NOVECENTO
di Alessandro Baricco
Personaggi:
TIM, trombettista
ATTO UNICO
SCENA 1
Musica lieve suonata da una tromba. Lentamente gli attori entrano in scena da varie direzioni.
TIM - Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa e la vedeva. È una cosa difficile da capire… ci stavamo in più di mille su quella nave tra ricconi in viaggio, emigranti, gente strana e noi…
Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, sul ponte. Magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava gli occhi verso il mare e la vedeva.
Allora si inchiodava lì dov’era, gli partiva il cuore a mille e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, si girava verso di noi, versa la nave, verso tutti e gridava… “L’america…”
Poi rimaneva lì immobile, come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui l’America.
Quello che per primo vede l’America è uno che da sempre aveva già quell’istante stampato nella vita.
E quando erano bambini potevi guardarli negli occhi e se guardavi bene già la vedevi, l’America.
Già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua fin dentro quel grido… “AMERICA…”
SCENA 2
Questo ce l’ha insegnato Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il più grande pianista che abbia mai suonato sull’Oceano.
Diceva sempre: “Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto”.
Noi ne abbiamo viste di Americhe. Sei anni su questa nave, cinque-sei viaggi ogni anno dall’Europa all’America e ritorno, sempre a mollo nell’Oceano.
Quando c’ero salito, avevo diciassette anni e di una sola cosa mi fregava nella vita: suonare la tromba. Così, quando venne fuori che cercavano gente per il Virginian giù al porto, io mi misi in coda. Io e la tromba. Gennaio 1927.
Li abbiamo già i suonatori.
Lo so dissi e mi misi a suonare… poi mi chiese…
Cos’era?
Non lo so.
Quando non sai cos’è allora è Jazz
Mi avevano preso nell’unica, inimitabile, infinita, “ATLANTIC JAZZ BAND”!!!!
SCENA 3
Musica: ragtime.
Al clarinetto, Sam “Sleepy” Washington.
Al Banjo, Oscar Delaguerra.
Alla tromba, Tim Tooney.
Trombone, Jim “Breath” Gallup.
Alla chitarra, Samuel Hockins.
E infine, al piano, Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento.
Il più grande. (Via musica)
Lo era davvero il più grande. Noi suonavamo musica, lui era qualcosa di diverso.
Non esisteva quella roba prima che la suonasse lui e quando lui si alzava dal piano non c’era più, e non c’era più per sempre, la musica.
L’ultima volta che ho visto Novecento era seduto su una bomba, stava seduto su una carica di dinamite… una lunga storia.
Lui diceva: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”.
Lui l’aveva una buona storia. Lui era la sua buona storia.
Pazzesca, a ben pensarci, ma bella.
E quel giorno, seduto su tutta quella dinamite, me l’ha regalata.
SCENA 4
Lo trovò un marinaio che si chiamava Danny Boodmann. Lo trovò in una scatola di cartone. Avrà avuto dieci giorni, non di più.
Neanche piangeva; se ne stava silenzioso in quello scatolone con gli occhi aperti.
L’avevano lasciato nella sala da ballo della prima classe. Sul pianoforte.
Non aveva l’aria di essere un neonato di prima classe.
Quelle cose le facevano gli emigranti di solito. Partorire di nascosto, da qualche parte del ponte e poi lasciare lì i bambini.
Mica per cattiveria. Era miseria quella, miseria nera. Per un emigrante è una bocca in più da sfamare e un sacco di grane all’ufficio immigrazione.
Li lasciavano su quella nave. Con quel bambino doveva essere andata così.
Dovevano essersi fatti un ragionamento. Se lo lasciamo sul pianoforte a coda, nella sala da ballo di prima classe, magari lo prende qualche riccone e sarà felice per tutta la vita.
Era un buon piano. Funzionò a meta. Non diventò ricco, ma pianista sì. Il migliore, giuro, il migliore.
Comunque. Il vecchio Boodmann lo trovò là e cercò qualcosa che dicesse chi era, ma trovò solo una scritta sul cartone della scatola, “T.D. Limoni”, con il disegno di un limone blu.
Danny era un negro di Philadelphia, un gigante d’uomo che era una meraviglia.
Pigliò il bambino in braccio e gli disse: “Hello, Lemon”.
