necessario.

NERONE: (c.s., a se stesso)  A questo che rispondi?... (A Seneca)  Inattaccabile.

SENECA: Ogni giorno ricevi le devozioni della mia gratitudine, e qui mi trovi.

NERONE: Incontestabile.

SENECA: Tra parole di cui misuro il suono avendone appreso il silenzio.

NERONE: Inafferrabile.

SENECA:  Poi, se ti serve di sapere come la penso, perché ogni tanto non mi leggi?

NERONE: Appunto perché voglio sapere come la pensi, e non come vuoi che si pensi.

SENECA: Non ho altri argomenti. A meno di insistere su quanto valga un ritiro conforme alle norme della natura. E su quanto non sia da intendere come diserzione l’abbandono dei pubblici impegni se l’energia che rimane è a malapena sufficiente a farsi ascoltare da sé, ma non più dagli altri.

NERONE: No, questo puoi evitarlo. L’ho ripassato da poco.

SENECA: E allora? Che ti manca?... Io ho inteso essere severo solo con me stesso. Tanto Roma, con te in groppa, procede comunque. Non saprei più tenervi il passo. Perlomeno, non a corte. Di qui è già meglio. Spesso è più facile controllare le proprie bestie stando su una rupe a sovrastarle tutte piuttosto che tenendosi al centro del branco. Te lo dissi anche cinque anni fa: “Vuoi che ti sia ancora utile? Allontanami”. L’evidenza del mio servirti non ti serviva più. Non avrei potuto darti che parole, ma ormai vuotate di ogni autorità. “Fammi rendere invisibile, - ti dissi - produrrò pensieri, e quelli nessuno me li potrà stropicciare facendogli prendere la piega che vuole”. Per un uomo non è indecoroso scostarsi dalle cose. Si sta a bagno finché reggono le braccia. Poi si torna a riva e si omaggia il mare ammirandolo da fuori. Confidavo di persuaderti non per ottenere qualcosa, ma per dartela.

NERONE: (Nerone conta in silenzio sulla punta delle sue dita. Poi solleva lo sguardo su Seneca che non può non essere incuriosito da quello che fa)  Oh, niente. La risposta che mi aspettavo... cioè, quella che avrei sognato conta, a farla lunga, quattro parole. Invece te n’è uscita qualcuna di più. Ti ho detto: mi manchi. Perché non ti sei sentito di rispondermi: “Anche - tu - a  - me”?

SENECA: Perché non ho voluto indulgere a un’immagine di te che non ti conviene.

NERONE: Quella del mendicante? Mi ci si sono camuffato apposta.

SENECA: No, quella dell’orfano. 

NERONE: Non lo sono per niente: ho te! E’ a questo che ti voglio inchiodare: a quello che tu sei per me. A quello che m’hai tolto andandotene e che non vuoi sapere. Se tu ce l’avessi fatta a divenire il mio maestro, non starei qui adesso a dirti cose che mi sembra di pronunciare come in un sogno. Fatto sta che hai fallito. Non ci sei riuscito a costruire il tuo sapiente in me. Ma poiché sei Seneca, qualcosa doveva avvenire per forza. E l’avvenuto è questo: che mi rotolo nella pece dei miei deliri, che mi strazio sotto il governo di una fantasia che urla, e neanche la più pedestre delle tue regolette mi torna utile a un bel nulla. Eppure mi manchi. Allora mi sono domandato: perché?... Ma perché?... Mi affligge. Mi deride. Non mi ama quanto io amo lui. Poi mi fermo e penso: “Un attimo, com’è che ho detto?... Mi affligge, mi deride...”, e qui una prima luce! “Ma questo è proprio quello che fa qualsiasi genitore”. Allora mi guardo attorno e che scopro? Di ritrovarmi in un mondo fatto a tua misura dove l’unico straniero sono io. Seneca ovunque! E in chiunque. Seneca come polline tra me e le cose. Su tutto. Come il più possente dei padri. Ovunque, tranne in me, che perciò mi scopro a te di fronte, e nelle carni di chi? Del più autentico dei figli. E’ un lampo che imbianca tutta la vallata.

SENECA: Ma che ti morde? All’improvviso non vuoi più quello che hai sempre voluto: sopravvivere a chi ti precede. Morto tuo padre, morta tua madre, ambisci a resurrezioni e candidi me. Che sta accadendo di questi tempi per averti ridotto così?

NERONE: Che vedo una città popolata di tuoi fantasmi, questo succede! Tutti parlano a nome tuo, e tutto si fa così tenacemente concatenato che potrei raccontarti il panorama che m’avvolge con la puntigliosità di un tuo trattato. Chi deve morire muore e ogni giornata non ha sorprese. Mi basta voltare lo sguardo a caso sui compagni che ho attorno per dirti come e quando se ne andrà questo o quest’altro, e pure dove. Nonostante me. E io allora mi dico: questo è il mondo di Seneca!

SENECA: No! Questo non è il mondo di Seneca! Tre volte no! Il mondo di Seneca vive di liturgie estatiche. Di seguaci devoti. Così è il mondo di Seneca, dove la virtù è venerata come una divinità, e coloro che la professano come sacerdoti. La nostra preghiera non suggerisce di chiedere favori, ma intima il silenzio. E mentre l’oracolo si pronuncia, noi sappiamo ascoltarlo a bocca chiusa.

NERONE: No! No no e no. Te lo dico io ‘no’! Quattro volte no. Non scansare da te ciò che è tuo. Questo che dici, è proprio ciò che oggi Roma predilige. Oh, certo che si celebra la virtù: vieni a vedere come! Non c’è altro che valga. Anche l’amico ha deposto le insegne dell’amicizia, e se la virtù gli dirà: “Recidi metà del tuo cuore!” la mano è pronta e lo farà. E il silenzio... ah, quello si stende su tutto. Come un manto sotto cui preghiere preghiere preghiere. E nessuna, te lo concedo, che implori favori per chi la pronuncia; ma per tutto ciò che è astratto, sì. Per la virtù, sì!... Guardami bene, Seneca! Guardami, padre!... Da tutto questo sai che ne è venuto?... Che si vuole la mia testa. Questo ne è venuto: lo scenario della mia morte. Hanno congiurato contro tuo figlio. E la rete che ho tirato a riva, gronda i nomi di tutti. Dei più cari. Dei più adorati. Per compilare la lista di chi mi si è messo contro è bastato appuntare, uno dopo l’altro, i nomi di coloro che mi amano. Perché loro mi amano davvero. Ma un po’ di più amano la virtù. Ragion per cui: via Nerone. E Nerone va via. E viene da te. Con una fretta che non ha mai avuto. Perché tutto questo mi prende alla gola e chiede una spiegazione. E anche il fatto che voglio una spiegazione  chiede una spiegazione.

(Nella storia che vedo, Seneca e Nerone  a questo punto si fronteggiano come in un dialogo fatto di serratissime mutezze.

Ognuno dei due sembra domandarsi se l’altro sia davvero quel che dice e quel che sembra, o qualcosa d’altro. Poi Nerone riprende, ma la tensione è rimasta intatta)  

NERONE: Petronio mi ha detto che parlo più da poeta che da uomo. La frase l’avrei gradita come un complimento, purtroppo l’espressione che l’accompagnava l’ha trasformata in un affronto. Ora tu penserai che me l’abbia detta in faccia. Come potrei, sennò, parlare della sua espressione? Invece no. Me l’è venuta a riferire un suo servo. Ma poiché io, evidentemente, non uso l’immaginazione solo nel parlare ma anche nell’ascoltare, sono stato poeta sino in fondo e mi sono sentito offeso. E mi è stato anche impossibile punirlo, dal momento che questa era la sua risposta alla mia richiesta di togliersi la vita.

SENECA: Perché Petronio?

NERONE: Mi amava. Era nella lista.

SENECA: Ma se non si è mai immischiato nelle cose dello Stato?...

NERONE: Eppure c’era. Come anche un poeta vero. Pure lui con gli altri.

SENECA: Lucano?

NERONE: E anche sua madre. Accusata dal figlio. Sempre in nome, suppongo, della virtù.

SENECA: Che origine avrebbe questa congiura?

NERONE: Direi filosofica.

SENECA: C’entra Galba?

NERONE: Galba è un militare, e ha tempo da perdere in Spagna.

SENECA: Dagli peso. Chi volesse usarlo contro di te, lo troverebbe prontissimo.

NERONE: No, questo è un regalo della mia città: così sovraccarica di pensatori!

SENECA: Insomma, una sciocchezza...

NERONE: Però armatissima.

SENECA: Parlamene.

NERONE: T’importa?

SENECA: Sei venuto per questo. Parlamene.

NERONE: Beh, un’idiozia. A un bel momento il paesaggio ha preso coscienza di sé e si è reso conto di volere la testa del suo principe che invece l’ha scampata. Da cui questa mia voglia insopprimibile di correre a inchiodare lo sguardo in quello di chi ha preso a balia il primo vagito del mio cervello. Ti riconosci?

SENECA: E Roma, secondo te, sarebbe il paesaggio?

NERONE: Naturale. Da qualsiasi punto io m’affacci non vedo altro. Quel che non è Roma, appartiene a Roma, e dunque lo è. Anche di qui. Fino a laggiù la sua compagna, poi lei. Roma, mondo! Roma, mondo! Roma, mondo! 

SENECA: Motivo di più per difenderla anche se ti è nemica.

NERONE: Ah, bene, me l’appunto.

SENECA: Vorresti un consiglio più rassicurante? Non ne ho. Sta’ dentro i tuoi compiti, e se Roma non riconosce più in te quei meriti in cui vorrebbe specchiarsi, tu fatti ancora più sfrontato nell’esibirglieli.

NERONE: Polvere! Non mi sfama, non mi disseta e non la respiro.

SENECA: Vuol dire, allora, che dai ragione a chi ti si è messo contro.

NERONE: No! Vuol dire che non do ragione a te!... Che non capisco una parola di quello che dici, per il semplicissimo fatto che non parli di me! Non sono venuto a chiederti un oroscopo. Ti ho fatto dei nomi. Parlami di quei nomi! Petronio, Lucano, Pisone... se vuoi ne ho altri... tutti fratelli che hanno vissuto della mia vita come io della loro. Ma come? Combuttate per diventare i signori della terra e mi mangiate affianco! Ogni silenzio è un dialogo che vi avvince, e io zero: tagliato fuori!... Voi, con cui spartisco l’inammissibile, vi gettate in un’avventura simile e non mi dite niente?... Ma si può sapere che idea avete di me?... O dubitate che non mi stia a cuore il vostro bene?... Eccola l’erta che non si rimonta. Non l’amico che si fa nemico. Ma l’amico che non è mai esistito. L’amico per cui tu non sei mai esistito. Ma a questo punto uno dubita anche del tronco contro cui va a sbattere. Lo guarda e dice: non esiste. Gli cola il sangue sugli occhi e dice: non è successo. Pensa al dolore che sente e dice: “Complimenti per la mia fantasia!”

