ORBECCHE
Tragedia di Giovanbattista Giraldi Cinthio
1.
FU RAPPRESENTATA IN FERRARA IN CASA DELL'AUTORE L'ANNO M.D.XLI. PRIMA ALL'ILLUSTRISS. SIGNORE IL SIGNORE ERCOLE II. DA ESTI DUCA IIII. DI FERRARA. DOPO A GL'ILLUSTRISS. E REVERENDISS. SIGNORI. IL SIGNORE CARDINALE DI RAVENNA, ET IL SIGNORE CARDINALE SALVIATI. LA RAPPRESENTò M. SEBASTIANO CLARIGNANO DA MONTEFALCO. FECE LA MUSICA M. ALFONSO DALLA VIVUOLA. FU L'ARCHITETTO ET IL DIPINTORE DELLA SCENA M. GIROLAMO CARPI DA FERRARA
2. L'ARGOMENTO
Orbecche figliuola di Sulmone Re di Persia, essendo fanciulla, fanciullescamente diede indizio al padre che Selina sua mogliera e madre di lei si giacca col suo primogenito. Sulmone, trovatigli 'nsieme, gli uccise. Dopo alcuni anni Orbecche, senza che 'l padre ne sapesse nulla, prese per marito un giovane d'Armenia, detto Oronte. Intanto volendola maritare Sulmone a un Re de' Parti, si scuopre l'occulto maritaggio e che sono nati d'essi due figli. Sulmone finge essere di ciò contento e dopo uccide Oronte et i figliuoli. Poi colla testa e colle mani del marito ne fa dono alla figliuola la quale, vinta dallo sdegno e dal dolore, uccide il padre e dopo sé stessa.
La Scena è in città real di Persia.
3. LE PERSONE CHE PARLANO
NEMESI Dea
FURIE infernali
OMBRA di Selina
ORBECCHE figlia del Re
NODRICE d'Orbecche
ORONTE
MALECCHE
SULMONE Re
MESSO del Re
CORO
TAMULE
ALLOCCHE
MESSO
SEMICORO
4. DONNE DI CORTE d'Orbecche Il Coro è di Donne di Susa.
IL PROLOGO
Essere non vi dee di maraviglia,
Spettatori, che qui venut'i' sia
Prima d'ognun, col prologo diviso
Da le parti che son ne la Tragedia,
5A ragionar con voi, fuor del costume
De le Tragedie e de' Poeti antichi:
Perché non altro che pietà di voi
Mi ha fatto, fuor del consueto stile,
Qui comparir, di maraviglia pieno.
10Né senza gran cagion mi maraviglio
Che tanti alti Signor, tant'alte donne
Nobil in sommo e tanti spirti illustri,
Fuor d'ogni oppenion nostra, sì ratti
Oggi qui sian venuti, ove non s'hanno
15A recitar di Davo o ver di Siro
L'astute insidie verso i vecchi avari,
O pronti motti che vi movan riso,
O amorosi piaceri, o abbracciamenti
Di cari amanti o di leggiadre donne,
20Onde possiate aver gioia e diletto;
Ma lagrime, sospiri, angoscie, affanni
E crude morti: onde voi che qui sete
Venuti per solazzo e per piacere
Avrete acerba e intolerabil doglia.
25Onde, perché di lui non vi dogliate
(Senza riguardo avere a l'uso antico)
Il poeta m'ha fatto or comparire
A dar di ciò c'ha ad avenire indizio.
Però, se di voi stessi oggi vi cale,
30Partitevi, di grazia, e qui lasciate
Noi altri col poeta in queste angoscie
Convenienti a la nostra aspra sorte
Et al misero stato in che noi semo.
Deh piacciavi non esser spettatori
35Di tante aversità, di tante morti, Susa
Quant'hanno ad avenir in questo giorno.
Oimè, come potran le menti vostre
Di pietà piene e d'amorosi affetti,
E sovra tutti di voi, donne, avezze
40Ne' giochi, ne' diletti e ne' solazzi
E di natura dolci e dilicate,
Non sentir aspra angoscia, a udir sì strani
Infortunii, sì gravi e sì crudeli,
Quai sono quei che deono avenire oggi?
45Come potranno i vostri occhi, lucenti
Più che raggi del sol, veder tai casi
E così miserabili e sì tristi
L'un sovra l'altro, e rattenere il pianto?
Deh gitevi, di grazia, che non turbi
50Le vostre gioie e l'allegrezza vostra
E 'l dolce che tenete in voi, l'amaro
Empio dolore. Appresso, ognun di voi
Pensi quanto si deve allontanare
Da le sue case. Forse penserete
55In Ferrara trovarvi, città piena
D'ogni virtù, città felice quanto
Ogn'altra che il sol scaldi o che 'l mar bagni,
Mercé de la giustizia e del valore,
Del consiglio matur, de la prudenza
60Del suo Signor, al par d'ogn'altro saggio:
E fuor del creder vostro, tutti insieme
(Per opra occulta del Poeta nostro)
Vi troverete in uno instante in Susa,
Città nobil di Persia, antica stanza
65Già di felici Re, com'or d'affanno
E di calamitadi è crudo albergo.
Forse vi par, perché non v'accorgete
Velocissimamente caminare,
Che siate al vostro loco, e sete in via
70E già vicini a la città ch'io dico.
Ecco, quest'è l'ampia città reale,
Questo è 'l real palazzo, anzi 'l ricetto
Di morti e di nefandi e sozzi effetti
E d'ogni sceleragine, ove l'ombre
75E l'orribili Furie acerbo strazio
Porranno in brieve e lagrimevol morte.
Ma che restate, oimè, perché nessuno
Di voi si parte? Forse vi pensate
Che menzogna si sia ciò ch'io vi dico?
80Egli è pur vero, e già ne sete in Susa;
E nel tornar v'accorgerete bene
Quanti mar, quanti monti e quanti fiumi
Averete a varcar, prima che giunti
Ne siate tutti a la cittade vostra:
85Che non vi farà agevole la via
Il Poeta al tornar, com'ora ha fatto.
E che qui non si trovi altro che pianto,
Tosto ne vederete espressi segni:
Ch'io veggio già quella possente Dea
90Che Nemesi chiamata è da gli antichi,
Orrida in vista e tutta accesa d'ira,
Chiamare or qui da le tartaree rive
L'acerbe Furie co le faci ardenti,
Il cui crudele e dispietato aspetto
95Temo così veder che più non oso
Qui far dimora, a ragionar con voi.
5. ATTO PRIMO
5.1. SCENA I
NEMESI Dea, FURIE infernali
NEM.
L'infinita bontà del sommo Giove
Tempra così la sua giustizia immensa
Ch'ancor ch'un reo sia di gran vizii pieno
Né ad altro mai ch'a mal oprare intenda
5E perciò merti agro e crudel castigo,
Pur aspettando Dio ch'ei si corregga,
Rattien la ferza e non gli dà la pena
Degna de le sue triste et inique opre.
Anzi (o bontà del Creatore eterno!)
10Per più allettarlo al bene e mostrar lui
Più espressa la sua eterna, alta bontade,
Fin che in tutto non è fuor di speranza
Di deversi correggere, gli aumenta
Il bene e tutti i suoi disiri adempie
15Con felice successo: ove 'l contrario
Spesso si vede di color che sono
Con ogni studio intenti a l'opre sante.
Perché chi a bene oprar l'animo intende,
Più perfetto si fa ne' casi aversi,
20E ne ricorre per soccorso a Dio
Che fonte è d'ogni ben, d'ogni salute,
Sprezzando ciò che par felice in terra;
E vede che ciò lascia Dio avenire
A quei che giusti sono in questa vita
25Perché ciascun che tra' mortali vive
(Per giusto ch'egli sia) commette errore
Contra l'alta bontà del Fattor suo:
Ond'egli vuol che questa breve pena
In questo stato purgi loro e poi
30Godano eternamente il ben del cielo.
Ov' a color che son nel mal immersi,
Quando i peccati lor son giunti al sommo
E conoscer non han voluto quanto
Cerco abbia Dio di ricchiamarli a lui,
35Dà spesso in questa vita acerba morte
E ne l'altra infiniti, aspri tormenti
Per que' brevi piaceri avuti un tempo,
Che stati forse son piena mercede
Di qualche picciol ben fatto da loro:
40Che come 'l mal non è senza la pena,
Così non è senza mercede il bene;
E avien sovente che gli altrui peccati
Passano insino a' figli et a' nipoti
E del paterno error portan la pena.
45Ciro ne può far fede, insino al quale
Passò il fallo di Gige et allor ebbe
Castigo de l'error che più felice
Esser credeva; e insino a Roboamo
Passò di Salomon l'aspra vendetta.
50E perché non conosce questa gente
Sciocca, mortale e d'ogn'ingegno priva,
Ciò che la providenzia eterna face,
Se talor vede ch'un mal'uom gioisca
E sia in felice stato e un uom gentile,
55Pieno d'ogni virtù, sostenga affanno,
Biasima la divina alta giustizia
E pensa che quell'alta providenzia,
A cui tutto è palese et in un punto
Vede il presente et il passato e quello
60Ch'avenir dee, sia cieca e nulla curi
Queste cose che son qui sotto il cielo.
O gente sciocca, voi che non vedete
A pena quel ch'avete innanzi a gli occhi,
Volete far del sommo Dio giudicio!
65O pazza presunzion! Nulla procede
Senza ordine infinito; et io che sono
Qui tra' mortali indagatrice certa
De' fatti loro e con acuta vista
E le cose celate e le palesi
70Giudico e veggio con giudicio intiero,
Annunzio per certissimo che mai
Non fu buon fatto alcun senza mercede
Né mai un reo fuggi l'aspra mia ferza.
E se pur ad alcun talor la pena
75S'è differita, è sovraggiunta poi
Tant'aspra e cosi grave che contenta
Rimasa n'è la mia vindice destra:
Tal che veder si può che que' felici
Si posson dire a' qual de' falli loro
80Subito viene il debito castigo.
