Notturno

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NOTTURNO

Due tempi e un intermezzo

di ALBERTO BERTOLINI

PERSONAGGI

MIRO

ADA

GEGIA

MEMI, padrone del «buffet» di stazione

CENCIO, ca­meriere

Il beone

Il Commissario di P. S.

Il Brigadiere

L'Agente

Il Facchino

Il 1° Ferroviere

Il 2° Ferroviere

Il compagno di Miro

Il Carceriere

NEGLI ANNI DEL DOPOGUERRA

Commedia formattata da

PRIMO TEMPO

(Memi, dietro al banco, è assorto nei suoi conteggi. Cencio sta facendo pulizia ai tavoli liberi. Il primo e il secondo ferroviere, seduti ad un tavolo, sono impegnati in una partita a carte. Il beone osserva i due ferrovieri che giocano, indi muove verso il

Il primo Ferroviere        - Scopa!

Il secondo Ferroviere    - Accidenti! Anche il set­tebello... La ti va proprio a gonfie vele!

Il primo Ferroviere        - Rifa' le carte, mischia.

Il secondo Ferroviere    - Taglia.

Il primo Ferroviere        - Bene! Questi due sette me li pappo io, intanto. Tocca a te. Giudizio, amico.

Il secondo Ferroviere    - Alla faccia... Che for­tuna inaudita!

Il primo Ferroviere        - Macché fortuna! Abilità, caro!

Il secondo Ferroviere    - Sì, bella abilità...

Il Beone                        - Signor Memi... Signor Memi... Signor Memi, dico! Me lo dà questo grappino?

Memi                             - (senza alzare gli occhi dai suoi conti) No.

Il Beone                        - (iracondo, montandosi sempre più) E perché?... domando il perché... E' inutile, sa, che faccia il sordo o... o il finto tonto, con me. Non si fida, forse? Ecco qua il danaro; pago prima; ho il sacrosanto diritto di bere fin che mi pare... Dopo tutto, sono una persona rispettabile, un libero cit­tadino e - se lo ricordi bene - un ex campione... Un ex campione, ho detto, boja d'un mondaccio cane vigliacco ladro... (Sferra un pugno sul banco).

Memi                             - Se non fili più che in fretta, ti faccio sbatter fuori dal locale.

Il Beone                        - (incattivito) Chi?... Chi mi sbatte fuo­ri?... Chi? Vorrei proprio vedere chi ha tanto co­raggio! Sì, tanto coraggio... Lei forse? (Sghignazza).

Memi                             - Cencio! Butta fuori questo maledetto beone!

Cencio                           - (dubitoso, flemmatico) E' una parola! (Avvicinandosi peritoso al beone, con le buone) Andiamo, signor Toni, non faccia storie; se ne vada a dormire. Magari potessi battermela anch'io e met­termi a cuccia...

Il Beone                        - (abbozzando la guardia del pugile) Alto là, mezzo uomo! Non venirmi troppo vicino, a portata del mio famoso « crochet », se non vuoi che ti cancelli dalla faccia della terra con una sola sventola... Anche tu non dovresti averli dimenticati i miei micidiali « crochets»... E poi... e poi... mac­ché pugni, per stenderti a terra, sarebbe sufficiente un buffetto... Anzi, manco un buffetto: basterebbe uno sputo... un semplice scaracchio. (Tilde frago­rosamente).

Il secondo Ferroviere    - (continuando a giocare) E piantala!

Il Beone                        - (si riavvicina con andatura da bullo al ta­volo dei ferrovieri) Dice forse a me?... Io, pei sua norma e regola...

Il secondo Ferroviere    - (perentorio) Smamma e lasciaci in pace, amico.

Il Beone                        - lo, per sua norma e regola, sono un li­bero cittadino. E la consiglio di non prendersi troppe confidenze con Toni Sbrega, ex campione.

Il secondo Ferroviere    - Se non la smetti, ti buttiamo fuori noi.

Il Beone                        - (sconcertato) Che cosa sono queste prepotenze?

Il primo Ferroviere        - (al compagno) Lascialo perdere. Che ce ne frega a noi se fa un po' di chiasso?

Il secondo Ferroviere    - Mi urta i nervi, ecco!

Il primo Ferroviere        - E' un poveraccio che non fa male a nessuno. Lo conosco. (Cordiale al beone, strizzando l'occhio) Come va la vita, amico? Siamo ancora in forma?

Il Beone                        - Ho l'impressione che il suo collega non si renda conto con chi ha a che fare. Glielo dica, glielo dica che sono un ex campione...

Il primo Ferroviere        - ... di boxe. Eh, ci cono­sciamo bene.

Il secondo Ferroviere    - (nervoso, porgendo il mazzo di carte al compagno) Tocca a te: mischia.

Il primo Ferroviere        - A te, a te! E' la bella, non ricordi?

Il secondo Ferroviere    - Ah, già! Con questo lavativo fra i piedi, finisce che si perde il filo.

Il Beone                        - (al secondo ferroviere) Sicché, lei trova giusto... umano... intelligente... logico che una persona rispettabile, un libero cittadino, un ex cam­pione, venga trattato come l'ultimo dei pezzenti in un pubblico locale. Ah, mi compiaccio veramente della sensibilità squisita dei nostri integerrimi fer­rovieri! (Vedendo che i due ferrovieri non gli danno più retta, torna verso il banco) Insomma, voglio un grappino. Pago prima, se vossignoria non si fida, ma voglio proprio un cicchetto.

Memi                             - (senza guardarlo) No.

Il Beone                        - Lo voglio d'urgenza.

Memi                             - No.

Il Beone                        - Attento che non m'arrabbi sul serio. Tipo capace, il sottoscritto, di buttarle sossopra il locale.

Cencio                           - (a Memi) E glielo dia, 'sto cicchetto! Chissà che non crepi. Così sarà più facile scara­ventarlo fuori.

Memi                             - Pensa ai fatti tuoi, ficcanaso. Non ci manca altro che il cameriere si metta a far lega con gli ubriaconi, in questo maledetto buffet!

Il Beone                        - Ubriaco a me?

Memi                             - (aggressivo) Sì, a te! E ficcati bene in testa che non m'impressioni manco se metti sossopratutta la stazione! Maledetta genia! E maledetto il momento in cui m'è venuto il ghiribizzo di prele­vare e gestire 'sto lurido buffet! Ci rimetto danari, sonno, salute; e come se tutto ciò non bastasse, mi tocca perfino leticare coi briachi!... Non ci man­cava altro che l'obbligo di tenerlo aperto perfino di notte!... Col bel commercio che mi dà! Domando e dico chi me lo fa fare!...

SCENA SECONDA

 (Entrano da destra: Ada, belloccia, vistosa, con pre­tese di eleganza a buon mercato. Indossa una pel­liccia trequarti, di basso costo, un baschetto colo­rato, sciarpa sgargiante. Regge una valigetta e la borsetta. Gegia, dimessa, infagottata, ciabattona. Il facchino che porta due pesanti valige e le sistema a terra, presso un tavolino).

Il Beone                        - (si distrae al sopraggiungere dei nuovi arrivati e gironzola loro intorno fissando curiosa­mente e furbescamente Ada).

Ada                               - (al facchino) Ecco, da bravo, le posi qua, queste benedette valige... E la mia valigetta?... Oh, Dio! ho dimenticato la valigetta!

Gegia                            - Ma non vede che l'ha in mano?... Che testolina!... Che testolina!...

Ada                               - Altro che testolina! Finisce che, una volta o l'altra, dimenticherò perfino di essere al mondo. Testa matta. Se non fossi così, non sarei qua, ora, alle due di notte, ad aspettare un treno che chissà quando arriva, per andare a Milano... A proposito, a che ora passa, questo diretto?

Il primo Ferroviere        - (premuroso) Il 318? Parte col 318, signorina?

Il secondo Ferroviere    - Il direttissimo per Mi­lano, se sarà in orario, passerà di qui alle 3,32.

Il primo Ferroviere        - Ferma due minuti sol­tanto; è un direttissimo internazionale. Arriva a Mi­lano alle 8 precise.

Ada                               - Grazie.

Il primo Ferroviere        - L'aspettiamo anche noi, il 318. Se possiamo esserle utili, signorina...

Ada                               - Oh, grazie. Spero di trovarlo, un posticino.

Il secondo Ferroviere    - Glielo troveremo noi, signorina. Anzi, se permette... (Fa l'atto di alzarsi per presentarsi).

Ada                               - (gli volta a bella posta le spalle e mormora a Gegia) Non andartene subito; fammi un po' di compagnia; non voglio mosconi... (Prendendo posto ad un tavolo) Siedi qui.

Gegia                            - Se m'offre qualcosa per riscaldarmi...

Ada                               - Ma naturalmente, naturalmente, cara la mia Gegia! (Al facchino) E anche lei beva qualcosa.

Il Facchino                    - (sedendo poco discosto) Non me lo farò dire due volte. Qua li conoscono bene i miei austi...

 Cencio                          - (in attesa, delle ordinazioni) Il solito quartuccio di Verona, immagino.

Il Facchino                    - (strizzando l'occhio) Facciamo pur mezzo litro, compare. L'attesa è piuttosto lunghetta.

Ada                               - Vada per il mezzo litro, purché quando arriva il treno non mi lasci in asso con le mie valige.

Il Facchino                    - Non dubiti, signorina. Ci vuole altro che mezzo litro per farmi escire dai sentimenti!

Cencio                           - (ad Ada) E per lei? Comanda qualche cosa, signorina?

Ada                               - Sì, un caffè... E a te, Gegia?

Gegia                            - (vogliosa ed esitante) Se ci fosse... una cioccolata calda...

Cencio                           - Sicuro che c'è!

Gegia                            - Bene... benissimo... e con la cioccolata mi porti anche (se la signorina permette)...

Ada                               - Ma certo!

Gegia                            - Qualche biscottino... La cioccolata coi biscotti è sempre stata la mia passione, fin da bam­bina. Posso?

Ada                               - Ma sì, sì, cara la mia Gegia.

Cencio                           - (avviandosi verso il banco, con sussiego professionale) Allora diremo un mezzo di Ve­rona, cioccolata con « brioches » e una moca.

Il Beone                        - (sedendo accanto al facchino) Per­mette?

Il Facchino                    - Per me... dal momento che si è già accomodato, faccia pure. Il mondo è grande, ci stiamo tutti quanti.

Il Beone                        - Questo sì ch'è un parlare da galan­tuomini! Fossero tutti come lei! Viceversa, quanta cattiveria!... Poco c'è mancato, dianzi, che non man­dassi a catafascio il locale.

Il Facchino                    - Ma no!...

Il Beone                        - Non so se lei mi conosca...

Il Facchino                    - Di vista...

Il Beone                        - Sa, sono un certo tipo che, se mi fanno saltare la mosca al naso, divento pericoloso, pericoloso assai. Non crede?

Il Facchino                    - Mah!

Il Beone                        - Come sarebbe a dire «mah»? Vuol forse farmi andare in bestia anche lei, adesso? Per­ché - badi - va bene che sono una persona rispet­tabile, ma se...

Il Facchino                    - ...ma se le fanno saltare la mosca al naso...

Il Beone                        - Ecco: a buon intenditor... Stavo dicen­dole, dunque, che poco c'è mancato...

Il Facchino                    - ... che il locale andasse a catafascio.

Il Beone                        - Proprio così. E tutto perché? Per un grappino... per un miserabile fetentissimo bicchie­rino di «sgnapa». Apra bene le orecchie che gliela voglio proprio raccontare; ne vale la pena. Intanto, sappia che io sono Toni Sbraga, l'ex campione di boxe...

Cencio                           - (sopraggiungendo col vassoio delle consu­mazioni) Ecco il Verona e il resto... (Depone sui tavoli, Gegia si avventa golosamente sulla cioc­colata e sulle «brìoches»).

Il Beone                        - (voglioso, accennando al vino) Lo beve tutto?

Il Facchino                    - (mescendosi il primo bicchiere) Eh, già!... Spiacente, ma me lo ciuccio proprio tutto.

Il Beone                        - Basta la parola... Le dicevo, dunque, che capitato poco fa in questa specie di buffet... (buffet, hanno il coraggio di chiamarlo! Buffet! Ah! Ah! Ah!...) (Continua il suo racconto barbu­gliando, sproloquiando, sghignazzando, a soggetto).

Gegia                            - (divorando golosamente la cioccolata e le «brioches») Lei è una gran buona figliola... E' un'opinione che mi sono fatta fin dalla prima volta che l'ho vista... La migliore di tutte, là dentro; un cuore grande così...

Ada                               - (traendo dalla borsetta un biglietto di banca) La sai lunga tu! Toh, prendi per il tuo disturbo.

Gegia                            - Oh, grazie... troppo buona... non occor­reva... quanta generosità per questa povera vecchia...

Ada                               - Sssst! Mangia e taci, se no la cioccolata ti va di traverso.

Gegia                            - Ha intenzione di ritornare, signorina?

Ada                               - Mah! Dipende... Sai com'è questo... traffico.

Gegia                            - Io spero tanto che torni, quantunque una volta a Milano... eh, Milano è sempre Milano... Vedrà che là si troverà meglio di sicuro...

Ada -                             - Qua o Milano, è sempre la stessa storia, cara Gegia. Lo sai come sono io: m'affido sempre al caso, sperando nella buona stella.

SCENA TERZA

(Miro che indossa una giacca a vento, tipo avia­zione, ed è senza copricapo. Il compagno, infagot­tato in una stiriana di cuoio, berretto calato sugli occhi, tipo losco, circospetto. Entrano anch'essi da destra, guardinghi, si dirigono al banco).

Il Compagno                 - (a Memi) A che ora passa il primo treno?

Memi                             - Per dove?

Il Compagno                 - Ho detto il primo treno; non importa per dove.

Miro                              - (dandogli una gomitata; con tono più calmo e naturale) Siamo rimasti in panne con la mac­china...

Memi                             - Il primo treno sarà il direttissimo per Milano, fra un'ora e un quarto, press'a poco.

Il Compagno                 - E va bene; aspetterai.

Miro                              - (a bassa voce, per non farsi udire da Memi) Ma si potrebbe portarci un po' più avanti, intanto...

Il Compagno                 - (pure sommesso, ma perentorio) No. Niente da fare. La macchina non ce la fa più, intesi?

Miro                              - (con ira repressa) Ce la farebbe, lo sai bene.

Il Compagno                 - Ho arrischiato anche troppo. Basta. Il motore...

Miro                              - Bella carognata!

Memi                             - Se vi occorre un meccanico, in piazza c'è un garage che fa servizio anche di notte.