E gli scattò qualcosa dentro. Qualcosa come la sensazione che era diventato padre.
Per tutta la vita continuò a sostenere che quel T.D. significava evidentemente “Thanks Danny”.
Era assurdo, ma lui ci credeva davvero. L’avevano lasciato lì per lui quel bambino. Ne era convinto.
A quel bambino cominciò a dare il suo di nome: Danny Boodmann. L’unica vanità che si concesse in tutta la vita.
Poi ci aggiunse T.D. Lemon, proprio uguale alla scritta che c’era sulla scatola di cartone, perché diceva che faceva fine avere delle lettere in mezzo al nome.
Tutti gli avvocati ce le hanno, disse un macchinista che era finito in galera grazie ad un avvocato che si chiamava John P.T.K. Wonder.
“Se fa l’avvocato lo ammazzo”, però le iniziali le lasciò e così venne fuori Danny Boodmann T.D. Lemon.
Era un bel nome. Lo studiarono un po’ ripetendolo a bassa voce, il vecchio Danny e gli altri.
“Un bel nome”, disse il vecchio Boodmann… però gli manca qualcosa… gli manca un gran finale.
Era vero. Gli mancava un gran finale…
Aggiungiamo martedì…
L’hai trovato di martedì…
Chiamalo martedì.
Danny ci pensò un po’. Poi sorrise.
È un’idea buona. L’ho trovato nel primo anno di questo nuovo fottutissimo secolo, no? Lo chiamerò Novecento.
Novecento?
Ma è un numero.
Era un numero, adesso è un nome
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. È perfetto.
È bellissimo.
È un gran nome
Andrà lontano con un nome così.
Si chinarono sulla scatola di cartone. Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento sorrise: loro rimasero di stucco.
Nessuno si aspettava che un bambino così piccolo potesse fare tutta quella merda.
SCENA 5
Musica lenta e corteo.
Danny Boodmann fece ancora il marinaio per otto anni, due mesi e undici giorni.
Poi, durante una burrasca, in pieno oceano, si prese una carrucola impazzita in mezzo alla schiena.
Ci mise tre giorni a morire.
Era rotto dentro. Non c’era verso di rimetterlo insieme.
Novecento era un bambino allora.
Si sedette vicino al letto di Danny e da lì non si mosse più. (Musica)
Così d’improvviso, Novecento divenne orfano per la seconda volta.
Aveva otto anni e l’oceano era casa sua.
E quanto alla terra, beh non ci aveva mai messo piede.
L’aveva vista, dai porti certo. Ma sceso, mai.
Il fatto è che Danny aveva paura che glielo portassero via con qualche storia di documenti e visti e storie del genere.
A voler essere precisi, Novecento non esisteva nemmeno, per il mondo.
Non c’era città, parrocchia, ospedale, galera, squadra di baseball che avesse scritto da qualche parte il suo nome.
Non aveva patria, non aveva data di nascita, non aveva famiglia.
Aveva otto anni, ma ufficialmente non era mai nato.
Non potrà continuare a lungo questa storia, dicevano ogni tanto a Danny.
Oltre tutto è anche contro la legge.
Ma Danny aveva una risposta che non faceva una piega: in culo la legge diceva.
Non è che si potesse discutere un granché con quella partenza.
Quando arrivarono a Southampton alla fine del viaggio in cui Danny morì, il capitano decise che era ora di farla finita con quella recita.
Chiamò le autorità portuali e disse al suo vice che gli andasse a prendere Novecento.
Beh, non lo trovò mai. Lo cercarono per tutta la nave per due giorni. Niente, era sparito.
Non andava giù a nessuno quella storia perché, insomma, sul Virginian si erano abituati a quel ragazzino.
E nessuno osava dirlo ma… ci vuol poco a buttarsi giù dalla murata.
E poi il mare fa quel che vuole e così…
Avevano la morte nel cuore quando ventidue giorni dopo ripartirono per Rio de Janeiro, senza che Novecento fosse tornato o che si fosse saputo qualcosa di lui.
Stelle filanti.
Sirene.
Fuochi d’artificio.
Alla partenza come tutte le volte .
Ma era diverso… quella volta stavano per perdere Novecento e qualcosa gli rosicchiava il sorriso, a tutti, e gli mordeva dentro.