Et or ne darà a ognun sì chiaro essempio
Questo fiero Tiran che si pensava
Esser al par de la divina altezza,
E da l'età sua prima Dio sprezzando,
85Insino ad or ha sempre oprato male:
Ch'ognun potrà vedere agevolmente
Che quanto egli insin or di bene ha avuto,
Stato è a suo danno e de la sua famiglia.
Che per altro non sono or qui venuta
90Che per dare a lui oggi e a la sua gente,
A cui passato è 'l suo ostinato errore,
Il giusto guiderdon de le mal'opre;
E perciò trar fuor de l'oscuro abisso
L' irate Furie co le faci ardenti,
95Che pongan or tra la sua gente e lui
Non pur tanto furor quanto fu mai
In Tantalo, in Tieste, in Atamante,
Ma quanto mai non fu veduto in terra.
Uscite adunque co le faci accese,
100Figliuole de la Notte e d'Acheronte,
Ad essequir quello che 'l sommo Giove
A strazio di Sulmon per me ve impone.
FUR.
Eccone: siam, possente Dea, per fare
Tutto quel che da te ne sarà imposto.
105Né tanto fuoco mai fulmine ardente
Portò seco dal ciel, né Borea od Euro
Il mar tranquillo sottosopra volse
Con tanta forza, quanto in questa corte
Porrem furore e come muteremo
110Quanto in lei è di lieto in doglia e 'n pianto.
Imponi pur ciò che noi far devemo,
Che in un momento fia ispedito il tutto.
NEM.
Empiete adunque di furor si grave
Quest'empia corte ove Sulmon soggiorna
115Ch'altro non vi si veggia che dolore
E strazi e pianto e morti; e da ogni canto
La scelerata corte a sangue piova.
Fate che miser venga chi è felice
E felice s'istimi il più dolente,
120E che 'l padre e la figlia, d'ira accesi,
Non cerchino altro che dolore e morte.
FUR.
Ecco ch'a pieno ora compimo il tutto.
NEM.
Assai fatt'è; veloci omai tornate
A le case di Dite, a i regni oscuri,
125E accelerate il passo, che l'aspetto
Vostro non può soffrir terra né cielo.
Ecco che 'l sol s'oscura, e da ogni parte
Fuggono da la terra erbette e fiori,
E lasciano le frondi e i frutti i rami,
130E tutto 'l mondo vien pallido e nero.
5.2. SCENA II
OMBRA di Selina, moglie di Sulmone
OMBRA di Selina,
Uscita i' son da le tartaree rive
Onde si son partite or le tre Dee
Che de' dannati ne gli oscuri regni
Prendono grave et immortal supplicio;
5E (come insin là giù la fama suona)
Venute sono a la diurna luce
Per Por furor estremo ne la corte
Del Re Sulmon, già mio crudel marito.
E benché strazio tal esser di lui
10Debba e del sangue suo, che più bramare
Non ne devrei, pur ho voluto anch'io,
Con licenzia di Pluto, or qui venire.
Non che poter accrescer io mi pensi
Mal a Sulmon, che 'l suo fia 'n sommo grande;
15Ma perché questo giorno non si fugga
Et io non faccia a mio poter almeno
De l'aspra morte mia crudel vendetta.
Ma dimmi, ch'uopo t'era da l'inferno,
Nemesi, trar le scelerate Furie
20Per accender furor in questa casa?
Che Furia più potente aver potevi
Di me? Ma poi ch'esse hanno avuto quello
Ufficio ch'a ragion mi si devea,
Perché non resti per me nulla a farsi,
25Portat'ho anch'io questa letal facella
Accesa di mia mano in Flegetonte
Per dar degno splendore a queste nozze
Che già foron secrete, or fian palesi,
Tra Oronte e Orbecche, mia figlia proterva:
30Orbecche, dico, che cagion fu sola
Che Sulmon mi trovasse col mio figlio
E desse ad ambo noi morte crudele.
Così dunque dopo ch'a l'aspro padre,
Al padre traditore, al padre iniquo
35Avrà data spietata e orribil morte,
Vinta dal duolo e da l'ambascia estrema
Che soffrirà poi che veduti uccisi
Avrà il caro marito e ambe due i figli,
Sotto spezie di fé, da l'avo ingiusto,
40Ella con quella man che diede indizio
A Sulmon del mio mal, sé stessa uccida.
Sian l'altre morti de le Furie, questa
Sarà la mia. Cosi verranno insieme
L'avo, la madre et i figliuoli e 'l padre
45A l'ombre oscure, a la infernal regione
Ove da Radamante e da Minosse
Saranno condennati a tai supplicii
Ch'avranno invidia a la spietata sete
Di Tantalo; e parrà lor pena lieve
50Che dia a l'avido augel di sé dur'esca
Tizio infelice; e l'essere aggirato
Sempr'Ission da la volubil ruota
Et il portar del sasso sovra 'l monte
Di Sisifo e cader da l'alta cima
55E qualunque altra pena fia maggiore
Nel cieco carcer de l'oscuro abisso,
Parrà loro un piacere et un trastullo
Appo il tormento ch'essi avran tra noi.
Così del mal lor sazii rimaremo
60Io et il figliuol ch'or ne le stigie parti
Segue, dovunque vada, l'ombra mia
E mi minaccia e mi percuote e sferza,
Solo imputando a me l'aspra sua morte.
Sulmon Sulmon non ti varranno i tetti
65D'oro, né le munite e forti torri,
Né l'aver sotto te gente infinita,
Né a tua custodia aver uomini eletti,
Perché non t'abbia la tua figlia propria
Con mano scelerata a tòr dal busto
70La testa indegna di corona e quelle
Man da le braccia che sì pronte foro
A bruttarsi nel sangue mio e nel sangue
Del tuo primo figliuol sì indegnamente.
Ma perché non poss'io tanto di spazio
75Aver da le mie pene che presente
Esser possa a veder questa ruina?
A che mi ricchiamate, ombre, tra voi
Al fuoco eterno et a l'eterno danno?
Forz'è ch'io torni a i tenebrosi orrori,
80A sostener le consuete pene,
Che più non vuol Pluton che qui dimori:
Però voglio ispedir quanto far debbo.
Altro non resta più per farmi sazia
Se non poter al tutto esser presente;
85Ma poi che 'l mio destin questo mi vieta,
Ne porto almen questo contento meco,
Che pria ch'oggi s'attuffi il sol ne l'onde,
Verranno anch'essi a le tartaree rive
A sostener con me tormenti eterni.
5.3. CORO
CORO
Venere, il cui poter la terra e 'l mare
E 'l cielo e 'l cieco inferno
Sente e quant'è nascosto e quanto appare;
O Dea, dal cui superno,
5Almo valor ogni cosa mortale
Prende ristoro e pace,
Da cui sol quanto piace,
O sia fragil diletto od immortale,
Viene, com'arbor vien da sua radice,
10Né puote in terra o 'n cielo alcun verace
Contento esser giamai, senza il felice
Tuo vivo lume, cui onora e cole
Quanto sostiene il cielo e vede il sole:
Tu sola, quando era ogni cosa oscura
15E senza onor giacea,
Come mastra miglior de la natura,
La lite ingiusta e rea
Che 'n tenebroso orror teneva involto
Tutto il seme del mondo,
20Col tuo lume fecondo
Levasti sì che quant'era ivi occolto
Apristi e 'nsieme le contrarie cose
Legasti ad un, con nodo sì secondo
Che, piene di concordi e d'amorose
25Voglie, rubelle unqua non furon poi
Che sentìr quanto vali e quanto puoi.
Onde divisi for l'acqua e la terra
E 'l lieve aere e 'l fuoco,
La cui concorde e discordevol guerra
30Fece ch'a poco a poco
S'empié di pesci il mar, l'aer d'augelli,
Di varii armenti il suolo;
E non di questo solo,
Ma di frondi e di fior soavi e belli,
35D'arbori e d'erbe e di quantunque vive
Qui sotto il ciel, da l'uno a l'altro polo;
E per le fiamme tue cocenti e vive
Incominciò, pien d'amorosa speme,
A propagarsi in terra il mortal seme.
40Né questo pur, ma il sole anco e la luna
E quante nel ciel sono
Stelle fisse od erranti, ad una ad una
Del tuo poter for dono,
Che sarian, senza te, ne l'ombra ancora
45Co l'altre cose oppresse;
E quelle menti istesse
Che movono i celesti cerchi ogn'ora,
Nulla sarrebbon senza il tuo valore.
Tu principio, tu fin di quanto elesse
50Di generar tra sé l'alto Motore,
Tu sola fai ch'ei con perpetua legge
E providenza eterna il mondo regge.
Onde poi che di tante opre leggiadre
Cagion sei stata e sei,
55Non sostener che morti acerbe et adre
E tanti casi rei
Sostengan questi due miseri amanti
Che tutti a dramma a dramma
Ardon de la tua fiamma.
60Quant'aspre morti e quanti amari pianti
Stan sovra il capo lor, se la tua forza,
Ch'ogni cosa creata accende e 'nfiamma,
A lo influsso del ciel non face forza!
Sì che si volga in allegrezza e 'n canto
65Sì doloroso e miserabil pianto.
Dunque, Dea sacra et alma,
Movanti e giusti prieghi
E fa' che 'l fier destin si muti o pieghi.
FINE DEL PRIMO ATTO
6. ATTO SECONDO
6.1. SCENA I
ORBECCHE figliuola del Re Sulmone, NODRICE
ORB.
Ai, quanto brevi sono i piacer nostri!
Quanto vicin al riso è sempre il pianto!
NOD.
Oh che dolente voce è questa ch'odo!
Parmi che sia la mia Reina: i' voglio
5Veder s'è dessa e che dolor l'afflige.
ORB.
Credo che fa come si dice a punto
La fallace fortuna a me nemica,
Che quanto più piacer ci arreca o gioia,
Tanto maggior dolor n'apporta poi;
10E ch'i fugaci suoi beni non sono
Se non ombra di bene, ma l'angoscie
Son più che 'l ver veraci: et io in me il provo.
NOD.