Il Compagno                 - Grazie. Proverò. (A Miro simu­lando sollecitudine) Tu mi aspetti qui: se ritorno in tempo, bene, altrimenti approfitta del treno... Ti rag­giungerò in giornata. Non c'è altro da fare, credi...

Miro                              - (cupo, sempre a bassa voce) Questa non dovevi farmela.

Il Compagno                 - (a disagio, irritato, dominandosi) Ti dico... ti assicuro... Non facciamo i ragazzi, via!

Miro                              - (minaccioso, ma sommesso) E sia! Ci rive­dremo... ne riparleremo, sta' pur sicuro.

Il Compagno                 - (c. s.) Che cosa pretendi?... Piut­tosto di rimanere per la strada... fregati in due...

Miro                              - Va' pure. A buon rendere.

Il Compagno                 - Storie!... Arrivederci. (Fa per avviarsi).

Miro                              - Non bevi qualcosa?

Il Compagno                 - No, ho fretta. Meglio non perder tempo...

Miro                              - (fissandolo duramente) Non andrai lon­tano, caro. Arrivederci presto. (Il compagno dà una alzata di spalle ed esce in fretta).

Memi                             - S'accomodi pure ad un tavolo... Tanto, dovrà aspettare più di un'ora.

Miro                              - (guardandosi attorno, indeciso) Grazie. Che disdetta!

Memi                             - Eh, le macchine! Certo, dev'essere sec­cante rimanere in panne di notte, con questa stagio­nacela. Ma non c'era proprio niente da fare?

Miro                              - Macché! Una bronzina fusa, pare... O qualcosa di simile. Pazienza; aspetterò il treno. (Guardandosi in giro) Non credevo di trovare il buffet ancora aperto, in questa stazione.

Memi                             - Buon per lei! Una vera fortuna.

Miro                              - Già, una vera fortuna. (Muove qualche passo osservando ad uno ad uno i presenti; scor­gendo Ada ha un moto di sorpresa. Le s'avvicina con intensa curiosità) Si può salutare?

Ada                               - (si volta di scatto, con vivo stupore) Miro!... Ma sì, proprio tu...

Miro                              - Proprio io, sì; e... proprio tu. Tutto mi sarei potuto figurare, in questa malaugurata notte di disdetta, ma mai e poi mai d'imbattermi in te... di rivederti dopo tanti anni... Come va, Ada?

Ada                               - (sempre dominata dalla sorpresa) Non c'è male... Ma tu?!...

Miro                              - Permetti che mi sieda qui, al tuo tavolo? O disturbo?

Ada                               - (imbarazzata e guardinga) Veramente... Ma sì, siedi pure... Aspetto il treno.

Miro                              - (sedendo) Anche tu?

Ada                               - Anche tu?

Miro                              - Sì, per mia disgrazia. Un guasto alla mac­china e... ed eccomi qua, appiedato, ad attendere un treno che non arriva mai.

Ada                               - Vai a Milano?

Miro                              - No, no... Mi fermerò prima. E tu?

Ada                               - Vado proprio a Milano.

Miro                              - Ah! non abiti più a Venezia?

Ada                               - No. (A Gegia) Tu... lei può pure andar­sene. Non voglio che perda dell'altro sonno per causa mia.

Gegia                            - (strizzando l'occhio furbescamente) Ho capito... ho capito... Adesso che ha trovato la com­pagnia... E che bel giovanotto!

Ada                               - (tagliando corto) Vada, vada pure. E mi saluti ancora la zia, i parenti...

Gegia                            - (maliziosa) D'accordo... d'accordo... Buon viaggio, signorina.

Ada                               - Grazie, Gegia.

Gegia                            - Speriamo di rivederci, no?

Ada                               - Può darsi. Buona notte.

Gegia                            - Notte, notte!... (Uscita a soggetto a destra).

Il primo Ferroviere        - (accennando Miro) Fregati!

Il secondo Ferroviere    - Chissà! staremo a vedere...

Il primo Ferroviere        - Mi sa che quello...

Il secondo Ferroviere    - M'è parso d'udire che non viene fino a Milano.

Il primo Ferroviere        - Ah, be', se è così... (Sbir­ciando Ada con concupiscenza) Mi piace assai, 'sta maschietta.

Il secondo Ferroviere    - Pure a me. E non dev'essere inespugnabile.

Il primo Ferroviere        - Ce la giochiamo? (Sghi­gnazzano salacemente e continuano a giocare).

Il Beone                        - (al facchino cui ha continuato a fare discorsi sconclusionati) Lei dovrebbe farmi un piacere. Ordini un grappino. Lo pago e me lo bevo io, però. Non voglio dargliela vinta, a quel porco! (Accenna a Memi).

Il Facchino                    - Se non vuol altro... Ehi là, Cencio!

Cencio                           - (che attende l'ordinazione da Miro) Un momento!... (A Miro) Il signore desidera qualcosa?

Miro                              - Ma sì... mi porti qualcosa di caldo... un ponce, se c'è.

Il Facchino                    - E a me un grappino.

Cencio                           - Ho mangiato la foglia. Però, ti consi­glio di farti allungare le svanziche in anticipo, da quello là. (Accenna al beone e va al banco). Miro - (ad Ada) Come mai da queste parti?

Ada                               - In gita... Sono stata da certi parenti...

Miro                              - Ah! Non sapevo che tu avessi dei parenti in questi paraggi.

Ada                               - (con scherzosa disinvoltura) E' proibito, forse?

Miro                              - No, davvero! Dunque, hai lasciato Vene­zia. Da quanto tempo?

Ada                               - (vaga) Eh, è già un pezzetto.

Miro                              - E abiti a Milano, adesso?

Ada                               - (e. s.) Sì e no... Vado appunto a Milano con l'intenzione di sistemarmi là.

Miro                              - E la tua famiglia?... Sempre a Venezia?

Ada                               - (celiando, ma con una punta d'imbarazzo) Quante domande!... Che cos'è? un interrogatorio?... Curiosone! Dica lei, piuttosto, signor ficcanaso, che cosa fa in questi paraggi e che cosa ha fatto in tutti questi anni.

Miro                              - Non te l'ho detto? un guasto all'auto mentre ero in viaggio con un amico... un socio d'affari...

Ada                               - Così? senza cappotto, senza cappello, senza valige?...

Miro                              - Ho lasciato tutto in macchina... Tanto, oggi stesso ci ritroveremo a Verona, io e il mio socio.

Ada                               - Non abiti più a Treviso?

Miro                              - (rabbuiandosi) No. Eh, sono parecchi anni che l'ho lasciata, Treviso: dalla guerra. Partito nel '40 con la chiamata alle armi, non ci sono più tornato.

Ada                               - (stupita) Ma avevi la tua casa, la tua fa­miglia, a Treviso.

Miro                              - (cupo) Avevo...

Ada                               - Avete cambiato città?

Miro                              - Io sì... (Breve sospensione) Loro... spariti tutti... spariti con la casa... Una bella bomba come regaluccio di Pasqua, e buon viaggio!... Il famoso, glorioso bombardamento del Venerdì Santo 1944.

Ada                               - (allibita, sinceramente addolorata) Anche... anche tua madre?

Miro                              - (con ira cupa repressa) Tutti, ti ho detto! Anche la mamma, sì... Madre, padre, fratello, la sorellina di sei anni... tutti! Tutti levati dalle spese in un colpo solo. Una bomba piovuta dal cielo in­sieme con tante altre... una bomba liberatrice. Un piccolo sbaglio, dissero poi: una svista che ha quasi distrutto una città, che ha causato il massacro di migliaia d'innocenti. La guerra. (Breve pausa) Seppi tutto tornando dalla Siberia dopo tre anni di guerra in Africa, in Albania, in Russia, e quattr'anni di prigionia. Allegro, no? Bah! acqua passata: non parliamone più.

Ada                               - (dopo un silenzio imbarazzato) Avrai tro­vato qualcuno, spero... dei parenti... un tetto... al tuo ritorno.

Miro                              - (risata beffarda) Sì, un campo di concen­tramento nelle basse, ho trovato! Tanto per colle­zionare un altro po' di pidocchi. Poi, finalmente, la cosiddetta smobilitazione. Giornate di coda per avere un vestito usato da americano e seimiladue-centoquarantatrè lire di buona uscita, al netto dalla ricchezza mobile. Altre giornate di coda per trovarmi una sistemazione, un lavoro qualsiasi o una borsa di studio. Code a Napoli, a Roma, a Milano, a Venezia, insieme con altri disgraziati come me, peggio di me: ex prigionieri, mutilati, tubercolotici, reduci, partigiani, sinistrati, profughi, ex internati... oh, un bel campionario di miseria! Spettacoli edifi­canti. E quando svuotavo il sacco delle mie refe­renze, ovvero quelle che io - fesso - immaginavo fossero referenze di merito (sette anni di naia, i fronti, le ferite, una medaglia, la prigionia, la casa distrutta, la famiglia massacrata), riuscivo quasi sem­pre ad ottenere qualche buona parola, vaghe pro­messe, una battutina amichevole sulla spalla; tutt'al più m'allungavano un biglietto da mille e dei buoni per cucine popolari e dormitori pubblici... « Ripassi, caro... Forse, la settimana prossima... o il mese ven­turo... non si perda d'animo. Che cosa vuol farci? Conseguenze d'una guerra perduta... ». Dappertutto così... (Ride. Pausa. Indi con voce cupa, dura): Poi, capito il latino, mi sono arrangiato.

Ada                               - (timidamente, quasi con ansia) I tuoi studi?

Miro                              - L'arte?... L'architettura?... Sogni del pas­sato, cara! Spero che a te sia andata meglio; compa­tibilmente coi tempi, beninteso. (Ada s'irrigidisce in un visibile riserbo) La tua famiglia?... Tutti bene?

Ada                               - Sì, non c'è male. Qualche contrarietà, un po' di cinghia durante la guerra, i soliti malanni, ma niente di grave. Il papà in pensione... a mio fratello delle noie per via dei fascisti, ma adesso lavora ed è riuscito perfino a sposarsi... La mamma - poveretta - che si prodiga, si consuma e brontola...

Miro                              - E tu?

Ada                               - (sbrigativa) Cerco d'arrangiarmi anch'io, come te... Lavoro, ecco.

Miro                              - Promettevi di diventare una buona sarta, se ben ricordo.

Ada                               - Appunto. Ma a Venezia c'era poco da fare... Così, giro...

Miro                              - Contenta?

Ada                               - (quasi in tono di sfida: falsa) Non mi lagno.

Miro                              - E... e con questo muscoletto, come an­diamo? (Accenna al cuore).

Ada                               - (c. s.) Ordinaria amministrazione.

Miro                              - Fidanzata?

Ada                               - Può darsi.

Miro                              - Che strano modo di rispondere!

Ada                               - (leggermente irritata) Fai certe domande!

Miro                              - Più che lecite e naturali, mi sembra...

Ada                               - (perentoria) Direi indiscrete... Sei l'ultimo, tu, ad avere il diritto di farmele.

Miro                              - Dici sul serio?

Ada                               - (esita. Poi mutando tono) Non badarmi... forse scherzavo. Lo sai che sono sempre stata un po' stramba.

Miro                              - (affettuosamente scherzoso) Lunatica...

Ada                               - ...esigente, troppo esigente!... Non ricordi? Ti compiacevi di chiamarmi...

Miro                              - ...la «belva», la «mia belvetta». Avevi certe unghie sempre pronte a graffiarmi... anche in senso non figurato.

Ada                               - (con improvvisa malinconia) Povera belvetta!... Una gran stupida, sono sempre stata, altro che esigente! Magari fossi nata bene armata di unghie!...

Miro                              - Dici per me?

Ada                               - No. Dico per tutti e per tutto... in gene­rale: la vita...

Miro                              - La vita?...

Ada                               - (riprendendosi: evasiva) Oh, niente d'im­portante.

Miro                              - (serio, scrutandola) Qualche delusione?

Ada                               - Forse. Ordinaria amministrazione.

Miro                              - Giusto. Tutto è ordinaria amministrazione, nella vita; anche le cose più gravi ed irreparabili. Ci si fa il sangue cattivo, si piange, ci si dispera magari, poi tutto si sistema: questione di tempo. Passa la giovinezza, passano i sogni, le ambizioni, i dolori, le delusioni, i pericoli, le labili gioie... passa tutto...

Ada                               - (come un'eco) Passa tutto.

Miro                              - Passa la vita, o bene o male...

Ada                               - Passa la «belvetta»...

Miro                              - Certo: passa anche la belvetta che non risponde alle lettere del combattente lontano...

Ada                               - Che non risponde - se vogliamo essere pre­cisi - ad una certa lettera del combattente strafot­tente e in vena di offendere...

Miro                              - La gelosia, sia pure gratuita, di un poverocristo in balia della morte, non dovrebbe mai offendere la donna innamorata.

Ada                               - La gelosia no, anche se ingiusta e irragio­nevole. Ma certi propositi di vendetta, di rivalsa con arabe e beduine... quel voler mettere nello stesso mazzo tutte le donne, compresa quella ra­gazza di sedici anni, la sognante sartina che avevi innamorata e illusa... via! siamo giusti...

Miro                              - E' vero, sono stato uno stupido, più che cattivo: la classica, meravigliosa stupidità dei vent'anni, aggravata dalla nostalgia, dalla vitaccia in un ridottino del deserto, col sole che spaccava i crani e con la paura... oh, sì, tanta paura...

Ada                               - Mah! In fondo, sono stata stupida anch'io... (Cow malinconia) Era destino, si capisce...

Miro                              - Era destino... era destino! Si dice sempre così quando non si sa lottare, o si è stanchi, o demo­ralizzati. Eppure, assai spesso, il destino ce lo fab­brichiamo con le nostre mani. Come nella nostra vicenda sentimentale d'adolescenti o giù di lì. Un momento di malumore e una lettera insensata da parte mia... un risentimento forse eccessivo da parte tua...

Ada                               - Ti scrissi, però, dopo un paio di settimane...

Miro                              - Troppo tardi. Ero rimasto ferito, nel frat­tempo; un mese fra la vita e la morte in un ospedaletto da campo lontano da Tobruk... Poi ancoraidue mesi d'ospedale a Tripoli... La mancata licenzaper via d'un siluramento che mi ha fatto far naufragio appena fuori dal porto... E infine eccomisbattuto su un altro fronte... Una nuova licenzasoffiatami all'ultimo momento e partenza per laRussia. Addio Ada, addio famiglia, addio tutto.

Ada                               - Destino.

Miro                              - Eppure... eppure, per tanto tempo ti hoavuta nel cuore. Talvolta m'irritavo nel sorpren­dermi a pensare più a te che a mia madre.

