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Oggi 12 Agosto mi sto guardando allo specchio

“ORA”

di

Luca Giacomozzi

“ORA”

di Luca Giacomozzi

(In scena ci sono solamente tre sedie, con lo schienale rivolto verso il pubblico. Sul fondo, un telo bianco).

CLAUDIA:

Oggi Carlo mi ha lasciato. Dopo tre anni, due mesi e ventuno giorni insieme Carlo mi ha lasciato. Non ha avuto neanche il coraggio di chiamarmi, di dirmelo guardandomi negli occhi. Mi ha mandato un messaggio, un sms. No, dico, tu non mi puoi lasciare dopo tre anni, due mesi e ventuno giorni mandandomi un sms. Non mi puoi lasciare senza dirmelo guardandomi negli occhi. Non mi puoi lasciare senza darmi una spiegazione… Dopo tre anni, due mesi e ventuno giorni insieme tu non mi puoi proprio lasciare… e che cazzo!

MAX:

Mio padre è’ uno di quegli uomini che non parlano molto. Un tipo silenzioso, di poche parole.  Lo è ancora di più quando si arrabbia. E’ sempre stato così, fin da quando ero piccolo. Quando facevo qualche cazzata delle mie, mi si avvicinava, mi guardava dritto negli occhi e mi faceva “Non me fà parlà!”. Io cercavo di dire una cosa e lui: “Non me fà parlà!”. Cercavo di spiegarmi, di farmi capire e lui: “Non me fà parlà!”. E così, non parlava mai.

FRANCESCO:

Giulia è pesante. Giulia è tutto quello che a me và stretto. Ha la capacità di tirar fuori il peggio di me e ci riesce senza fare praticamente nulla.

Sara invece è leggera. Sara è tutto quello di cui ho bisogno. Ha la capacità di mettere davanti ai miei occhi la parte migliore di me e ci riesce senza fare praticamente nulla.

CLAUDIA:

Più ci penso e più m’innervosisco. Un sms. Tre anni, due mesi e ventuno giorni insieme finiti tutti dentro uno “short message service”. Tre anni, due mesi e ventuno giorni di vita insieme imprigionati nei centoquaranta caratteri di uno “short message service”. Che cavolo significa poi “short message service” ancora non l’ho capito.

MAX:

Mio padre è sempre stato così. Come quando dovevo chiedergli il permesso per fare una cosa alla quale già sapevo che mi avrebbe detto di no. Aprivo la porta del suo studio. Lui era li, seduto sulla sua poltrona di pelle bordò. Poltrona di merda! Mi avvicinavo e facevo: “Papà?” e lui: “Ao?”. Una sillaba... un miracolo. A volte mi rispondeva con dei suoni tipo: “Ssss”. Altre volte non mi rispondeva proprio. Però è sempre stato un uomo pieno di mistero. A modo suo era anche soprendente. Come quando una volta ci trovammo in piedi, l’uno davanti all’altro difronte alla porta del bagno. Io sorridevo, lui sorrideva. Io sorridevo. Lui sorrideva. Io sorridevo. Lui sorrideva. Io sorridevo. Lui sorrideva. Dopo sette minuti così mi guarda e mi fà: “Ma che te ridi?”. Ecco, i miei dialoghi con mio padre sono stati sempre così’. Lui è quello che si potrebbe definire “un uomo ermetico”.

FRANCESCO:

Giulia mi fa innervosire tutte le volte che apre bocca, tutte le volte che resta in silenzio. Mi fa innervosire tutte le volte che dice una cosa e ne pensa un’altra, tutte le volte che dice quello che pensa. Tutte le volte che dice quello che non pensa. Tutte le volte che non pensa a quello che dice. Che poi è la maggior parte delle volte.

Sara è diversa. La sua dolcezza, le sue parole, i suoi silenzi. Resterei immobile per ore a sentirla parlare. Resterei immobile per ore ad ascoltarla, per riuscire ad andare oltre le sue parole, al di là di quello che vogliono dire. Perchè le sue parole sono un pò come l’ultimo pensiero che fai prima di addormentarti ed iniziare a sognare. Quel pensiero è lì, come le sue parole. Poi chiudi gli occhi, ti addormenti ed inizi a sognare. Ecco, io chiudo gli occhi, sento le sue parole ed inizio a sognare.

MAX:

“Papà? Dove stà mamma?” e lui “terazza”.

“Papà? Che c’è per cena?” e lui “nelloni”. Abbreviazione di “cannelloni”.

“Papà? Che ha fatto la Roma?” e lui “aggiato”. Un modo rapido e conciso di dire “Ha pareggiato”.

“Papà? Dormo fuori stanotte?” e lui “eh?”.

Ecco, dopo tanto tempo posso affermare con certezza che mio padre ha il dono della sintesi.

CLAUDIA:

La prima cosa che vorrei fare adesso è prendere le foto che ho con lui e strapparle tutte. Quelle delle vacanze, del Natale, del mio compleanno, del suo compleanno. Vorrei prenderle in mano una alla volta e “trà” (mima il gesto di strappare una foto ), strapparle tutte. Vorrei anche prendere un accendino e dargli fuoco, una per una. Ma ho smesso di fumare e quindi non ho un accendino. Vedi, questo sarebbe stato uno di quei momenti in cui avrei potuto affermare con certezza che il fumo non nuoce alla salute, anzi!!

FRANCESCO:

Se penso a Giulia mi domando come ho fatto a stare con lei per così tanto tempo. Forse è proprio vero che a volte si è ciechi. Ecco, io sono stato cieco perchè non sono riuscito a vedere tutte le cose che giorno dopo giorno non andavano più tra noi. Che poi, se fossi stato sordo sarebbe stato anche meglio. Sarei andato avanti lo stesso, si, ma senza sentire tutte le sue stronzate. Con il passare del tempo è un pò come se tra noi fosse iniziata una specie di sfida. Una lotta a volersi fare sempre più male. Che poi è brutto quando si arriva a volersi fare del male. Perchè mentre l’amore ha un limite oltre il quale non puoi andare. L’odio no, non ha un limite. Si può fare sempre qualcosa in più per far male ad una persona.