E che cosa è che sì v'afflige e preme,
Essendo vivo il vostro Oronte e i figli?
ORB.
15Oimè, che la cagion del mio dolore
è troppo più crudel ch'altri non crede!
Nodrice mia, se la spietata morte
M'avesse tolto il mio marito e i figli,
Forse i' sarei la più felice donna
20Che mai nascesse al mondo. Non ch'io brami
O mai bramassi d'alcun d'essi il fine
(Ch'Oronte et essi la mia vita sono),
Ma perch'io veggio ch'assai peggio è ch'ora
Si trovin vivi. è ben morire a tempo
25Un don dato dal cielo.
NOD.
Oimè, ch'è questo?
Mi trafigete il cor, Reina mia,
Co le vostre querele. Oh che principio
Al vostro ragionare avete fatto!
Che strano augurio, oimè misera, è questo!
ORB.
30Egli è, Nodrice mia, pur troppo strano
E infelice son io più d'ogni donna.
NOD.
Oimè, tremar mi fate insino a l'ossa,
Veggendovi si trista! Oimè, Reina,
Ditemi la cagion di sì gran doglia,
35Che forse al vostro mal sarà rimedio.
ORB.
Non perch'io speri al mio languir rimedio,
Ma perché il core pur respira alquanto
Ne l'isfogar le gravi angoscie interne,
Dirotti la cagion del mio gran male.
40Quattro anni ha già, come tu sai, ch'io presi
Per mio marito il mio fedele Oronte,
Senza dirne parola al padre mio.
Et ancor che di noi siano già nati
Due figli, stat'è ciò così secreto
45(Mercé de la prudenza tua) ch'alcuno,
Eccetto te che per mia madre tengo,
Non n'ha sentito pure una parola.
E perché il padre mio si ritrovava
Debole alquanto e di molt'anni carco,
50I' mi pensai ch'ei si dovesse, prima
Che la cosa sapesse, uscir di vita.
Ma il mio destin m'ha ben mostrato quanto
Sia stato il mio sperar fallace e vano
E quanto folli siano i pensier nostri.
55Che ragionando eri il mio padre meco,
Mi disse, dopo molte altre parole:
Orbecche, poi che piacque al Re del cielo
In te sola serbare il seme nostro,
Or che tu sei già pervenuta a gli anni
60Di devere pigliar marito, e essendo
Vago d'averti il Re Selin per moglie,
Che 'l regno tien de' Parti a noi vicino,
Giovane tale, e di stato e d'ingegno,
Che sol tuo deve e non d'altri esser sposo;
65E avendomiti chiesta da sua parte
Lamocche nostro, et io promessa a lui,
I' vo', per quell'amor che mi mostrasti
Sempre portare e che mai sempre fece
Che 'l tuo volere e 'l mio fosse uno istesso,
70Che di quanto fatt'ho resti contenta,
Acciò che 'n questa mia vecchiezza estrema
Vegga la succession de' miei nepoti.
NOD.
Ben fu troppo improviso questo assalto
E da devervi tòrre ogni consiglio.
ORB.
75Poco mancò ch'io non rimasi morta,
Cara Nodrice, al suon di queste voci.
Pur raccogliendo gli smarriti spirti
E dal volto chiamando al cor la doglia,
Così risposi: Padre, quell'amore
80Che fatto ha insino ad or che il voler vostro
Sia stato il mio, mi face ora negarvi
Quanto voi mi chiedete. Oimè meschina
(E a questa voce i' mandai fuora il pianto
Ch'altro su gli occhi che pietà del padre
85V'avea condutto), come potrei senza
Voi stare un'ora al mondo? Ai padre, ai padre,
è ogni contento mio solo in voi posto:
Però per la pietà vi prego ch'io
Vi porto e per l'amor che mi mostrate,
90A non volermi allontanare ancora
Da voi, che sol sete il mio sommo bene.
E qui dal pianto vinta i' tacqui. Et egli,
Non sapendo qual duolo a lagrimare
Mi conducesse, mi basciò la fronte
95E molto ne lodò la mia pietade,
E a pensarvi mi diè termine un giorno
E ritornossi a le sue usate stanze.
Non restò mai di tanto affanno piena
Madre ch'i figli suoi sbranar vist'abbia
100Al lupo fier, quant'io rimasi allora
Colma di doglia e d'angosciosa pena.
Et allargando a le querele il seno
Qui venuta io sono oggi per tempo
Ad aspettare il mio fedele Oronte
105(Che occupato dal Re ne' suoi negozii,
Per mia doglia maggior, non ha potuto
Venir insino ad ora a le mie stanze),
Per potermi pigliar con lui consiglio
E provedere al periglioso caso.
110Ma poi che tu di lui prima sei giunta,
Dammi soccorso a l'ultimo bisogno.
NOD.
Vorrei così or poter farvi contenta,
Reina mia, com'io sono sicura
Ch'al vostro aspro dolor sarà rimedio:
115Però ch'i Dei, la cui bontade mai
Non venne meno a chi si fida in loro
E, come fate voi, gli onora e cole
Con tutto 'l cor, non vi saranno meno
Che benigni e pietosi. Ma vorrei
120Che si non v'affligeste da voi stessa,
Né vi teneste d'ogni speme priva,
Se dato ben v'ha ria fortuna assalto.
Perché, come sapete, è proprio questa
Nostra vita mortale
125Quasi nave che in mar sia a i venti e a l'onda.
Ch'or da crudel tempesta,
Che d'improviso con furor l'assale,
Combattut'è sì ch'or da l'una sponda,
Ora da l'altra oppressa,
130Si vede a canto aver la morte espressa;
E talor con eguale
Corso, senz'alternar di poggia od orza,
Co la soave forza
De l'aurette seconde,
135Solca del salso mar le tranquill'onde:
Ond'è piena talor d'ogni conforto,
E d'affanno talor lungi dal porto.
Però non voglio che voi date 'n preda
A la doglia la mente,
140Che d'ogni mal vi può levare in tutto.
Or fate ch'io vi veda
Contra il fiero destin così possente
Che del vostro valore abbiate il frutto,
E non crediate mai
145Che sian perpetui più del bene i guai.
Anzi, l'esser dolente,
Ov'eravate dianzi così lieta,
Vi può mostrar che queta
Col vostro alto consorte
150Viverete e felice innanzi morte;
E che così succiede al male 'l bene,
Come dopo 'l piacer l'angoscia viene.
Ma mi par buon che vi torniate in casa,
Et io vedrò di ritrovare Oronte
155E di condurlo a voi: ch'io tengo certo
Ch'egli, col suo consiglio, immantinente
Ritroverà rimedio a questo caso
E vi farà col suo senno palese
Ch'o la Fortuna è nulla, o ch'è mortale,
160Non Dea (come s'istima), e 'l suo potere
Forza non ha, s'altri v'oppon lo 'ngegno.
ORB.
Vanne, cara Nodrice, e là ridutti
Ove sai che ridur si suol Oronte,
E tanto aspetta, s'ei non v'è, che venga;
165E senza darli del mio affanno indizio,
Di' che con gran desio l'aspetto in casa.
NOD.
I' vo, Signora, e pregovi ch'almeno
Facciate col dolore intanto tregua.
6.2. SCENA II
NODRICE, ORONTE
NOD.
Quando meco medesma i' vo pensando
A la incostanzia de l'umane cose,
I' veggio che non pur il mondo è nulla,
Ma chi pon speme in lui molto se 'nganna
5E che non è qui cosa ove posare
Possa un fermo giudicio il suo pensiero.
Et io, per gli anni molti e per le molte
Occorrenzie c'ho viste in questa corte
E udit'ho raccontar da varie genti
10E da molti prudenti uomini ho inteso,
Ne posso far ver testimonio a ognuno.
Guardinsi pria l'etadi e poi gli stati
Umani e vederassi apertamente
Ch'altrimenti non è. Prima l'infanzia
15(Chi bene istima) è più d'ogn'età trista,
Come quella ch'è priva di giudicio
E distinguer non sa tra 'l bene e 'l male,
Cosa infelice e di miseria piena.
La gioventù poi, da follia sospinta,
20Non sa per sé medesma ove si volga:
Quel ch'eri le fu grato, oggi le spiace
E seguendo or quello piacer, or questo,
Consuma in vanità tutto 'l suo tempo.
E quando la vecchiezza il crine imbianca
25E fa severo il ciglio e 'l senno accresce,
Et altri il conto fa de' mal messi anni,
Conosce chiaramente ch'ogni cosa
Che gli fu grata ne l'età novella
Fu un sogno, una lieve ombra, un fumo, un vento.
30Né la vecchiezza ha in sé cosa tranquilla,
Anzi 'l vigor perduto et il vedersi
Andare a gran camin verso 'l suo fine,
L'aggiunge grave affanno; oltre ch'i mali,
Le gravi infirmità ch'ella patisce
35E l'essere ella infirmità a sé stessa,
Le disturba ogni gioia, ogni contento.
è vero ben che se l'accresce senno
E prudenzia e consiglio, ma le giova
Poco 'l molto saper per aver requie:
40Perch'uopo non l'è sol ch'ella abbia cura
Di saper proveder a sé medesma,
Ma che provegga a le pazzie de gli altri,
A gli accidenti varii, a la fortuna,
E così sia nemica al suo riposo.
45Or voltiamo a gli stati umani gli occhi
E gli vedremo tutti a un modo tristi.
Se povero l'uom nasce, ha sempre a canto
Gl'incommodi, il disagio e da ciascuno
è disprezzato; e se bene il più saggio
50Egli è del mondo, è giudicato sciocco,
Perché lo stuolo umano oggi si crede
Ch'ove robba non è, non sia prudenzia.
E se 'n mezzano stato altri si trova,
Sempre aspirando a le grandezze eccelse,
55A i favori, a gli onori, a gli alti ufficii,
Al crescere l'aver, mai non ritrova
Cosa che lo contenti o che lo sazii:
Anzi, spento un disio, ne sorge un altro,
E quell'altro è principio a un altro novo.