SCENA 6
Musica leggera in sottofondo.
La seconda notte di viaggio che non si vedevano più nemmeno le luci della costa irlandese, Barry, il nostromo, entrò come un pazzo nella cabina del comandante svegliandolo e dicendogli che doveva assolutamente venire a vedere.
Il comandante bestemmiò, ma poi andò.
Salone da ballo della prima classe.
Luci spente.
Gente in pigiama, in piedi, all’ingresso.
Passeggeri usciti dalla cabina,
E poi marinai saliti dalla sala macchine.
Tutti in silenzio a guardare.
Novecento.
Stava seduto sul seggiolino del pianoforte, con le gambe che penzolavano giù, non toccavano nemmeno per terra
E… com’è vero Iddio… stava suonando. (Musica)
Suonava non so che diavolo di musica, ma piccola e… bella.
Non c’era trucco, era proprio lui a suonare… Dio solo sa come…
E c’era una signora in vestaglia rosa e certe pinzette nei capelli, una piena di soldi, per capirsi, la moglie americana di un assicuratore, beh aveva dei lacrimoni così che le scendevano sulla crema da notte…
Guardava e piangeva, non la smetteva più…
Quando si trovò il comandante di fianco, bollito dalla sorpresa, lui letteralmente bollito, quando se lo trovò di fianco, tirò su col naso, la riccona dico, tirò su col naso, e indicando il pianoforte gli chiese.
Come si chiama?
Novecento.
Non la canzone, il bambino.
Novecento.
Come la canzone?
Era quel genere di conversazione che un comandante di marina non può sostenere più di quattro o cinque battute.
Soprattutto quando ha scoperto che un bambino che credeva morto non solo era vivo, ma nel frattempo aveva anche imparato a suonare il pianoforte.
Piantò la riccona lì dov’era con le sue lacrime e tutto il resto e attraversò a passi decisi il salone: pantaloni del pigiama e giacca della divisa non abbottonata.
Si fermò solo quando arrivò al pianoforte.
Avrebbe voluto dire molte cose in quel momento, e tra le altre: dove cazzo hai imparato?
O anche: dove diavolo ti eri nascosto?
Però, come tanti uomini abituati a vivere in divisa aveva finito per pensare, anche, in divisa.
Così quel che disse fu. “Novecento tutto questo è assolutamente contrario al regolamento”.
Novecento smise di suonare.
Era un ragazzino di poche parole.
Guardò con dolcezza il comandante e disse: in culo il regolamento. (Musica)
Ci vollero degli anni ma alla fine un giorno presi il coraggio e glielo chiesi.
Novecento perché non scendi, una volta, anche solo una volta, perché non lo vai a vedere il mondo con gli occhi tuoi?
Suoni il pianoforte da Dio, impazzirebbero per te.
Tu sei grande e il mondo è lì, c’è solo quella fottuta scaletta da scendere.
Cosa sarà mai qualche stupido gradino? Perché non la fai finita e te ne scendi da qui, una volta almeno, una sola volta.
Novecento perché non scendi?
Perché?
Perché?
Non rispose…
SCENA 7
Fu d’estate, nell’estate del 1931, che sul Virginian salì Jelly Roll Morton. Tutto vestito di bianco, anche il cappello. E un diamante così al dito.
Lui era uno che quando faceva i concerti scriveva sui manifesti: stasera Jelly Roll Morton, l’inventore del jazz.
Suonava il pianoforte.
Sempre un po’ seduto di tre quarti e con due mani che erano farfalle. Leggerissime.
Aveva iniziato nei bordelli di New Orleans, e aveva imparato lì a sfiorare i tasti e accarezzare le note.
Facevano l’amore al piano di sopra e non volevano baccano. Volevano una musica che scivolasse dietro le tende e sotto i letti, senza disturbare.
Lui faceva quella musica lì e in quello era veramente il migliore.
Qualcuno da qualche parte un giorno gli disse di Novecento. Dovettero dirgli una cosa del tipo “quello è il più grande”. Il più grande pianista del mondo.
Può sembrare assurdo, ma è una cosa che poteva succedere. Non aveva mai suonato una sola nota fuori dal Virginian, Novecento, eppure era un personaggio a suo modo celebre, ai tempi, una piccola leggenda.