Se invece penso a Sara mi ricredo anche delle mie parole. Cerco ogni giorno di raggiungere quel limite oltre il quale non c’è niente e mi accorgo che non è così. Mi accorgo che l’amore è vero che ha un limite che non si può superare. Ma è come dare ogni volta un piccolo calcio ad un pallone. Mandarlo qualche metro più in là e cercare di raggiungerlo nuovamente. Ecco, secondo me, l’amore è tutto quello che c’è tra il calcio che si è dato a quel pallone e quello che si darà allo stesso pallone una volta che lo si raggiungerà nuovamente.

CLAUDIA:

Messe da parte le foto potrei iniziare a strappare via i ricordi. Anche se quello è più difficile. Penso al giorno in cui ci siamo conosciuti, in quella libreria del centro. Si, proprio quella dove lavorava lui. Che cretina che sono stata. Andavo li tutti i giorni, per lui. Forse anche per me. Andavo lì ogni pomeriggio in cerca di quel coraggio che non avevo. Il coraggio di riuscire ad attaccare bottone, di riuscire a parlargli.

FRANCESCO:

Se guardo Giulia negli occhi oggi non riesco a vedere nessun futuro.

Se guardo Sara negli occhi oggi vedo me stesso e tutto il mio domani.

CLAUDIA:

Andavo sempre in quella libreria, tutti i giorni. Anche la domenica pomeriggio, quando lui non c’era mai. C’era il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì, il sabato… ma la domenica pomeriggio lui non c’era mai. Poi, dopo quattro settimane ho capito… la domenica era il suo giorno libero.

MAX:

Io e mio padre non ci incontravamo molto in casa. Avevamo orari diversi. Lui, prima di andare in pensione, lavorava in un’edicola alla Garbatella. La mattina si svegliava prestissimo per andare a lavoro. Talmente presto che io ancora dovevo andare a dormire. Lui si svegliava ed io dormivo. Io mi svegliavo per uscire e lui tornava e si metteva a dormire. Praticamente per anni ci siamo sognati.

CLAUDIA:

Se chiudo gli occhi per un momento riesco a vedere tutti gli istanti vissuti insieme. E’ strano. Chiudo gli occhi e riesco a vedere. Tutti, ci sono proprio tutti. Sono così tanti che sono costretta a riaprire gli occhi, altrimenti a forza di tenerli chiusi rischierei di addormentarmi e non è bello dormire sui propri ricordi.

FRANCESCO:

Giulia, dopo cinque anni di matrimonio, mi chiama “coso”.

Sara, dopo due anni di vita, mi chiama papà.

MAX:

L’unico momento dell’anno in cui stavamo insieme per più tempo era durante le ferie.

Ricordo ancora le vacanze estive. Il mese di Agosto, quando si partiva per le tanto sospirate ferie. La voglia, di mio padre, di andare lontano dalla città si scontrava, ogni anno,  con la paura di mia madre di lasciare la casa vuota per troppo tempo.

CLAUDIA:

Penso a quando avevamo deciso di fare quella vacanza insieme al mare. Noi due, in moto, al mare. L’ho aspettato per due ore quel giorno. Sotto casa, per due ore. Mi aveva chiamato dicendomi “Vado in garage, prendo la moto ed arrivo”. Due ore.

Ora, dato per scontato che il suo garage non poteva essere a due ore di distanza dal suo appartamento. Considerando che da casa sua a casa mia, a piedi, leggendo un libro, con i tacchi alti, io solitamente ci mettevo dieci minuti, dodici al massimo… iniziai a preoccuparmi. Iniziai ad avere paura, paura per lui. Paura per me. Lo pensavo su quella maledetta moto. Temevo avesse avuto un incidente, che gli fossero venuti addosso. Avevo paura, adesso posso dirtelo, avevo paura.

Due ore sono tante. Sono tante per fare qualsiasi cosa, figuriamoci per aspettare.

Poi mi ha chiamato, finalmente, dopo due ore, e con una voce sottile sottile mi ha detto: “Amore… scusami se ho fatto tardi…sono ancora in garage…non riesco ad accendere la moto”. Fu li che pensai che suo padre infondo aveva ragione quando  diceva: “ Carlo, sei proprio sicuro di voler guidare la moto? No, dico, la moto. Due ruote e neanche tanto grandi”.

FRANCESCO:

Giulia mi chiama “coso” ed io, quando parlo agli altri di lei la chiamo “la stronza”. Ormai tutti lo sanno. Quando dico “la stronza” sanno di chi sto parlando. All’inizio mi domandavano “ma chi è la stronza?”. Oggi quando mi incontrano per strada mi chiedono “come sta la stronza?”.

Non so quando è stato il giorno esatto in cui ho smesso di amarla. Forse è coinciso con l’attimo in cui mi sono accorto di non averla mai amata. Penso sia stato a settembre. Forse di domenica. Non so perchè ma a settembre, di domenica non puoi fare a meno di porti certe domande. Deve esserci qualcosa di strano nell’aria, non lo so. Fatto sta che secondo me ci vorrebbero più settembri e più domeniche. Si riuscirebbe sicuramente a capire molte più cose. 

MAX:

Mia madre è sempre stata una di quelle donne fissate con la pulizia, con l’ordine. Una di quelle donne che ti obbliga a camminare per casa utilizzando le pattine. Che non c’è cosa più scomoda che dover girare per casa con le pattine. Mia madre era talmente maniaca della pulizia che ci faceva usare le pattine anche se noi avevamo la moquette in tutta casa. Estremamente precisa? No, estremamente pazza!

Mio padre glielo diceva sempre. “Aò...eh? Nun sè...Capi?”. Sempre più ermetico.

Non so da cosa nascesse la paura di mia madre. Fatto sta che ogni anno, la partenza per le ferie diventava un trauma per lei.