60Ma che dirò di quei che le corone
Portano in capo et han gli scettri in mano,
Che paion sì felici e sì contenti?
Pare forse ad alcun ch'essi sian fori
De le condizion mortai. Ma tanti
65Tormenti, tante angoscie sotto quelle
Purpuree vesti son, tanti pensieri
Spiacevoli, oimè lassa, e tante cure
Premon quelle soperbe, alte corone,
Che chi passa più dentro e 'l vero scorge,
70Vede che è un mar di cure avere impero.
Oltre ch'i Re maggiori han sempre tanti
Sospetti di velen, sospetti d'arme,
Di tradimenti a torno, che sovente
Invidian le capanne e i vili stati.
75Ma questo saria un giuoco, se 'l lor meglio
Scieglier sapesser pur le menti umane:
Ma credono sovente il meglio avere
Entro le braccia, e trovansivi il peggio.
Onde si può ben dir quel c'ho già udito
80A molti saggi dir, che sol felice
è chiunque nel mondo mai non nasce
O che subito nato se ne more:
E così fugge, come da l'incendio
Levato fosse, l'incostante sorte.
85Che chi vive tra l'aspre e oribil onde
Del mar di questa vita, è sempre un segno
Al fato, al fier destino, a la fortuna;
E ne può dar la mia Reina essempio
A gli altri, che ben serva 'l mondo in lei
90Le sue condizioni a ognun comuni.
Né voglio dir che sia di ciò cagione
L'aver da sé preso marito Oronte;
Perché, volgiti pur da tutti e canti,
Vedrai che sta la penitenza ogn'ora
95Appresso a qualunque uom, faccia egli pure
Ciò che si voglia e stia co gli occhi aperti.
Ver è ben che mi duole insin al core
Vederla così afflitta e così trista.
E s'io potessi in me coglier gli affanni
100Che la trafigon così fieramente,
Ella scarca saria già d'ogni doglia.
Ma non potend'io più di quel ch'io possa
E non essendo ancor venuto Oronte
Qui dove egli suol pur ridursi spesso,
105Voglio veder di ritrovarlo altrove
E di condurlo a lei: ch'è gran piacere
Poter comunicar gli affanni suoi
Con persona che s'ami e da la quale
Si speri aiuto o almen fedel consiglio.
110Ma veggiolo, ch'a tempo esce di casa.
è gran pezza, Signor, che la Reina
Brama vedervi e ragionar con voi.
ORON.
Tornate in casa e ditele ch'io vengo.
6.3. SCENA III
ORONTE, ORBECCHE
ORON.
Difficil è ne l'onde acerbe e crude,
Quando l'irato mar poggia e rinforza,
Tener dritto il temone. Ma non deve
Però esperto nocchier perder si l'arte
5Che da l'ira del mar rimanga vinto
Senza opporsi al furor: che spesse volte
Vince l'altrui valor l'aspra tempesta.
ORB.
Non è meno di me misero Oronte,
Se da gli atti si può vedere il core.
ORON.
10E s'avien pur ch'ei si sommerga in mare,
Gran parte di contento è non avere
Lasciato cosa a far per sua salvezza.
Però prima ch'io ceda a la rea sorte
Che dato m'ha così improviso assalto,
15Usar vo' ogni mia forza, ogni mio ingegno.
E (se non mi s'oppone ascoso inganno)
Spero nel Re che 'l tutto ordina e regge
Vincere al fine la fortuna iniqua.
ORB.
Oimè, che sarà questo? sarà forse
20Giunto novo dolore al nostro affanno?
ORON.
Ma vedi come van le cose al mondo:
Che maritar volendo la sua figlia
Il Re, mi manda me, ch'a lei marito
Sono, ha molt'anni, perch'io la disponga
25Che pigli per marito il Re Selino.
ORB.
Lo veggio molto tristo: ir gli vo' incontro
E insieme si dorremo ambo del male.
ORON.
Ma di là veggio a me venire Orbecche
Tutta maninconiosa lagrimando
30E penso che ne sia la cagion questo:
Però buon fia ch'io le mi vada incontro
Con viso lieto, ancor ch'acerba doglia
I' serri dentro al core, ancor che grave
Sia non manifestar il duol nel volto.
35Dio vi dia, anima mia, pace e contento:
Qual van pensiero a lagrimar vi mena?
ORB.
Oimè, che mi chiedete, Oronte? Unquanco
Non ebbi tal cagion di lamentarmi,
Né voi, se il mio dolor vi fosse noto.
40Giunt'è quell'ora, oimè, giunt'è quel giorno
Del quale esser non puote il più infelice
Per ambo noi. Perché il mio padre vuolmi
Maritare a Selin, gran Re de' Parti,
Onde bisogno fia ch'ora si scuopra
45Quel che ne farà sempre esser dolenti.
ORON.
Dite, Reina, ov'è gito quel core
Che mi mostraste allor ch'a voi marito
Divenni? Ov'è quell'animo reale
Che vi fe' por da canto ogni sospetto
50Allora ch'istimaste più del regno
L'avermi? forse non pensaste allora
Che il tempo, ch'ogni cosa al fin discuopre,
Non devesse mostrare anco palese
Quel che fatto avevam tra noi occulto?
55Non me 'l lascia pensar l'antivedere
Che so ch'è in voi, né la prudenza vostra.
E se l'animo allor di tal temenza
Maggior aveste, a che vi bisogna ora
Tanto dolere? Indarno quel soldato,
60Vita mia dolce, prende in mano l'armi,
Che, poi che vede il suo nemico, trema.
Non vi smarrite: la rea sorte vince
Chi teme, ma s'altrui con core invitto
A lei s'oppone, ella riman perdente:
65Che non nuocono a quei gli strali suoi
Che de la lor virtù si fanno scudo.
Il vostro padre a me il medesmo ha detto
E a voi mi manda perch'ogni arte adopri
A disporvi a voler prender marito:
70E pur non son di tant'affanno pieno
Di quant'or sete voi. Pigliate omai,
Vita mia cara, il vostr'animo invitto
E mostratevi tal ne' casi aversi
Qual conosciuta v'ho ne la seconda
75Fortuna; e insieme a questo novo caso
Provediamo con altro che col pianto:
Che se noi stessi a desperar si demo,
Chi ne porgerà aiuto o chi consiglio ?
ORB.
Par che voi non sapiate quant'è crudo
80L'empio mio padre e quant'ei poco istimi
Stato, imper od onor, figli e sé stesso,
Quando disposto s'è di far vendetta.
Pensate voi ch'ei fia più mite a noi
Ch'al mio fratel sia stato e a la mia madre,
85Quai lo spietato insieme a un colpo uccise?
ORON.
Altra cosa fu quella; e chi ben pensa,
Altra mercé non si doveva ad ambo
Che cruda e acerba morte. Oimè, che grave
Error fu che violasse ella la fede
90Data al marito e la pietà, ch'al padre
Deveva il figlio, sì poco prezzasse
Ch'ei con la propria madre si giacesse.
ORB.
Ben creder si potria che 'l grave oltraggio
L'avesse indutto a sì crudel vendetta,
95Se stato fosse sol contra lor crudo;
Ma non sapete voi quanti e quanti altri,
Senza colpa nessuna, egli ha già morti?
Per qual error uccise il suo fratello,
Ch'avanzava in bontade ogni mortale?
ORON.
100Fu cagione di ciò desio del regno,
Che spesso puote più d'ogni pietade.
Ma lasciando il parlar di ciò da canto,
Novo non m'è che via più d'ognun crudo
Sia stato insino ad ora il vostro padre;
105Ma novo anco non m'è che non è cosa
Ferma così che non la cangi il tempo
E che non è cor si ostinato e duro
Ch'a lung'andar non s'ammollisca alquanto.
Il Re Sulmone è vecchio e la vecchiezza
110Scemar in parte suol l'ira e l'orgoglio
E 'l sangue acceso intepidire in parte,
Si che 'l furore a la ragion dia luoco.
Però vo' che sia grave il nostro errore
E ch'ambo degni siam di cruda pena:
115La grave etade in cui egli si trova,
Ne la qual suol poter senno e pietade,
Farà al Re più che 'l sol chiaro vedere
Che maggior il suo error del nostro fora
S'egli, per molta età maturo e saggio,
120A cosa che tornar non puote a dietro
Penserà proveder co l'esser crudo.
Che saria poi, dopo ch'egli ambo noi
Uccisi avesse e i figli ? saria forse
Ch'io non vi fossi, come son, marito?
125Voi non mi foste, come sete, moglie?
Pero son certo che se l'ira al male
Lo spignerà, la ragione anco in parte
Gli mostrerà quel che fia il meglio; e pure
Ch'ei dia alquanto di spazio a l'ira, i' penso
130Ch'ei non sarà crudel come pensate:
Che viene e fugge in poco tempo l'ira,
E se subito l'impeto non face,
Ella riman come ne resta l'ape
Dopo che perdut'ha l'aco onde pugne.
135E quando pure incrudelire ei voglia,
Moglie mia cara, contra noi, il nostro
Dolersi o lamentar poco rileva;
E meglio tengo che n'affliga e strazii
La crudeltade altrui, che 'l timor nostro.
140Però, volgendo ad altro omai la mente
Ch'a i sospiri e pensando al nostro meglio,
A me par buon (quando a voi paia) ch'io
Malecche trovi, a cui molto il Re nostro
Crede e noi di cor ama; et io lo preghi
145Che col modo miglior che parrà a lui
Faccia noto al Re questo. E ne' Dei spero
Che di Malecche fia tanto lo ingegno
Che queterà questa tempesta orrenda
Che, nata nel tranquil del nostro stato,
150Sì ne minaccia.
ORB.
Oronte, i' son confusa
Né so dove piegar la mente i' debba.
Cosa alcuna non ho che mi dia speme,
Come molte mi danno aspro timore:
è cresciuto co gli anni nel mio padre
155L'animo fiero e s'ha cangiato il pelo
Non ha però cangiato ancora il vezzo.