Ada                               - Anch'io speravo... Vedevo tanti soldati che ritornavano. Pensavo: chissà che una volta o l'altra torni anche lui... (Pausa) Un giorno mi sono fatta coraggio e sono andata a Treviso. Non sapevo dove abitassero i tuoi, non me l'avevi mai detto. Ma, cerca di qua, domanda di là, finalmente trovai...

Miro                              - (ansioso) La mia casa?

Ada                               - Sì, una vecchia casetta, in una stradina tranquilla, dietro la piazza... Alla porta, a destra, il tirante del campanello... Che batticuore! Mi faccio forza... suono pian pianino... Viene ad aprirmi una bambina... una bella bambina con le treccine bionde, con due occhioni azzurri, con una grazia... una grazia...

Miro                              - (commosso) Renata... la mia sorellina Re­nata... la cocca della famiglia... che in calce alle lettere dei miei genitori mi scriveva di tornare « su­bito, subito»...

Ada                               - Poi si fece all'uscio tua madre... un viso buono, tanto malinconico. Mi fece entrare... Il tinelletto... Il tuo ritratto bene in vista sul tavolo... Era in ansia, tua madre: angosciata da brutti presen­timenti; da due mesi era priva di tue notizie; ma sapeva che c'era stata la ritirata dall'ansa del Don...

Miro                              - Ci sei stata nel '43, allora, a casa mia.

Ada                               - Sì, nel febbraio del '43.

Miro                              - E che ti disse ancora mia madre?

Ada                               - Tante cose di te, di tuo padre che non si dava pace, della vita che si faceva sempre più dura... Non fu necessario che le dicessi chi ero né di spie­garle il motivo della visita... Mi domandò sempli­cemente se ti volevo bene...

Miro                              - E tu?

Ada                               - (imbarazzata) Risposi di sì, naturalmente, e m'addossai tutto il torto... Ma sì, sapevo d'essere stata stupida!... Lasciai, prima d'andarmene, il mio indirizzo per il caso che fosse arrivata qualche no­tizia di te. Mi ha scritto, infatti, tua madre, dopo un paio di mesi, ma per dirmi che non sapeva ancora niente... e che sperava... sperava... (Pausa. Miro rimane assorto. Ada toccandogli timidamente il braccio) Ho fatto male?...

Miro                              - (stringendole affettuosamente la mano) Ti ringrazio, anzi.

Ada                               - Vedi bene che non mi ero del tutto dimen­ticata di te.

Miro                              - Ma dopo l'inverno del '43...

Ada                               - Dopo l'inverno del '43?

Miro                              - Evidentemente, hai pensato che non va­leva più la pena... Hai finito col dimenticarmi per davvero...

Ada                               - (secca, svincolando la mano) Chissà!...

Miro                              - Non sei più ritornata a Treviso... Non hai neppur saputo che la mia famiglia non esi­steva più...

Ada                               - (a disagio) No, non sono più tornata... non ho saputo...

Miro                              - Un fatto nuovo nella tua vita, suppongo.

Ada                               - (amaramente ironica) Molti fatti nuovi... (Quasi in tono di sfida) E che cos'altro potevo fare? Aspettare, annaspare nell'incertezza, intristire sem­pre più in una disperata attesa?... (Sommessamente, come a se stessa) Sì, forse dovevo fare così. Sarebbe stato meglio... Ma arriva sempre, nella vita, un mo­mento in cui non si è più arbitri della propria volontà, dei propri sentimenti... Qualcosa ci disto­glie, ci fa mutare rotta, senza che ce ne rendiamo conto, magari... Il destino!

Miro                              - Il destino... il destino! Non sappiamo far altro che proferire questa parola! E, a furia di ripe­terla, non ci accorgiamo neppure di averla svuotata d'ogni significato.

Ada                               - (aggressiva) Sei forse venuto a cercarmi, tu, al tuo ritorno?

Miro                              - No. Ne sono stato fortemente tentato, tuttavia. Ma se avessi visto in quale stato ero!... Co­me potevo osare?

Ada                               - Parole! Vedi bene, che ancora ancora, dei due, la più costante e premurosa sono stata io. Non hai nulla, tu, da rimproverarmi. Io sì, forse, potrei... Ma a quale scopo? M'accontento d'assopire tutti i rimpianti con una parola... con una parola che dice nulla e dice tutto: destino.

Miro                              - (ironico) Chi s'accontenta...

Ada                               - ... gode. E, infatti, io godo molto; non ho fatto altro che godere da quel giorno famoso(sei giugno 1940, un giovedì) in cui ci siamo detto «ar­rivederci, arrivederci presto» ...in cui ti vidi per l'ultima volta in piazzale Roma, ricordi?

Miro                              - Avevi un vestitino rosa e i capelli ti fiam­meggiavano nel sole... Il giorno dopo partii per le armi... La guerra era ormai imminente.

Ada                               - Sì. E l'ultimo rimpianto che ti udii espri­mere, un minuto prima che il filobus partisse, fu... (oh, ricordo bene come fosse adesso)... fu per la tua scuola d'architettura, per gli studi che ti toccava in­terrompere...

Miro                              - Non ricordo...

Ada                               - Io sì, invece. Eri affacciato al finestrino etrattenevi la mia mano nella tua... « Chissà quandopotrò tornare alla mia scuola... fare i pochi esamiche mi rimangono ».

Miro                              - Non ricordo, Ada... Ma era stato grazieai miei studi che ti avevo conosciuta, che ti avevoamata... Quella tua casetta a San Barnaba... i geranialle finestruole... e ogni mattina, arrivando da Treviso per recarmi all'istituto, spiavo ansioso se fraquei gerani spuntava il visetto adorabile ed argutodi quella quasi bambina che mi faceva battere ilcuore e che rispondeva ai miei sguardi infiammatie imploranti con delle boccaccie.

Ada                               - (fanciullesca, fresa dal ricordo) Non è vero!

Miro                              - Sì, invece!

Ada                               - Bugiardo!

Miro                              - Oh, mi risovvengo bene, come fosse adesso.Mi facevi così... (Fa una smorfia di dileggio. Ridonoentrambi) Ci volle tutta la mia costanza per continuare a spasimare sotto le tue finestre.

Ada                               - Però, all'ora in cui passavi, ero sempre là,: a spiare dietro ai gerani...

Miro                              - Per farmi gli sberleffi.

Ada                               - Ti sei proprio fissato!... Ma se t'ho sorrisoquasi subito!... Ah, sono stata anche troppo sveltaa gettarti quel fiore... e poi a scendere all'uscio dicasa per fare la conoscenza... ad ascoltare i tuoisproloqui...

Miro                              - Sproloqui?

Ada                               - Parlavi, parlavi per darti delle arie... Ma sicapiva benissimo che eri timido. Com'eri ridicolo,Miro!

Miro                              - Ridicolo poi...

Ada                               - Be', non t'offenderai proprio adesso, spero...

Miro                              - (divertito) Ma no!... Per questo, allora, civollero cinque mesi perché ti sgelassi un pochino...E sette per arrivare al primo bacio...

Ada                               - Che mi desti a tradimento dentro la porta i di casa...

Miro                              - A tradimento? Forse, il primo. Ma quelliche vennero in seguito, no di sicuro...

Ada                               - Bisognava lasciarti fare... Da timido, t'erifatto così focoso, esigente, permaloso, che non sa­pevo proprio più come salvarmi.

Miro                              - (con rimpianto) Eravamo così felici! Enon lo sapevamo neppure. ;

Ada                               - Tanto felici che facevamo di tutto percrearci dei dispiaceri: tu con le tue assurde gelosie...

Miro                              - E tu con i tuoi bronci che non finivano ; mai; e con le tue sberle!

Ada                               - Sberle! Esagerato! Un unico, sacrosantoschiaffetto quella volta...

Miro                              - Pochi giorni prima che partissi per laguerra...

Ada                               - ...quella volta che volevi a tutti i costi trascinarmi in un certo «rifugio»... La chiamavi «ri­fugio », tu, la camera disobbligata di quel tuo com­piacente compagno che t'aveva prestato la chiave!

Miro                              - (intensamente, sommesso) Ti desideravo tanto!... E m'aveva preso una malinconia... un'ango­scia così profonda, al pensiero di dovere andar via... di dover interrompere il nostro idillio... di dover la­sciare tutto... Era un presagio. (Pausa)

Ada                               - (sovra pensiero) Ma sì... Sono stata stupida anche quella volta.

Miro                              - (tentando di riprenderle la mano) Vuoi dire?...

Ada                               - (riprendendosi e schermendosi: secca) No. Niente.

Miro                              - Ada! Voglio sapere...

Ada                               - Facciamo le persone serie, per carità! Nien­te bambinate. Siamo cresciuti, ormai.

Miro                              - Perché eviti di guardarmi?

Ada                               - (a disagio, sforzandosi dì ridere) Che idee!

Miro                              - (sommesso, intenso) Che cosa c'è stato nella tua vita, dopo il '43?

Ada                               - (aggressiva) E nella tua, dopo il tuo ritorno dalla Russia?

Miro                              - (quasi con smarrimento) Tante tante co­se... Ma niente di ciò che forse pensi.

Ada                               - Io non penso a nulla di particolare. E poi, che cosa può importarmi, ormai?... Però...

Miro                              - Però?...

Ada                               - Voglio essere sincera: mi farebbe piacere saperti contento, sistemato, con l'animo in pace... Lavori? Hai una buona occupazione?

Miro                              - (a disagio) Così e così... Non mi lagno, dati i tempi.

Ada                               - Certo che se avessi potuto finire i tuoi studi, diventare architetto, artista, come sognavi...

Miro                              - (amaro) Non ci penso più. Sogni di gio­ventù, illusioni, acqua passata... La vita vissuta è un'altra cosa: proibito sognare, occhi aperti, nes­suna debolezza. E' come camminare in una giun­gla, ecco: una vera giungla.

Ada                               - Ma... lavori?

Miro                              - (infastidito) Lavoro, lavoro, sì... Non muoio di fame, sta' pur sicura. Ramo affari. Sono imbottito di biglietti da mille... E tu?

Ada                               - Lavoro...

Miro                              - (sollecito) Se ti serve un aiuto...

Ada                               - (vivamente) No, no., non mi serve niente.

Miro                              - Scusami. Non volevo offenderti. E non temere, soprattutto, ch'io voglia ficcare il naso nelle tue faccende... nella tua vita sentimentale.

Ada                               - Non c'è nulla di particolarmente interes­sante da scoprire. Sono libera, sola.

Miro                              - Mi permetti di dubitarne?

Ada                               - Dubita pure. Ma è così.

Miro                              - Vorresti forse dire?...

Ada                               - Nulla più di quanto ho detto. Ma cam­biamo discorso, per favore.

Miro                              - (insinuante) E se capitassi a Milano, una volta o l'altra:1

Ada                               - Non mi troveresti.

Miro                              - Ah, un impedimento c'è, dunque!... Un fidanzato? Un amico?

Ada                               - No, no, niente di simile. Ma voglio rima­nermene sola, libera. Anche per me le illusioni, i sogni, le romantiche evasioni... tutt'acqua passata.

Miro                              - (perplesso) Non ti capisco.

Ada                               - Non è necessario. Possiamo vivere benis­simo tutt'e due senza capirci, ignorandoci. E' il de­stino, caro; il destino che non bussa mai due volte; il destino che quando crea l'irrimediabile...

Miro                              - (inquisitorio, penetrante) Ma che cosa c'è stato d'irrimediabile nella tua vita?

Ada                               - (irrigidendosi, quasi in tono di sfida) E nella tua?

Miro                              - (dopo un attimo di perplessità smarrita) Nulla... nulla... Ma tutto' da rifare, forse. (Pausa. Profondamente) Perché non ci diciamo tutto, Ada?

SCENA QUARTA

Durante le ultime battute entrano circospetti il commissario, dalla porta di fondo. Il brigadiere e l'agente da destra. Muovono lentamente, quasi inav­vertiti, facendo cenno a Memi e a Cencio di star fermi e zitti. Sì dirigono lentamente verso Miro che volge loro le spalle).

Il Commissario              - (a due passi da Miro e traendo la pistola) Mani in alto! E rimani dove sei, Casimiro Sparti. (Miro ha un sussulto, ma leva le braccia rimanendo immobile. Il Brigadiere e l'agente balzano ai lati di Miro, lo afferrano, lo perquisiscono sequestrandogli una rivoltella. Il com­missario, calmo, quasi bonario) Non fare storie, Casimiro. Stavolta ci sei.

Miro                              - Ma qui c'è un equivoco...

Il Commissario              - Sicuro, può darsi che ci sia un equivoco. Ma è meglio che tu venga con noi a chia­rircelo al commissariato. C'è fuori la macchina: quella del tuo caro e degno socio che t'ha piantato sperando di farla franca. E' stato molto ragione­vole, il tuo socio. Procura di esserlo altrettanto. (II brigadiere e Vagente ammanettano Miro con qual­che difficoltà dato che il giovane oppone un po' di resistenza. Intensa curiosità fra gli astanti. Il com­missario tenendo Miro sotto la minaccia della pi­stola spianata) Calmo, Casimiro! Tanto è inutile. Arrischi di farti imbottire di pallottole.

Miro                              - (torvo e vergognoso) Vorrei sapere... In­somma, ho il diritto...

Il Commissario              - Certamente. Ti daremo tutte le spiegazioni che vorrai: le truffe delle macchinedell'ARAR, gli assegni a vuoto all'autorimessa di Trieste, la fuoriserie rubata a Bologna, il colpo alla banca di Sacile... Eh, non ci mancheranno gli argo­menti di conversazione. Mi sei sgusciato di mano giusto un anno fa a Padova - ricordi? - Ma sta­volta... eh, stavolta non ci riesci, caro il mio rocamboletto. Su, spicciati, andiamo.

Miro                              - Lasciatemi pagare...

Il Commissario              - Uh!... non formalizzarti pei così poco. Il signor Memi si fida... ti fa credito... Vero, signor Memi?

Memi                             - Ai suoi comandi, cavaliere.

Il Beone                        - Tante storie per servire un bicchierino di grappa ad un galantuomo, e pensare che ci aveva i « gangsters » in buffet!

L’Agente                      - (accennando ad Ada) Portiamo su an­che questa?

Il Brigadiere                  - Certo! Li abbiamo pescati in­sieme, no?

Miro                              - (vivamente) La signorina non c'entra!... Un incontro del caso... Mi sono seduto al suo ta­volo in attesa del treno... Pura combinazione: può testimoniare il padrone. Prego, signor commissario, non le dia noia... non ha niente a spartire con me.

Il Commissario              - (fissando Ada e riconoscendola) Ma si, lasciatela perdere.

Il Brigadiere                  - Ma erano assieme...