CLAUDIA:

E’ strano essere lasciati. E’ strano sentire addosso questo senso di vuoto, d’impotenza. L’impossibilità di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Anche di capire. Allora la mente torna a sfogliare le pagine dei ricordi, della quotidianità. Quella che forse ha ucciso la nostra storia. Quella che forse, uccide tutte le storie.

FRANCESCO:

Quella domenica Giulia era in salone, in piedi, vicino alla finestra. Stava stirando delle camicie. Le mie. Sono uscito dalla camera da letto e mi sono fermato sulla porta del salone. Lei non mi ha visto, non poteva vedermi. Sono rimasto lì a guardarla per alcuni minuti. Sono rimasto lì cercando di non pensare a come sarebbe stato invecchiare insieme a lei. La sola idea mi metteva angoscia. Mi faceva salire un’ansia assurda. Era come ammettere a me stesso che avrei vissuto una vita di merda.

MAX:

Mia madre aveva talmente paura di lasciare la casa disabitata per un mese che l’anno in cui sono nato io siamo stati in vacanza dalla signora del piano di sotto, tale Rosina Giuffrida che tutti chiamavano amichevolmente zia Rosina. Adesso, Zia Rosina lo capisco pure, ma perchè amichevolmente?!

Zia Rosina era una vecchietta di ottantadue anni che nel 1952 si era trasferita dalla Sicilia a Roma. Da quell’anno non era più tornata nella sua città natale. Forse fù proprio zia Rosina a far venire a mia madre la paura di lasciare Roma. Temendo che non ci sarebbe stato un ritorno. Chissà!

Fatto stà che quell’anno mio padre passò le ferie estive a giocare a scala quaranta con Zia Rosina. Ora, io ero appena nato e quindi non posso certo ricordare, però non oso immaginare cosa potessero essere quelle partite a scala quaranta con mio padre che non parlava mai e Zia Rosina sorda come una campana. Dai racconti di mia madre ho saputo poi che Zia Rosina era un tipo piuttosto “vivace” e soprattutto non ci stava proprio a perdere. In un mese di ferie mio padre fece 223 partite a scala quaranta con Zia Rosina e le vinse tutte e 223.

CLAUDIA:

Lo odio. Lo odio perchè se n’è andato. Lo odio perchè mi ha lascita qui. Lo odio perchè se proprio hai intenzione di lasciarmi, dimmelo prima. Dimmelo cazzo, cosi mi organizzo e ti lascio prima io.

La donna è più leale in questo. E’ più corretta. Quando non è felice del rapporto che ha con il proprio uomo glielo fa capire, in mille modi. Loro invece no, se ne vanno, e basta. Se ne vanno all’improvviso. Fuggono. Scappano via, perchè è la cosa che sanno fare meglio. Forse l’unica cosa che sanno fare.

MAX:

L’anno successivo andammo in vacanza alla “Pensione Stella”, sull’Ardeatina poco fuori in raccordo anulare. Venne con noi anche Zia Rosina, supplicando mio padre di concederle un’altra partita. Ripeteva sempre: “Facciamo la bella. Facciamo la bella”. “La bella?” Dopo aver perso 223 partite l’anno precedente voleva fare “la bella?”. Zia Rosì, meno, fai meno.

FRANCESCO:

Era domenica anche quando è nata Sara. Era una domenica di settembre. Quando l’ho sentita per la prima volta piangere ho avuto la conferma che era effettivamente vero che nelle domeniche di settembre si capiscono molte cose. Quando l’ho vista nascere avrei voluto piangere, avrei voluto stringerla subito tra le braccia. Avrei voluto dirle miliardi di cose. Ma rimasi a guardarla, appoggiato alla porta. Rimasi a guardarla per alcuni minuti. Fu lì che provai una strana sensazione. Una voglia improvvisa di non invecchiare mai. In quel preciso momento non avrei voluto fermare il tempo, avevo solo voglia di viverlo. Pensavo a come sarebbe stato vedere Sara crescere, tornare bambino vicino a lei. Raccontarle le favole, un pò tristi, come sono quasi tutte le favole che si raccontano ai bambini. La vedevo già grande. La vedevo venirmi incontro. La vedevo farmi mille domande. La vedevo seduta, in silenzio, aspettando le mie risposte. Vedevo me e lei camminare su un prato. Vedevo la sua piccola mano. I suoi occhi. Vedevo il nostro futuro. Solo io e lei. Solo noi due.

MAX:

La prima vera vacanza distante dalla città la facemmo nel 1987, quando mio padre, non so con quali parole,  riuscì a convincere mia madre a passare le ferie estive ad Anzio, ridente cittadina del Lazio a 68 km da Roma. L’anno successivo, nel 1988 andammo in vacanza a Sabaudia, ridente cittadina del Lazio a 98 km da Roma. Nel ‘89, anno della caduta del muro di Berlino, ci spingemmo fino a Terracina, ridente cittadina del Lazio a 110 chilometri da Roma.

Noi non andavamo in vacanza, giocavamo a Risiko. Ogni anno conquistavamo un territorio.

CLAUDIA:

Tre minuti e dodici secondi netti. Li ho cronometrati. Tre minuti e dodici secondi netti. . La durata del nostro ultimo rapporto sessuale. Cinque giorni fa. A casa mia. Tre minuti e dodici secondi. Cazzo controllati. Non puoi venire in tre minuti e dodici secondi. Soprattuto se sai che quello sarà il nostro ultimo amplesso.

Ecco, se dovessi associare Carlo ad un tipo di pittura direi che lui è sicuramente un impressionista. Infatti con lui ho sempre avuto l’impressione di farlo. Tre minuti e dodici secondi non è eiaculazione precoce e....’na presa per il culo.

Non ci venire a letto se dopo tre minuti e dodici secondi hai già finito le tue risorse. Ha avuto anche il coraggio di chiedermi: “Ti è piaciuto?”. Che ?. “Come che?”. Ah. Scusa. Non me ne sono accorta. Ero convinta che fossi ancora in bagno a lavarti i denti.