Ma perché ne gli estremi e crudi casi
Pigliar si dee quel più saggio consiglio
Che s'offre, fate quanto a voi par buono;
160E di ciò che da voi fia fatto, anch'io
Mi rimarò con voi paga e contenta.
ORON.
Io dunque me n'andrò a trovar Malecche:
Datevi intanto voi pace e sperate
Che ne saranno i Dei anco benigni.
ORB.
165Dio voglia che così la cosa stia,
Ma temo che 'l contrario non avenga.
Pur senza voi non mi lasciate molto,
O buona che ne sia la nova o rea.
ORON.
Cosi farò: restate in pace.
ORB.
A Dio.
6.4. SCENA IIII
ORBECCHE sola
ORBECCHE
Par che chi miser è poco dia fede
A speme alcuna e sempre il peggio tema;
Poi pare ancor che quel ch'egli più brama
Aver pur debba il disiato fine.
5Cosi da questi due contrari anch'io
Mi trovo combattuta. E da una parte,
L'essere unica figlia al Re Sulmone,
E l'esser tanto caro a lui Oronte
Quanto figliuol gli fosse, e la pietade
10Ch'egli m'ha sempre mostro, ancor ch'ei sia
Via più d'ognun crudele, e l'alte lodi
Ch'egli ha palesemente a Oronte date,
Mi dan qualche speranza. Ma da l'altra,
L'essere Oronte di vil sangue nato
15(Seguendo l'oppenion
del vulgo sciocco
Che gentil crede sol chi ha copia d'oro)
E potendomi dar a un Re per moglie
Il Re mio padre, a tal timor me induce
Ch'io tremo come l'anitra che vede
20Sovra sé il fier astor per divorarla.
è vero ben che s'ei volesse a pieno
Co lo intiero giudicio a parte a parte
Considerare 'l giusto e non volesse
Che più potesse in lui l'oro e la sete
25Del regno e de l'aver che la virtute,
Io son sicura che non pur errore
Non giudicheria il mio, ma di gran loda
Mi terria degna, che più tosto avessi
Voluto un uom il qual non cieco errore
30O desio folle, ma giudicio certo,
Scieglier m'ha fatto tra mill'altri illustri,
Quantunque pover sia, ch'un Re possente
Atto più tosto ad ogni vil ufficio
Che lo scettro real tenere in mano.
35Ancor che paia questi al padre mio,
Cui ha velato gli occhi il costui stato,
Il primo Re che mai corona avesse:
Quasi ch'egli non sappia ch'assai meglio
è a donna avere un uom cui sia mestieri
40D'oro, che l'or cui sia mestier d'un uomo.
Ma la fame d'aver tant'è cresciuta
Che non s'istima al mondo altro che l'oro.
Povera e nuda va la virtù istessa.
Ai sciocca oppenion del volgo errante,
45Ai grave error ch'i mortali occhi appanna,
Quant'altri in ciò se 'nganna! Ma lasciando
Questo da parte e a me tornando, io veggio
Ch'altro esser non mi fa trista e infelice
Che l'esser donna. O sesso al mondo in ira,
50Sesso pien di miserie e pien d'affanni
Et a te stesso, non ch'ad altri, in odio!
Non credo (se lo stato miser guardo
Di noi donne) ch'al mondo si ritrovi
Sorte sì trista tra l'umane cose
55Che la nostra infelice non l'avanzi.
Noi spesso insin nel ventre de la madre
(Pel primo don ch'a noi dà la natura,
Madre a ogn'altro animale, a noi madrigna)
Semo dal padre istesso avute in odio.
60Et ove nasce ogn'animale in terra,
Per vil ch'egli si sia, libero e sciolto
(Don che prezzar si dee più che la vita),
Noi, lassa, noi a le catene, a i ceppi,
Oimè, nascemo e a servitù continova.
65Perché sì tosto che conoscer nulla
Possiamo, benché tenere fanciulle,
Com'a perpetuo carcere dannate,
Sotto l'arbitrio altrui sempre viviamo
Con continovo timor, né pur ne lece
70Volger un occhio in parte ove non voglia
Chi di noi cura tiene. E dopo quando
Pur dovremmo spirar alquanto e avere
Almen marito a nostra scielta (ancora
Che non mutiam per ciò sorte né stato
75Ma supponiamo il collo a novo giogo),
La madre, il padre od il fratello od altri,
Al cui severo arbitrio semo date,
Legano il voler nostro e ne conviene
Prender marito a lor volere e ch'essi
80Contenti siano. E noi, che con la dote
Comperiamo i mariti e abbiam con loro
Viver fin a la morte, a tal siam date
Che più che 'l dispiacer sempre ne spiace.
E se forse da noi prendiam marito
85E vogliam far nostro desir contento,
Stiamo a sentenza dura e proviam bene,
Con sommo nostro mal, che cosa importi
Uscir de l'altrui voglie. E chi nol crede
In me si specchi e la mia sorte attenda.
90A me regno non giova o real sangue,
Né porpora, né scettro, né corona
Esser mi fa di questa sorte fuori.
Anzi, quanto maggior veggio il mio stato,
Tanto più grave la sentenza aspetto.
95Deh non foss'io nel cieco mondo nata,
O morta fossi in un momento in fasce,
Più tosto ch'a si reo stato esser giunta!
Ma a che vo pur giungendo pianto a pianto,
E querele a i lamenti? In van sospiro,
100E quanto più penso isfogare il core,
Tanto più da dolere anco m'avanza.
Però chiudendo il mio dolor nel petto
Attenderò quel ch'i contrari fati
Disporranno di me misera e trista.
6.5. CORO
CORO
Come corrente rio sempre discorre
E non è mai una medesma l'onda,
Ma fuggendo la prima, la seconda
Succiede e un'altra a questa;
5Così il viver mortal nostro trascorre
E non siamo oggi quelli
Ch'eri eravamo e presta
Più che saetta da nascosto viene
La debole vecchiezza e i bianchi velli
10Accompagnati da dolenti pene.
Misero chi pon spene
Ne le cose mortai! Quanto se inganna
Chi pensa esser poter felice in terra,
Ove in continova guerra
15Sono le cose sempre!
E s'avien pur ch'alcuna volta tempre
Qualche piacere il mal, tosto n'afferra
Doglia maggiore e a pena il bene appare
Ch'egli, qual neve al sol, tosto dispare.
20Dunque perché nostro veder s'appanna?
Perché la nostra mente
Si dispone a sperare
In quel che prezza più la sciocca gente?
Non sente ella, non sente
25Che quanto piace al mondo è fumo et ombra
Ch'i cor mortali ingombra?
Felice chi inalzare
Puote il pensiero ardente
Là dove nulla il ver piacer adombra,
30E sì del cor si sgombra
I van desiri e le speranze false
Che di quanto gli calse
Tra noi mai per l'adietro
Diviene così schivo
35Che non solo si duole
Essere stato del ver bene privo,
Ma vede assai più chiar che non è 'l sole
Che son tutti di vetro
I mondani contenti
40Et assai men ch'i lievi venti fermi.
E chi nol crede, fermi
(Lasciando il vanneggiar mortal a dietro)
Gli occhi ne' dolorosi aspri tormenti
Di questi amanti a cui pensar m'impetro,
45Che si tenean tra più felici i primi.
Chi fia che giusto istimi
E non giudichi infermi
I piacer nostri e più ch'ombra fugace
Tutto quel che tra noi diletta e piace ?
FINE DEL SECONDO ATTO
7. ATTO TERZO
7.1. SCENA I
MALECCHE solo, consiglieri del Re
MALECCHE
Io veggio a la giornata avenir cose
Che mi fan giudicar senza alcun dubbio
Che poco veggia la prudenza umana.
E s'altro non vi fosse, questo solo
5Ch'or ora in casa m'ha narrato Oronte,
Più chiaro assai che non è il sol me 'l mostra.
Più volte e più pregato ho il Re Sulmone
Che desse per marito Oronte a Orbecche,
E adducend'egli a me certi rispetti,
10Deboli certo, ha recusato sempre
Voler far questo; e quasi ch'ei pensasse
Che fosse la sua figlia men de l'altre
Pronta ad amare o non sapesse ei quanto
Possa uno sguardo, una parola, un riso
15A destare in altrui fiamma amorosa,
Lasciat'ha conversar tanto allo stretto
Questi due insieme, che la cosa ha avuto
L'effetto che deveva aver, né mai
Pensai che ne potesse altro avenire
20Che quello ch'avenut'esser si vede.
Che giovane amorose e dilicate
E nodrite ne gli ozii e ne' diletti
Conversino con giovani gentili
E non s'accenda fiamma ardente in essi,
25Stolt'è chi il pensa. Amor ha sempre l'arco
E le saette in man, pronto a ferire;
Onde s'alcuno aver dee di ciò biasmo,
Non si puote già dir che ne sia senza
Il Re Sulmon: perdonimi sua altezza.
30Non sapeva egli ch'a fatica il freno
Altri pone al desio, quando l'etade,
Il commodo, l'amor, la beltà altrui
Gli sprona il cor a l'amorosa impresa?
Ma ritornando onde ci dispartimmo,
35Ancora che mi piaccia che sia omai
Marito Oronte a la Reina mia,
Parendomi che proprio la natura
Avesse questi due fatt'a tal fine,
Pur m'è di grave affanno che 'l Re nostro
40Non vi sia intervenuto et ho per certo
Che com'ei questa cosa intende, a l'ira,
A l'impeto, al furor si darà tutto.
E già mi par veder arderli il volto,
Et a placarlo fia difficil cosa:
45Sì perch'egli avea già promessa Orbecche
Al Re Selin, sì perché i Re, i Signori
Han, pel più, questo vizio in loro impresso,
Che com'han recusato una sol volta
Alcuna cosa, ancor che buona sia
50E d'utile e d'onore a l'esser loro,
Se bene andar poi vi devesse il regno,
Per non parere avere errato prima,
Non vogliono più mai ridursi a farla.
Io so che 'l Re ben conosceva Oronte
55Degno de la sua figlia e ch'egli istesso
Non le sapea trovar miglior marito;
Ma l'ostinazion tanto ha potuto
Che n'è rimasa vinta la ragione
Et ha sprezzato ogni fedel consiglio.