Il Commissario              - Per caso... Probabilmente, que­sto bellimbusto s'è seduto al tavolo della signorina per fare il pomicione.

Il Brigadiere                  - (indicando Ada) Ma lei, che ci faceva qui?

Il Commissario              - E' di partenza. (Strizzando fur­bescamente l'occhio) Cambio di guardia, nevvero signorina? (Ada annuisce confusa, evitando di guardare Miro. Il commissario, ironicamente ga­lante) Dove va di bello?

Ada                               - A Milano.

Il Commissario              - Uh! buona piazza! Brava, brava...

Il Brigadiere                  - (grossolano) Ah, ora capisco! Avvicendamento quindicinale! (Sghignazza).

Il Commissario              - Appunto. Perciò si trova qui a quest'ora. Ci sei arrivato, finalmente?

Il Brigadiere                  - Direi di sì.

Il Commissario              - Be', andiamo. Felice notte atutti... Largo, per favore. Da bravo, Casimiro; atten­zione! non cercare di fare il furbo, mi raccomando.

Miro                              - (avviandosi scortato e volgendosi ad Ada, con voce soffocata) Addio, addio...

Ada                               - (senza guardarlo, reprimendo un singulto) Addio! (Miro, il commissario, il brigadiere, l'agente escono da destra. Pausa).

Cencio                           - (s'avvicina lentamente ad Ada) In tutto.fanno duecentoquarantacinque... Compreso il ponce di... Casimiro.

Ada                               - (imbarazzata, fruga nella borsetta e fuga) Ecco qua... tenga (Si alza, fa un cenno al facchino di seguirla con le valige e si avvia verso l'uscita di fondo).

Il Beone                        - (beffardo, seguendola con lo sguardo) Avvicendamento quindicinale!... Cambio della guar­dia!... Ah! Ah! Ah!

INTERMEZZO

(Sono trascorsi diciotto o venti mesi dall'azione del Primo Tempo. Un parlatorio dì carcere «per collo­qui speciali », vale a dire senza inferriata divisoria. Due panchetti sul davanti, uno di fronte all'altro. In fondo a destra un cancello che dà su un corri­doio. A sinistra una porta ferrata. Pure a sinistra, sedia e tavolino del carceriere).

SCENA PRIMA

Ada e il Carceriere

Il Carceriere                  - (introduce Ada da sinistra) Acco­modatevi qui... Mo viene il detenuto Casimiro Sparti, il numero 473... Qui tutti hanno un nu­mero: è la regola. (Accennando all'involto semi­sfatto che Ada reca con se) Mangeria?... Indumen­ti?... Sigarette?...

Ada                               - (veste con semplicità, quasi dimessamente; è visibilmente indecisa, intimorita) Sì, qualche cosa... Giù, all'entrata, hanno già verificato.

Il Carceriere                  - So. I regolamenti sono i regola­menti, non si scappa: la legge. La legge è tutto; è la legge che fa marciare il mondo... Dovrei veri­ficare anch'io... Ma mi fido de 'sta bella guagliona. (Accenna a farle un ganascino. Ada si scosta bru­scamente) Ih, non vi mangio mica!... Facevo così, paternamente. (Ridacchia) Sorella?... Moglie?...

Ada                               - (a disagio) No.

Il Carceriere                  - (malizioso) Fidanzata?... Ih, quanto sussiego!... Amante?... Ih, non formalizzatevi per così poco!... Avrei diritto di sapere in fondo: il regolamento parla chiaro, quantunque... (esamina il permesso di colloquio che rigira fra le mani) ...quan­tunque, qua, ci sta la firma del signor procuratore della Repubblica. Mi basta. Colloquio speciale. Corbezzoli! Dovete tenere alte protezioni, voi! Che cosa gli avete fatto, al signor procuratore?... Un sor­riso?... 'Na strizzatina d'occhi?... Così? (Ammicca furbescamente e sbotta in una risata fragorosa) E brava!... A me, invece, manco il permesso di farvi un buffetto... così. (Tenta nuovamente dì farle un ganascino. Ada sì ritrae urtata. Ancora una risata) Che? Temete la gelosia di Casimiro?... Ha voglia, quello, di fare il geloso, con la purga che gli han dato!... Da dove venite?

Ada                               - Da Milano... (correggendosi subitamente) da Venezia.

Il Carceriere                  - (malizioso e incuriosito) Da Mi­lano o da Venezia?

Ada                               - Da Venezia... Sono veneziana.

Il Carceriere                  - Eh, si capisce! Gran belle ra­gazze, a Venezia! Conosco. A Venezia, in Santa Ma­ria Maggiore, ci ho fatto il tirocinio di agente. Ora sono agente capo, brigadiere, ma mi hanno sbat­tuto quaggiù, in 'sta fetenzieria di penitenziario. (Mentre il carceriere pronuncia queste ultime pa­role, echeggia da lontano un canto sguaiato, il ri­tornello d'uno stornello romanesco: « Affaccerà fenestraaa, o spennacchiataaaa -        - grugnaccio de pa­della arrugginìtaaa ». Seguono risate, zittìi rumo­rosi, improperie) Ma sentilo un po', 'sto disgraziato! E' lo scopino del terzo braccio ...un ciociaro, che lo possino... Trent'anni di galera. Ha sgozzato il ma­rito della sua ganza. Trent'anni e... e canterebbe tutto il giorno, a lasciarlo fare. Dice che quando canta gli passa meglio il tempo. (Riesaminando il permesso con sussiego) Il regolamento dice che il colloquio dev'essere di un quarto d'ora, non di più: e alla mia presenza. Parlate chiaro; è in mia facoltà d'abbreviare o troncare la conversazione se vi met­teste in testa di fare i furbi. Mangiata la foglia?

Ada                               - Ma io...

Il Carceriere                  - Basta così; so quel che mi dico. (Si ode un aprirsi e chiudersi di cancelli; sbattimenti di chiavi. Qualcuno sospinge dentro Miro).

SCENA SECONDA

Miro, Ada e il Carceriere

                                      - (Miro entra e sì arresta indeciso dì fronte a Ada, evitando di guardarla, visibilmente contrariato. In­dossa la divisa dei carcerati. E' giù di corda, torvo)

Ada                               - (con slancio represso) Miro!... Come stai?... Ho fatto male a...?

Miro                              - (con ira sorda, malamente trattenuta) Te l'ho detto anche all'Assise: non voglio che ti oc­cupi di me. Nessuno deve ficcare il naso nelle mie faccende. Non ho nessuno al mondo... sono solo... avrò il diritto, spero, d'essere lasciato! in pace, di rimaner solo col mio porco destino!

Il Carceriere                  - (severo) Giovanotto! Modera­zione, dico!

Miro                              - (di scatto, inviperito) Pensi agli affari suoi!

Il Carceriere                  - (balzando minaccioso dalla sedia) Che cosa hai detto? Vuoi finire in cella di rigore?

Ada                               - (supplichevole) Oh, no... la prego... non sia severo... lo lasci dire...

Il Carceriere                  - Che dire e non dire! Attenzione, ragazzo, che qui ci sta il castigamatti.

Ada                               - (porgendo a Miro il pacco sfatto) Ho por­tato qualcosa che ti può servire... Accetta, ti prego... Sono piccolezze.

Miro                              - (con malgarbo, prendendo il pacco e ponen­doselo accanto sul panchetto su cui è seduto, senza guardare) Ma sì, da' qua. Che sia l'ultima volta, però... (Con intenzione cattiva) So che cosa costano queste cose... queste liberalità. Come l'avvocato, il processo, l'appello, le carte bollate: tutte sollecitu­dini che, per te, hanno un prezzo che davvero non posso accettare... No, non le posso accettare.

Ada                               - (imbarazzata e addolorata) Ti assicuro che...

Miro                              - (guardandola negli occhi, intensamente) Che cosa?

Ada                               - (chinando il capo) Non sono più... non è più come prima...

Miro                              - Non fai più la vita, vuoi dire?

Ada                               - (umiliata, guardando di sfuggita il carceriere che sta accendendosi la pipa o il sigaro e la osserva maliziosamente di sottecchi) Oh, Miro!

Miro                              - Non vergognarti, non formalizzarti per così poco, va' là. Se ne vedono e sentono tante, qui dentro! (Accennando al carceriere) Gli avevi forse detto che sei mia moglie?., o la mia illibata fidan­zata? (Ride con acrimonia, beffardo).

Il Carceriere                  -  'Sta quagliona ha tenuto acqua in bocca. Non continuare a sfotterla così, giovanotto. Dopo tutto, è stata carina a venirti a trovare e a portarti un po' di roba. Molte mogli e sorelle e figlie non arrivano a tanto. Non ci sono che le madri, povere diavole, a essere capaci di simili sa­crifici. Tientela bona, questa ragazza! Ti farà co­modo fin che starai qui dentro.

Miro                              - (inquisitorio, ad. Ada, ostentando di non voler replicare al carceriere) Sicché?...

Ada                               - Sicché cosa?

Miro                              - Non fai più... avresti cambiato vita...

Ada                               - (sommessamente, a disagio) Sì.

Miro                              - Forse, un cliente solo, un protettore da­naroso, magari vecchiotto?...

Ada                               - Non continuare così, ti prego! Sei cattivo... non devi...

Miro                              - Voglio sapere! Devo! Oh, non perché mi faccia delle illusioni o perché m'interessi in modo particolare. Ma se devo accettare le tue liberalità è giusto che sappia.

Ada                               - (sommessa) Sono tornata a Venezia... la­voro... Non mi credi?

Miro                              - Vorrei poterti credere.

Ada                               - Sai bene qual era il mio lavoro, prima, quand'ero ancora in famiglia. Facevo la sarta, non ricordi? Ed ero bravina; promettevo bene...

Miro                              - (profondamente, quasi a se stesso) Vorrei crederti. (Reagendo al proprio rabbonimento) Oh, non per me... non perché speri qualcosa da te... Ma che, dei due, almeno uno sia riuscito a risa­lire... a riscattarsi.

Ada                               - (allungando timidamente la mano e sfioran­dogli il viso) Tutt'e due, vedrai...

Miro                              - (cupo, fermamente convinto) - Io? Ma per me è finita, cara.

Ada -                             - Ma no... ma no...

Miro                              - Sssst. So ciò che mi dico. Ma sì, è in­teso che la speranza è sempre l'ultima a morire; che anch'io, come tanti altri disgraziati, dovrei farmi forza, aggrapparmi ad una ragione purchessia... Sei anni non sono poi un'eternità, possono anche pas­sare abbastanza presto; e poi c'è sempre l'illusoria risorsa di un'amnistia, di un condono, della fede in qualche miracolo... C'è della gente in questa bolgia di dannati (assassini, briganti da strada, belve uma­ne ed anche - semplicemente - poveri esseri de­boli e indifesi) che deve scontare venti, trent'anni, l'ergastolo, e ancora spera. E ogni sera c'è sempre qualcuno che incide un trattino sul muro della cella: un altro giorno finito, un giorno di meno da passare in buiosa, l'ora della liberazione che s'av­vicina piano piano, un passettino dietro l'altro... l'interminabile agonia della speranza: molto più agonia che speranza.

Ada                               - Tu, dopo tutto...

Miro                              - lo, dopo tutto, ho finito di sperare nel preciso momento in cui la fiamma ossidrica stava mordendo la serranda d'acciaio del cambiavalute vittima della mia prima impresa ladresca. Chissà perché, ma mentre - nel buio, sotto' la pioggia che m'intirizziva - aspettavo fremente, con gli altri, che lo specialista della ghenga terminasse il suo lavoretto di pazienza con la fiamma ossidrica (questione di due o tre minuti), tutta la mia vita di buon ragazzo di famiglia, di studente, di sol­dato, di prigioniero, di reduce scalcagnato e invele­nito, mi è passata nella mente come... come un film. Speranze, ambizioni, amore, spaventi, fame, dolori, tutto, tutto mi è passato dinanzi come se si trattasse della vita di un altro, di un altro Miro estraneo a me, di una razza diversa, di un altro pianeta; e ho sentito, sì, ho sentito distintamente che qualche cosa si frantumava qua dentro, irreparabilmente: che Casimiro Sparti era morto come sua madre, suo padre, i suoi fratelli: morto! Sì, morto anche il pallido adolescente che sostava sotto le tue fine­stre di San Barnaba, che ti aspettava magari per ore nei paraggi degli squeri di, San Trovaso... (Breve pausa) Ah, perché non sono morto per davvero, insieme con tanti altri figli di mamma, nel deserto della Marmarica o nel gelido squallore della steppa russa!?

Ada                               - (intenerita, tentando d'accarezzarlo) Povero Miro! Ti capisco, sai...

Miro                              - (scostandosi di scatto, sconvolto) Non toc­carmi!... Non toccarmi, ti prego!

Ada                               - (umiliata) Ti do fastidio... provi ripu­gnanza...

Miro                              - Non tu: io, io mi faccio fastidio, schifo!...(Toccandosi la casacca, con veemenza) Non ti rendi conto che quando si è cosi... qui dentro...? (S'acca­scia, coprendosi il volto).

Il Carceriere                  -  Ih, quante storie!... Qua dentro nessuno è mai morto di vergogna. Coraggio, Casi­miro. 'Sta bella guagliona ti vuol bene: t'aspetterà. Tientela bona. Fa sempre comodo aver qualcuno che pensa a te, quando si è in questo purgatorio. Cinque o sei anni passano presto. Pensa .alla salute, Casimiro! (Fa un cenno ad Ada d'appressarsi a Mi­ro, d'abbracciarlo).

Ada                               - (cingendo Miro alle spalle, amorevole) Co­raggio, Miro. Non abbandonarti allo sconforto. Sei ancora giovane, sei ancora in tempo a...

Miro                              - (divincolandosi di scatto) A far che cosa? A redimermi? A organizzarmi una vita nuova? A diventar felice, magari? E' questo che vuoi dire?... Ma che ci avete, nella testa, voi donne?... I romanzi a fumetti! Ecco, sì: nient'altro che fumetti: amore e morte... infamia e redenzione... la donna del gang­ster... il mio corpo di scalderà... (Prorompe in una risata acre) Povera Ada! Vedo proprio che, nono­stante tutto, la vita non ti ha insegnato niente. (Ride ancora) Sicché, pensi proprio che, uscito di qui (se ne uscirò con le mie gambe), mi sarebbe facile ricu­perare tanti anni perduti, bruciati, rifarmi una vita decente, dedicarmi ad un lavoro purchessia, metter su casa, famiglia... sposarti magari...

Ada                               - (umiliata) Non pretendo questo... So bene di non poter sperare...