MAX:

Nei primi anni novanta ci fu infatti l’invasione della Campania. Nel 1997 entrammo in Calabria e li rimanemmo per sette anni, fino al 2004, bloccati sulla Salerno-Reggio Calabria. Festeggiammo l’anno del Giubileo all’autogrill di Morano Calabro, ridente cittadina della Calabria a 405 chilometri da Roma, davanti ad una lattina di chinotto ed un panino dal nome “Rustichella” a base di pancetta affumicata, provola e origano. Ricordo con nostalgia quegli anni passati in Calabria, ma bisognava andare avanti. L’obiettivo era dichiarato. 2010, bandierina rossa sulla Sicilia, Catania, città natale di Zia Rosina, che nel frattempo era morta all’età di 87 anni durante una partita a tre sette col morto, Zia Rosina appunto.

CLAUDIA:

Carlo è sempre stato cosi. Fin dalla prima volta che l’abbiamo fatto. Nella sua macchina, una Fiat Panda rossa, vecchio modello. Estate di tre anni fà. Erano le 23.58 del 31 Luglio. Quella è stata la volta in cui è durato di più. Quella volta lo abbiamo fatto per due giorni di fila. Dalle 23.58 del 31 Luglio. Alle 0.02 del 1 Agosto. Quattro minuti netti. In una fiat panda rossa, vecchio modello. Nel parcheggio davanti al Bowling di Pomezia. 

Quattro minuti netti la prima volta. Tre minuti e dodici secondi l’ultima. Abbiamo perso quarantotto secondi in tre anni.

Ti odio. Ti odio anche per quei tre minuti e dodici secondi che adesso non sò come impegnare.

FRANCESCO:

Quando Sara mi chiama papà io non riesco a parlare. Cosa vuoi dire ad una bambina di due anni che ti si avvicina, ti guarda negli occhi e ti chiama “papà”. Una volta stava giocando vicino alla finestra, o forse stava solamende guardando la girandola rossa e gialla piantata nel vaso dei gerani sul balcone che girava impazzita ogni volta che il vento l’accarezzava. Sara era lì, con il suo nasino appoggiato al vetro di quella finestra. Improvvisamente si volta e mi chiama “papì”. Dopo un attimo di silenzio mi sono avvicinato a lei, mi sono abbassato. L’ho guardata negli occhi e l’ho accarezzata come il vento accarezzava quella girandola rossa e gialla piantata nel vaso dei gerani sul balcone. Avrei voluto dirle che “papì” è sleale come parola. “Papì” è scorretto. E’ un colpo basso. Non puoi chiamarmi “papì”. Se tua figlia ti chiede “papì posso lanciarmi con il banging-jumping mentre mi faccio una canna abbracciata al pantera, il mio nuovo ragazzo?”. Tu le dici subito di si perchè sei rimasto a “papì”. Il resto della frase non l’hai nemmeno sentito. Non ti frega un cazzo del banging-jumping, delle canne e del pantera. No, del pantera un pò ti frega in realtà, però lei ti ha chiamato “papi”. Sara ha due anni. Non si lancerebbe mai con il banging-jumping, non si farebbe mai una canna, e soprattutto non si metterebbe mai insieme ad un ragazzo chiamato “il pantera”...vero?

MAX:

La cosa che ricordo con più nostalgia di quelle vacanze sono proprio i momenti del viaggio. Non so perchè ma la cosa che mi piaceva di più di quelle vacanze erano proprio gli spostamenti in macchina. Quando dovevamo partire ero eccitatissimo all’idea di fare tanta strada. Appena arrivati a destinazione il mio primo e forse unico pensiero era: “Non vedo l’ora di risalire in macchina e viaggiare per tornare indietro”. Non perchè mi annoiassi durante le vacanze. Mi piaceva proprio l’atmosfera che c’era in quella macchina, durante quel viaggio. Mio padre, silenzioso come sempre, guidava senza mai voltarsi. Aveva lo sguardo sempre dritto, fisso a guardare la strada davanti a lui. Mia madre invece passava la prima metà del viaggio a ripetere a mio padre: “Perchè corri? Perchè non rallenti un pò? E’ pericoloso”. E la seconda metà del viaggio a ripetere a se stessa: “Perchè corre? Perchè non rallenta un pò? E’ pericoloso”.

CLAUDIA:

Qui, seduta su questa sedia, non posso fare a meno di pensare a Carlo e a quello che già mi manca di lui. Vorrei averlo davanti a me, alzarmi in piedi, prendere questa sedia e tirargliela in faccia. Ma lui non c’è. Così, prendo la sedia, la poso a terra e mi siedo.  E’ incredibile quanto sia difficile in questo momento non pensare a lui. Forse sarebbe anche stupido cercare di farlo. Alla fine qualche altro minuto posso anche spenderlo, prima di provare a dimenticarlo per sempre. Mi mancano le sue attenzioni. Quel suo modo di fare le cose. Mi ricordo la prima vacanza che abbiamo fatto insieme, in un campeggio all’Argentario. In tenda. Una canadese che Carlo è riuscito a montare in un tempo record. Erano le tre del pomeriggio quando siamo arrivati al campeggio. Siamo andati subito alla nostra piazzola e Carlo ha iniziato a montare la nostra tenda. Era buffo vederlo, mentre tirava fuori dalla scatola tutti i pezzi da dover montare. Quella prima ora è stata divertentissima. Lui che non voleva ammettere, neanche a se stesso, che era la prima volta che montava una tenda canadese. Anche la seconda ora è stata particolarmente divertente. Con Carlo che alternava una martellata sul picchetto ed una sul suo dito. Era tenerissimo. Poi, dopo circa tre ore, ho iniziato ad avere seriamente paura di dover dormire in macchina per quella notte. Lui ogni tanto, senza neanche guardarmi, mi ripeteva: “Ho quasi finito, ho quasi finito. Aia”. Continuava a martellarsi il dito. Alle dieci meno un quarto, dopo sei ore e quarantacinque minuti, la nostra tenda era finalmente montata. Grazie a Carlo, ma grazie soprattutto a Franz Hiller, un tedesco che alle nove e mezza, intuendo che Carlo era in serie difficoltà, aveva deciso di dargli una mano e in poco piu di dieci minuti montò da solo la nostra canadese.  Alla fine lui e la moglie ci invitarono nella loro roulotte per bere una birra insieme e festeggiare. Io ridevo come una pazzo. Carlo era un pò incazzato. Forse per la tenda, forse per il dito si era appena dovuto fasciare.