60Così temo ch'ancor l'ira e lo sdegno
Non faccia in ciò avenir sinistro effetto.
Ma poi ch'astretto m'ha co' preghi Oronte
Che ciò palesi al mio Signore e veggia
Con quel modo miglior ch'a me fia offerto
65Ch'ei di quanto fatt'è resti contento
E col voler divino si conformi,
Ancor che dura impresa assunta i' m'abbia
E mi paia impossibil questa cosa,
Pur non voglio restar ch'ogni mio ingegno
70Non usi e tenti ogni possibil opra
Perché nasca tra lor pace e contento:
Sì per utilità di tutto il regno,
Sì per bene comun d'ambe le parti.
Ma non voglio ire al Re, com'andar soglio
75Quando per l'occorrenzie e per l'imprese
De la corona ragioniamo insieme.
Aspetterò ch'egli a diporto venga
Qui dove suol, d'ogni altra cura scarco:
Che l'opportunità fa aver sovente
80Quel che senz'essa non si avrebbe mai;
E con l'occasion ch'allor migliore
Mi s'offrirà, farò l'ufficio a pieno.
Ma veggio ch'egli vien: voglio ritrarmi
Quivi in disparte e finger non vederlo
85Et aspettar che chiedere mi faccia
Per qualche messo, prima ch'io mi mova,
Perché non paia che qui atteso i' l'abbia
Per volerli di ciò mover parola,
7.2. SCENA II
SULMONE Re, MESSO, MALECCHE
SUL.
È quel ch'io veggio là Malecche?
MES.
È desso.
SUL.
Vanne a lui e li di' ch'a me ne venga
Con esso teco di presente.
MAL.
Parmi
Che fieramente sia turbato in vista
5Il Re, cosa che 'n lui esser non suole
Quando qui si riduce, né pensare
Mi posso la cagion ch'a ciò lo spinga,
Che le cose del regno han pur quiete;
S'oggi non è forse risorta cosa
10Ch'ancor venuta non mi sia a l'orecchie.
Il poter ragionare oggi d'Oronte
Mi sarà tolto.
MES.
Il Re nostro vi chiede,
Signor Malecche.
MAL.
I' vengo, ma di grazia
Dimmi, se forse il sai, che vuol dir ch'egli
15Si mostra sì turbato ne l'aspetto?
MES.
Nol so, Signor, ma gran dolore il preme
E istimo che sia in corte la cagione
Del suo dolore e che non sia da giuoco:
Che non suol un gran Re per cosa lieve
20Lasciar che 'n esso possa ira né sdegno
O mostrar fuor così palese il core.
MAL.
Che quel da me la vostra altezza?
SUL.
Andate
Voi altri in casa. Il saperai ben tosto
E vedrai ch'oggi non si trova fede
25Né pietà al mondo; e quanto un Re può male
Conoscer fede in famigliare alcuno,
Quand'i medesmi figli lor fan froda.
MAL.
Sarà palese al Re per altra via
Il tutto: ogni secreto alfin si scuopre.
SUL.
30La mia figliuola, in cui sola avea posto
Tutta la speme mia, tutto il mio bene,
Per cui sola i' sperava questo poco
Di viver che m'avanza esser contento,
Mostrato m'ha quanto sia stato folle
35Il mio pensiero e quanto infide e ingrate
Siano le donne tutte e ch'al lor peggio
S'appiglian sempre. Costei che poteva
Aver Selino, un de' gran Re del mondo,
Per suo marito, ha preso un che di vile
40Sangue creato insin da' suoi primi anni
Ne la mia corte s'è nodrito.
MAL.
E questi
Chi è egli stato?
SUL.
Il traditor d'Oronte,
Che mi si dimostrava sì fedele;
E due figliuoli già d'essi son nati.
MAL.
45Et ond'avete voi saputo questo?
Da essi forse?
SUL.
No, da la Giglietta
Sua cameriera, che dolersi insieme
Oggi sentito gli ha dopo ch'io dissi
Di dare a lei Selino e mandai lui
50A pregarla a disporsi al voler mio.
Oh, se veduto avesti con che viso
Dissimulò la dislealtade Oronte
Quand'io questo l'imposi e come pronto
Si mostrò a farlo, avresti detto certo
55Che più fedel di lui non avea in corte.
E se sentito avesti le parole
De la mia scelerata e iniqua figlia
E udite le querele e visti i pianti
Che da gli occhi versò, fingendo amore
60Verso di me, certo creduto avresti
Che figlia non amasse padre mai
Tanto, quanto costei mostrava amarmi.
Ma stiano ambo sicuri che n'avranno
Guiderdone da me degno del fallo.
65Ma pria ch'io mi disponga a la vendetta,
Voluto ho che tu intenda quanto i' m'abbia
Di tal figlia lodare e di tal servo
E pigliar teco il modo con ch'io possa
Di tal oltraggio far piena vendetta:
70Che gran vendetta grave ingiuria amorza.
Sì che bramo d'udir ciò che ti paia
Ch'io debba far in casi acerba offesa.
MAL.
Duolmi, Signore, ch'avenuta cosa
Vi sia che si vi spiaccia e s'io potessi
75Far che 'l fatto non fosse, i' farei certo
Quel ch'a servo fedel far si conviene.
Ma essendomi ciò tolto e voi chiedendo
Che 'l parer mio sovra di ciò vi dica,
I' dico, Sir, poi ch'altro non si puote,
80Ch'assai meglio sarà de la vendetta
Accommodarsi al tempo, a la fortuna,
Che la prudenzia altrui qui si conosce.
Alcun non è che la seconda sorte
Non sappia lietamente sostenere,
85Ma pochi son che la fortuna aversa
Sappiano tolerar prudentemente.
E come si conosce un buon nocchiero
Quando il mar freme e la tempesta cresce,
Via più che quando il mar senza onda giace,
90Così, Signor, l'altrui valore e 'l senno
Ne le cose contrarie a pien si mostra.
Però assai meglio fia che vostra altezza
Perdoni loro il lor fallir e tenga
L'un per gener fedel, l'altra per figlia:
95Sì perché basta che menoma pena
Imponga per gran fallo a i figli il padre,
Sì perché 'l far vendetta è d'ognun proprio,
Ma il perdonare è da Signor gentile.
E quanto d'un uomo è maggior lo stato,
100Tant'esser dee di più placabil ira,
E quanto men quest'è osservato al mondo,
Tant'esser dee da più tenuto quello
Ch'ad atto sì cortese il core inchina.
SUL.
Avrò per figlia una che me da padre
105Non tiene? e per fedele un che me 'nganna?
Semplice ben sarei più d'ogni sciocco
S'io mi lasciassi por questa su gli occhi
E non mostrassi a l'uno e a l'altro quanto
Aver poco rispetto a un Re sia grave.
110Vedrà quel traditor, vedrà la figlia
(Se figlia si dee dir femina tale)
Ciò che possan gli scettri e le corone
E s'io saprò mostrare ad ambo loro
(Com'a molti ho mostrato) esser Re vero.
MAL.
115Signor, gli scettri e le corone mai
O 'l far vendetta de gli oltraggi avuti
Non mostraro alcun Re.
SUL.
Ma che 'l dimostra?
Ch'ei s'offra a ognun per manifesto segno
120Ove si drizzi ogni nefanda ingiuria?
MAL.
Questo non dico io, Sir, che un uom Re mostri,
Ma un animo gentile, un core invitto,
Una ferma prudenzia, un pensier saldo
Di dominar, più di ciascun, sé stesso;
125E questo è posseder maggiore impero
Che se servisse a un Re l'orto e l'occaso.
Com'esser può ch'altri mai regga altrui
E regger sé non sappia? Il maggior segno
Che mostrar possa un uom degno d'impero,
130è non lasciar sé vincere al furore,
Che spesso l'uom conduce ov'ir non deve.
E s'è così, come cert'è palese,
Qual mai più certa prova, alto Signore,
Potrete voi mostrar d'esser Re vero,
135Di questa che vi s'offre ora dinanzi?
SUL.
Dar mi vuoi a veder che 'l bianco è nero
E che l'espresso mal mi torna in bene,
Malecche? quasi ch'un fanciullo i' fossi
E scerner non sapessi il ver dal falso?
140Tu sei ben fuor di te.
MAL.
Dite, Signore,
Di me ciò che vi piace, ch'ogni cosa
Che mi viene da voi m'è onore e pregio.
Ma ben vi prego che vi piaccia udire
(Poi che chiesto l'avete) il parer mio:
145Che per ciò non si toglie a voi l'arbitrio
Che non facciate ciò che vi fia a grado.
E vi prego anco che per certo abbiate
Che non sono per dirvi altro che 'l vero
E che m'è via più a core il vostro meglio
150Che 'l proprio mio, non che quel d'alcun altro.
SUL.
Or segui.
MAL.
Invitto Sire, i' tengo certo
Che quanto l'uomo più l'animo piega
A la virtute, ch'è sol propria a l'uomo,
Tanto più sovra ogn'uomo uomo si scuopra.
155Però quant'altri più umanità mostra,
Tanto più giustamente uom si può dire.
Appresso i' credo che quanto più onore
A gli alti pregi suoi aggiunge altrui,
Tanto più la sua gloria e 'l pregio accresca.
160E per queste ragioni or i' conchiudo
Che se volete che da ognun si dica
Che quanto voi di gran potenzia e stato
Di gran lunga avanzate ogni mortale,
Così anco molto e molto il sovrastate
165In mostrarv'uom, devete dar perdono
A la figliuola e a Oronte; e che la gloria
Ch'acquisterete in perdonar tal fallo
Farà maggior qualunque vostr'onore.
Ch'ancora che vi sia di somma loda
170L'aver tante battaglie e tante vinte
E soperati i popoli nemici
Et estesi i confini de l'impero
Tanto quant'altro Re mai fosse in Persia,
Pur non istimo ch'ugguagliar si possa
175A questa quella loda. Perch'al mondo
Forza non è sì grande o sì gran copia
Di genti armate o sì munite torri
Ch'esser non possan superate in tutto
Dal ferro, dal valor, da la potenzia.