(Seneca mesce da bere; per sé e per Nerone)

SENECA: Quante volte ti ho messo in guardia dalla pretesa che il nostro mondo sia abitato da certezze? Infinite. L’unica cosa di non accidentale nella tua vita, sei tu. Nella mia, io. Anche gli amici stanno nel panorama: come giunchi; il vento che piega lo stelo, quando si fa un po’ teso storce anche loro. E se la cosa ti lacera il cuore, non puoi accusarli. Stringere un’amicizia non è una garanzia, ma un’aggiunta al panorama; dunque: un azzardo.

NERONE: Ti è piaciuto farti relegare, Seneca...  ma io penso che avresti fatto meglio a farti ri-legare. Bastava dirmi: “Cesare, sono stanco. Confezionami in volume e lasciami nello scaffale in santa pace”.

SENECA: Credi davvero che la tua felicità non m’interessi?...

NERONE: Va bene, grazie.

SENECA: Ho dato alla mia vita il corso che ha avuto per aiutarti a modellarla!...

NERONE: Va bene, grazie.

SENECA: Condurti nel tuo destino è stato il mio.

NERONE: Va bene, grazie grazie grazie. Tre volte grazie.

SENECA: Tu mi accusi di aver tinto mare terra e cielo coi colori del mio spirito. E che dire di te? Sei riuscito a dare un nome a tutto ciò che di incerto avviene a Roma: il tuo. Se uno ti si ammala affianco, la prima cosa che si pensa è che il suo virus abbia obbedito a te. Se affoga,  è perché Cesare ha comandato la marea. Se brucia, è perché il fuoco era un tuo sicario. Tutte le cose che compi, quasi non sai di compierle. D’altronde: come un vero artista.

NERONE: Non ‘come’. Lo sono!

SENECA: Vieni qui e  fa’ un segno in terra. (L’altro indugia)  Vieni qui e fallo.

(Nerone, forse più per curiosità, si decide ad obbedire)

SENECA: Adesso spiegami che cosa hai inteso significare con questo sgorbio?

NERONE: A me lo chiedi?... Un segno e basta.

SENECA: Non, per caso, il muso di un cavallo?

NERONE: Sei matto! Che c’entrano i cavalli?

SENECA: Supponiamo, però, che tu abbia addestrato il mondo a interpretare ogni tuo disegno come una possibile testa di cavallo, in tal caso anche questo qui mi sarà d’obbligo leggerlo come una testa di cavallo. Il che, ti assicuro, è più che sufficiente per farvi apparire quello che vi cerco. Non ci credi?... Vieni, guarda... (indicando)  lì le orecchie... lì il setto che s’allunga sino alle narici, e lì quasi un annuncio di criniera. Non ti pare un cavallo?... Io direi di sì.

NERONE: Avrai fatto l’esempio del cavallo perché l’avevi già intravisto.

SENECA: Prova. Cosa vuoi che ci veda?

NERONE: Una spada. Voglio vederci una spada.

SENECA: (Cercando)  Ma sì, che ci vuole?... Una spada in azione: eccola. Quella linea circolare che prima faceva da cranio, ora vedila come la fuga della punta in movimento. E lì, dove ti ho indicato le narici, immagina la base dell’elsa; mentre dov’era la chiostra dei denti, la mano che la impugna. Più o meno, ma ecco la spada.

NERONE: E questo per dire cosa?

SENECA: Che sei diventato il signore della morte, Lucio. La cosa sarà nata per finzione, ma è nata. Ti muovi su un palcoscenico che hai attrezzato tu e che funziona a meraviglia. Hai indossato una maschera fatale. E’ piaciuta talmente a tutti, che ci hanno creduto tutti. Sei il signore della morte. Una fama difficile da far tramontare in fretta.

NERONE: Oh, non ci tengo. In fondo, è qualcosa che tu non avevi previsto.

(Nerone va di nuovo a versarsi da bere. Poi si allontana portando con sé la coppa.

La luce dell’emisfero che li cinge avvia, smorzandosi, un bagliore prolungatissimo.
Nerone  volta le spalle a Seneca fissando l’orizzonte.

Non potrà accorgersi, perciò, di quando entrerà Epafrodito con la sua solita maschera di pittura gialla)

NERONE: Se spalanco gli occhi e mi dico: “Ancora oggi a svegliarmi è la rabbia dei conti in sospeso che ho con lui!”, e se capisco che il tempo per chiuderli si è ridotto a niente, e se uno dei miei spaventi è che per te tutti questi conti nemmeno esistano... sarà poi tanto strano che io solo con te di fronte posso sperare di ridarmi un centro?... E il sogno da cui mi sveglio sai cosa chiede? Che sia così anche per te.

SENECA: Certo che lo è: ti amo. Solo che per me tutto questo si iscrive nelle cronache di un crepuscolo.

NERONE: Per il peso che dai tu all’amore!...

SENECA: Ma un peso glielo do.

NERONE: Preferisco il tuo rispetto. Anche quello mi daresti?

SENECA: A chi? All’artista?

NERONE: Giusto! Parliamone, mi va!(e solo adesso si gira)

SENECA: Meglio dopo.

(Nerone ha un soprassalto: vede Epafrodito, che Seneca aveva tenuto a distanza con un gesto perentorio della mano.

Nerone si volta di nuovo per evitare che lo si smascheri)

SENECA: (A Epafrodito, che pare un pretino imbarazzato)  Hai qualcosa per me?

(Sì, ce l’ha. La risposta è nel gesto. Epafrodito va a porgergli un rotolo.

Seneca lo svolge, e legge.

Nerone freme poco distante. E’ chiaro che quest’intrusione lo infastidisce)

SENECA: (A Epafrodito) E’ da stamattina che vado in cerca del mio medico. Sarà stata la previdenza a farmelo attendere: non mi coglierà del tutto impreparato.

EPAFRODITO: Non devi spiegargli nulla. Già sa.

SENECA: Ci voleva un editto per rintracciarlo.

EPAFRODITO: L’ho dovuto informare. L’ordine era: prima lui, poi te.

SENECA: Anche con gli altri?

EPAFRODITO: Io ho sempre fatto così.

(Nerone è agitato, sempre più impaziente)

SENECA: Anche con Petronio?

EPAFRODITO: Sì, così.

SENECA: E con Lucano?

EPAFRODITO: Sì. Ma lì il medico me lo sono dovuto portare appresso.

SENECA: Comprensibile. Era giovane, e a dispetto delle atrocità che componeva non gli andava di tenersi il malaugurio in casa.Io sono l’ultimo?

EPAFRODITO: Non lo so. A una certa ora del giorno mi si dice da chi, e io vado.

SENECA: E di questi giri ne fai spesso?

(Nerone digrigna sordo fra i denti: “Presto! Presto!”. Epafrodito non può non notarlo, ma Seneca richiama subito la sua attenzione)

SENECA: Ne fai spesso?

EPAFRODITO: Ogni giorno.

SENECA: Ogni giorno da quanti?

EPAFRODITO: Il principe mi ha inviato solo dai suoi più intimi.

SENECA: Ossia, da quanti?

EPAFRODITO: Da molti. Roma è diventata una città cupissima.

SENECA: Immagino che non siano possibili dilazioni.

EPAFRODITO: No. Dev’essere oggi. Ora.

SENECA: Povera giornata di oggi, già così striminzita... non ne rimane che una bava e le chiediamo di accogliere in un suo lembo un carico tanto gravoso! E anche di corsa. (Sporgendo lo sguardo fuori)  Finalmente vedo il mio Stazio che si decide a raggiungermi.

NERONE: (Senza più tenersi nascosto)  Insomma, vogliamo fare in fretta!

EPAFRODITO: Cesare!

NERONE: Che hai detto tu?

EPAFRODITO: Niente. Mi sorprende di trovarti qui.

NERONE: Chi?

EPAFRODITO: Ma te.

NERONE: Idiota! Ti sembro vestito da Cesare? No. E allora perché mi chiami Cesare? Perché mi vuoi riconoscere se tutto ti dice che non è quello che voglio io? Se tu fossi chi ho sempre pensato, avresti avuto il garbo di capirlo, ma siccome smascherarsi sembra divenuta una passione collettiva, pur io sono costretto a scoprire qualcosa... (e va a stropicciargli il viso con la mano ad artiglio) che sotto la tua faccia mi sa tanto che ce ne sta un’altra! Vedi che non mi sbaglio?... Tutta sulle mani mi è rimasta?... E sotto il tuo nome che c’è?... Vogliamo provare?... Dì come ti chiami! Dì come ti chiami!

EPAFRODITO: Epafrodito...

NERONE: Come?

EPAFRODITO: Epafrodito...

NERONE: Ma non sei Attalo?

EPAFRODITO: No, Epafrodito...

NERONE: Strano, a me invece sembri davvero Attalo.

EPAFRODITO: No, Cesare, credimi... sono Epafrodito... Epafrodito...

NERONE: E se anche il tuo nome fosse verniciato?... Questa è la faccia di Attalo. Vattene via! Via!... (E lo caccia a pedate, mentre quello continua a piagnucolare biascicando il suo nome fittizio)

SENECA: Se lo consideravi uno dei tuoi intimi, avrà bisogno di un sostituto o dovrà fare da postino a se stesso.

NERONE: Ma non lo capisci che abbiamo pochissimo tempo?... E tu che vai a sprecarlo con un impostore! (Accorgendosi di altri che arrivano)  Ecco, lo vedi!... Adesso poi ci interromperanno di nuovo. (E torna a mettersi di spalle)

(Entrano dei servi.

Portano due alte brocche di rame. Come degli scafandri mozzi.

Andranno a deporli ai lati opposti del sedile di Seneca)

SENECA: Ma no, Lucio, Stazio li avrà addestrati. Possiamo parlare ugualmente. (A uno dei servi)  Il mio manto rosso.