MAX:

Durante quei viaggi in macchina mio padre ci faceva ascoltare sempre le stesse canzoni. Aveva un repertorio modernissimo che spaziava da Bruno Lauzi che cantava “Mary oh Mary” ad Albano che cantava “I cigni di Bakala”. Prima che Michael Jackson gliela copiasse cambiando il titolo in “Will you be there”.

Io, seduto sul sedile posteriore della macchina, guardavo mio padre. Poi, giravo la testa verso in finestrino e guardando fuori pensavo al prossimo viaggio che avremmo fatto. Io, papà, mamma insieme a Bruno Lauzi ed Albano ovviamente.

FRANCESCO:

Sara ha solo due anni ma sà che quando mi chiama “papi” non riesco a dirle di no. Questo deve averglielo trasmesso Giulia. Deve essere uno di quei trucchi che si tramandano di madre in figlia. Di generazione in generazione. Il trucco ci deve essere per forza, altrimenti non si spiega. Come può essere che senza nemmeno rendertene conto ti ritrovi a fare sempre delle cose che se fossi lucido non faresti mai.

In questo Giulia è un genio, del male. Non sò come fà ma ci riesce sempre. E’ come la storia di Ikea il sabato mattina. E’ sabato. Io mi sveglio ed il mio primo pensiero è: “Oggi non la porto da Ikea neanche sotto tortura”. Vado in bagno, mi lavo. Vado in cucina, faccio colazione. Alle undici meno un quarto siamo già sul raccordo anulare uscita 22, destinazione Ikea. Come cazzo può essere. Oppure la domenica a pranzo. Stessa scena. Mi sveglio ed il mio primo pensiero è “Oggi non faccio venire a pranzo i suoi neanche se mi obbliga ad andare da Ikea tutti i sabati mattina”. Vado in bagno, mi lavo. Vado in cucina e trovo la madre che mi sorride mentre toglie dalla borsa frigo il pollo con i peperoni e le melanzane alla parmiggiana. Che poi a me il pollo con i peperoni mi fa pure schifo. E le melanzane alla parmiggiana non le digerisco. Ma mia suocera mi guarda e sorridere. Tale madre, tale figlia. Adesso capisco perchè quando mi sono sposato mio suocero mi si è avvicinato, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: “Ti sono vicino”.

CLAUDIA:

Quella vacanza in quel campeggio all’Argentario non sarà facile dimenticarla. Eravamo felici e con l’illusione che la nostra storia potesse durare per sempre. Quella sensazione, che dura un attimo, di sentire che quello che stai vivendo niente e nessuno potrà mai portartelo via. Alla fine è vero che le cose belle siamo solo noi a decidere quando devono finire. A volte decidendo di fare qualcosa, altre volte decidendo di non fare nulla e lasciarle morire, così. Quella vacanza all’Argentario non la dimenticherò mai. Così come sono convinta che anche Franz Hiller e sua moglie non la dimenticheranno facilmente. Soprattutto perchè una sera Carlo preso dall’euforia e da qualche birra di troppo ha avuto la brillante idea di buttare la sigaretta per terrà davanti alla roulotte della famiglia Hiller. Così, in poco piu di un minuto la loro veranda ha preso fuoco. La signora Hiller è svenuta per terra. Franz ha guardato la moglie a terra, ha guardato la veranda e poi ha dato un cazzotto in bocca a Carlo, che è svenuto anche lui. Dopo di chè ha iniziato a corre verso la reception del campeggio urlando parole incomprensibili, in tedetesco presumo. Io ho iniziato a ridere. Come una pazza. Se ci penso oggi mi viene ancora da ridere e mi dispiace che Carlo non sia qui, adesso. Altrimenti un bel cazzotto in bocca glielo darei anche io. Ne ho bisogno adesso, per poter ridere nuovamente.

MAX:

Quando ero piccolo mi capitava spesso di fare una cosa che non ho mai raccontato a nessuno. Andavo in camera dei miei genitori. Mio padre dentro l’armadio teneva chiuse in una scatola centinaia di fotografie. Di lui e della mamma di quando erano giovani. Prendevo questa scatola dall’armadio di mio padre e mi chiudevo in camera mia. Accendevo lo stereo e mettevo una musica, sempre la stessa. Mi sedevo per terra con la schiena appoggiata al comodino ed iniziavo a sfogliare le fotografie. Lentamente. La stessa musica, le stesse fotografie. Ogni volta però, passando da una foto all’altra, notavo qualcosa che mi era sempre sfuggito. E’ strano. Quanti particolari si nascondono dietro una foto. Quanti particolari ci passano davanti agli occhi e non li vediamo. Per fortuna che c’erano quelle foto a fermarli. Non sò perchè mio padre aveva deciso di nascondere quelle foto dentro una scatola. Fosse stato per me le avrei attaccate una ad una sulle pareti di casa. Mio padre e mia madre erano sempre sorridenti in quelle foto. Erano felici. Sembravano felici. Prima o poi mi deciderò a farlo davvero. Apro quell’armadio, prendo quelle foto e le attacco tutte sulle pareti di casa. No, meglio di no. Và a finire che mi abituo a quei sorrisi e non mi accorgo più dei particolari. Forse è per questo che mio padre le ha sempre tenute chiuse dentro una scatola. O forse perchè ha paura di ammetere che non è più capace di sorride.