180Ma vincer sé medesmo e temprar l'ira
E dar perdono a chi merita pena
E ne l'ira medesma, ch'è nemica
A la prudenzia et al consiglio altrui,
Mostrar senno, valor, pietà, clemenzia,
185Non pur opera istimo di Re invitto,
Ma d'uom ch'assimigliar si possa a Dio.
Questa sol è, sol questa è la vittoria
Vera nel mondo, e sol di questa deve
Sovra ogn'altro trionfo un Re lodarsi:
190Perché 'n vittoria tal non riman parte
Ch'appartenga a' soldati o a la fortuna,
Ma tutta del Re solo è questa gloria.
Però i' vo', Sir, che voi pensiate certo
Che perdonando questo fallo, come
195Devete perdonar, non pur voi stesso,
Ma la vittoria istessa avrete vinto;
E che non sarà gente o lingua alcuna
Che per così onorata e sì bell'opra
Non alzi il vostro nome insino al cielo.
SUL.
200Facile è dar ne' casi altrui consiglio,
Ma se tu fossi me, ciò non diresti.
MAL.
Signor, per quella fé che vi mi stringe
E vi mi fa leale e fedel servo,
Altro non vi dic'or di quel ch'io sento
205E di quel ch'io farei s'io fossi voi.
E quando i' mi pensassi che 'n piacere
Vi fosse che più oltre i' ragionassi
Di questo, forse, oltre le ragion dette,
I' vi farei veder con più efficaci
210(Non perch'io istimi esser di voi più saggio,
Ch'avanzate in prudenza ogni mortale,
Ma perch'io so che spesso l'ira toglie
Il veder ad altrui quel che bisogna)
Ch'altro far non si dee di quel ch'io dico,
215In cosa tal che voi anco direste
Ch'io dico il ver.
SUI.
Di' pur cio che ti piace
Senza sospetto alcun, che mi fia a grado
Udirti.
MAL.
Adunque, alto Signore, i' dico
220Che non è, come dite, traditore
Oronte, per aver questo comesso.
Ben traditore ei si potrebbe dire
Se l'onor tolto a vostra figlia avesse
Senza averla per moglie, com'a molti
225Oggi veggiamo far. Ma poscia ch'ella
Mogliera gli è, non so veder che questo
Altro ch'error d'amor chiamar si possa.
E se volete incrudelire or tanto
Contra costui che con sì ferma fede
230La cara vostra figlia ha amato et ama,
Chi prometter si può bene di voi?
Si deono perdonar simili errori
Da un magnanimo core, e lo vi mostra
Pisistrato a cui fu la figlia propria
235Basciata da l'amante ne la strada.
Egli non corse a le catene, a i ceppi
O a' martiri o a la morte, come molti
De' suoi volean; ma sapendo ei che male
(Per chiara isperienza e certi essempi)
240Resister puote un giovane a le fiamme
D'amore, n'iscusò l'acceso amante
E del comesso error diè lui perdono:
Volendo che più tosto la ragione
Cosa il facesse far degna di lui,
245Che fuor del giusto il traportasse l'ira;
Sapendo che ne segue la vendetta
Fatta senza ragion la penitenzia,
La quale, essendo intempestiva e tarda,
Altro non porta a l'uom ch'affanno e doglia.
250Forse direte ch'a ragion vi mena
A far vendetta contra Oronte il vile
Stato in ch'egli già nacque, a l'alto vostro
Difforme in tutto. Et io vi dico, Sire,
Che l'esser nato di vil sangue Oronte
255(Per quanto insino ad ora abbiamo inteso,
Ch'esser potrebbe forse anco il contrario)
Accender non vi dee contra di lui.
E lasciando or da parte che siam nati
Da un medesmo principio tutti e uguali
260N'abbia prodotti qui l'alma natura,
Se la cieca, fallace e ria fortuna,
Ch'a ogni spirto gentil sempre è nemica,
Riguardo avesse avuto a la virtute,
Ch'ecceder sola fa in nobiltà altrui,
265Degno era Oronte d'ogni grande impero;
Né testimonio voglio altro che 'l vostro
A provar questo: che quantunque servo
Insino da fanciul l'abbiate avuto,
Conosciuto ch'avete il suo valore,
270In questa verde età l'avete dato
Tutto lo stato vostro ne le mani,
Più tosto ch'a nessun de' più maturi
De la progenie vostra. Ond'io ne lodo,
Invitto Sire (se mi lece dire
275Quel ch'io sento di questo), in questa parte
Molto il consiglio de la figlia vostra
Che voi così dannate: che più tosto
Abbia voluto un uom di basso stato
Ma d'animo real, ch'un Re ch'avesse
280Imperio grande e cor d'un uom del vulgo.
Né perch'Oronte sia povero deve
Esser men caro a voi, perché l'avere,
I ben de la fortuna, ch'oggi sono
D'uno e diman d'un altro, son caduchi
285E si vengono e van qual onda al litto:
Onde spesso si vede che quei c'hanno
L'arche gravi d'argento e gravi d'oro
Divengono mendichi e ch'i mendichi
Son alzati a gli scettri, a le corone.
290E per questo io non ho istimato mai
Ch'altri per molto aver si possa dire
O nobile o gentil, com'altri crede
Parmi che sia ne la virtute sola
(Stabil bene de l'uom) nobiltà vera
295E ch'ella più d'ogni richezza vaglia.
E più dirò: che povertade onesta,
Da nobili virtuti accompagnata,
Stat'è preposta da' più saggi a i regni
Et a' maggiori imperi; et hanno tanto
300Tenuto un uom potente, quanto in lui
Han veduto virtute. Ma se pure
Sol i gran regni appresso di voi ponno,
Può vostra altezza, Sir, porger rimedio
A quest'oltraggio, a questa grave ingiuria
305Che fatt'ha a Oronte la fortuna iniqua.
SUL.
Che poss'io forse far d'una colomba
Un'aquila? o d'un toppo un leon fiero?
MAL.
Sì potete, Signor, quando vi piaccia:
Perché non avendo altri voi che questa
310Figlia, lasciar potete Oronte et ella
Del regno eredi e a questo modo avrete
Gener ugual al vostro eccelso stato.
SUL.
Io lo farò ben Re per modo tale
Che gli dorrà d'avermi unqua veduto.
MAL.
315Egli è ne le man vostre, far potete
Di lui ciò che vi piace. Ma se l'ira
Cederà in parte a la ragione, al giusto,
Muterete consiglio e voi voi stesso
Riprenderete di sì stran pensiero;
320E non permetterete che quel core
Che vincer non potero arme nemiche,
A un subito furore or come vile
Si sopponga e di Re divenga servo.
Tanto più quanto mi dà il cor mostrarvi
325Che quando avesse ben Oronte errato,
Il gran giudicio della figlia vostra
In aversi più tosto che Selino
Eletto Oronte per marito, merta
Ch'ad ambedue doniate omai perdono.
SUL.
330Tu mi vuoi far, Malecche, uscir del giusto
Con queste tue parole.
MAL.
Ah, Sir, di grazia
Non v'adirate e piacciavi ch'io segua
A dirvi questo poco che m'avanza.
Che s'io non vi dimostro ch'assai meglio
335Di voi ha eletto in maritarsi Orbecche
E che di maggior utile e più requie
E più contento esser vi deve ch'ella
Più tosto Oronte abbia che 'l Re Selino,
Io voglio che non pur l'ira sfogiate
340Sovra ambo lor, ma sovra questo vecchio
Che torria di morir per l'onor vostro.
SUL.
Deh, se questo mi mostri, creder voglio
Che si possan nodrir ne l'aria i cervi.
MAL.
Mostrerolvi, Signor, pur che vi piaccia
345Deppor lo sdegno e dar benigna udienza
A quel ch'io vi dirò con vera fede.
SUL.
Or segui.
MAL.
Voi, eccelso Sir, la figlia
Dar volevate per mogliera ad uno
La cui progenie al vostro regno infesta
350è stata sempre, ad un che non ha un anno
Che due figliuoli e due fratei v'ha morti
E tanto sangue sparso a la campagna
Del popul vostro che ne grida e geme
Ancor questa città di parte in parte:
355Et ella ha tolto un che la morte e 'l fuoco
Col suo invitto valor ben mille volte
Levato ha 'n tutto da l'impero vostro.
SUL.
E questo è quel che più mi pesa e duole,
Che così i' volea por un giorno fine
360A tante guerre e fermar ben la pace
Al popul mio, né via miglior di questa
Si potea ritrovar.
MAL.
Dunque, Signore,
Pensate voi che quella man ch'ancora
Stilla del sangue de' parenti vostri
365Et ha da far di tant'altri vendetta
Che morti son da la sua parte, mai
Debba portare al popul vostro pace?
Io crederei più tosto che la neve
Esser potesse fuoco e 'l fuoco ghiaccio,
370Che ciò mai fosse stato. Ei mi parea
Veder ir sottosopra il vostro regno
E tutta al fin la vostra gente serva.
Oh se sentito aveste, Sir, com'io,
Quanto aborrisce questo il popul tutto,
375Giudichereste che l'eterno Giove
Concesso a vostra figlia avesse Oronte
Per levarvi d'impaccio e darvi requie!
E che sapete che non pari insidie,
Sotto questa coperta, il Re Selino
380Al vostro capo, al vostro stato tutto,
Per ottenere con inganno quello
Che con valore alcun non ha potuto?
Cosa alcuna sicura in un nemico
Istimar non si deve; anzi, s'ei mostra
385Volerti esser amico e cercar pace,
Dèi allor più temer guerra crudele.
Non sapete, Signor, che sotto spezie
Di parentado e di maritai legge
Condusse già d'Egitto i figli a morte
390Danao fiero? Forse a questo ancora
Aspira ora Selino. Oh quant'è meglio
Ch'abbiate gener che da voi conosca
L'impero, ch'un che voi d'impero privi
O vi dia almen cagion di lungo affanno!