(Quello a cui è stato impartito il comando si allontana)

 NERONE: Non so più di che.

SENECA: Della tua arte, dicevi.

NERONE: E della tua.

SENECA: Ah! Questo mi incuriosisce. Della mia. Di quale mia?

NERONE: Di quella per cui ti sei messo a fare a gara con me. Che c’entrava scrivere tragedie? Sei un filosofo, pensa ai tuoi pensieri!

SENECA: Ma se le ho tenute nascoste...

NERONE: Roma è una cassapanca spalancata: piena di segreti, ma anche inondata di luce. Il teatro riguardava solo me. Che c’entrava scriverle?

SENECA: Non sono che dialoghi morali. Un genere che la filosofia contempla.

NERONE: Sei un bugiardo. Ho provato a declamarle: è facilissimo, e starle ad ascoltare pure.

(Entra Stazio, il chirurgo. Ha un involto con sé.

Con lui rientra anche il servo che era stato mandato a prendere il manto.

Uno splendido manto che ha il colore delle more sanguigne)

SENECA: (A Stazio)  Una preghiera: fa’ come se dovessi curarmi. Pensa che pena sarebbe, per un malato, vedersi tra le mani di un medico triste.

STAZIO: (Accingendosi)  Importante è far bene.

SENECA: Il che dipende anche da questo. (Al servo col manto)  Mettimelo addosso. Meglio obbligare il corpo a essere discreto. Da solo non saprebbe farlo, e già lo vedo strepitare in macchie che non gli farebbero onore.

(E viene avvolto da una nuvola densa e fosca)

SENECA: Eccomi ridotto a un ematoma. Come se tutto fosse già finito. Un aforisma vivente: Seneca sagomato nel suo sangue rappreso. (A Nerone, quasi per sfida) Ti piace l’immagine, Lucio?... Abbastanza ripugnante, vero?... Come quelle raccontate dai miei versi. Perdonami. Anche un filosofo, a volte, può abbandonarsi ai cascami dell’ispirazione. Devi accettarlo. Il mondo è popolato di creature pronte a darci la replica. Meglio farsi sempre un poco sordi.

(Stazio, senza badare minimamente a Nerone, dopo aver immerso gli avambracci di Seneca nelle brocche, sta adesso approntando lacci e lame)

NERONE: Ho letto la tua ‘Fedra’. Bè, la vuoi la mia opinione? E’ scopiazzata da cima a fondo da quella che non ho scritto io, ma che, ti giuro, scriverò. E allora nessuno potrà avere dubbi su quale sia l’originale. Questo è quello che penso. Se tu ti credi di aver suggerito a me le mie idee, io so di aver suggerito a te i tuoi scritti.

SENECA: Me lo dovrai ripetere. Il dolore distrae.

(E le vene, infine, vengono incise. All’interno, tra gomito e polso.

Nelle vene vengono quindi infilate delle cannule perché tengano aperte le labbra delle ferite e per aiutare il deflusso.

Si immagina sia questa la fase più cruda e dolorosa dell’operazione.

Le cannule vengono fissate con delle cinghie.

I servi si allontanano a un cenno del medico che, invece, non si muove di lì)

NERONE: E lui?... E’ indispensabile che resti?

(La battuta non è sufficiente a distrarre Stazio dalle sue cure)

SENECA: (Al medico)  Lasciami solo.

STAZIO: Non è facile far  scendere il sangue. Le vene sono rigide. Debbo aiutarlo.

SENECA: Lasciami solo.

(Stazio si allontana)

SENECA: Un po’ di vino, per piacere.

(Nerone lo accontenta facendolo bere)

SENECA:   (Respira a pieni polmoni, come a delibare la propria fine) Mi si accusa di possedere troppo, ma per me tutto quello che ho sono solo libri. Anche le mie cose. Anche questi terreni con le loro coltivazioni. Né più né meno del tramonto che vi si spegne sopra. Libri; solo libri. Non vi è nulla che non sia leggibile. Il saggio onora la natura insegnandole  a parlare di qualsiasi cosa. Perfino di teologia.

NERONE: No, non è col tuo saggio che ripeti queste massime, ma frugando nelle scansie della mia testa.

 SENECA: Verissimo.Con te mi sono state rimesse tra le mani due creature. La prima, destinata a fare; l’altra ad essere. Quella destinata a fare era l’Imperatore; l’altra, l’artista. Mi sono provato a coniugarle in una, ma ora m’accorgo che tu dovevi rimanere scisso. E che la calce fra le tue metà avrei dovuto essere io. Il risultato ce l’hai sotto gli occhi. Siamo un bel teatrino noi tre messi assieme: un principe, un filosofo, un attore. Tutto il resto è solo orbita.

NERONE: Tranne il Senato.

SENECA: Un mausoleo al silenzio.

NERONE: Tranne i morti.

SENECA: Non enfatizziamoli: la morte è sempre a portata di mano.

NERONE: Della mia, senz’altro!

SENECA: Avvicinati, fatti guardare dritto nella fronte. (Nerone solleva meglio lo sguardo verso di lui)  No, nella fronte! Vieni qui. Inginocchiati.

(E Nerone obbedisce; e per davvero Seneca lo fissa nel centro della fronte)

SENECA: In un attimo ti è passato per la testa un pensiero lunghissimo. Più o meno: “Quest’uomo deve avere un piano.  Che vuole farmi credere? Che neanche i miei morti siano più miei?”. Pretendevi conti da regolare, Lucio? Ci siamo. Comincerò io, chiedendoti il saldo dei delitti di cui ti vanti.

NERONE: Che saldo?

SENECA: Tu li hai solo comandati, ma pensati mai.

NERONE: E chi, allora? Tu per me?

SENECA: Non solo io. Anche le cose attorno.

NERONE: Sta’ vedere che la morte di mia madre l’ha decisa il mio bacile! 

SENECA: Deliberata in Consiglio.

NERONE: Per mio ordine.

SENECA: Il tuo ordine l’ha giustificata.

NERONE: Ma a chi altri sarebbe servita se non a me?

SENECA: Forse a Roma, che si serve di te.

(Su questa replica, Nerone si fa di pietra)

SENECA: Almeno capirai come sia possibile immaginare che la odi.

NERONE: Roma è il mio sogno.

SENECA: Come il sogno d’altri è che la odi.

NERONE: Di quelli che l’hanno bruciata: con le loro preghiere.

SENECA: Vai al sodo. E’ ad altro che vuoi arrivare.

NERONE: Britannico, allora?...

SENECA: Tuo fratello è morto giovane. Il che a volte può avvenire per caso.

NERONE: La sua morte era nei miei piani!

SENECA: Evidentemente il destino ha fatto prima con i suoi.

NERONE: Ma se ti dico che lo so di essere stato io?...

SENECA: Testa di cavallo e spada! Testa di cavallo e spada!...

NERONE: E Ottavia!... Chi è che l’ha voluto il delitto di mia moglie: tu o io?

SENECA: Ah, tu. Ma puoi dirlo chi sia stato a consentire il tuo volere?

NERONE: Io! Sempre io! Quella donna non serviva e ne volevo un’altra.

SENECA: Ma finché serviva te l’abbiamo tenuta affianco, e tu non hai potuto farci nulla. Tutti qui gli esempi?... Finiti?...

NERONE: (Quasi andandogli sopra a scuotergli le vesti, come per mostrare Seneca a se stesso)  E questo?!... Chi l’ha voluto questo?...

SENECA: Il principe. Così stava scritto nel rotolo che mi è stato consegnato.

NERONE: Dunque, opera mia! Puoi dire di no?

SENECA: Che?

NERONE: I tuoi polsi squarciati ridotti a clessidra! Opera mia o no?

(E si tira via di dosso all’altro con la propria tunica lorda di sangue. Di quel sangue che il manto rosso di Seneca aveva sino adesso impedito di distinguere)

SENECA: Sai cos’è opera tua? Lo sfregio sul dipinto, non il dipinto. Mi sembrava magnifico il nostro sincero pensare ad altro mentre uno dei due lepidamente dissanguava. Purtroppo ero solo io a farlo, mentre tu, evidentemente, ti limitavi a parlare d’altro. Questo il tuo sfregio. Ma guardati!... Ti si direbbe più lacerato di me. Sei un gran pasticcione, Lucio. Tanto che adesso saremo per forza costretti a parlare non di ciò che vorremmo, ma di ciò che sta accadendo. Di questo! E non credo sia cosa che andasse né a me né a te.

(Nerone tace, il che lo dichiara al palo della tortura)

SENECA: Allora, figlio!?... Vuoi che te lo chieda? E sia: perché l’hai fatto?... Perché pur io? Perché tuo padre?...

NERONE: Sta’ zitto! Non sono qui per questo! 

SENECA: Perché mi hai condannato a morte?

NERONE: Perché tu avevi condannato me.

SENECA: E ci sei arrivato senza nessun processo?

NERONE: Come te. Me l’hai insegnato con mia madre a usare giurisprudenze in anticipo sulle altrui. Fatto. E anch’io ho le mie domande, ma me le ricaccio in gola.

SENECA: Falle.

NERONE: Non sono qui per questo! Non sono qui per questo! Non sono qui per questo! (E ricomincia il suo solito prurito. Prova a grattarsi. Guarda in alto, ma senza trovare quello che cerca. Forse la luna)

SENECA: Un cielo facile da indagare. E’ così vuoto!

NERONE: So io che cerco. (E si danna per lenire il prurito)

SENECA: Vuoi strofinarti contro le mie ginocchia?

 

(E Nerone, quasi per reagire alla sfida, va e lo fa.

Poi rifiata restando appoggiato alle gambe di Seneca)

SENECA: Mi fai bere, per cortesia?...

(Nerone si alza, riempie la coppa e gliela accosta alle labbra. Seneca beve)

SENECA: Grazie, Lucio.

(Nerone si riallontana)

SENECA: Qualcuno se lo ricorda ancora che ti chiami Lucio?

NERONE: No, nemmeno io. Mi chiamava così solo mio padre. E anche mia madre fin quando è stato vivo lui, poi basta.

SENECA: Forse tra le tue lenzuola lo avrebbe fatto di nuovo.

NERONE: Mi voleva perché Nerone.

SENECA: E per ridurti a Lucio.

NERONE: Come fai tu.

SENECA: Levati, stanno tornando.

(Rientra Stazio che va a controllare le emorragie)

STAZIO: Debbo intervenire ancora. Così non basta.