CLAUDIA:

Perchè? Perchè è così difficile controllare questa voglia istintiva che ho di volerlo strangolare. Non per fargli male o per farlo soffrire. Per ammazzarlo. Infondo non chiedo tanto. Un minuto del suo tempo. Quanti minuti ho butta via per lui. Cosa gli costa dedicarmi a un minuto. Mi metto li, mi concentro. Mani sul collo. Un minuto e via. Non mi sembra di chiedere tanto. Il suo ultimo minuto di vita. Se penso a quanti ne ho persi per lui mi sento una scema.

FRANCESCO:

Non parlo quasi mai agli altri di Sara. Non so perchè. E’ strano. Forse per gelosia. Forse per un inconscio istinto di possessività. E’ un pò come vivere un’emozione talmente forte che non riesci a spiegarla. Perchè a volte le parole migliori per descrivere un’emozione sono proprio i silenzi.

CLAUDIA:

Maggio di due anni fa. Il nostro prima anniversario. Ero convinta che non se lo sarebbe ricordato. Infatti avevo ragione. Non se l’era ricordato. Alle otto di sera si presenta a casa mia come se nulla fosse. Sale sù e ci chiudiamo in camera mia. Lui mi guarda e mi fà: “Amore cos’hai? Ti prego non rimanere in silenzio, dimmi qualcosa, un gesto”. Io lo guardo e gli dò uno schiaffo. Lui mi guarda e mi fa: “Era meglio il silenzio”. Non c’ho visto più. Come fai a non ricordarti il nostro primo anniversario. Ma dove ce l’hai la testa. Ero riuscita a dimenticare il fatto che si scordato di farmi gli auguri quando abbiamo fatto il nostro primo trimestre insieme. Che non mi aveva portato neanche un fiore il giorno del nostro secondo trimestre insieme. Il terzo trimestre per evitare di dovermi incazzare nuovamente sono stata io a regalargli un mazzo di fiori, delle mimose. Va bene. Capisco che per te i trimestri non sono importanti. Però cazzo non ti puoi scordare il nostro primo anniversario. Lui iniziò ad inventare delle scuse assurde tipo: “Volevo farti una sopresa ma sapendo che ti saresti aspettata una sopresa ho pensato che la sorpresa migliore per sorprenderti era non farti nessuna sorpresa. Sorpesa?”. Eh? E lui: “Sopresa?”. Non sapevo cosa dire. Così, gli ho dato un altro schiaffo e mi sentii subito meglio.

FRANCESCO:

Io e Giulia non ci siamo mai parlati molto. Forse lo avremmo anche fatto, ma non me ne sono mai accorto. Parlare con lei è sempre stato un pò una perdita di tempo. E’ stato sempre un pò come parlare, che sò, al muro. Anzi, peggio. Quantomeno il muro non dice stronzate.

Poi arrivò il giorno in cui smisi di parlarle. Non ne avevo più voglia. Non è stato bello, però in quel momento avevo la sensazione che era l’unica cosa giusta da fare.

Dopo poco arrivò il giorno in cui smisi anche di ascoltarla. Ne avevo ancora meno, di voglia. Quello però non è stato un brutto giorno. Anzi.

MAX:

Un giorno passando per caso davanti ad un bar ho visto mio padre seduto ad un tavolino parlare con una donna. Ho fermato il motorino dall’altra parte della strada e sono rimasto lì a guardare da lontano mio padre che ridereva e scherzava con quella sconosciuta. Mi sembrava di guardare un’altra persona. Avevo la sensazione di conoscere molto di più quella signora che non avevo mai visto che non mio padre. E’ stato bruttissimo. Mi era salita una rabbia, un veleno, che avrei voluto attraversare la strada, avvicinarmi a quel tavolino e guardando in faccia quell’uomo che non riconoscevo più dirgli che mi faceva schifo. Dirgli che non doveva permettersi di fare una cosa simile alla mamma. Volevo dirgli che non doveva essere li con quella zoccola, che sarà stata sicuramente una bravissima donna per carità, ma in quel momento per me era solo una zoccola con la quale mio padre stava tradendo mia madre. Volevo fare tutte queste cose. Ma rimasi li, sul mio motorino a guardarli dall’altra parte della strada. Quanto parlava mio padre. Quante cose stava dicendo a quella donna. Forse tutte quelle che a noi non ha mai detto. Chissà cosa le stava raccontando? Poi, dopo quasi venti minuti si sono alzati e si sono allontanati lei da una parte, lui dall’altra. Lentamente. Dentro di me ripetevo: “Non lo fare papà, non lo fare, non lo fare cazzo.” Invece alla fine mio padre l’ha fatto. Si è voltato per vedere quella donna allontanarsi verso la sua macchina. Si è voltato come chi ha voglia di non perdere qualcosa. Si è voltato come chi andando via ha voglia di tornare. Si è voltato per guardare quella donna mettere in fila i suoi passi. Forse avrebbe anche voluto corrererle dietro, fermarla. Per baciarla, per non farla andare via, per continuarle a parlare.

Non lo sò. Non sò neanche perchè non ho mai detto nulla a mia madre di questa cosa. Non sò perchè non ho mai detto nulla a mio padre, che ero lì, che l’avevo visto, con quella zoccol...donna. Con quella donna.

CLAUDIA:

Non sò quale sarà la cosa che mi mancherà più di Carlo. Forse il suo essere così buffo. Così ingenuo, così immaturo, così...cretino. Una volta sono andata a trovarlo a casa sua e mi ha aperto la porta vestito da uno dei sette nani, cucciolo. Ho iniziato a ridere. All’inizio per la maschera, poi per lui. Poi per la madre che da dietro mi guardava e mi faceva dei gesti come a dire: “E’ scemo, non ci posso fare niente”.