Quelli che scendevano dalla nave raccontavano di una musica strana e di un pianista che sembrava avesse quattro mani tante note faceva.
Insomma, qualcuno andò da Jelly Roll Morton e gli disse: su quella nave c’è uno che col pianoforte fa quel che vuole. E quando ha voglia suona jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme.
Jelly Roll Morton aveva un caratterino, lo sapevano tutti, e disse…
Come fa a suonare bene uno che non ha nemmeno le palle per scendere da una stupida nave?
E giù a ridere come un matto, lui, l’inventore del jazz.
Poteva finire lì, solo che uno a quel punto disse: “Fai bene a ridere, perché se solo quello si decide a scendere tu ritorni a suonare nei bordelli”.
Jelly Roll smise di ridere, tirò fuori dalla tasca una piccola pistola con il calcio in madreperla, la puntò alla testa del tizio che aveva parlato e non sparò. Però disse: dov’è sto cazzo di nave?
Quel che aveva in mente era un duello.
Si usava allora. Si sfidavano a colpi di pezzi di bravura e alla fine uno vinceva. Cose da musicisti. Niente sangue.
Ma un bel po’ di odio, di odio vero sotto la pelle. Poteva durare anche una notte intera.
Era quella cosa lì che aveva in mente Jelly Roll per farla finita con sta storia del pianista sull’oceano, e tutte quelle balle. Per farla finita.
Il problema era che Novecento, a dire il vero, nei porti non suonava mai, non voleva suonare. Erano già un po’ terra, i porti, e non gli andava. Lui suonava dove voleva lui.
E dove voleva lui era in mezzo al mare, quando la terra è solo luci lontane, o un ricordo, o una speranza. Era fatto così.
Jelly Roll Morton bestemmiò mille volte, poi pago di tasca sua il biglietto di andata e ritorno per l’Europa e salì sul Virginian.
Novecento, lui, non è che si interessasse molto alla cosa. Non la capiva neanche bene. Un duello? E perché? Però era curioso.
Voleva sentire come diavolo suonava l’inventore del Jazz. Non lo diceva per scherzo, ci credeva: che fosse davvero l’inventore del jazz.
Credo che avesse in mente di imparare qualcosa, qualcosa di nuovo. Era fatto così lui.
Un po’ come il vecchio Danny: non aveva il senso della gara, non gli fregava niente sapere che vinceva, era il resto che lo stupiva. Tutto il resto.
Alle 21 e 37 del secondo giorno di navigazione, Jelly Roll Morton si presentò nella sala da ballo di prima classe, elegantissimo, in nero.
Tutti sapevano benissimo cosa fare.
I ballerini si fermarono.
Noi della band posammo gli strumenti.
Il barman versò un whisky, la gente ammutolì.
Jelly Roll prese il whisky, si avvicinò al pianoforte e guardò negli occhi Novecento.
Non disse nulla, ma quello che si sentì nell’aria fu: “alzati da lì”.
Novecento si alzò.
Lei è quello che ha inventato il jazz vero?
Già. E tu sei quello che suona solo se ha l’oceano sotto il culo, vero?
Già.
Si erano presentati. Jelly Roll si accese una sigaretta, l’appoggiò in bilico sul bordo del pianoforte, e iniziò a suonare. Ragtime. Ma sembrava una cosa mai sentita prima. Non suonava, scivolava. Era come una sottoveste di seta che scivola via dal corpo di una donna, e lo faceva ballando. C’erano tutti i bordelli d’America, in quella musica, ma i bordelli di lusso, quelli dove è bella anche la guardarobiera. Jelly Roll finì ricamando delle notine invisibili, in alto in alto, alla fine della tastiera, come una piccola cascata di perle su un pavimento di marmo.
La sigaretta era sempre là, sul bordo del pianoforte: mezza consumata, ma la cenere era ancora tutta lì. Avresti detto che non aveva voluto cadere per non far rumore. Jelly Roll prese la sigaretta tra le dita, aveva mani che erano farfalle, l’ho detto, prese la sigaretta e la cenere se ne stette là, non voleva saperne di cadere, forse c’era anche un trucco, non so, certo non cadeva. Si alzò, l’inventore del jazz, si avvicinò a Novecento, gli mise la sigaretta sotto il naso, lei e tutta la sua cenere bella ordinata, e disse: “tocca a te, marinaio”.