(Seneca si sporge da oltre il bracciolo per osservare lo stato delle sue braccia)

SENECA: Cola come miele da un favo. Il mio maestro diceva che è questo il modo in cui Dio scorre attraverso il mondo: come miele attraverso il favo. Anch’io evidentemente faccio parte del paesaggio. Anch’io evidentemente sono leggibile.

STAZIO: La tua gente vuole avvicinarsi. Sente che parli e vorrebbe sapere che dici.

 

SENECA: Oh... nulla di attraente. Cose grige. Una silloge di epitaffi. Il nostro Lucio saprebbe fare assai meglio. T’ho detto chi è? Un poeta. Dovrei farle comporre a lui le ultime parole da attribuirmi. Lo faresti, Lucio?... Hai tempo. I posteri sono molto distratti in fatto di date. Potresti improvvisarle anche un attimo prima di morire tu.

STAZIO: (Sempre chino a controllare i flussi)  C’è bisogno di aprire vie più larghe. Quello che posso fare è inciderti i canali delle gambe.

SENECA: Ancora no.

STAZIO: Così ti costringi alla più disperata delle suppliche: cercare la morte una seconda volta richiederà molto più coraggio della prima.

SENECA: Allontanati e aspetta.

(E tace. Nerone pure.

Stazio si allontana dopo aver deposto i suoi strumenti su un largo panno bianco per cui si asperge il sangue della lama e di qualche laccio tirato via)

NERONE: Scrivimi il tuo elogio funebre, Seneca. Posso fermarti le vene e darti il tempo. Concepiscilo tu il discorso da farmi leggere presso il tuo cadavere. Come hai sempre fatto ogni volta che c’è stato da benedire l’avvento di una nuova èra.

SENECA: Muoio condannato. Se tu mi elogassi non ti si capirebbe.

NERONE: Quando eri tu a dirmi che dire, mi hanno sempre capito tutti. Farò sapere che il tuo suicidio è figlio della tua filosofia e che lo Stato non c’entra. Nessuna condanna. Non hai tradito nessuno. Scrivimi un discorso che mascheri la tua morte e io ti prometto che trasformerò quella maschera  nel più abbagliante dei volti. Ma sbrigati a dirmi di sì. Chiamo? Lo dico? (Seneca non gli risponde) Cosa ti preoccupa? Che quegli altri già sappiano? Ma è la tua gente. Vuoi che te li descriva?... Un’accolita di fantasmi tumefatti, tua moglie in testa. Tutti in fila, muti, a guardare quassù. Un coro di màrtiri gelosi del tuo martirio. E allora perché non lo trasformi in un atto incarnato della vostra ideologia questo martirio?... Vi piace talmente tanto andarvene in anticipo che io potrei benissimo non entrarci affatto. Seneca suicida... chi se ne stupirebbe?... (Poi, traversato da un altro pensiero...) O forse proprio è che non ti va di saperti scagionato?... E’ questo che non vuoi? Farti sapere fedele a me?... Va bene,  accetto tutto. Se ti vergogni di morire amico di tuo figlio, fammelo dire e lo dirò.

(E intanto sulla sua tunica, già lercia, è andato a spandersi altro sangue del Maestro)

NERONE: E’ così o no?... Vuoi si sappia che mi hai tradito?... Scrivilo. Ostenterò il tuo elogio comunque, anche ammettendo quello che hai fatto, e che stavi per rendere pericolosi addirittura degli imbecilli. Quando alla guida c’è Seneca, perfino un somaro può scendere in pista. Sono disposto ad affermarlo a costo di farmi ridere dietro! Se è questo che desideri, va bene: esaudito. Ma devi mettermi in parole le ragioni di un ‘nonostante tutto’ per cui abbia un senso che Nerone ti commemori. Lo farai?

SENECA: Non hai più paura che il mio medico scopra chi sei?

NERONE: Oh, mi ci vuol nulla a ridiventare il suo Cesare. Dimmi di sì e neanche saprà di avermi visto.

SENECA: Allora richiamalo.

NERONE: (Chiamando fuori)  Tu... vieni, presto!

(Stazio rientra e si accosta a Seneca)

NERONE: Ferma quel sangue.

SENECA: No. Incidi.

(Nerone non replica. Quasi neanche ha più la forza, o la voglia, di allontanarsi.

Stazio provvede a segare le arterie dei polpacci.

Seneca sopporta tutto tacendo. Anche Nerone sopporta tutto tacendo.

A funzione ultimata, il chirurgo gli va vicino)

STAZIO: (Senza riconoscerlo)  Vieni sotto il portico con noi. Il compianto, se condiviso, matura prima le sue ragioni. (Nerone non risponde) Fallo quando vuoi. La nostra scuola prosegue lì.

(Stazio esce portando via i suoi ferri)

SENECA: Vedi... le mie vene mi seviziano. Fatti Cesare, digli qualcosa.

NERONE: Io volevo solo leggere ancora qualcosa di tuo.

SENECA: (Quasi ostentandosi)  Leggi me!

(La postura del vecchio filosofo sembra annunciare una Metamorfosi ovidiana.

Ma che starà per divenire? Forse una statua di metallo e di carne.

Forse un automa. Forse un futuro Golem. Oppure un inno al colore che lo veste e che è lo stesso del liquido che lo svuota.

Il manto, color porpora intenso, gli ricasca tenebroso sulle gambe a negare l’atrocità di ciò che sta avvenendo sotto. Facile immaginare il sangue che allaga la terra, pur se niente lo mostra.. Il drappeggio della stoffa è sufficiente a far da velo anche alla repellenza di questa diffusione. Un fuoco di scintillii dardeggia dal rame su cui picchia il sole radente della prossima sera.

Nerone si stringe tutto nel suo mantello e accenna ad andarsene, ma non lo farà.

Si intanerà nell’angolo più distante e rimarrà lì come in attesa, spiando Seneca.

Il Maestro inizierà a parlare credendo di essere rimasto solo)

SENECA: Cara sposa... cari figli... fratelli... avori e cedri delle mie biblioteche. Rasserenatevi. Posso vedervi, come voi me.  Perciò, ci sia gradita anche questa giornata in cui non v’è nulla di esagerato. Ciò che accade è naturale. - Voi premete tanto perché io ammetta di essere il vostro Dio! Ebbene: vi amo talmente da dovermi chinare a far finta d’esserlo. Se vi serve, lo sopporterò. L’anima di un uomo corrisponde alla sua vita. Il destino che tocca a te, o a te, o a te, o a te, è di compiere la tua anima fino all’estremo. Quello che tocca a me, è di compiere la mia. L’anima di Seneca. Che enormità! Ma ne ho forse colpa se tutto ciò che mi riguarda al solo pronunciarlo rimbomba altisonante?

NERONE: (Senza che nessuno possa sentirlo)  Ti ripeti. Ti ripeti sempre. E avevo ragione a credere che hai letto i miei versi.

(Smette di spiare e fugge via. Stavolta per davvero.

Non rimane che il filosofo paludato e infisso nelle sue armature,

mentre un aureo fascio di luci declina con lui, diadema scarlatto presso l’orizzonte)

SENECA: E ora riprendiamo da dove ci eravamo interrotti. Dunque. Dicevo di una pazza che mia moglie mi portò in casa e che un giorno diventò cieca. Neppure se ne rese conto, e così cominciò a implorare per essere portata via da una casa in cui, diceva, non si vedeva nulla. Oggi ancora mi sono reso colpevole di aver pensato a quella donna divertendomi. Noi possiamo ridere di lei, e intanto le somigliamo. Ben venga perciò l’insegnamento di Sestio che m’induce a chiederle scusa ad alta voce. Ad alta voce. Ad altissima voce.

(Fine dell’atto)


ATTO TERZO

(Il suicidio)

Murature malconce restringono uno spazio che sa quasi di pollaio.

Fuori è notte, ma non ci sono aperture a svelarlo tranne alcune feritoie opacizzate da lastre di talco.

Che sia notte, e che tipo di notte sia, ce lo diranno le parole dei personaggi.

Il pavimento è di fango pressato.

Serve che vi siano tre cose: una cuccia che è quasi una branda senza riuscire a sembrare un letto, un braciere di pietre in terra alimentato da carboni accesi, e una meridiana intagliata in un tondo di sasso con la sua cuspide a squadra e che pare buttata lì per caso. Impressione giusta.

Per il resto: sacchi di ortaggi affianco del braciere, alcune lanterne aggruppate come ferraglia (di cui alcune accese) e delle stuoie sdrucite stese a difendere dal terriccio.

L’unico accesso a questa sorta di cella è un’apertura bassa e stretta. Per passarvi, c’è da mettersi carponi. La si direbbe lo sbocco di un passaggio da tenere nascosto.

Siamo giunti all’ultima notte di Nerone, Svetonio ce la descrive meteorologicamente da tregenda. Addirittura funestata da scosse di terremoto.

Non suggeriamo tanta enfasi, ma un certo sentore di fradicio e di scrosci è comunque indispensabile.

L’Epafrodito che vedremo in questa scena non è più lo stesso delle scene precedenti.

Anch’egli è pittato di giallo, ma, al contrario dell’altro, ha modi assai meno condizionati, dando a intendere la benevola sopportazione che è tipica di tanti subalterni nei confronti del padrone caduto in disgrazia.

Di sicuro, ha ben capito che non sarà più questi a decidere del suo destino.

(Nerone dorme pesante sulla branda.

I suoi abiti si riveleranno ancora più penosi di quelli indossati nell’atto precedente.

Accovacciato presso di lui c’è Sporo, un delicatissimo eunuco.

Sporo è in preda ai brividi. E non si direbbe che siano di freddo.

Ha una pezza con cui strofina alcune scodelle in terracotta che poi impila al suo fianco. Gestualità da massaia.

A ogni minimo fiato di Nerone, Sporo si volta apprensivo verso di lui)

SPORO: Dormi?...

(Nessuna risposta.  Sporo riprende a strofinare le sue stoviglie.

Ma di nuovo Nerone sbuffa o si assesta d’un lato, e Sporo...)

SPORO: Ma stai dormendo?...

(Niente, e Sporo insiste a sistemare le scodelle, finché un rumore lo distrae.

Il rumore proviene dalla galleria che conduce alla cameretta.

Sporo sospende le sue operazioni e ascolta ansioso.

L’indecisione tra il fare e il non fare lo blocca dove sta.

Sulla soglia, fuoriuscendo quasi chinata in due, compare Atte. E’ zuppa.