MAX:

Un rimpanto però ce l’ho. Quello di non essere mai andato da quella signora che quel giorno era seduta in quel bar con mio padre. Non per dirle che doveva uscire dalla sua vita. Neanche per capire se era realmente zoccola oppure no. Volevo solo chiederle come ci riusciva. Come era stata capace di far sorridere cosi tanto mio padre. Quale segreto nascondeva per riuscire a farlo parlare così tanto. Non lo so se mio padre e quella donna si sono più rivisti. Stupidamente, se ripenso alla leggerezza con cui mio padre sorrideva quel giorno seduto al tavolino di quel bar, mi auguro proprio di si. Era felice. Cazzo era felice. E chi sono io per negare a mio padre di essere felice? Senza saperlo io e lui avevamo un segreto in comune. Un segreto che era talmente segreto che neanche lui lo sapeva. Un segreto del quale non potevamo parlare. Vabbè che tanto io mio padre non parlavamo mai. Ecco, da quel momento, io e mio padre avevamo una cosa di cui non potevamo parlare.

CLAUDIA:

Non aveva voglia di crescere ed io non avevo più voglia di tornare bambina vicino a lui. Forse è li che ci siamo persi. Quando ci siamo accorti che andavamo in due direzioni opposte. O meglio quando ci siamo resi conto che io andavo in una direzione e lui rimaneva fermo. Lui è andato via ed io adesso per non sentirmi sola ho bisogno di tornare indietro nei ricordi, dove lui è rimasto fermo da sempre.

FRANCESCO:

Grazie a Sara sto velocizzando il mio percorso verso la maturità. Grazie a lei è come se ogni giorno riuscissi a togliere dai miei pensieri, e cosi anche dalla mia vita, tutte le cose superflue. Tutto quel di più che distrae e che allontana dalle cose che veramente contano.

Ecco, mi dispiace ammetterlo però Giulia in questo momento mi allontana e mi distrae. Mi allontana da me e di conseguenza anche da mia figlia. Perchè è proprio quando si è troppo distanti da se stessi che si perde di vista quello che si ha vicino. Ci si può allontanare dalle cose, dalle persone, ma non ci si deve mai allontare da se stessi.

CLAUDIA:

Ogni tanto mi è capitato di pensare che Carlo non fosse la persona giusta. L’uomo con il quale avrei potuto vivere per tutta la vita. Non so perchè, però l’ho pensato. Era come una strana sensazione che ogni tanto tornava. Come quei pensieri che quando meno te lo aspetti arrivano a disturbare le tue certezze. Ingenuamente cercavo subito di mandarli via, quei pensieri, perchè avevo paura che trovando il coraggio di aprire gli occhi avrei poi perso l’incoscenza di vivere quello che mi stava capitando. Lo sapevo benissimo che Carlo aveva mille difetti. Non li vedevo, però sapevo che li aveva. 

FRANCESCO:

Vorrei prendere Giulia da una parte e dirle tutto quello che non va, tutto quello che mi fa stare male. Vorrei riuscire a dirglielo perchè tenermelo dentro fà ancora piu male. Perchè tenersi dentro un problema fa vedere quel problema ancora piu grande e le soluzioni possibili sempre più lontane.

Vorrei dirle che non ce la faccio più a vedermi cosi. Vorrei dirle che non ce la faccio più a vederla così. Insomma, non ce la faccio proprio più a vederla..

Vorrei riuscire a guardare le cose in maniera diversa. Perchè sono convinto che se cambi il modo di vedere le cose in un modo o nell’altro poi cambiano anche le cose che ti accadono.

MAX:

Fino a qualche anno fà guardando mio padre e mia madre seduti a tavola all’ora di cena pensavo sempre una cosa. Sempre la stessa cosa. Perchè stavano ancora insieme? Cosa avevano in comune? Quali erano le cose che riuscivano ancora a condividere? Un giorno ho semsso di farmi questa domanda perchè l’unica risposta che riuscivo a darmi era, niente. Mia madre maniaca dell’ordine. Mio padre disordinato come pochi. Lei religiosa praticante. Lui bestemmiatore praticante. Mamma sempre super agitata, papà calmo, impassibile.

CLAUDIA:

Alla fine è così. Ci s’innamora sempre delle persone sbagliate. Ci si sente attratti da quello che non si capisce, dagli atteggiamenti che non si è capaci di spiegare. Quando una cosa è troppo chiara, troppo evidente, ci si annoia. Di Carlo sono state proprio le cose che non ho mai capito a spingermi ad andare avanti, a non separarmi mai da lui. Era diventata una come una sfida, con me stessa. Volevo riuscire a capirlo. Volevo sapere se dietro le sue azioni c’era una logica, un pensiero. Poi con il tempo ho capito che non c’era nessuna logica e nessun pensiero. Faceva le cose così, a buffo. Però questa sua illogica improvvisazione mi faceva scoprire sempre più innamorata di lui. E’ proprio vero, meno si capiscono le persone e più ci si sente attratti.

Del resto, se non fosse così, come si riuscirebbe a soffrire con tanta facilità?

MAX:

Mi ricordo che la domenica pomeriggio, non so perchè, ma dopo pranzo mia madre aveva sempre voglia di uscire. Voleva andare sempre a Piazza Navona. Tutte le domeniche. Giovedi gnocchi. Venerdi pesce. Domenica piazza Navona. Che ci trovava poi di bello ad andare a piazza Navona tutte le domeniche non lo sò. Mio padre per essere coerente con il suo modo di pensare non ce la portava mai. Forse è anche per questo che lei continuava a volerci andare, tutte le domeniche. Papà la domenica dopo pranzo si sdraiava sul divano del salone e faceva le prove generali della morte. Si metteva lì e dormiva per due o tre ore di fila. Una domenica quando si è svegliato è andato in cucina da mia madre e le ha detto: “Amò, ho sognato che stavamo a piazza Navona”.   

FRANCESCO:

Ho pensato anche di mettermi seduto ad un tavolino e scrivere a Giulia tutto quello che penso di lei, del nostro rapporto. Però è più forte di me. L’ho fatto, c’ho provato più di una volta. Ma non sono riuscito a trovare le parole giuste. In realtà, non sono riuscito a trovare neanche quelle sbagliate. Sono rimasto li, per delle ore, davanti ad un foglio bianco. Ecco, penso che la sintesi della nostra situazione sia proprio questa, un foglio bianco.