Novecento sorrise. Si stava divertendo. Sul serio. Si sedette al piano e fece la cosa più stupida che poteva fare. Suonò “Torna indietro paparino”, una canzone di un’idiozia infinita, una roba da bambini. L’aveva sentita da un emigrante anni prima, e da allora non se l’era più tolta da dosso, gli piaceva, non so cosa ci trovasse ma gli piaceva, la trovava commovente da pazzi. Certo non era quello che si direbbe un pezzo di bravura. Volendo l’avrei saputa suonare perfino io. Lui la suonò giocando un po’ coi bassi, raddoppiando qualcosa, aggiungendo due o tre svolazzi dei suoi, ma insomma era un’idiozia e un’idiozia rimase.
Jelly Roll aveva la faccia di uno a cui avevano rubato i regali di Natale. Fulminò Novecento con due occhi da lupo e si risedette al piano. Staccò un blues che avrebbe fatto piangere anche un macchinista tedesco, sembrava che tutto il cotone del mondo fosse lì e lo stesse raccogliendo lui, con quelle note. Una cosa da lasciarci l’anima. Tutta la gente si alzò in piedi: tirava su col naso e applaudiva. Jelly Roll non fece nemmeno un accenno di inchino, niente, si vedeva che stava per averne le palle piene di tutta quella storia.
Toccava di nuovo a Novecento. Già partì male perché si sedette al piano con negli occhi due lacrimoni così, per via del blues, si era commosso, e questo si può anche capire. Il fatto è che con tutta la musica che aveva in testa e nelle mani cosa gli venne in mente di suonare? Il blues che aveva appena sentito. “Era così bello”, mi disse poi, il giorno dopo. Proprio non aveva la minima idea di cosa fosse un duello, non ne aveva la minima idea. Suonò quel blues. Per lo più nella sua testa si era trasformato in una serie di accordi, lentissimi, uno dopo l’altro, in processione, una noia micidiale. Lui suonava tutto accartocciato sulla tastiera, se li godeva a uno a uno quegli accordi, anche strani oltretutto, roba dissonante, lui se li godeva proprio. Gli altri, meno. Quando finì partì perfino qualche fischio.
Fu a quel punto che Jelly Roll Morton perse definitivamente la pazienza. Più che andare al piano ci saltò sopra. Tra sé e sé, ma in modo che tutti capissero benissimo, sibilò poche parole, molto chiare. E allora vai a fare in culo, coglione. Poi attaccò a suonare. Ma suonare non è la parola. Un giocoliere, un acrobata. Tutto quello che si può fare con una tastiera di ottantotto tasti lui la fece. A una velocità mostruosa. Senza sbagliare una nota, senza muovere un muscolo della faccia. Non era nemmeno musica, erano giochi di prestigio. Una magia bella e buona. Era una meraviglia, non c’erano santi. Una meraviglia e la gente diede di matto. Strillavano e applaudivano, una cosa così non l’avevano mai vista. C’era un casino che sembrava capodanno. In quel casino mi trovai davanti Novecento: aveva la faccia più delusa del mondo. E anche un po’ stupita. Mi guardò e disse: ma quello è completamente scemo… non gli risposi. Poi lui si piegò verso di me e mi disse: dammi una sigaretta, va’…
Ero talmente stranito che la presi e gliela diedi. Voglio dire, Novecento non fumava. Non aveva mai fumato prima. Prese la sigaretta, si girò e andò a sedersi al pianoforte. Ci misero un po’ in sala a capire che si era seduto lì e che magari voleva suonare. Ci scapparono anche un paio di battute pesanti, e risate, qualche fischio, la gente fa così, è cattiva con quelli che perdono. Novecento aspettò paziente che ci fu una specie di silenzio intorno. Poi gettò un’occhiata a Jelly Roll che se ne stava in piedi al bar a bere una coppa di Champagne e disse sottovoce: “L’hai voluto tu, pianista di merda”. Poi appoggiò la sigaretta sul bordo del pianoforte. Spenta. E iniziò. (silenzio totale) Così.