Alla vista della donna la preoccupazione di Sporo non diminuisce, anzi.

Atte prende coscienza del luogo dove si trova. Nota Nerone, e subito poi la pavidità del suo guardiano. Si solleva in piedi. Un vastissimo manto olivastro appesantito dall’acqua l’avvolge pendendo dalla sommità del capo)

ATTE: Non sai chi sono?...

(Sporo annuisce un po’ indeciso)

ATTE: Allora perché hai paura?

SPORO: Perché tutti si sono messi a dargli la caccia, ecco perché.

ATTE: E non sai distinguere?

SPORO: Io non so più niente.

ATTE: (Chinandosi presso il braciere per provare ad asciugare  un po’ di quello che ha indosso)  E’ la fine. Questo lo sai?

SPORO: So che sembra, ma non so quello che è successo.

ATTE: Il Senato si è incoronato Imperatore, e manovra l’esercito attraverso Galba.

SPORO: Che allora è vero: è a Roma.

ATTE: (Accennando a Nerone)  Lui, sennò, perché sarebbe fuggito?

SPORO: Perché ne è convinto. Epafrodito, però, dice che non è così. Che gliel’hanno fatto credere apposta, ma che invece poteva rimanere.

ATTE: Vorrà dire che se non era così prima, adesso lo è. (Guarda Sporo fisso in volto osservandolo con curiosità. Ne sorride)  Ma tu non sei quello che Cesare si è preso come moglie?... Quello che dice gli ricorderebbe Poppea?...

(Sporo annuisce di nuovo, ma insiste a farlo con strano tremore)

ATTE: (Spingendosi verso l’altro per scrutarlo meglio)  Fatti un po’ vedere... io me la ricordo Poppea. Anche da morta. Non mi sembri tanto uguale.

SPORO: C’è una maschera che m’ha fatto fare per la faccia. Quando mi dice di metterla, la metto.

ATTE: Quindi, il tuo punto di forza sarebbe tutto il resto.

SPORO: Io so solo che dice che ha bisogno di me!

ATTE: Anche ora?

SPORO: Questa è casa mia. E qui che mi ha chiesto di nasconderlo. E tu?...

ATTE: E’ qui che m’ha chiesto di raggiungerlo.

SPORO: Perché?

ATTE: Domandalo a tuo marito.

(Entra Epafrodito. Anche lui bagnatissimo.

La verniciatura sul viso è alquanto malridotta e lascia intravedere in più punti il colore naturale della pelle sotto)

EPAFRODITO: Ho cercato di chiudere il cunicolo con un po’ di canne e gesso. C’è molto buio, dovrebbe bastare.

(E va a smuovere alcune rape che aveva messo a cuocere tra le braci.

E’ già da qualche istante che Nerone si è tirato a sedere sulla sua branda e che li sta osservando)

NERONE: Chi è che aspettate?

ATTE: Nessuno, Cesare.

NERONE: Bugia!

ATTE: Allora nessuno, tranne chi temi.

NERONE: E’ arrivato il mio Amen?

EPAFRODITO: (Rimestando con una canna tra i tizzoni)  E’  alla porta e picchia.

NERONE:  (Tendendo l’orecchio)  A me sembra solo pioggia.

EPAFRODITO: Non fidarti. E’ la tranquillità del fango.

NERONE: (Guarda in alto, verso un punto implausibile data la clausura del luogo)  Qualcuno m’ha spiegato che quella stella si chiama Assenzio. E’ una stella tossica; l’unica che vedo.

ATTE: Ma se di qui non si vede nemmeno il cielo!

NERONE: Scomparsa. Forse il cielo se l’è portato appresso. (Tendendo una mano verso Sporo)  Hai una casa molto fredda. Per me no, ma tu tremi.

SPORO: Sarà l’acquazzone. Ero bagnatissimo.

NERONE: Oh, povera farfallina sottoposta al supplizio della ruota!

SPORO: Ma non ne soffro.

NERONE: (Più intimamente, riferendosi ad Atte)  Secondo te: perché quella lì dice che non si vede nemmeno il cielo?

SPORO: Forse perché è molto scuro.

NERONE: Allora io?!... Che ne saprei che si chiama Assenzio?...

ATTE: Ma tu sei Cesare.

NERONE: (c.s.)  Oh-oh... guarda, Sporo... la mia Atte ha messo il broncio. E’ perché l’ho chiamata ‘quella lì’, capisci!?...

SPORO: O che forse è preoccupata per te.

NERONE: (A lei)  Posso crederci?

ATTE: Anch’io ho freddo. E anch’io sono bagnata.

NERONE: Atte... bambina mia bellissima, dì: pure se ora mi tieni il broncio, mi soccorrerai?

ATTE: Quando ce ne sarà bisogno.

NERONE: Dunque, presto. Il futuro arriva sempre presto. Ben mi sta. Il tempo durava molto di più prima che io mi decidessi a esistere. Logico: si faceva talmente poco! Solo guerre guerre guerre guerre guerre. Gli uomini si erano ficcati in testa di rimpiazzare il destino. Ci volevo io per rimetterlo al suo posto, e il destino ne fabbrica di spettacoli! Altroché. Così oggi le giornate durano un soffio.

ATTE: Nerone, è finita.

(Sporo, riposte le sue terrecotte, si è spostato un po’ più al centro; e, sempre accucciato, guarda verso l’angolo indicato prima da Nerone.

In questi traffici simultanei la battuta di Atte sembra cadere nel nulla)

SPORO: Forse è quella la stella che dici! Quella al centro della crepa.

(Nerone accorre verso di lui)

NERONE: (Sforzandosi di mettere a fuoco)  Io non vedo nemmeno la crepa.

ATTE: Nerone, è finita.

SPORO: (A Nerone)  Lì... guarda lissù.

ATTE: So perché mi hai voluta. Per aiutarti a crederlo.

NERONE: (Cercando in alto)  Prima l’avevo vista così bene!

ATTE: (Continuando il suo discorso) E io obbedisco. Ti impongo di saperlo.

SPORO: (A Nerone)  Ma hai capito quale?... Quella.

NERONE: (Distraendosi dal cielo e fissandolo negli occhi)  Sì che la vedo: su di te. Ti illumina. Io non ci credo che spande veleno. Anzi, scalda. (Stringendosi a Sporo) Vero che scalda?... Venite anche voi, provate.

EPAFRODITO: Fammi pensare alle rape. Almeno mangiamo qualcosa.

NERONE: (A lei)  E tu?

ATTE: Nerone... è - fi - ni - ta.

NERONE: Ma lo so, lo so!... Ora solo perché ho un po’ di forza d’animo debbo essere trattato come un imbecille?...E  da chi, poi?... Da una liberta puttana, da un mezzo schiavo e da un castrato. Certo che lo so. Io le vedo le cose come sono. Le vedo anche un po’ più di voi, ma non  ve lo faccio pesare. Questa la differenza. Lo so da me che mi aspettano a tutte le uscite. Sapete che implora il mio cuore? Una terra di mezzo. Ditemi dov’è e ci metto le tende. Dormo, e c’è il vecchio che mi punta il dito contro. Mi sveglio, e c’è il mio Amen che arriva.

SPORO: Quale vecchio?... Ancora quello del libro?

NERONE: Non mi molla più. Ormai ha preso dimora fissa nei miei sogni. E’ cattivissimo con me. Annuncia la mia morte e non mi chiama neanche per nome. Io gli dico: “Ma cos’è che vuoi? Che metta la mia firma sotto qualsiasi orrore? Lo faccio. Dimmi dove e lo faccio”. Tanto il male è un gioco. Sta solo nei versi che lo cantano. Il male è finto. “Per cui, - gli dico - finisci il tuo libro e mandalo dappertutto. Ci tengo. Dillo: ‘Ma sì, ha fatto questo e quello; ha sgozzato madre e padre; ha stuprato l’inviolabile; ha bruciato la sua città; ha calato sulla terra sipari di sangue’. Dillo. Tutto teatro. Fosse per me, ci morirei dentro. Ma lui mi vuole davvero a pezzi. Allora non gli dico più nulla e il sogno va in malora. (Alzandosi in piedi sulla branda, come per gioco)  Testamento di Cesare! Io consegno al mondo che verrà uno spettacolo lunghissimo. La messinscena più mastodontica di cui potrà mai godere. La più sterminata di tutte le rappresentazioni. Niente di quello che lascio è reale. Non dovrei esserne fiero?

ATTE: Qui fuori tutto è reale.

NERONE: Mostramelo! Va’, esci e portamelo dentro il tuo di fuori. Allora forse.

ATTE: Arriverà da sé. Ti inseguono.

(Nerone scende dalla branda e si avventura  un po’ disorientato per la stanza)

NERONE: E appunto mi domandavo: sarà per questo che mi si è abbassata la vista?

EPAFRODITO: (Porgendo)  Tieni. Ho salvato il tuo smeraldo.

NERONE: (Come di cosa che non sa)  Vale molto?

EPAFRODITO: Non lo usavi per vedere meglio?

NERONE: (Portandolo all’occhio)  Ahimè... anche vedendo meglio è sempre peggio di come vedevo prima.

SPORO: (Con uno slancio malato)  Ti regalo i miei occhi, Cesare! Dimmi quello che vuoi vedere e lo vedrò per te.

NERONE: Non sforzarti di essere utile. Tu sei solo un ninnolo. La tua bellezza è questa.

ATTE: Ti inseguono.

SPORO: (A lei)  Perché vuoi spaventarlo?

ATTE: Ma se neppure mi ascolta! (A Nerone)  Hai capito quello che ho detto?

NERONE: Difatti sai che sto pensando? Che in Grecia era tutto più bello. Torniamo lì, vi va? Tutti noi. Tutti e cinquemila quanti eravamo. Tanto non manca nessuno. (Fingendo di contarli)  Due... tre... quattro... e con me, cinquemila. Torniamoci! Ma oggi stesso, stanotte. A mietere successi negli anfiteatri ovunque. Palme della vittoria a fasci! (Silenzio)  Vi prego... fate finta che possa essere così.

EPAFRODITO: Siamo stanchi, Cesare. Abbiamo cavalcato per ore.

NERONE: Fatica sprecata. Non ci accadrà niente di niente.

ATTE: Ma sei tu che hai chiesto di fuggire.

NERONE: Se non mi ricordo nemmeno da chi!

ATTE: Dai tuoi pretoriani.