Miro                              - Non intendevo dire ciò che pensi. Quale diritto avrei, infatti, di fare lo schifiltoso con te o con qualunque altra? Intendevo semplicemente di­mostrarti che non posso farmi delle illusioni e che non devi fartene nemmeno tu, povera diavola. Fu­metti, fumetti!... Lasciami perdere, Ada. Torna al tuo lavoro (se è vero che sei riuscita a riscattarti, a cambiar vita) e cerca di scordarti che nel fondo di una galera giace il tuo primo amore, un tale che si chiamava Casimiro Sparti e che oggidì non è altro che un numero: il 473... Giocale al lotto, queste tre cifre: quattro - sette - tre. Chissà che non ti por­tino fortuna! Addio, Ada. (Avviandosi al cancello) Grazie della visita... grazie dei regalucci... ma non tornare più... non scrivermi... dimenticami... Addio. (Al carceriere) Il colloquio è finito, signor capo.

Carceriere                      - Hai ancora cinque minuti, Casi­miro. Non buttarli via; potresti rimpiangerli.

Miro                              - Non se ne dia pensiero, signor capo.

Il Carceriere                  - (perplesso, guardando Ada che è ri­masta male e fa sforzi per trattenere le lacrime) Non fare lo strafottente, ragazzo. Da' ascolto a don Peppino che ha tanti più anni ed esperienza di te: cerca di comportati da uomo dabbene, con que­sta ragazza che ha fatto una giornata di treno per venire a visitarti; ringraziala, salutala con educazione... con un po' di sentimento. Non ti costa nulla e la rimandi a casa sollevata. Pensa al mattone che ci ha sul cuore, poveraccia. Sii gentiluomo.

Miro                              - (ha un gesto di ira repressa e muove ancora un passo per uscire. Indi si volta, guarda Ada che è rimasta avvilita, con gli occhi bassi, trattenendo il pianto. Torna in fretta sui suoi passi e con impeto stringe la donna in un abbraccio convulso, dispe­rato) Ada!... Scusami, Ada...

Il Carceriere                  - (soddisfatto) Tanto ci voleva!... Ah, 'sti guaglioni dell'era atomica! Quanto son fes­si!... Eppure, un cuore ce l'hanno anche loro, dico io! (S'avvicina a Miro, lo prende per un braccio e lo tira verso il cancello) Be', ora basta... Vi scrive­rete... vi rivedrete presto. Andiamo.

Miro                              - (raccoglie il pacco lasciato da Ada e s'avvia all'uscita col carceriere) Addio, Ada.

Ada                               - ' Scrivimi... Tornerò... Pensami, Miro. Ti voglio bene... (La voce lontana del carcerato ignoto riprende la canzonaccia: « Vatt'a buttare a fiumeee - col tramve che passa pe cittàaaa - Pija solo er bijetto dell'annata       - senza er ritorno -      che te possino ammazzàaaa ». Urla, proteste, risate come prima. Rumori di catenacci e chiavi. Ada s'abbatte sul panchetto e, finalmente, dà sfogo al pianto re­presso).

SECONDO TEMPO

(Stesso ambiente del Primo Tempo. Sono trascorsi due anni dall'azione iniziale e appena qualche mese da quella dell'Intermezzo. E' ancora una notte d'inverno. Trilli di campanelli segnalatori, fischi e rumori d'una locomotiva in manovra, sferraglia-menti, durante l'azione).

SCENA PRIMA

Memi, Cencio, il Facchino e il Brigadiere    

 (II brigadiere è davanti al banco di mescita e con­versa con Memi. Cencio sta facendo pulizia, senza fretta. Il facchino è seduto ad un tavolo col mezzo­litro e il bicchiere vuoto: sonnecchia).

Il Brigadiere                  - (con un lungo sbadiglio) Acciden-taccio! com'è lunga questa notte da passare. Ho un sonno... un sonno... E pensare che ne ho ancora per due ore.

Memi                             - Un altro caffettino, brigadiere?

Il Brigadiere                  - Ah, no, grazie tante! Ne ho bevuti tre, da iersera. Se ne ingollo un quarto, sa che nervi!?... Li ho già tesi come corde di violino. (Sba­diglio) Pensare che stavo così bene all'archivio del commissariato. Facevo le mie sette ore, pacifico, senza grane. Alla sera, se ne avevo voglia, andavo al cinema, oppure me ne rimanevo in casa con la mia famiglia. Qualche raro servizio extra senz'alcunaimportanza... Nossignore! Al commissario reggente gli è frullato il ticchio di istituire l'ufficio di pub­blica sicurezza di stazione: roba da matti! E, natu­ralmente, doveva toccare a me l'alto onore del ser­vizio di notturna. Domando e dico se c'è senso comune...

Memi                             - Che cosa dovrei dire io, allora? Sono già tre anni che gli alti papaveri del compartimento mi hanno imposto di tenere aperto 'sto maledettissimo buffet anche di notte, per via della fermata dei due direttissimi che potrebbero benissimo tirar dritto come facevano una volta. E devo star qui a disposi­zione dei signori ferrovieri che, naturalmente, han­no diritto alle tariffe preferenziali: venticinque lire un caffè, trenta un panino bene imbottito, quindici il bicchier di vino e... via di questo passo. E guai se sgarro di una lira! Si lagna lei che, in fondo, ci rimette soltanto un po' di sonno; che cosa dovrei dire io che, oltre al sonno, ci rimetto fior di bigliet­toni da mille?

Il Brigadiere                  - Vada là, vada là, signor Memi, che la sa lunga. Di bigliettoni ce ne rimette pochi, glielo dico io! E' uno di quei furbacci, lei!...

Memi                             - Vuol forse farmi andare in bestia?

Il Brigadiere                  - Farei subito cambio, con lei.

Memi                             - Magari! Vuol che proviamo?... Qua la mano!

Il Brigadiere                  - Il guaio è che non si può, altri­menti...

Memi                             - Ne intascherete anche pochi, voi statali, ma son soldi sicuri. Al ventisette del mese, comun­que vadano le cose, san paganini v'allunga la vostra brava bustarella e siete al coperto vita natural du­rante.

Il Brigadiere                  - Sì, ma quante acrobazie ci tocca fare da un ventisette all'altro!

Memi                             - Non le descrivo' le mie quando m'arri­vano certe « tagliatelle » e tratte da pagare! Senza contare l'affitto, il canone, il salario dei dipendenti.

Cencio                           - (continuando a scopare) Grasso quel dindio!...

Memi                             - (risentito) Che cosa c'è da brontolare, signor scansafatiche?... Persino le marchette della previdenza sociale mi tocca pagare per questa bella gente!

Cencio                           - Attento di non rovinarsi!

Memi                             - La sente, brigadiere, la strafottenza dei dipendenti del giorno d'oggi? Ai miei tempi, quan­do si lavorava sul serio e si portava il dovuto rispet­to ai padroni...

Cencio                           - ...uno sguattero riusciva perfino a ra­cimolare quel tanto da poter diventare concessio­nario di buffet. Oggidì hai voglia!... Memi [ridendo verde) Ha udito che roba, bri­gadiere?

Cencio                           - Oggidì, un povero diavolo di cameriere di prima...

Memi                             - Ah, perché tu ti reputeresti di prima ca­tegoria?!

Cencio                           - Sissignore, di prima. Chi c'è davanti a me, qui dentro?

Memi                             - Nessuno; sei il solo.

Cencio                           - O solo o in compagnia, fatto sta che sono di prima. Alla camera del lavoro sono iscritto come cameriere di prima e...

Memi                             - A me non fa né caldo né freddo, la tua camera del lavoro.

Cencio                           - (comicamente solenne) Stia in guardia, signor Memi, che uno di questi giorni potrei anche mettermi in agitazione per via degli straordinari not­turni che lei non mi ha mai corrisposto...

Memi                             - Va' là, bel tomo! Continua a scopare, ch'è meglio.

Cencio                           - Scopo, scopo, sì... Ma si ricordi che « quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa».

Memi                             - (sghignazzando acremente) Scopa, scopa, cameriere di prima!  Anche sovversivo è diventato, 'sto lavativo!... Gli straordinari notturni dovresti pa­garli tu a me, altro che storie! Dove le metti le mancette che racimoli ogni notte? Quelle non con­tano, eh?...

Cencio                           - Sfotta, sfotta pure! Ma se mi metto in agitazione...

Memi                             - Fortuna che c'è qui la forza pubblica!

Il Brigadiere                  - (scherzando) Vorrà dire che pre­disporrò tempestivamente un servizio d'ordine.

Memi                             - (mescendo due bicchierini) Intanto, fac­ciamoci coraggio con un bicchierino di roba forte. Un cognachino, brigadiere!

Il Brigadiere                  - (bevendo) E vada per il cogna­chino. Alla sua salute.

Memi                             - Alla sua. (Trangugia di colpo).

Cencio                           - (scafando fra i piedi del facchino appiso­lato) Sveglia, capo! che, se no, ramazzo via an­che te, con tutto il nervoso' che m'è entrato in corpo!

Il Facchino                    - (destandosi di soprassalto) Son qui... Facchinooo!. E' arrivato?

Cencio                           - Chi?

Il Facchino                    - Diavolo! Il direttissimo.

Cencio                           - Eh, c'è tempo! Ma è meglio che te ne vada a cuccia. Tanto chi vuoi mai che arrivi con questo freddo da lupi?

Il Facchino                    - Non si sa mai. Può sempre darsi che arrivi qualcuno con tante, tante valige. Stavo proprio sognando ch'erano scesi dal treno un muc­chio di forestieri con montagne di bagagli da ca­ricarmi sulle spalle; e non sapevo proprio come tener dietro a tutti. Non ce la facevo, diavolo!....Propriamente non ce la facevo. Che momento elet­trizzante ed angoscioso!... Nei miei sogni più belli ci sono sempre montagne di valige da portare.... (Dà di figlio automaticamente al mezzo litro vuoto e fa l'atto di mescersi del vino. Scoraggiato) Niente! Neanche una lacrima. Senti, Cencio: potrei averne un altro goccio a credito? Col primo nolo ti pago.

Cencio                           - Già! E se poi non ti capita il nolo?!

Il Facchino                    - M'accontento di un quartuccio. Parola d'onore che oggi stesso ti saldo.

Cencio                           - Va bene. (Gridando a Memi) Un quar­to di rosso.

Memi                             - Per chi?

Cencio                           - (additando il facchino) Per il capo.

Memi                             - (secco) Denari anticipati.

Cencio                           - Rispondo io.

Memi                             - Basta la parola. Del mio cameriere di prima mi fido. (Mesce e consegna il quarto).

Cencio                           - (deponendo il quarto sul tavolo del fac­chino) D'accordo, eh? Devi pagarmi in giornata.

Il Facchino                    - (si mesce e beve golosamente) Abbi fede, Cencio. (Dal di fuori arriva la voce del beone che canta sguaiatamente una canzonaccia. Fa coro un'altra ugola, quella del ferroviere).

Memi                             - (di malumore) Toh! Eccolo qua, il solito rompiscatole. Abbiamo finito di star bene.

Il Brigadiere                  - Stia tranquillo. Se fa il fanatico, gli metto le catenelle e lo sbatto in guardina.

Memi                             - Dovrebbe sbatterlo in galera a vita. Certa gente non sta bene che là dentro.

SCENA SECONDA

Beone, il primo Ferroviere e detti

(I due nuovi arrivati fanno irruzione da destra, a braccetto, evidentemente alticci, ridendo a crepa­pelle).

Il Beone                        - (all'orecchio del ferroviere) Sta' at­tento... sta' attento come te lo sistemo il nostro caris­simo, amatissimo, riveritissimo signor Memi... Sta' attento. (Fra i singulti del riso represso) Buona notte a tutti! Brigadiere, i miei rispetti. (Cercando di darsi un contegno serio) Vorremmo bere, con vostra licenza...

Memi                             - Eh, so bene che vorreste bere ancora, ma avete sbagliato uscio.

Il Beone                        - Un momento, perbacco! Mi lasci finire l'ordinazione...

Memi                             - Niente ordinazione.

Il Beone                        - (ridendo furbescamente) Permetta, signor Memi. Dopotutto, sono una persona rispet­tabile, un libero...

Memi                             - ...un libero cittadino e un ex campione, lo sappiamo. E' un motivetto che conosciamo ormai a memoria. Ma qua non si beve.

 Il Ferroviere                 - (autoritario) Come, non si beve? Per sua norma e regola, io sono...

Il Beone                        - (frenandolo) Sta' buono che adesso ci facciamo una bella risata.

Memi                             - C'è poco da ridere. Alcoolici niente!

Il Beone                        - Un momento, boja d'un mondaccio assassino!... Vorremmo bere...

Memi                             - Il solito grappino...

Il Beone                        - Signor no! Vogliamo due bicchierotti di...

Memi                             - ...di vino. Manco se vi buttate in gi­nocchio!

Il Beone                        - Ma no! Gradiremmo due bicchierotti di latte... di latte puro... possibilmente appena mun­to... che fa tanto bene, dicono... Il Ferroviere    - (torcendosi dal ridere) E' tutta la sera che libiamo con calici di latte.

Il Beone                        - ... appena munto dalle botti. (Al ferro­viere fra nuovi scoppi di risa) Guarda, guarda che faccia ha fatto! Lo abbiamo messo kappaò.

Il Brigadiere                  - (cercando dì darsi un contegno) Be', poche storie! Smettetela di far cagnara, altri­menti...

Il Beone                        - (reprimendo buffonescamente il riso) Giusto, brigadiere. Davanti ai tutori dell'ordine, di­gnità e rispetto. Adesso ci sediamo e ce ne stiamo quieti, quieti come angioletti. Però, esigiamo che il signor Memi ci serva due bicchieri di latte. (Prende posto col ferroviere ad un tavolo).

Memi                             - Manco se crepano gliela do vinta!

Il Ferroviere                  - (sferrando un pugno sul tavolo) Due bicchieri di latte! Sono un ferroviere in ser­vizio e...

Il Brigadiere                  - Calma, niente cagnara.

Il Ferroviere                  - E chi fa cagnara?... Se quello non ci serve il latte, faccio rapporto al comparti­mento.

Il Beone                        - Giusto! Questo si chiama parlar da uomini. (Sottovoce al ferroviere) Però, se ce lo porta per davvero, il latte, chi lo beve? A me si rovescia lo stomaco soltanto a vederlo.

Il Ferroviere                  - (sottovoce) Non aver timore: adesso arrangio tutto io. (Si alza e prende sotto­braccio il brigadiere) Brigadiere bello, come va la vita?... Ce lo beviamo questo bicchiere alla vostra salute?

Il Brigadiere                  - Grazie, ma io, creda...

Il Ferroviere                  - Non dica di no. Me n'avrei a male.

Il Brigadiere                  - Sono in servizio e...