Il pubblico si bevve tutto senza respirare. Tutto in apnea. Con gli occhi inchiodati sul piano e la bocca aperta, come dei perfetti imbecilli. Rimasero così in silenzio completamente tronati, anche dopo quella micidiale scarica finale di accordi che sembrava avesse cento mani, sembrava che il piano dovesse scoppiare da un momento all’altro. In quel silenzio pazzesco, Novecento si alzò, prese la mia sigaretta, si sporse un po’ in avanti, oltre la tastiera, e la avvicinò alle corde del piano. Leggero sfrigolio. La ritirò fuori… ed era accesa. Giuro. Bella accesa. Novecento la teneva in mano come fosse una piccola candela. Non fumava, lui, neanche sapeva tenerla fra le dita. Fece qualche passo e arrivò davanti a Jelly Roll Morton. Gli porse la sigaretta e disse: “fumala tu. Io non sono buono”.
Fu lì che la gente si risvegliò dall’incantesimo e venne giù un’apoteosi di grida e applausi non si capiva più niente.
Jelly Roll passò il resto del viaggio chiuso nella sua cabina. Arrivato a Southampton, scesa dal Virginian. Il giorno dopo ripartì per l’America. Su un’altra nave, però. Non voleva più saperne di Novecento e tutto il resto. Voleva tornare e basta.
SCENA 8
Fu un giorno che in mezzo all’Oceano Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “a New York, fra tre giorni io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Lo lasciai in pace per un po’, poi cominciai a sfinirlo.
Volevo sapere perché, una ragione doveva pur esserci, uno non sta trentadue anni su una nave e poi un giorno d’improvviso se ne scende, come se niente fosse, senza nemmeno dire perché al suo migliore amico.
Devo vedere una cosa laggiù.
Quale cosa?
Il mare.
Il mare?
Il mare.
Sono trentadue anni che lo vedi il mare, Novecento.
Dalla nave. Io lo voglio vedere da laggiù. Non è la stessa cosa.
Non è la stessa cosa. Gli dissi che ero contento davvero e che gli avrei regalato il mio cappotto di cammello, avrebbe fatto un figurone scendendo giù dalla scaletta con il mio cappotto.
Però mi verrai a trovare sulla terra?
Avevo un sasso qui in gola… io odio gli addii… gli dissi di sì. Ma dentro sapevamo tutti e due che la verità era che stava per finire tutto e non c’era niente da fare.
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento sarebbe sceso dal Virginian nel porto di New York un giorno di febbraio. Dopo trentadue anni vissuti sul mare, sarebbe sceso a terra per vedere il mare.
Quel giorno arrivò come un lampo a ciel sereno.
Novecento iniziò a scendere la scaletta del piroscafo con il mio cappotto, il cappello e una grande valigia.
Se ne sta un po’ lì nel vento, immobile.
Guarda New York.
Poi scende il primo gradino, il secondo, il terzo.
Fu al terzo gradino che si fermò di colpo.
Che è? Ha pestato una merda? Disse Neil O’ Connor.
Avrà dimenticato qualcosa.
Cosa?
E che ne so.
Forse si è dimenticato perché sta scendendo.
E intanto lui là, fermo, con un piede sul secondo gradino e uno sul terzo. Se ne rimase così per un tempo eterno. Guardava davanti a sé, sembrava che cercasse qualcosa. E alla fine fece una cosa strana.
Si tolse il cappello e lo lasciò cadere in mare.
Quando rialzammo gli occhi verso la scaletta vedemmo Novecento col suo cappotto cammello che risaliva quei due gradini, con le spalle al mondo e uno strano sorriso in faccia. Due passi e sparì dentro la nave.
Hai visto? È arrivato il nuovo pianista. Disse O’ Connor.
Dicono che sia il più grande, dissi io e non sapevo se ero triste o felice da pazzi. Cosa aveva visto da quel maledetto terzo gradino, non lo volle dire.
SCENA 9
Io dal Virginian ci scesi il 21 agosto 1933. C’ero salito sopra sei anni prima. Ma mi sembrava fosse passata una vita.
Non ci scesi per un giorno o per una settimana: ci scesi per sempre. Coi documenti di sbarco e la paga arretrata e tutto quanto. Tutto in regola, avevo chiuso con l’oceano.
Lo dissi a Novecento e si vedeva che non aveva nessuna voglia di vedermi scendere da quella scaletta, ma dirmelo, non me lo disse mai.