NERONE: Per quelli ho Tigellino.

ATTE: Tigellino è scomparso. Roma non è più ai tuoi ordini.

NERONE: Scomparso?... Oh, sì. Sìsìsìsìsìsìsì. Ora ricordo. Le cose sono un po’ cambiate, è vero. Ammetto: ricordo: è vero. (Tornando alla branda)  E va bene. Vorrà dire che aspetteremo.

ATTE: Volevi la gloria. Non t’interessa più?

NERONE: Gloria è una parola vostra. Ce l’aveva sempre in bocca il mio maestro. Gloria e virtù. Sei diventata una dei suoi?

ATTE: Non è così che può finire il mio Cesare!

NERONE: (Tappandosi le orecchie)  Zitta. Già so che stai per dire cose orribili.

(Epafrodito tira via le rape dai carboni e si fa passare le scodelle da Sporo)

EPAFRODITO: C’è da mangiare. (Agli altri)  Ne volete?

(Sporo si accosta. Anche Nerone.

Atte, invece, rimane ginocchioni presso una parete)

NERONE: (A Epafrodito, mentre questi lo serve e  notando le impiastricciature sul suo volto)  Guarda come ti sei sconciato la faccia! Sei indecente. Sistemati.

EPAFRODITO: (Sedendosi a mangiare)  Non ho niente con me per farlo.

NERONE: E’ importante. Ricordatelo.

EPAFRODITO: Sì, sì... lo so che è importante.

NERONE: Ma te lo ricordi? Lo fai?

EPAFRODITO: Dopo, quando posso.

(E i tre iniziano a mangiare.

Atte ascolta. Silenzio; sia all’interno che dall’esterno.

Infine, Nerone comincia a grattarsi)

NERONE: Non so chi, ma ho idea che uno tra voi farebbe bene a preoccuparsi. (E si gratta)  Sento il mio solito prurito di quando sto per uccidere qualcuno che mi è molto caro. Vediamo, chi potrà essere?...  (a Epafrodito)  Forse proprio tu?... Ma perché? Tutto ciò che avevi me l’hai dato. (A Sporo)  Tu invece me lo stai dando. (A lei)  Mentre tu, debbo ammettere, non mi hai mai lesinato i tuoi ‘grazie’.

ATTE: Vuoi saperlo chi?

NERONE: Certo che lo voglio. Per quanto mi sforzi, non vedo davvero chi possa essere. Eppure la schiena mi prude da farmi uscire matto.

ATTE: Forse tu, Nerone.

NERONE: Io come?

ATTE: Forse è te stesso che devi uccidere.

NERONE: Non realizzo. (A Epafrodito)  Ma che sta dicendo?

EPAFRODITO: (Piano, senza azzardarsi ad alzare gli occhi su di lui)  Che devi ucciderti, Cesare! Siamo qui per questo.

NERONE: Non capisco. Parli pianissimo.

EPAFRODITO: Siamo qui per questo. Perché ti devi uccidere.

NERONE: Io, me?... (Guarda Sporo)  Ma li senti?... Lo senti che dicono?

SPORO: (Spingendo fuori la voce quasi a forza, come un corpo estraneo e doloroso)  Loro hanno... sì, hanno ragione. La mia casa ti ha accolto con infinita pietà per aiutarti a farlo. Guarda le sue mura. Perché piangerebbero altrimenti?

NERONE: No, lui me l’ha detto più chiaramente. (A Epafrodito)  Com’è che hai detto?

EPAFRODITO: Che devi ucciderti, Cesare.

NERONE: Così forse è un po’ troppo chiaramente.(A Sporo)  Preferisco le tue metafore (e si gratta).

ATTE: Io credo che sia davvero tu la persona che ami, quella che stai per... basta. Tutto qui.

NERONE: Per?...

ATTE: Non è la mia frase a decretare il tuo destino. Te lo porti dentro. 

NERONE: Tre diversi modi di intendere le parole. (Indicandola)  Da sfinge. (Sporo)  Da poeta. (Epafrodito)  Da manovale. E intanto il mondo rimane sempre lo stesso.

ATTE: Poiché il mio enigma è chiaro, che farai?

NERONE: Insomma, tu dici: “Ucciditi”. Ma senti!... (Di nuovo a Sporo)  E tu pure dici che ti avrei detto: “Andiamo da te” per questo?...

SPORO: Sì. Io credo di sì.

NERONE: Strano. Ma l’avete dedotto, oppure...?

EPAFRODITO: Lo imploravi piangendo.

NERONE: Strano. Davvero tanto. E imbarazzante. Comunque, stranissimo. Non dico di no, ma cerco cerco e non trovo niente.

EPAFRODITO: E’ nella tua sacca che devi cercare. In quella che hai lì legata alle fasce. Guarda che c’è.

(Nerone lo fa, e recupera da un involto di pelle due pugnali)

EPAFRODITO: Non ricordi di quando mi hai chiesto di legarteli così?

NERONE: (Senza poter staccare lo sguardo dalle lame che si tiene sul palmo delle mani)  Vagamente.

EPAFRODITO: E non ricordi perché?

NERONE: Forse.

EPAFRODITO: No, non forse.

NERONE: Sì, un po’. (Un silenzio. Poi, guardando il proprio corpo)  Sicché, dopo tanti delitti e morti e stragi, l’incontro sta avvenendo: ecco la salma. La vera salma. Questo vuoi dire?...

EPAFRODITO: Probabilmente.

NERONE: Ma se non hai capito una parola di quello che ho detto! Me l’hai fatto dire tu, e non hai capito una sola parola. 

(Detto ciò, Nerone mette i coltelli da parte come a distrarsene e addenta una rapa ostentandone la masticazione.

Tutti, tranne Atte che resta con l’orecchio alla parete, si rimettono a mangiare sporcandosi abbondantemente di cenere)

NERONE: E così si compie il sogno di Seneca. Addormentarmi. A lui è sempre piaciuto colare mastice tra le ruote della Storia. Se ha una passione, è questa.

EPAFRODITO: Seneca è morto.

NERONE: Ti sembro già morto io? No. Seneca non è ancora morto. I morti sono tutt’altra cosa. Petronio, ad esempio. Lui sì che è morto. Peccato, fosse qui mi apprezzerebbe. Sentite come mi esprimo sciattamente? Farei la sua felicità. Lui odiava l’eloquenza. L’accusava al fine di denigrare l’uditorio dell’oratore. Ma parlava in cifre: il vero accusato era l’istrione, e il vero denigrato era il suo pubblico. (Guardandoli tutti e tre bene in faccia)  Accusava me, e derideva voi. Non mi credete? Chiamatelo. Che venga e si spieghi. Mi si presenti davanti e parli chiaramente, poiché ha scritto... oscuramente. (Sporo è scosso da un sorriso, forse commosso ma equivocabile)  Ti diverte, cara moglie?... Che?... Il pensiero di incontrare il buon Petronio?  (Vellicandolo sotto il mento)  Ti è parente in qualcosa, lo sai? E visto che lo apprezzi, ti confiderò che anche lui apprezzava te.

ATTE: (Premendo con più forza l’orecchio contro il muro)  Rumori.

(Epafrodito le va vicino per ascoltare a sua volta)

NERONE: In una  notte di pioggia si può sentire di tutto. (Silenzio)  Vero o no?

(Epafrodito annuisce)

NERONE: Rimettetevi seduti. (A lei)  Anche tu.

(Epafrodito torna al suo posto. Atte si rimette giù.

Nerone considera i suoi coltelli)

NERONE: C’è un ‘però’. Parlo di questi. C’è un grandissimo ‘però’. Se avevo in testa di usarli contro di me, perché non l’avrei fatto dove stavo?

EPAFRODITO: Noi ti abbiamo obbedito senza domandarti nulla.

NERONE: D’accordo. Ma io mi limito a ragionare, e la cosa non quadra. Forse avevo dei dubbi; va tenuto presente.

EPAFRODITO: Non sembrava.

NERONE: Che c’entra! Avrò o no il diritto di capire quale fosse il mio desiderio?... Non posso fare il frettoloso con faccende che potrebbero finire col cogliermi impreparato. Sarebbe gravissimo. Perciò dico: che bisogno avevo, per segarmi la gola, di scappare da Roma e di ficcarmi in questo buco?

ATTE: Non interrogare i tuoi desideri, interroga le tue necessità.

NERONE: Sempre di ferro tu.

ATTE: Ti è indispensabile che io lo sia.

NERONE: Mi conosco. So come funziono.

ATTE: E il responso?

NERONE: Che avrò improvvisato. La cosa più ovvia. “Poi - mi sarò detto - una volta lì decideremo.”

ATTE: E ora che ci sei?

NERONE: (Riprendendo a mangiare)  Finisco le mie rape.

ATTE: Ci riusciresti anche se fossi solo?

NERONE: Lo sono.

ATTE: Fosse vero, le tue rape non avresti neanche cominciato a mangiarle. Non mi risulta che tu abbia mai saputo cuocere nulla.

NERONE: Come se a me non piacerebbe che voi ci foste sul serio! Ma è molto difficile crederlo.

ATTE: Intanto quelle rape son cotte.

NERONE: E allora spiegamelo!... Cos’è che ti tiene vicino a me? Neanche c’è più Seneca a chiederti: “Stagli appresso! Distrailo da sua madre!”

ATTE: Non me lo rinfacciare. E’ stata una buona occasione per conoscerci.

NERONE: Sei pazza. Parli come una donna innamorata.

ATTE: O ricca. Lo sono divenuta, e posso consentirmi di mostrarmi riconoscente.

NERONE: Sei ricca?

ATTE: Tutti quelli che hanno creduto in te lo sono.

NERONE: (A Epafrodito e a Sporo)  Anche voi siete ricchi?

EPAFRODITO: Abbastanza.

NERONE: Solo?

EPAFRODITO: Nella miseria in cui sono nato questo ‘abbastanza’ mi sarebbe sembrato un sogno.

NERONE: (A lei)  Vedi, lui non è ricco.

EPAFRODITO: Ma sì, t’ho detto di sì.

NERONE: Con riserva, il che è imperdonabile. Ma si rimedia! Ti nomino governatore di tutte le province di Spagna. Dalla prima all’ultima. Così almeno me le conti. Pensi che un intero paese riesca a colmare le lacune della mia distrazione?

EPAFRODITO: Sin troppo, Cesare.

NERONE: (A Sporo)  E tu?

SPORO: Io?... Bè, questa, la vedi, è la mia casa.