Il Ferroviere                  - Anch'io monto in servizio col direttissimo in arrivo... Via, brigadiere, m'offenderei, parola d'onore... Lei ha già compreso, spero, che si scherzava, a proposito del latte...

Il Brigadiere                  - Eh, l'ho capita sì... Ho capito benissimo. Però, lo pianti, quel beone. Sono anni che ci sta scocciando un po' tutti; quasi ogni notte la stessa musica, capirà...

Il Ferroviere                  - Eh, ha disturbato anche me, talvolta. Ma poi abbiamo fatto amicizia perché sono un ex sportivo anch'io... Poveraccio! Non fa male a nessuno, in fondo.

Il Brigadiere                  - Ma disturba, disturba maledet­tamente.

Il Ferroviere                  - Ora, lo fo stare a modo, glielo prometto. Sa, siamo stati a far bisboccia in casa di amici comuni ov'è stato macellato il porco, e si è un po' allegri, ecco tutto. Niente di male, direi...

Il Brigadiere                  - Capisco, ma...

Il Beone                        - (gridando, al ferroviere) E allora, compare? Si beve o non si beve?

Il Brigadiere                  - Ecco, lo sente? Ora comincia la solita solfa.

Il Beone                        - Se vuoi che ti racconti la storia del mio famoso match col negro della Martinica, bi­sogna che mi bagni l'ugola. Ma non col latte, per carità, che non voglio restituire la cena luculliana...

Il Ferroviere                  - Sta' buono che, ora, il briga­diere ci pensa lui a...

Il Brigadiere                  - Sì, ma fate i bravi, mi racco­mando. (Va al banco a parlottare con Memi).

Il Ferroviere                  - (tornando a sedere accanto al beone) Ora si beve. Racconta, intanto.

Il Beone                        - Anzitutto, devi sapere che quel sata­nasso d'un negro pesava più di un quintale e ci aveva due pugni da guantoni fuori ordinanza: grandi come i respingenti d'una locomotiva. Lo chiamavano « la pantera nera» e faceva veramente impressione. Quando me lo son visto dinanzi, al peso, confesso d'avere un po' titubato. (Già annun­ciato dal trillo del campanello avvisatore, si ode irrompere in stazione un treno. Movimento nel locale. Il facchino corre fuori, il brigadiere lo segue. Memi e Cencio si danno da fare).

Il Ferroviere                  - Finirai di raccontarmela un'altra volta. Monto in servizio...

Il Beone                        - E... e questo beveraggio?

Il Ferroviere                  - Sarà per un'altra volta anche quello. Arrivederci, campione! (Esce).

Il Beone                        - (sconsolato) Ciao... ciao... (Fra sé) Ho bell'e capito che, per questa notte, non si beve più. Però, non disarmo; qua sono e qua resto. Manco con una cannonata mi buttano fuori. (Si sente ri­partire il treno).

SCENA TERZA

(Ada, seguita dal facchino, e detti. Poi il briga­diere. Ada è vestita quasi dimessamente, di scuro. Soprabito, sciarpa, baschetto. E' infreddolita. Entraesitante e un po' a disagio, fermandosi indecisa come per cercar qualcuno).

Il Facchino                    - (reggendo due grosse valigie) Si ferma qui, in buffet, o comanda che l'accompagni in albergo o... o in qualche altro posto?

Ada                               - Devo incontrarmi qui con una persona: una vecchietta che dovrebbe essere già ad aspet­tarmi.

Il Facchino                    - Se vuole accomodarsi, qua si sta bene, al caldo. Segga, segga pure...

Ada                               - Aspetterò. (Si guarda intorno come traso­gnata, indi prende posto allo stesso tavolo del primo tempo).

Il Facchino                    - (dopo aver posato a terra le valige, a bassa voce, con discrezione) Ma sì, le conviene di aspettarla, la Gegia... (Ad un moto di sorpresa intimorita di Ada) Niente paura, signorina. So te­nere la lingua a posto... Vedrà che fra poco la Gegia capiterà. Caso mai tardasse, farò un salto per chiamarla.

Ada                               - Grazie. Se vuol bere qualche cosa...

Il Facchino                    - (sedendo poco discosto) Oh, questa sì che è un'idea! Non farò complimenti. (A Cencio che s'è avvicinato) A me il solito mezzo litro... Alla signorina, non so...

Ada                               - Un caffè. (Cencio via, al banco).

Il Beone                        - (al facchino) Mi pare... mi pare di conoscerla, quella donnina. Merce in arrivo?... (Strizza furbescamente l'occhio).

Il Facchino                    - Non saprei. Forse aspetta la coin­cidenza per...

Il Beone                        - ...per villa Paradiso. Eh, lo conosco bene, questo traffico. Vado a tenerle compagnia, poverina... Vado a darle il benvenuto a nome di questa nobile città. (Sghignazza e fa per alzarsi).

Il Facchino                    - (trattenendolo) Lasciala in pace. Non vuol essere disturbata.

Il Beone                        - Questo deve dirmelo lei.

Il Facchino                    - (e. s.) Lascia perdere, ti dico!

Il Beone                        - (rimettendosi a sedere) E sia. Però un goccio del tuo vino me lo fai assaggiare...

Il Facchino                    - (a Cencio che sta deponendo il mez­zolitro col bicchiere) Un altro bicchiere per il signore.

Cencio                           - Diavolo d'un ubriacone! Anche sta­notte è riuscito a spuntarla.

Il Beone                        - Di' un po' mezzuomo: che cosa vai borbottando?

Cencio                           - (tornando col bicchiere) Io? Niente d'importante. Facevo una riflessione. (Via).

Il Beone                        - (sorseggiando il vino che il facchino gli avrà mesciuto) Una riflessione!... Una rifles­sione!... Una volta o l'altra, glielo faccio smetter io il vizietto di certe riflessioni! Bisogna che, in que­sto porco paese, imparino una volta per sempre arispettare Toni Sbrega, ex campione del ring e concittadino illustre. Dico bene?

Il Facchino                    - Bevi e sii superiore a queste inezie.

Il Beone                        - (osservando il brigadiere che nel frat­tempo è rientrato e, lentamente, s'avvicina ad Ada) Un altro che mi sta nello stomaco e non riesco a digerire, è quel bellimbusto. Bella roba!

Il Brigadiere                  - (ad Ada, con discrezione, presen­tandosi) Servizio di pubblica sicurezza. Potrei sapere?... (Ada evidentemente a disagio, fruga nella borsetta e ne tira fuori una carta e un libretto che porge al brigadiere).

Il Brigadiere                  - (esaminando meticolosamente) Va bene... tutto in regola. Ma chi aspetti, qui? (Malizioso e galante) Un amico?... Forse quel tale che, parecchio tempo fa, una notte, proprio qui dentro...? Ti ho riconosciuta, sai!

Ada                               - (ha un sussulto) Aspetto una donna... una domestica che deve venire a...

Il Brigadiere                  - Ho capito. Se qui ti trovi a disagio, puoi passare nel mio ufficio. Ci fa un bel calduccio e saresti al riparo dai disturbatori. (Ac­cenna al beone).

Ada                               - (vivamente) No, no... Grazie... Desidero rimaner sola...

Il Brigadiere                  - (ritirandosi un po' seccato) Come vuoi... Però, mi raccomando: contegno! (Ada lo guarda stupita e irata trattenendo un moto dì reazione. Il brigadiere s'appressa al banco sbadi­gliando) Vada pure per il quarto caffè, signor Me­mi. Non ce la faccio proprio più a tener gli occhi aperti.

Memi                             - (ammiccando verso Ada) Quella là, ci scommetto, saprebbe tenerlo sveglio.

Il Brigadiere                  - Chi?... Quella?... Macché! Ho proprio voglia d'imbarcarmi con roba simile!... Una stupida da quattro soldi!

Memi                             - (preparando il caffè) Però, se ci stava...

Il Brigadiere                  - (vivamente, quasi impermalito) Che? Ha voglia di scherzare? Ho moglie e figli, sa! E quando sto in servizio...

Memi                             - (ironico, porgendogli la tazzina) Qua, si consoli... (A questo punto l'azione si arresta im-mobilizzandosi fino alla quinta ed ultima scena. I personaggi si fissano negli atteggiamenti descritti, meno Ada che, pure rimanendo al suo posto, pren­derà parte all'azione-dialogo successiva. L'ambiente a poco a poco si oscura e rimarrà sommerso in una penombra azzurrina che permetterà, tuttavia, di scorgere i personaggi immobili ed assenti; assenti nel senso di estranei al dialogo che sta per iniziar­si; e sia ben chiaro che non devono «percepirlo». In sostanza, trattasi di un « arresto di tempo » per tutti meno che per Ada. Solamente Ada e, succes­sivamente, il suo interlocutore, rimarranno fino altermine del loro dialogo in una zona ài luce. Dopo che il brigadiere si è allontanato e si sarà iniziato il lento trapasso di luci in dissolvenza, breve azione di Ada. lilla estrae dalla borsetta una sigaretta         - (che accende) e un giornale illustrato che sfoglia distrat­tamente con l'intenzione di mettersi a leggere; ma lo ripone subito. Fruga ancora nella borsa e ne tira fuori un telegramma sgualcito, ho dispiega, lo rilegge        - (e forse per l'ennesima volta) con una espressione di pena, indi la mano che stringe il foglio giallino le ricade lentamente sul grembo. Il suo volto rimane come impietrito e i suoi occhi si fissano verso un punto lontano. La sigaretta, abban­donata sul piattino della chicchera, si consuma da sola).

SCENA QUARTA

Miro e Ada                  

(Miro emerge silenziosamente, inavvertito, dall'om­bra e prende posto accanto ad Ada che rimane nell'atteggiamento anzi descritto. E' vestito, come nell'Intermezzo, da carcerato, ma sopra la casacca grigia indossa - sbottonato - il giubbone da aviatore del Primo Tempo. Il suo volto è pallidissimo, sere­no, quasi sorridente).

Miro                              - (a bassa voce, affettuoso) Ciao, Ada. Non mi aspettavi, nevvero?

Ada                               - (sempre immobile, non osando ancora volgere il capo per guardarlo) No, non t'aspettavo... Non t'aspetto più, ormai, da quando ho ricevuto questo telegramma... (Solleva lentamente la mano dal grembo e la tiene per qualche attimo sospesa a mezz'aria stringendo convulsamente il foglio gial-lino) ... questo telegramma che mi annuncia che... non sei più di questo mondo... che hai preferito...

Miro                              - ... che ho preferito non sopravvivere alle mie sciagure, alla mia vergogna, al mio fallimento completo, irrimediabile...

Ada                               - (sempre immobile, senza guardarlo) ... al mio amore...

Miro                              - Diciamo piuttosto alla tua amorosa pietà, o al tuo pietoso amore, che fa lo stesso.

Ada                               - (c. s.) Al mio amore... all'unico mio vero amore... alla sola cosa bella e pulita della mia vita di povera diavola, di peccatrice molto scadente.

Miro                              - (indulgente, affettuoso) Ma sì, come vuoi, cara.

Ada                               - (con un leggero corruccio) Per te è tutto lo stesso, ormai: ciò che sento, ciò che penso, ciò che dico, che faccio, dove vado... speranze... dolori... vergogna... rancore.... tutto lo stesso, tutto eguale! Sei tanto lontano...

Miro                              - (profondamente) Tanto lontano...

Ada                               - (con repentina angoscia) Ma perché?... Perché, Miro?...

Miro                              - (staccato, con voce incolore, senza alcun pal­pito d'emozione) Vuoi sapere perché una certa notte in cui, più del solito forse, non mi riusciva di prender sonno, mi sono risolto ad appendere una funicella all'inferriata, a infilare il collo nel cappio e a risolvere una volta per sempre il problema della mia intollerabile insonnia? Ma è semplice, Ada cara: s'è trattato di un « gesto insano » che, presto o tardi, dovevo pur compiere. Meglio, molto meglio se mi fossi deciso prima: prima di espormi alla mortificazione dell'arresto in tua presenza, prima di patire la gran pena che provai allorché ti scorsi in mezzo a tutta quella gente che era venuta a godersi il processo... Quale stretta al cuore, Ada, vedendo il tuo visino pallido, serio, quasi sgomento, fra tante faccio ignote rivolte verso la gabbia, la mia gabbia!... E quale vergogna, la sera, subito dopo la condanna, quando riuscisti ad entrare nella guardina della Corte d'Assise mentre mi ammanet­tavano, e mi saltasti al collo, in silenzio, bagnan­domi il viso con le tue lagrime!... E poi le lettere pietosamente bugiarde... (Ada accenna un gesto di protesta, ma non osa ancora guardare in fac­cia Miro) Ma sì, lasciami dire: pietosamente bu­giarde per te, per me... E i tuoi aiuti misericor­diosi ma pagati troppo cari... E, tre mesi dopo, la visita laggiù, nel reclusorio... Ancora bugie, ossia una menzogna pietosa e disperata e ingenua... Non è vero, forse? (Ada abbassa il capo e non risponde. Miro, più sommesso e penetrante) Non è vero, forse?

Ada                               - (voltandosi repentinamente e guardando final­mente Miro negli occhi) Sì, ma non devi credere...

Miro                              - Non ti rimprovero nulla, Ada. Quando si viene da tanto lontano come vengo io, non si rimprovera e non si chiede più niente ai vivi, ai poveri vivi... So, so perché mentivi, perché affer­mavi così puerilmente che la tua esistenza era cambiata. Lo dicevi per me, per consolarmi alcun poco, perché non mi vergognassi troppo nell'accet-tare i doni, diciamo pure i soccorsi, al povero carcerato. Capisco, capisco tutto, Ada; adesso com­prendo veramente tutto: il bene, il male, le tri­stezze, le consolazioni, il tedio, le menzogne insop­primibili della vostra povera, assurda vita. Com­prendo e mi spiego ogni cosa. Mi spiego anche la mia rovina; e ho finito col trovarla abbastanza logica.

Ada                               - (con fervore e convinzione) Sei stato null’altro che una vittima, Miro.

Miro                              - Si finisce sempre con l'essere vittime, quando non si sa né si vuole lottare, quando non si è sorretti da una fede, da un'idea...

Ada                               - Il destino è stato troppo duro con te...

Miro                              - (sorridendo con sereno compatimento) Il destino!... Quante volte l'abbiamo pronunciata, que­sta parola, la notte del nostro fortuito incontro, qua, a questo stesso tavolo, dopo tanti anni... Ricordi?

Ada                               - (riandando col pensiero al colloquio del primo tempo) « Passa la giovinezza, passano i sogni, le ambizioni, i dolori... passa tutto... passa la vita, o bene o male... ». Parole tue, Miro.

Miro                              - «Passa la bel vetta... Era destino». Pa­role tue, Ada...