L’ultima sera stavamo lì a suonare per i soliti imbecilli della prima classe, venne il momento del mio assolo, incominciai a suonare e dopo poche note sentii il pianoforte che veniva con me, sottovoce, con dolcezza, ma suonava con me, e io suonavo meglio che potevo, e suonai proprio bene, con Novecento che mi seguiva ovunque, come sapeva fare lui. Ci lasciarono andare avanti per un bel po’, la mia tromba e il suo pianoforte, per l’ultima volta, lì a dirci tutte le cose che mica puoi dirti, con le parole.
Intorno la gente continuava a ballare, non si era accorta di niente, non poteva accorgersene, continuavano a ballare come se niente fosse.
Forse qualcuno avrà giusto detto ad un altro: “Guarda quello con la tromba che buffo, sarà ubriaco o è matto. Guarda quello con la tromba: mentre suona, piange”.
Come sono andate le cose poi, dopo essere sceso da là, quella è un’altra storia. Magari mi riusciva persino a combinare qualcosa di buono se solo non si ficcava in mezzo quella dannata guerra.
Comunque, del Virginian e di Novecento non seppi più nulla, per anni.
Non che me ne fossi dimenticato. Mi capitava sempre di chiedermi: chissà cosa direbbe Novecento se fosse qui. In culo la guerra direbbe.
Ma se lo dicevo io non era la stessa cosa.
Insomma, era una storia finita, quella.
Poi un giorno mi arrivò una lettera, me l’aveva scritta Neil O’ Connor, quell’irlandese che scherzava in continuazione. Quella volta però era una lettera seria.
Diceva che il Virginian se n’era tornato a pezzi dalla guerra, l’avevano usato come ospedale viaggiante e alla fine era così mal ridotto che avevano deciso di buttarlo a fondo.
Avevano sbarcato a Playmouth il poco equipaggio rimasto, l’avevano riempita di dinamite e prima o poi l’avrebbero portata al largo per farla finita: bum e via. Poi c’era un poscritto: diceva: ce l’hai cento dollari? Giuro te li restituisco. E sotto un altro poscritto e diceva: Novecento, lui, mica è sceso. Solo quello: Novecento, lui, mica è sceso.
Io mi rigirai la lettera in mano per dei giorni. Poi presi il treno per Playmouth e andai al porto, cercai il Virginian, lo trovai, e riuscii a salire sulla nave.
C’era dinamite dappertutto. Mi sedetti su una cassa di dinamite, mi tolsi il cappello e rimasi lì in silenzio senza sapere cosa dire.
Fermo lì a guardarlo, fermo lì a guardarmi.
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento.
Avresti detto che sapeva che sarei arrivato.
Come sapeva sempre le note che avresti suonato.
Con quella faccia invecchiata, ma in un modo bello, senza stanchezza.
Mica era sceso lui.
Mica era sceso… sarebbe saltato insieme a tutto il resto in mezzo al mare.
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento.
In quella nave ingoiata dal buio, l’ultimo ricordo di lui è una voce, quasi soltanto, adagio, a parlare…
Tutta quella città, non se ne vedeva la fine…
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?
E il rumore.
Su quella maledettissima scaletta era molto bello, tutto, e io sarei sceso, garantito, nessun problema.
Col mio cappello blu.
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino.
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino.
Primo gradino, secondo.
Non è quel che vidi che mi fermò.
È quel che non vidi.
Puoi capirlo?
È quel che non vidi. Lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne…
C’era tutto… ma non c’era la fine.
Ora, tu pensa un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono ottantotto, su questo nessuno può fregarti.
Non sono infiniti loro. Tu sei infinito e dentro quei tasti infinita è la musica che puoi fare.
Questo a me piace. Questo si può vivere. Ma se tu…
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi…
Milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai… perché quella tastiera è infinita…
Se quella tastiera è infinita, allora non c’è musica che puoi suonare.
Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.
Ma le vedevi le strade?
Ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una?
A scegliere una donna?
Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire?
Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce.
E quanto ce n’è.
Non avete mai paura, voi, solo a pensarla quell’enormità? E a viverla?
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma duemila persone alla volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita.
La terra. Quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare.
Perdonatemi, ma io non scenderò.
Lasciatemi tornare indietro.
Per favore.
FINE