NERONE: No, non la vedo. Sono quasi cieco. Descrivimela.

SPORO: Potrebbe gareggiare con la tua.

NERONE: Che peraltro ti appartiene. Non sei mia moglie tu?

SPORO: A volte vuoi che lo sia, altre no, e io non è che ti capisco sempre.

NERONE: Dipende dalla tua maschera. Sta a te metterla, sta a te toglierla. (Lo tocca sul viso)  Ora non ce l’hai, com’è?

SPORO: Ho paura che sia andata persa.

NERONE: Oh... il visino della mia Poppea abbandonato alla mercè di chissà chi! E’ orribile. Quindi, non sarai più la mia Poppea!?...

SPORO: Posso sempre fingere.

NERONE: D’essere cosa?... Una moglie qualsiasi?

SPORO: No. Una buona moglie. Posso.

NERONE: Ma io non ti ho voluto perché sei tu, ti ho voluto perché sembravi lei! Forse per ucciderti, come non m’è riuscito di uccidere lei. L’unica che sia sfuggita al percorso completo del mio amore. Chi altri, fra coloro che ho immensamente amato, non ho distrutto?... Nessuno che regga alla conta. Solo la mia Poppea ce l’ha fatta. E nemmeno ho più il tempo di assicurarmi che la calunnia sappia lavorare a dovere raccontando che la sua morte fu opera mia. (A Sporo)  Mi era rimasta una sola risorsa: eri tu. Pure questa è svanita. Se non avessi perso la tua maschera, adesso t’avrei chiesto: “Calzala e ucciditi ai piedi del tuo Nerone”. Non foss’altro per dimostrare la mia buona volontà.

SPORO: Ma potrei lo stesso! Lo sanno tutti delle nostre nozze. Se lo farò si capirà benissimo il perché. (Nerone sembra pensarci)  Vuoi?... Sono qui, ordina e lo faccio. (Ancora silenzio)  Poi però devi farlo anche tu.

NERONE: Poi però, poi però... che è? Ti metti a fare mercati con me?

SPORO: No, Cesare. Sia quello che ti do che quello che ti chiedo, sono entrambi parte di un solo omaggio a te.

NERONE: (Tornandosene alla branda)  Che sottigliezza da checca! Mettila per scritto; dovrò leggerla minimo una dozzina di volte se vuoi sperare che la capisca. Dì, piuttosto... questo sarebbe il tuo letto?

SPORO: Sì.

NERONE: Se non lo vedo, lo sento. E’ un pulciaio. Immagino il resto.

ATTE: (A Nerone)  Perché non gli hai risposto?... Ti ha offerto la sua vita.

NERONE: (Ignorandola, a Sporo)  Come puoi vantarti di avere una bella casa se poi ti tocca dormire su una simile mondezza?

SPORO: Ma cosa vuoi che m’importi del mio letto da quando vivo nel tuo!...

NERONE: Basta così, ho deciso. Se mi credi sordo ai gemiti della coscienza, non lo sono affatto. Ti do in procura tutti i bordelli della città. Pensi che ne avrai di che farti un letto vero e tutto tuo?

SPORO: Ma a che mi servirà? La tua sposa morirà qui col suo Nerone.

NERONE: Lo dici convinta?... (Sporo annuisce senza la minima esitazione)  E sia, acconsento. Felice? (Sporo annuisce di nuovo)  Prima, però, voglio il tuo compianto. (Sporo lo fissa senza capire)  Morendo dopo di te, lo scialerei. Odio certi sprechi. (Si stende) Ecco la salma. Omaggiala.

ATTE: (A Sporo, che obbedisce)  Prendi l’olio da quelle lanterne.

NERONE: Forza, cospargimi. (Sporo esegue con impacciata diligenza) Per bene, tutto. Scosta gli abiti (e Sporo lo fa). Hai la mano perplessa; come mai?... Non ti sembro morto abbastanza?... Non è una domanda retorica, rispondi.

SPORO: Sì, Cesare.

NERONE: Sì, che?

SPORO: Sì, lo sei. Morto... tanto, ecco. Tutto. Completamente.

NERONE: E dov’è il tuo strazio?... Fammelo sentire! Andiamo, ulula il mio nome!

(Sporo, stremato, riesce a sillabare a stento)

SPORO: Nerone... Nerone... Nerone... Nerone... Nerone...

NERONE: Finalmente capisco Seneca. Una volta l’ho trovato che stava lì a chiamarsi da solo. Non sapeva che sarebbe morto quel giorno. (A Sporo)  Tu, continua! (E, mentre Nerone riprende a parlare, Sporo insiste cocciutamente a chiamarlo in un’assurda cantilena)  Era questo che faceva. Celebrava le proprie esequie e si adescava da sé nell’oltretomba. Preveggenze della filosofia.

(Ora comincia anch’egli a chiamare il proprio nome accordandosi a Sporo.

Poi, con violenza improvvisa, si tira su disgustato)

NERONE: Ah, che puzza! (Si annusa)  Ma che mi hai messo? Salamoia di pesce marcio!...

SPORO: E’ l’unico olio che c’è.

NERONE: (Col volto tra le mani)  Non è servito a niente, a niente... (poi a Epafrodito, che lo sta scrutando come oppresso da qualcosa)  E tu non fare quella faccetta buffa! So che pensi... “Il mio principe avrebbe avuto bisogno di una robusta dose di ellèboro da mischiare alle sue rape. Fa bene alla pazzia”. Bè, per farti capire che non sono l’idiota che vi credete, io lo so che quando stavi fuori hai ricevuto visite, vero o no?... (Epafrodito tace. Nerone si rivolge ad Atte)  E che anche tu lo sai... (Atte tace. A Sporo) E anche tu! (E Sporo tace. Nerone è colto da una delle sue improvvise crisi di prurito)   Eppure dormivo, allora com’è che me ne sono accorto lo stesso?... Perché non sono un idiota. Io ci provo ad esserlo. Ci provo a spegnermi. A diminuirmi. A svanire. Testimoni tutti!  (Quasi gridando)  Ma eccomi qui! Salma o non salma. Eccomi - sempre - qui. (A lei)  E forse eri proprio tu la visita. Quella che ha portato la notizia. Anzi, sai che penso? Che sei venuta per questo, e che poi mi hai convinto di esserti precipitata per chi? Per me. Solo per me. Col beneplacito di tutte le tue ricchezze.

ATTE: Puoi fare e disfare come più ti piace. Qui dentro l’Imperatore sei sempre tu.

NERONE: (A Sporo)  Tu lo sai di che si tratta?

SPORO: Forse.

NERONE: (A Epafrodito)  Che è?

EPAFRODITO: Quello che immagini.

NERONE: Cioè?

EPAFRODITO: Il Senato ti ha condannato.

NERONE: Mi sembra giusto: una volta per uno. A cosa?

EPAFRODITO: Nerone, lo sai.

NERONE: Ho dei problemi a intelligere i dettagli. A cosa?

EPAFRODITO: A morte.

NERONE: Naturale, ma come?

EPAFRODITO: La sentenza dice...

NERONE: Roma dice!... Su, come?

EPAFRODITO: Secondo l’uso antico.

NERONE: L’uso antico mi è nuovo. Significa?

EPAFRODITO: Per fustigazione.

NERONE: Ora fammi rimettere assieme i pezzi. Dunque... per fustigazione. Condannato a morte per fustigazione. Roma mi ha condannato a morte per fustigazione. Dillo. Così come l’ho detto io, però a me. Tu a me.

EPAFRODITO: Roma ti ha condannato a morte per fustigazione.

(Nerone addita Atte perché a sua volta lo ripeta)

NERONE: Tu a me.

ATTE: Roma ti ha condannato a morte per fustigazione.

 

(Lo stesso avviene con Sporo)

NERONE: Tu a me.

SPORO: (Sgranando, quasi senza saliva)  Roma ti ha condannato a morte per fustigazione.

(Il braccio di Nerone, ancora levato verso l’eunuco, inizia a tremare trasmettendo il brivido a tutto il corpo, sino alla voce)

NERONE: E io sono sveglio. E ancora vivo. Oh, Atte... vieni qui, presto!

(Atte accorre per corrispondere all’abbraccio)

NERONE: Che vergogna!... E a trattarmi peggio di tutti sono io stesso. Io da me. Che vergogna!... (Accenna ai pugnali)  Ma guardali... sono così brutti!...

ATTE: Non farti fare quello che vorrebbero, ti supplico!

NERONE: Ma sono troppo brutti!

ATTE: Ti scuoieranno legato a un palo, e sarà lunghissimo.

NERONE: Epafrodito! Sporo!... (E anche loro lo raggiungono)  Ma se lo faccio, che succederà dopo?... Nella cenere come le rape?...

ATTE: Pagherò qualsiasi cifra per i tuoi funerali. Li imporrò a chiunque. Sarai deposto nel mausoleo dei Domizi in un sarcofago di porfido. Sopra vi farò alzare un’ara scolpita in pietra di Luni e recinta da lastre istoriate con marmo di Taso.

NERONE: E lì tutto sarà alle spalle, già finito.

ATTE: Se lo desideri può essere fra poco, subito. Ci vorrebbe nulla.

NERONE: Dov’è una lanterna?... (Gliene viene offerta una. Nerone se la porta all’altezza del viso per offrirsi la massima luminosità possibile)  Puzza come me. Tutto è simbolo e analogia: odoro come la luce.

(E si tira via dal gruppo dei tre che gli stanno stretti attorno. Si muove prono, con quella fiamma addosso agli occhi che sembra rendergli incandescente il volto)

NERONE: Sì, sono quasi pronto. Quasi, però. Ancora solo quasi. Ma quasi pronto. Fidatevi... mi manca poco, pochissimo.

(Infine, aggirandosi così a caso, va a battere contro la base della meridiana. 

Non capisce che sia. Ne sfiora il filo dello gnomone rifilato a squadra)

NERONE: Taglia. Che è?... Ah, una meridiana. E che c’entra qui?... Povera naufraga. Che assurdità! Una meridiana nel buio. E’ cosa più morta di quanto non lo sarò io fra non molto. Un’idea tremendamente crudele. Perché sta qui?

SPORO: Era fuori. Dove poi abbiamo scavato un pozzo.