Ada                               - Tutto è destino.

Miro                              - Sì, è destino, null'altro che cieco destino, quando una bomba piove dal cielo eliminando una casa e un'intera famiglia dalla faccia della terra. Ma, più spesso, il destino ve lo fabbricate con le vostre stesse mani. Come nel caso del de­funto Casimiro Sparti.

Ada                               - Ma tu...

Miro                              - Per quanto la sorte si sia accanita contro di me, sono arrivato alla conclusione logica, rigo­rosamente obiettiva, che - in fondo - non ero do­tato di un animo leonino, che ho disperato troppo in fretta e... - ma sì, diciamolo pure - troppo como­damente, a buon mercato. Del resto, tu stessa...

Ada                               - (chinando il capo, umiliata) Oh, quanto a me, lasciamo perdere. Son così misera cosa...

Miro                              - (affettuosamente indulgente) Non confon­derti dinanzi a me che sono tanto lontano, che non esisto più...

Ada                               - Tu esisti più di prima, per me, dentro di me... Se non mi sorreggesse quest'illusione, oh, credo che da un pezzo avrei risolto... avrei risolto alla tua maniera... Ma è un passo così difficile! Ci vuole tanto coraggio... e io non ce l'ho.

Miro                              - Ci vuole solamente tanta disperazione. Il coraggio serve per vivere. Giusto per questo ti ho detto dianzi che, in fondo, sono stato un debole, nella vita. Ho disperato troppo presto e - ripeto -comodamente. (Breve pausa) Oh, lo vedo, lo conosco bene, adesso, quel giovanotto un po' bullo, piuttosto nevrastenico, impaziente, impetuoso, fa­cile ad accendersi ed altrettanto facile a disanimarsi, che si chiamava Casimiro Sparti da Treviso, il nu­mero 473 del reclusorio di...

Ada                               - Non giudicarti con tanta severità, Miro.

Miro                              - (sereno, staccato) Giudicarmi? Io non giu­dico più niente, ormai. Quella di giudicare è la più pericolosa e assurda delle illusioni dei vivi. Eppure, fra voialtri vivi, ognuno giudica e si giu­dica: non sapete far altro da mane a sera, da quando riaprite gli occhi a quando li chiudete, stracchi ed assonnati. La frenesia del giudicare vi perseguita persino nel sonno, coi sogni, e ognuno si crede sempre nel giusto. Il tale è un gran uomo...quello un disonesto... quest'altro un criminale... quella una donnaccia... questo un virtuoso... Giuste determinate azioni e guerre e rivoluzioni... Ingiu­ste se viste a distanza di luogo o di tempo... Ogni esercito proclama di avere Dio dalla sua parte... Benedette le armi di chi vince, maledette le armi di chi perde... Benemerite le bombe che hanno quasi distrutto la mia città e annientato la mia famiglia, maledetto il mio fucile scarico che non m'è servito a farmi largo nella mischia onde sot­trarmi alla cattura da parte di quegli altri poveri diavoli imbestiati che era inteso e pacifico doves­sero rappresentare i miei nemici... Il «crucifige» a Cristo, il trionfo a Barabba: sempre la stessa storia. E c'è sempre il solito Pilato che se ne lava le mani, frettoloso com'è di rintanarsi a casa sua, mettersi in pantofole e sedersi a tavola per il pranzo... (Dopo una lunga pausa, con sorridente compatimento) Ma guarda un po' che cosa mi fai dire! Quasi, quasi stavo infervorandomi come... come se fossi ancora vivo... come se ritenessi possibile (e m'importasse) una resipiscenza da parte vostra: di voi vivi. Si capisce che non sono ancora abbastanza lontano, completamente staccato dal mondo... Forse, sono appena nell'anticamera dell'eternità. Ma è per que­sto che - cammina, cammina, cammina - non ho ancora incontrato quelli che furono i miei cari, la mia sorellina Renata... Te la ricordi?

Ada                               - (con un pallido sorriso, rievocando) Le trec­cine bionde, gli occhi celesti, una grazia un po' mesta, pensosa...

Miro                              - Mi scriveva...

Ada                               - ... di tornare presto ... « subito, subito »...

Miro                              - Se mai dovessi incontrarla, le dirò: « Ec­comi qua, Renata. Sono tornato " subito, subito " come volevi tu. Sei contenta? ». Tanto, il tempo non conta più per noi morti. Un anno, dieci anni, un secolo, un minuto... Tutto lo stesso.

Ada                               - Tutto lo stesso!... Anche nella vita, del resto.

Miro                              - No, nella vita no. Nella vita il tempo ha un valore. Tutto ha valore, nella vostra vita; ed è per questo che la gente s'affanna, spera, lotta, si illude, fa il bene e fa il male come se non dovesse morire mai. Infine, quando si è saltato il grande fosso e ci si trova di qua, dove sono io, si capisce tutto, ci si spiega tutto, si vede e si riepi­loga la propria vita passata da una visuale precisa: la prospettiva è esatta, matematica, e non può dar luogo ad equivoci.

Ada                               - (allungando una mano per accarezzare Miro, ma senza riuscire a toccarlo) Hai trovato la pace, Miro?... Ti senti sereno, senza tormenti né rimpianti?

Miro                              - (con un pallido sorriso) Sì, press'a poco...ma non è come ti figuri, come mi figuravo io stesso prima di... prima di decidermi. E' tutt'altra cosa... Non posso spiegarti... E se anche potessi, non mi capiresti.

Ada                               - Alle volte penso che deve essere un gran sonno senza sogni.

Miro                              - O un gran sogno senza sonno...

Ada                               - (credula, con stupore) Un gran sogno senza sonno!... Sì, dev'essere così. (Pausa) Un sogno che non finisce mai?... Ma che cosa si vede, si sente, si pensa, in questo sogno?

Miro                              - Nulla. Assolutamente nulla. Si sogna e si cammina, si cammina sempre senza arrivare mai, senza pensare né sperare. E una grande pace, una grande solitudine, tutt'intorno. Forse, questa solitu­dine non è altro che l'inferno o il purgatorio o il paradiso che pensavamo da vivi.

Ada                               - (sommessa, intensamente) Se fossi sicura d'incontrarti, di poter camminare e sognare insieme con te...

Miro                              - Vuoi dire che anche tu... come me...?

Ada                               - (a bassissima voce, cupamente) Sì. Oh, sono tanto stanca di trascinare questa vita lurida e senza scopo!... Non ho più nulla che mi trattenga, ormai.

Miro                              - Non è vero.

Ada                               - (disperatamente) Sì, sì, te lo giuro... Ma guardami, dunque!

Miro                              - Ti guardo. Ma non posso vederti con gli occhi di un vivo.

Ada                               - (c. s.) Sono arrivata all'estremo.

Miro                              - Non ancora, non ancora... Non devi ar­rivarci.

Ada                               - Alle volte... (anche poco fa, quando mi sono seduta a questo tavolo) mi pare di essere morta.

Miro                              - Ma poi la vita ti riprende, ti riscalda an­cora e ti senti ben viva. Torni a sperare e ad ag­grapparti a qualcosa. Ti basta il complimento o l'occhiata vogliosa di un uomo, di uno qualunque, di uno che passa... Ti rimiri allo specchio e dici a te stessa: « Dopo tutto, sono giovane, posso an­cora rifarmi un'esistenza decente... ».

Ada                               - Sempre più di rado... (Con slancio) Dimmi: se mi risolvessi a...?

Miro                              - Non pensarci, Ada.

Ada                               - Lasciami venire con te.

Miro                              - Non mi ritroveresti più... Ti sentiresti sola, come me. In pace, ma sola, sola, sola.

Ada                               - Ma potrebbe darsi che un giorno...

Miro                              - (dolcemente ironico) Un giorno!... Che cosa vuol dire « un giorno »?

Ada                               - Voglio dire... voglio dire il momento in cui c'incontreremo.

Miro                              - (vago, senza convinzione) Ma quello, se hada venire, potrai aspettarlo con la tua buona morte. (Intensamente penetrante) Vivi, Ada!

Ada                               - Perché? A quale scopo?

Miro                              - Così... per pura fatalità. Tutti i vivi, in fondo, non hanno alcuno scopo anche se presu­mono di averne uno, o molti ed importanti.

Ada                               - Non ti capisco.

Miro                              - Non importa. Devo andare, Ada. (Accen­na ad alzarsi).

Ada                               - (vivamente) No... aspetta!

Miro                              - Devo andare, devo riprendere il mio cam­mino... Camminare, camminare senza pensieri...

Ada                               - (con sincero rimpianto) Vorrei esserti vicina. Se fossimo insieme - pensa! - la strada dell'infi­nito sarebbe più bella... Si camminerebbe tenen­doci per mano come s'andava, nei meriggi di sole, alle Zattere o sul liston di San Marco.

Miro                              - (sorridendo con dolce indulgenza) Pensami.

Ada                               - Tornerai?

Miro                              - Se mi penserai. E' l'unico modo che ab­biamo d'incontrarci.

Ada                               - In qualunque momento?... In qualunque posto?

Miro                              - Sicuro... Ah, capisco! pensi che, forse, non s'addice evocarmi nei luoghi della tua dannazione. Non hai ancora compreso che non posso più me­ravigliarmi, indignarmi, vergognarmi, rallegrarmi di alcuna cosa? E tuttavia, povera piccola, vorrei...

Ada                               - Vorresti...?

Miro                              - Che la tua inutile, miserrima dannazione avesse termine...

Ada                               - Lo vorrei anch'io. Ma è destino, ormai...

Miro                              - (ironicamente incredulo) Ancora il de­stino!...

Ada                               - (con un singulto) Non puoi più capirmi...

Miro                              - (sordamente, come un'eco) Non posso più capirti...

Ada                               - (con fervore) E invece è necessario che tu mi capisca! E' proprio là, in quelle camerette dalle persiane chiuse, che tante volte avrei bisogno di te... Specialmente dopo la mezzanotte, quando tutti se ne sono andati e il portone viene sprangato defi­nitivamente... E' Fora critica dei disgusti, dei rim­pianti crudeli e vani, dei cattivi pensieri... L'aria è pesante, avvelenata dal fumo di troppe sigarette, da tanti odori, da tanto sudicio... Vien voglia di but­tarsi su quel letto sfatto e dormire, dormire subito con la speranza amara e inconfessata di non risve­gliarsi più. Invece no: bisogna riordinare, fare un po' di pulizia, dare aria, struccarsi, ricuperare la propria faccia. E intanto si pensa, si pensa... Sol­tanto il demonio sa i pensieri che ci passano per la mente in quell'ora critica! Non per niente ci sono di quelle che, ad un certo punto, non reggono piùa rimaner sole alla notte, e cercano di dormire in compagnia, fra loro... O si stordiscono con l'alcool o con qualche veleno... (Pausa) Io mi stordisco coi pensieri, soprattutto con un pensiero che è diven­tato ormai fisso: tu, sempre tu... Penso che sono passati tanti uomini nella mia vita e che non sono mai stata - né sarò mai - dell'unico che m'in­teressava e al quale mi sentivo d'appartenere... In­tendimi, Miro: si tratta di un pensiero non del tutto profano. E' umano, in fondo...

Miro                              - (come un'eco, staccato) Profano... umano... vano...Tremendamente vano, Ada. Anch'io, se ben ricordo, ero torturato dal tuo stesso pensiero, giorno e notte, laggiù, in carcere... Nulla di più vigliacco e assurdo! La ragione che soccombe all'istinto che s'insinua come un rettile pel sentimento avvelenan­dolo e stritolandolo a poco a poco. L'anima che piange e la carne che urla. E' in quei momenti che s'incomincia a pensare al pezzetto di vetro che può spezzare una vena o a quel tanto di corda che basta per farne un cappio. Ma è un errore, il più assurdo degli errori.

Ada                               - Che debbo fare? Mi sento troppo imbrat­tata, misera...

Miro                              - Non spetta a me dirti ciò che devi fare. Ma ora so che non v'è abisso dal quale non si possa risalire. Torna donde e come ci siam lasciati tanti mai anni or sono...

Ada                               - In quel meriggio di quasi estate... sei giu­gno 1940, un giovedì... nel gran piazzale pieno di sole e di gente... Indossavo un vestitino rosa a «pois» bianchi... fatto con le mie mani...

Miro                              - Eri tanto bella...

Ada                               - E indicibilmente triste, forse inconsciamente presaga di... tutto.

Miro                              - «Arrivederci presto, presto...» Ricordi? Vorrei rivederti ancora là, ritta sull'orlo del mar­ciapiedi, tutta rosa e aureolato dal sole, nell'atto di salutare quel povero ragazzo che partiva, che an­dava incontro alla sua sorte...

Ada                               - Non si può tornare indietro, Miro: lo sai, hai provato tu stesso...

Miro                              - Non ho saputo... Ho disperato troppo in fretta, sono stato un debole, te l'ho già detto... Aves­si dato ascolto alla gran voce che insorgeva dal profondo della mia coscienza...

Ada                               - Lo rimpiangi?

Miro                              - I rimpianti non s'addicono ai morti. Ma!  tu...

Ada                               - Io?

Miro                              - Torna donde e come ci siam lasciati. Fa' j ch'io ti riveda ritta su quel marciapiedi. Sarà come s'io ritornassi a te per sempre.

Ada                               - (rabbrividendo) Giugno è lontano... non!  c'è il sole... Ora fa tanto freddo!:

Mero                             - (sommesso) Torna, torna laggiù ad atten­dermi, piccola. Sarà come se ci fosse il gran sole che: t'aureolava tutta.

Ada                               - Come posso? La vita mi trascina altrove, lo sai. Che t'importa ormai? Sei morto... .

Miro                              - Già, sono morto. Cosa può importarmiormai? Pure, vorrei che ti salvassi... che vivessi pulitamente. (Alzandosi) Ma adesso devo proprio ; andare. Pensami. Il pensiero dei vivi rimane ancora l'unica illusione consentita ai morti: l'illusionedi essere qualcuno... di contare qualcosa: spettri.Spettri che vanno, che vengono, che consolano oche fanno paura... Quando non c'è più alcun vivoche ci pensi, si diventa morti sul serio, morti completi, definitivi, niente: come se non si fosse mai  esistiti... Forse, soltanto allora si cessa di camminare, di sognare e... si muore veramente. Addio, Ada!

                                      - (Come un soffio) Vivi! (Com'era venuto, Miro!  scompare il più inavvertitamente -possibile. Ada fa un ' gesto come per trattenerlo. Invano. Si dissolve il fascio di luce che illuminava lo spettro e Ada. A pocoa poco, gli altri personaggi perdono la loro immobilità, si rianimano, mentre la scena ricupera le luci di prima. Riecheggiano anche i rumori esterni. Il ì beone s'è appisolato e russa).