Davanti allo stesso foglio se penso a Sara potrei scrivere per delle ore. Perchè a volte mi piace illudermi di essere uno scrittore che sa trovare sempre le parole giuste per emozionarti, anche quando non vuole farlo. Sara è speciale anche per questo, perchè riesce a farmi essere qualsiasi cosa, anche quello che non sono, anche quello che non ho mai pensato di poter essere. E’ questo quello di cui ho bisogno adesso, di credere di poter tornare ad essere quello che sono e sperare di poter diventare anche qualcosa di più. Mia figlia è come una melodia che ti emoziona senza fare praticamente nulla. Come una musica che ti entra dentro, senza chiedere permesso, perchè sà che è quello di cui hai bisogno. Vorrei esserlo davvero un poeta per scriverle le parole più belle. Vorrei farlo adesso per potergliele far leggere quando sarà grande. Perchè quello che provo in questo momento mentre la guardo neglio occhi, non sarò capace di raccontarglielo quando sarà grande, e sarà lei a guardarmi neglio occhi.

CLAUDIA:

Il tempo passato insieme adesso non conta più. Ci sono solo io. Ci sono io con tutte le mie esperieze. Ci sono io con qualche debolezza in meno e qualche certezza in più. Alla fine è proprio vero che bisognerebbe ringraziare chi ci fà soffrire perchè ci obbliga a guardare avanti e diventare un pò più forti. Non so se in questo momento ho toccato il fondo. Non so neanche se sono riuscita ad andare un pò più giù. So però, che non posso fare a meno di rialzarmi e andare avanti.

MAX:

E’ incredibile quante cose si dimenticano con il passare del tempo. Quanti giorni, quanti ricordi. Però, credo che le emozioni che si vivono, in un modo o nell’altro, non si perdono mai veramente. Sono le cose che non si sono mai vissute le uniche che si possono perdere. Come le domande non fatte. Come i silenzi che non si è stati capaci di ascoltare. Come le richeste di aiuto, quel grido sordo, strozzato in gola, per paura di disturbare. La voce di mio padre e le sue fragilità.

FRANCESCO:

Non so perchè sto pensando tutte queste cose. Non sò il perchè di tante parole. Forse perchè sento il bisogno di ammettere a me stesso, ora piu che mai, che non posso piu fingere. Non posso prendermi più in giro. Non posso continuare a farlo. Non è giusto per me, non è giusto per Giulia. Non è giusto soprattutto per mia figlia. Non voglio mettere davanti ai suoi occhi ogni giorno la parte peggiore di me. Ho paura che con il passare del tempo Sara possa non riconoscermi più. 

CLAUDIA:

Oggi 12 Agosto mi sto guardando allo specchio. Il trucco sul mio viso si sta sciogliendo. Carlo se ne è andato, ma sono felice. Sono felice perchè questa sofferenza mi servirà. Mi ha fatto aprire gli occhi. Mi ha dato la possibilità di guardarmi, davanti a questo specchio, ed andare oltre la mia maschera, oltre il mio trucco. Sò che prima o poi tornerà da me, perchè gli uomini tornano sempre. Perchè gli uomini non sono capaci di andare via mai veramente. E’ come se avessero la costante convinzione che la felicità cammini sempre un pochino più veloce dei loro passi. Allora la inseguono, non per raggiungerla, ma per provare a superarla. E’ per questo che non saranno mai felici.

Carlo tornerà, ne sono certa. E’ solo questione di tempo. Come in tutte le cose. Però, il dolore di questi attimi mi servirà quel giorno per riuscire a dire di no. Per non cedere alla paura di invecchiare da sola. Voglio trovare il giusto ritmo con cui camminare. Il passo giusto per raggiungere la mia  felicità e fare un pezzo di strada insieme a lei. Oggi 12 Agosto.

MAX:

Oggi 12 Agosto mio padre è qui vicino a me. Mi guarda e non parla, come sempre. Lo guardo negli occhi e resto in silenzio anche io.

Penso a tutte le parole che non ci siamo mai detti. Penso a tutte le volte che non sono riuscito ad abbattere il muro che lo divideva dal mondo. Il muro che proteggeva le sue paure. Penso a quelle foto di lui che abbracciato alla mamma sorrideva e mi dispiace non esserci stato in quei momenti. E’ strano, in questo istante ho paura di perdere un qualcosa che non ho mai vissuto. Forse è la paura di ammettere a me stesso che non avrò un’altra possibilità. Allora cerco di capire se questa vita una possibilità di conoscere mio padre me l’ha mai data. Forse è proprio questo il momento in cui trovandomi faccia a faccia con lui sto guardando negli occhi la mia ultima possibilità. E sono felice di esserci.

Mio padre mi guarda, sorride per l’ultima volta, chiude gli occhi per sempre.... e sogna. Oggi 12 Agosto.

FRANCESCO:

Oggi 12 Agosto ho deciso di lasciare Giulia. Non sò dire se un giorno mia figlia mi odierà per questo o se sarà felice che l’abbia fatto. Non so se sarebbe più giusto rimane per farla convivere con la mia assenza o andar via per non lasciarla mai.

Andrò ogni sera sotto il balcone della sua cameretta. Resterò li, immobile, fino a quando la luce della sua stanza non si spegnerà. Ci sarò sempre. Perchè è la mia vita, perchè è le mie speranze. Perchè è l’unica possibilità che ho per non dover ammetere a me stesso di aver sbagliato tutto.

Vorrei odiare Giulia perchè non sono riuscito a cambiarla. Vorrei odiere me stesso perchè ho cercato fino all’ultimo momento di farlo.

Poi immagino Sara mentre dorme nel suo lettino e penso che alla fine qualche cosa di buono io e sua madre insieme siamo riusciti a farlo. E’ per questo che vado via. Perchè non voglio rovinare anche questo. Perchè non voglio perdere anche mia figlia. Oggi 12 Agosto.

CLAUDIA-MAX-FRANCESCO:

Oggi 12 Agosto. Oraaaaaaaaaaaaa!

FINE