NERONE: (Carezzandone la cuspide) Una meridiana può accettarlo di essere smorzata dalla notte, ma solo per riaccendersi al mattino e ridivenire se stessa. Senza il suo indice d’ombra è come se avesse il cuore strappato. (Solleva la lanterna sul vertice dello gnomone)  Però, vedete, io posso ridarle la vita. Diventare io la sua giornata, quella che le chiede: scandiscimi; contami; misurami. Ecco: siamo all’ora sesta. Nell’inchiordatura abbagliante del giorno. Cosa importa se fuori è di pece? Io le dico: “Il sole è allo zenit”, e lei lo ripete. E se voglio... (sposta la lanterna) faccio tornare ogni cosa all’indietro, sino all’aurora. (Bloccandosi) E se voglio... fermo tutto. Terra, luna e stelle. Fermo il tempo e ci gioco come mi pare e piace. Questo vuol dire essere Imperatori. (Accarezzando con la mano libera la meridiana, senza che l’altra abbassi la lanterna)  Meravigliosa complice, ne avessi altri come te!...

ATTE: Galba sta per entrare a Roma.

NERONE: Ancora Galba!....

ATTE: O tra le sue mani o con le tue. Ma dev’essere stanotte.

NERONE: Già, ma si dà il caso che non sia notte (e rimane con la lucerna sospesa a perpendicolo sulla meridiana). Quando sarà notte, vi giuro che lo farò.

(E così prova a stare, ma è faticosissimo. E la schiena prude orribilmente)

NERONE: Ah, una volta di più devo riconoscere a Seneca le sue ragioni. Lui dice che siamo tutti leggibili: degli aforismi viventi. Guardate me: sono un tramonto. Il declino di Cesare. E la mia spalla fa da orizzonte al sole. Aiutatemi! (Il braccio non ce la fa davvero più e le spalle lo tormentano)  Vieni, Epafrodito, prendila tu!... Tienila alta... bella alta...

(Epafrodito va a togliere la lanterna dalle mani di Nerone e l’abbassa)

NERONE: (Gemendo)  Perché?

EPAFRODITO: Perché questa meridiana segna l’ora giusta.

(Alle spalle di Nerone, Sporo ha impugnato uno dei due coltelli)

SPORO: Nerone, guardami!

NERONE: Eh?...  (Ma non si volta)

SPORO: Sto usando uno dei tuoi pugnali. Guardami.

(E si apre lentamente le vene.

Epafrodito va a stendere sopra i suoi avambracci un panno che nasconda  allo sguardo gli effetti dell’operazione)

NERONE: (Che solo ora se ne accorge; valutando)  Ma così ci vorrà un’eternità.

SPORO: Così... però... avviene.

NERONE: (Andando a sollevare il panno e controllando con attenzione quasi clinica)  No, io non potrei. Assolutamente. Esce piano... troppo piano. (Ostentando) Guardate come... no, è improponibile. Del tutto improponibile (e ricopre allontanandosi). Sarebbe atroce ritrovarmi appeso alla colonna ancora vivo, e frustato mentre sbavo sangue dai polsi. No, questo non chiedetemelo.

ATTE: (Ascoltando alla parete)  Arrivano. Non è la pioggia, sono loro.

NERONE: Ma non hai un briciolo di pietà?... O la tua gelosia è davvero senza limiti!?... Non lo vedi che la mia Poppea sta morendo?... Cerca di non distrarmi. Merita che io l’accompagni al suono dei miei versi. Una primizia. Ne intonerò di nuovi che non ho mai recitato per nessuno. Dalla mia ‘Fedra’: il suo compianto.  

(E durante la declamazione di Nerone, il respiro di Sporo si farà sempre più aspro e rantolante; poi diminuirà, sino ad estinguere completamente)

NERONE: “Spaventevoli sopraggiungono gli eventi / a travolgere la vita degli umani. / E solo coi più umili Fortuna / la sua ferocia smorza./ Chi sa vivere nell’ombra vivrà sereno, / e ambire può alla sua vecchiaia / chi pure saprà adattarsi ad un tugurio.” (Si interrompe. Si guarda attorno)  E questo lo è. Un bel tugurio. Se i miei versi non mentono, debbo pensarmi sulla buona strada. O forse mi sono confuso. Non era la mia di Fedra, era l’altra. La sua. Si, credo fosse la sua. Ma che importanza ha? Le parole sono di chi le pronuncia. Come la morte è di chi l’amministra. (Guarda Sporo agonizzante)  La sua, ad esempio: è mia. Nei forzieri di Cesare, inchiavardata a dovere.

ATTE: Ma il tuo regno ha già un altro Cesare. Sei in un mondo che non ti contempla più.

NERONE: Mi è indifferente. Io, per me, posso anche non essere Cesare.

ATTE: Non qui.

NERONE: Potrei andarmene.

ATTE: Non da qui.

NERONE: Cambiare.

ATTE: In un solo modo.

(Segue un tempo di paralisi. Poi Nerone, rompendo maldestramente gli indugi, prova a trafiggersi, ma il suo si rivelerà un gesto mancato.

Non ce la fa. Geme. Misura, dal sangue sulla punta, quanto sia penetrata la lama)

NERONE: (In un soffio)  Contenta?... Non è facile. O voi pensate di sì?... Ma non lo è. Io non debbo farlo per uno sposo morto. Io non ho motivo... non ho motivo... solo perché me lo chiedete voi. Per farvi una cortesia. Perché vi amo. Perché vi amo infinitamente. (Porgendo il coltello)  Prendetevi la mia morte. Ve la regalo. Chi la vuole?... (Nessuna reazione)  Cos’è?... Difficile anche questo... su!... (Nessuna reazione)  Possibile che io non abbia più amici, né nemici?... (Prova di nuovo da solo. Poi ad Atte, che è una maschera di lacrime)  Vai via. (Ma lei non si muove)  Hai detto quello che dovevi, puoi andartene. (E si artiglia la seconda ferita, forse più grave della prima, per tamponarne il sangue)  I miei defunti bisbigliano di sotto lo sterco dove poggio i piedi... hanno da spettegolare. Mi hanno preso in confidenza, e loro lo sanno quanto mi piacerebbe montarti di nuovo come facevo all’inizio. Anni fa. Infilzarti dappertutto, come mi hai insegnato tu. Se resti è peggio. Mi si ingrossa. Il mio sangue ha paura e va a cacciarsi tutto lì!... Ma mi sono già fatto parecchio male, dovevo pensarci in tempo. Apollo mi chiede l’impossibile... mi obbliga a morire. Ah, mi vergognerei di meno se tu stessi qui a vedermi defecare. Non t’accorgi che ho fretta?... Vattene!

(Atte si riavvolge nel suo manto.

Rombi da fuori. Tumulti)

EPAFRODITO: (A lei, senza che Nerone possa sentirlo)  Va’ fuori a chiedere che gli lascino il tempo. Lo faranno.

(Atte si infila nel cunicolo e scompare)

NERONE: (Spingendosi di fronte a Epafrodito)  Ma tu lo sai chi sei?

EPAFRODITO: Non in questo momento.

NERONE: Sei la mia ombra. La mia vera ombra. La mia ombra è chiara, luminosa. Come le tue guance. E finché la vedo muoversi, so che pur io mi muovo. Checché ne dica tutto il resto. (Si accorge che Epafrodito ha l’attenzione intenta a capire cosa stia avvenendo fuori)  Che senti?

EPAFRODITO: Che sono qui.

NERONE: Allora devi scappare anche tu. Ma immediatamente.

EPAFRODITO: No. Rimango, Cesare.

NERONE: Credi che me ne importi assai della tua vita? A me importa della mia. Il primo che entra ti scannerà, e tu lo capisci che questo non è possibile?... Lo capisci o no?... Tu devi portare a spasso per il mondo l’ombra di Nerone. Ma provati solo a toglierti di dosso quel raggio che ti ho spalmato sul viso, e verrà giù il mio Apollo a scavarti la faccia sino al bianco delle ossa! Vai, scappa!... Hai paura? Non ti uccideranno. Tu racconta che m’avete tenuto qui per loro. Ti porteranno in trionfo. La mia ombra in trionfo.

EPAFRODITO: Dammi quel coltello, ci provo.

NERONE: No, l’offerta è ritirata. La mia morte me la tengo tutta per me.

(Epafrodito esce.

Nerone socchiude gli occhi. Poi serra le palpebre come a imitare qualcuno)

NERONE: Nerone... Nerone... Nerone... Nerone... Nerone... Nerone... e ancora un milione di volte Nerone... avessi il tempo! Potessi!... Ti resto debitore delle tue ultime parole, Seneca. Non ho saputo contentarti. Tutto quello che posso è di portarti con me nel mio volo a precipizio. Giù giù giù giù giù giù... dove già stai. (Si accosta al muro. Origlia. Cita)  “Nestore udì per primo lo scalpitio e disse: / ‘Argivi, il cuore mi spinge a parlare ora che / zoccoli in arrivo colpiscono il mio orecchio”... (in un grido)  Triplice onore ad Apollo!

(E prova a trafiggersi per la terza volta, inutilmente.

Offre il coltello allo spazio attorno.

Si accorge di Sporo, che sta giù insaccato in se stesso e nella pozza del proprio sangue)

NERONE: Tu... occupi lo spazio dei morti.

(Lo scansa e si mette al posto di quello tentando malamente di ripeterne la postura)

NERONE: Inutile. Sempre sveglio. Sempre tutto vero. Non è un delirio: è quello che è. Non è un incubo: è il presente. Non c’è più nulla da cui venire via, tranne ciò da cui mi si obbliga a venir via. E dove vado non è un risveglio.

(Prende una decisione. Inasta, con qualche fatica, il coltello tra le  grinfie irrigidite di Sporo che gli è rimasto a lato.

Si alza. Va su e giù.

Poi, con scatti improvvisi, si volta a controllare l’effetto di quel cadavere così composto.

Prova ad adocchiarlo da vari punti della stanza. Qualcosa ancora non lo convince.

Infine si leva il mantello, ma potrebbe anche usare il panno usato per infagottare i polsi recisi del suicida, e va a incappucciare la testa del morto.

Prende del carbone dal braciere e, all’altezza degli occhi e della bocca di Sporo, traccia sulla stoffa una sorta di ovale e qualche segno.

Controlla. Si convince di quel che ha fatto.

Quindi, poggia la propria gola sulla punta del coltello che il corpo pietrificato dell’eunuco insiste a mantenere sollevato e fermo.

L’ultima cosa che Nerone dice è:)

NERONE: Grazie, amore. Questa è fedeltà.