Cencio                           - (additandolo al facchino) E' partito congli angeli, il fantolino!

II Facchino                   - Meglio che dorma; così tace, finalmente. 

Memi                             - (a Cencio additando il beone) Che cosaaspetti a buttarlo fuori, quello straccione?

Cencio                           - E dalli!... Perché non ci si prova lei o I non dà quest'incombenza al brigadiere?

Memi                             - (acre) Vorrei proprio sapere a che cosa servi, qui dentro.

Cencio                           - (risentito) Sta' a vedere che ora mi retrocede da cameriere a... scacciaubriachi.!  

Il Brigadiere                  - (faceto) Via, signor Memi! E' un cameriere di prima, il nostro Cencio! 

Memi                             - (ringhioso) Sì, di prima della guerra!... Ma di quella del quindici-diciotto...

Cencio                           - (stizzito, vorrebbe replicare) Insomma...

Il Facchino                    - (bonario) Non farci caso, vecchio mio. Portami piuttosto un grappino.

Il Beone                        - (risvegliandosi quasi di soprassalto e farfugliando buffamente) Oh, bravo! Un grappino :è proprio quello che ci vuole.

Il Facchino                    - No, caro. Tu non c'entri, stavolta.Il grappino me lo bevo io!

Il Beone                        - (sbraitando incollerito) E chi t'ha detto E becco?

Il Facchino                    - Ah, per me, di' pure. Ma non credo che la mia vecchia abbia certi grilli, poveraccia!

Il Beone                        - Tutto sta a saperlo... Ma non farci caso... (Con comico impeto) Siamo tutti becchi! E' inutile il pianto... (Volgendosi verso Ada con bef­farda galanteria) Non è forse vero, signorina?

Memi                             - (minaccioso) Che, dico! Si ricomincia con le buffonate?

Il Beone                        - E' perfettamente inutile che s'offenda; mica intendevo mancare di rispetto alla sua gentile signora... Dicevo in generale. Consapevoli o incon­sapevoli, siamo tutti becchi, boja di un mondaccio cane!

Il Brigadiere                  - (avvicinandoglisi perentorio) Se non la finisci, ti metto le catenelle e ti sbatto in guardina.

Il Beone                        - Brigadiere illustre: basta la parola...

Il Brigadiere                  - Non basta la parola. Ti consiglio di filare.

Il Beone                        - (intimidito) Sempre ai suoi ordini... (Accenna ad alzarsi, ma indugia ad arte barbuglian­do e facendo l'umile. Soggetto).

SCENA QUINTA

Gegia e detti

Gegia                            - (entra tutt'affannata da destra, si guarda d'at­torno e si dirige in fretta verso Ada. E' infreddolita, imbacuccata, misera) Oh, cara signorina!... E' tanto che m'aspetta?

Il Facchino                    - (in tono di rimprovero) E' quasi un'ora che l'aspettiamo, lustrissima!

Gegia                            - Sono proprio spiacente.

Ada                               - Non hai ricevuto il telegramma?

Gegia                            - Sì, signorina. Ma, aspettando l'ora di ve­nire in stazione, mi sono appisolata e... Mi scusi tanto.

Ada                               - Non importa. (A Cencio che, dopo aver por­tato la grappa al facchino, s'è avvicinato al tavolo) Che cosa le devo?

Cencio                           - Duecento. C'è anche il grappino supple­mentare del capo. (Indica il facchino).

Ada                               - (pagando) Qua. E si tenga anche un caffè per Gegia.

Gegia                            - Oh, grazie, grazie tante! Sempre buona, generosa... Come sta?

Ada                               - (traendo dalla borsetta lo specchietto e rimet­tendosi in ordine il viso) Non c'è male... Stanca... stanchissima... Un viaggio che non ti dico!

Gegia                            - Poteva prendersela più comoda... viaggiare di giorno.

Ada                               - Magari avessi potuto! Ma mi hanno telegra­fato di partire subito. E poi dovevo lasciar libero il posto. Insomma, eccomi qua. Come mi trovi?

Gegia                            - Sempre bella!... Però, un po' più magra, palliduccia... Forse, è la stanchezza. Dopo una bella dormita, tornerà fresca come una rosa. Darà la pol­vere a tutte.

Ada                               - (che a foco a foco s'è rianimata, riassumendo la maschera e il tono professionali) A proposito, chi c'è, ora, da voi?

Gegia                            - C'è la francese, non so se la ricorda: quel­la grassona sempre insonnolita...

Ada                               - Ah, sì... ho capito... Ancora in circolazione?!... Una buona diavolaccia, in fondo.

Gegia                            - (pettegola) C'è poi quell'antipatica della Tosca... quella nevrastenica che letica con tutti, so­spettosa, sofistica...

Ada                               - La conosco. Alla larga!

Gegia                            - Sì, sì, alla larga! Infine, provi ad indovi­nare... No, non può immaginarselo neppure, chi c'è ancora.

Ada                               - (incuriosita) - Dimmi, dimmi...

Gegia                            - Non indovina proprio?

Ada                               - Non saprei...

Gegia                            - (trionfante) La Bice!

Ada                               - (sinceramente incredula, divertita) Nooo!...

Gegia                            - (c. s.) Sìii.

Ada                               - Ma... ma non era partita per l'America con... con...?

Gegia                            - Con Johnny.

Ada                               - Ecco, sì, con Johnny, quello spilungone che voleva sposarla... che pareva impazzito... che se l'era portata fuori per forza...

Gegia                            - Proprio così, ricorda? Ebbene, si capisce che poi ci ha ripensato, che la passione gli è sbollita... Oh, gli uomini! Tutti eguali: focosi, capricciosi, lu­natici... Fatto sta che la povera Bice...

Ada                               - (beffarda) E' tornata all'ovile. (Ipocrita) Ne sono spiacente, poveretta... Si era montata la testa... Insomma, è qui.

Gegia                            - Sì, è arrivata ieri.

Ada                               - Demoralizzata, giù di corda, immagino...

Gegia                            - Macché! Sa darla ad intendere, quella! Dice che è stata lei a non volerne più sapere, di Johnny e dell'America.

Ada                               - (scoppiando a ridere) Ma no!...

Gegia                            - Verità, verità, signorina! Mi cascassero gli occhi... Dice che in America c'è un clima che non le conferisce...

Ada                               - Questa poi!... E di Johnny che dice?

Gegia                            - Che il poverino, per il dispiacere, ha ten­tato perfino d'uccidersi...

Ada                               - Figuriamoci un po'!

Gegia                            - ... e che lo hanno salvato con non so quanti milioni di pici... peci... pani... panallicina...

Ada                               - (nuova risata) Anche la penicillina!... Un vero romanzo a fumetti, insomma.

Gegia                            - Press'a poco.

Ada                               - (sarcastica) Potenza dell'illusione!

Cencio                           - (deponendo una tazzina di caffè dinanzi a Gegia) Ecco il suo moka, madama. (Via).

Gegia                            - (sorseggiando golosamente) E lei?... Vor­rebbe forse darmi ad intendere che il suo cuoricino non palpita più?... che non ce l'ha pure lei il suo romanzetto personale?... che nella sua vita non c'è un uomo che le preme più d'ogni altro?

Ada                               - (subitamente seria, ripresa dalla visione di Miro) Sì, c'è qualcuno che non rivedrò più...

Gegia                            - Vi siete bisticciati? Non ci fili su troppo, signorina: tornerà... tornerà...

Ada                               - (c. s.) Tornerà sì... tornerà quando voglio, dove voglio... me l'ha promesso.

Gegia                            - Ma certo!... Oh, gli uomini! L'importante è di non dargli troppa corda. Ada -   - Quanto a lui, poverocristo, la sua corda l'ha avuta... (Pausa) Era qui anche poco fa... seduto accanto a me, su quella sedia...

Gegia                            - Ah, l'ha accompagnata fin qui, dunque!?.., Poveretto! Immagino la pena del distacco, sapendo...

Ada                               - (assorta nella rievocazione) M'accompagnerà sempre, ormai...

Gegia                            - Sempre? Ma lei, scusi, non è venuta

Ada                               - (trasognata) M'ha detto bene: «Vivi »... vivi »...

Gegia                            - (stupita, quasi allarmata) Ma che dice maisignorina?... Di chi parla?

Ada                               - (come risvegliandosi da un sogno, con voce sof­focata) Di un morto.

Gegia                            - (c. s.) Oh, Dio! Di un morto?

Ada                               - (rompendo in una risata) Sì, sì, di un morto!.., Sono innamorata di un morto che mi condanna a vivere!

Gegia                            - (comicamente spaventata, scuotendola per un braccio) Ma... signorina! Signorina Ada, dico! Ritorni in sé. Mi ha fatto prendere una paura, una paura!...

Ada                               - (beffarda, amara) Di che t'intimorisci? Dei morti?... Ma i morti sono buoni. Forse, un po' egoisti, ma buoni... E non fanno né il bene né il male... A loro basta di camminare, camminare e... e mettersi alle calcagna di qualcuno che li pensi... (Nuova risata acre, isterica) Io ce l'ho il mio morticino alle calcagna! E gli voglio bene.

Gegia                            - Che pazzerellona!... Domando e dico se son discorsi...

Ada                               - Forse sarebbe meglio che ci avessi anch'io un Johnny ben vivo, pazzo d'amore e fermamente deciso a farmi felice tagliando la corda al momento giusto... (Ride rumorosamente) Per il momento, però, m'accontento del mio morticino. Be', andiamocene a nanna, vecchia mia.

Il Brigadiere                  - (avvicinandosi) Meno male che ti vedo di buon umore, finalmente! Avevi un mu­setto così imbronciato, poco fa, che - in verità - mi avevi messo in soggezione.

Ada                               - Si mette in soggezione per poco, lei! Però, se l'avessi onorato d'una visitina nel suo riverito ufficio, avrebbe ripreso coraggio, ci scommetto... (Ride).

Il Brigadiere                  - (disarmato) Toccato! (Voglioso, a bassa voce) C'è ancora tempo, volendo. Vieni?

Ada                               - No, tesoro. (Provocatoria, accennando a Gegia che osserva maliziosa) La zia non permette... E poi, se devo essere franca, casco dal sonno. Non farei uno strappo neanche per Gregory Peck che è la mia passione. Buona notte, sbirretto bello!... (S'avvia verso l'uscita seguita dal facchino che regge le due valigie, e da Gegia. Ma s'arresta di repente udendo echeggiare quasi imperiosa, lontana, la voce di Miro).

La voce di Miro            - Non andare, non andare, Ada!

Ada                               - (sbigottita) Ancora tu?... Dove sei? La voce di

Miro                              - Qui, accanto a te... Non sono forse il tuo morticino che ti sta alle calcagna?... Non andare, non andare...

Ada                               - (con un moto di ribellione e un'inflessione irosa nella voce. E tuttavia non sa risolversi a muo­vere i pochi passi che la separano dall'uscita) Non mi darai dunque più tregua?... Perché non m'ab­bandoni al mio destino lasciandomi rotolare fino in fondo?

La voce di Miro            - (spegnendosi in un mormorio quasi indistinto) E' l'anelito della tua anima ferita a non darti tregua, ad impedirti di rotolare fino in fondo...

Ada                               - (crollando in ginocchio - o abbandonandosi su una sedia - scossa dai singulti) Dio mio!... Non posso, non posso... (Gegia, il facchino, il brigadiere, il beone, Memi, Cencio le si affollano attorno).

Gegia                            - Ma che le prende ancora, signorina?

Il Brigadiere                  - Che ti prende, di'?

Il Facchino                    - (contrariato) Insomma, si va o non si va? (Ripone a terra le valigie, con stizza).

Cencio                           - Forse si sente male, poveretta. (L'aiuta, con Gegia, a rimettersi in piedi).

Memi                             - Non ci mancava che questa!... Domando e dico se può continuare così, in questo stramale­detto buffet!...

Il Beone                        - E se invece d'imprecare le allungasse un cicchetto? Quello la rimetterebbe a posto di sicuro.

Gegia                            - Si faccia forza... In cinque minuti siamo a casa, si mette a letto e con una buona dormita vedrà...

Ada                               - (con un filo di voce, senza vedere né udire) Non posso, non posso...

Gegia                            - Vuol forse dire...? Vergine Santa! Ma si rende conto...?

Ada                               - (umile, come trasognata) Torno alla mia città... fra la mia gente... qualcuno avrà pietà di me... Vorrei che ne aveste un po' anche voi... Dev'es­sere abbastanza facile... non costa nulla... Soltanto un po' di pietà, prego...

Il Beone                        - Si fa presto a dire! Chi ne ha avuta per me quando mi facevo massacrare sui « rings » per poche lire?...

Gegia                            - Non pensa alle improprie che mi pren­derò quando mi vedranno tornare a casa sola?

Cencio                           - E tu lascia che sbraitino. Tanto... (Al facchino, accennando ad Ada) Io, questa qui, la capisco...

Il Facchino                    - Anch'io, in certo senso. Ma... ma ormai ci contavo, lo sai, su codesto servizio... Non è vero che la pietà costi nulla.

Ada                               - (ormai sicura di sé, rasserenata) Mi ripor­terà le valigie al treno... la pagherò ugualmente.

Il Facchino                    - Ma io dicevo così, per dire... Sa com'è quando s'è povera gente...

Ada                               - Vorrei ripartire col primo treno...

Il Brigadiere                  - Fra un'ora passa il 93, un accele­rato. (Burbero ma comprensivo) Vedrò d'arrangiarti un foglio di via, così viaggerai gratis... Sarebbe con­tro il regolamento, ma farò uno strappo... Purché, beninteso, non ti pentisca a mezza strada... o non ci sia sotto qualche gherminella...

Cencio                           - Via! non rovini la sua buon'azione, bri­gadiere...

Il Brigadiere                  - Devo pur cautelarmi. I regola­menti, le leggi non canzonano. Ne andrei di mezzo io: bel gusto! Ma ho promesso e manterrò.

Il Beone                        - Ben detto, brigadiere! Insomma, ce lo facciamo un bel brindisi per festeggiare il ritorno della pecorella smarrita all'ovile? (A Memi) Suvvia! scuci una bottiglia, taverniere!

Memi                             - Manco se ti vedessi crepare!

Ada                               - Buoni... buoni!... Siete tutti brava gente... L'offrirò io la bottiglia, se permettete... Da bere agli assetati... da mangiare agli affamati... asilo ai dere­litti... Pietà, pietà per tutti: anche per i poveri morti insonni che camminano, camminano senza meta... e vogliono che non li dimentichiamo... e ci coman­dano di vivere, di vivere pulitamente...

FINE