395Già merta questa età canuta e grave
Pace e riposo, non travaglio o guerra.
SUL.
Chi volesse sempr'ir dietro a' sospetti,
Non si conduria a fin mai cosa alcuna.
MAL.
Già non si dè, alto Sir, per ogni cosa
400Temer, ma chi non teme anco di quello
Che potrebbe avenir, molto s'inganna,
Massimamente quand'i fatti altrui
Pongono l'avenire innanzi a gli occhi.
Felici quei che da i successi d'altri
405Si fanno cauti! Ond'io vi prego, Sire,
Che più tosto vogliate che gli altrui
Casi a voi diano lume, ch'altri pigli
Da la fortuna vostra altiero essempio.
Ma lasciam, se vi par, tutte da canto
410Queste ragioni, ancor che siano tali
Che vi devrian piegar se fost'un marmo.
Quanto vi fia di biasimo s'or voi,
Che carco sete di molt'anni e saggio
Sovra ogn'altro Signor che regga il mondo,
415Lasciate la ragion sì in preda a l'ira
Che quel che 'n gioventù biasmato avreste
In qualunque uom, vogliate ora far vecchio?
Deh piacciavi, Signor, ch'Oronte e Orbecche
Sian più tosto biasmati del lor fallo,
420Al qual condutto gli ha poco vedere
E che puote emendare il vostro senno,
Che con inesorabil impietade
Voi ne macchiate la prudenza vostra
Et il nome real pel fallir loro:
425Che ciò giunger sarebbe errore a errore,
Non emendar quel ch'emendar cercate.
E tengo meglio ch'un riceva ingiuria,
Che per vendetta far macchi il suo onore;
Et è assai meglio, Sir, che vi dispiaccia
430Questo lor fatto, ch'a buon fin può uscire
Et a contento vostro, che per fare
Vendetta impetuosa, poi col tempo
Ne dispiacciate voi a voi medesmo:
Ch'altro non può avenir di ciò, se voi
435Date in preda al furor l'animo vostro.
SUL.
Dura cos'è, Malecche, che da l'ira
Non sia vinto quell'uom che da coloro
Che devriano onorarlo e riverirlo
E mostrarlisi grati de' piaceri,
440Nel proprio sangue vede farsi oltraggio.
La ragion non può a l'ira in ciò por freno
E veggonsi ogni dì di questo essempi.
MAL.
Sì, in que', Signor, che son senza ragione
Et entro a sé non han virtù che possa
445Mostrarli il ver, quando gli assale l'ira;
Anzi, quanto altri più cerca levarli
Fuor del furor con dimostrarli il vero,
Tanto vi si sommergon maggiormente.
Ma se pur l'ira un uom prudente assale
450(Che non è in noi frenar gl'impeti primi),
Sì ch' egli il meglio suo da sé non vegga,
Tosto che gli si fa vedere il giusto,
Apre lo 'ngegno e da sé scaccia l'ira.
E s'io per lunga prova non sapessi
455Quanto sia immensa la virtute vostra
E quanto volentieri a la ragione
Vi date in guida, i' non m'avrei giamai
Preso baldanza di mostrarvi quello
Che con lungo parlar vi ho dimostrato.
460E così come il saper vostro e 'l vostro
Saggio consiglio e la prudenza vostra
M'han dato ardir di dir quel ch'i' v'ho detto,
Ora anco m'assicuran quelle istesse
Alte virtuti che la vostra altezza
465S'appiglierà al miglior e vedrà chiaro
Che non dee questo error tòrvi ch'Oronte
E la figlia da voi perdon non abbia;
E che 'n voi più potrà quel lungo amore
Ch'avete ad ambo lor sempre portato,
470Che questo subito odio e questo sdegno.
E quando ciò non vi movesse (cosa
Ch'io non posso pensar che 'n voi mai venga),
Movanvi i figliuolini a voi nepoti:
Che per esser del sangue vostro nati
475Potransi assimigliar a voi, lor avo,
Et esser lumi di virtuti al mondo
E vèr di voi sostegno. E se pur questo
Poco in voi può, che devria poter molto,
Muovavi il vostro onor, che (com'ho detto)
480Essere non vi può se non disnore
Così fatta vendetta. E s'anco questo
Poco istimate (il che non credo), almeno
(Se nulla puote appo un Signore eccelso
Il servir d'un leale e fedel servo)
485Possa la fede mia tanto ora in voi
E 'l mio lungo servir, ch'impetri pace
A la vostra figliuola, al vostro Oronte.
SUL.
Malecche, in me assai puote il lungo amore
Portato a Oronte e la pietate immensa
490Con c'ho la figlia mia insino or amata
E molto istimo la tua lunga fede
E tanto ponno in me le tue parole
Che commover mi sento insino a l'alma
Mentre i' t'ascolto. Ma se poi rivolgo
495A questa ingiuria il cor, tutto m'inaspro
E spezialmente contra Oronte, ch'abbia
Per nulla avuto farmi ingiuria tale.
MAL.
I' credo, Sir, che glie ne pesi e dolga,
Né che fatto abbia ciò per farvi oltraggio,
500Ma che, vinto d'Amor, fuori del giusto
Si sia trascorso e sia lui stato tolto
Da focoso desio vedere il meglio.
Ma posto ancor che questo oltraggio fosse,
Come non è, se fosse anco maggiore,
505Il raccordarvi de' gran fatti egregi
Fatti da lui per la corona vostra
Devriano estinguer questo vostro sdegno
Et ammollire ogni durezza. E quando
Cosa altra alcuna a ciò non vi movesse
510(Benché molte ve n'ha che devrian farlo),
I' prego che non v'esca de la mente
Quello infelice e lagrimevol tempo
Ch'i Parti, ch'avean già tutto l'impero
Vinto, l'assalto diero a questa terra
515Con forza tal, con così estremo assedio
Ch'alcun non v'era che non desperasse
Di poterli resistere e temeva
Ognuno uscir fuor de le mura. Oronte,
Stimando assai più voi che la sua vita
520(Sprezzato ogni pericolo), uscì fuori
E ne scacciò Selino che portava
Il fuoco ardente a tutto il vostro impero
E estremo eccidio a la corona vostra:
Scacciollo, dico, sì animosamente
525Che parve tra que' Parti un novo Marte
E servò voi al regno e 'l regno a voi.
Veggio, Signor, che queste mura istesse
E le colonne e i pavimenti e i tetti,
Non che quei c'hanno spirto e senso d'uomo,
530Vinte da beneficio così raro,
Per dimostrarsi grate del piacere
Ricewto da lui, vi cheggion meco
Pietade per Oronte; e lagrimando
Pregan che s'egli ha voi servato e loro
535Col proprio sangue e co la propria vita
Da servitù, dal fuoco e da la morte,
Non vogliate ora voi distrugger lui
E far che crudeltà sia il guiderdone
Di così illustre et onorata impresa.
540Perdonateli, dunque, omai il fallo
E levivi del cor questo ogni sdegno,
Che certo i' son che d'ora in ora tanto
Contento avrete di sì benign'opra,
Per diversi rispetti, che fia vinto
545Da la gioia il dolor ch'ora sentite.
SEL.
Grave cosa mi par, Malecche, questa
Che tu mi chiedi e che sia un dar baldanza
Di farmi peggio ancor di quel ch'è fatto.
Ma per le ragion dette e per tuo amore
550E per amor di quei nepoti i quali
M'hai col tuo dir così nel cor impressi
Ch'io li bramo veder più che la luce,
E per questa illustre opera ch'adesso
M'hai raccordata, di cui la memoria
555Grata ancor mi si serba ne la mente,
Son contento di far quanto m'hai chiesto.
E per segno di ciò, te' questo annello
E dallo a Oronte in succession del regno
E fa' che di presente qui ne venga
560La moglie et egli et ambo i figli insieme,
Acciò che tutti io li mi goda a un tratto.
MAL.
Signor, questa bontà ch'ora m'avete
Mostrata, sì vi m'ha obrigato ch'io
Mi doglio quasi che 'n me non sia parte
565Che non sia già buon tempo tutta vostra,
Perché or potessi darla almen per segno
Espresso a voi de la mia grata mente.
Ma bastivi, Signor, che 'l vostro servo
Tant'or vi dia quanto donar vi puote,
570Cioè questo sincero animo mio,
Tant'or più a voi del consueto astretto,
Quanto questo piacer ogn'altro avanza.
Ora io me n'andrò dentro ad Oronte
E condurolli tutti innanzi a voi,
575Acciò ch'abbiate insieme ugual letizia.
SUL.
Et io t'aspetterò qui, ma vien tosto.
MAI.
Io ti lodo, alto Dio, che 'n questo core,
Che sempre è stato dur più d'ogni pietra,
Ho trovato pietade in questo giorno.
580è vero certo ch'appo il Re del cielo
Impossibil non è cosa nessuna.
7.3. SCENA III
SULMONEsolo
SULMONE
Malecche, in questa età canuta, sciocco,
Si pensa con sue favole e sue cianze
Il cervello intorniato avermi in guisa
Ch'io non debba mostrare al traditore
5Di che importanzia questa ingiuria sia!
Egli è ben d'ogni ingegno in tutto privo
E ne sarei ben poco saggio anch'io
S'io mi lasciassi ciò por ne la testa.
Io non conosco al mondo uom così vile
10Che potesse soffrir sì grave scorno.
Questi ha macchiato il mio sangue e l'onore
E la real corona: ma stia certo
Che sì nel sangue suo Sulmon le mani
Si bagnerà, che ne sarà lavata
15Tutta questa vergogna e questa ingiuria.
N'egli pur sol, ma i figli anco faranno
Del paterno fallir la penitenzia.
E giusto è ciò: perch'egli a me, a la figlia
Ha fatto gran disnor, i figli et egli
20Ne debbono portar debita pena.
Che temi, animo mio? che pur paventi?
Accogli ogni tua forza a la vendetta
E cosa fa' sì inusitata e nova
Che questa etade l'aborisca e l'altra
25Ch'avenir dee creder noi possa a pena.
Questo giorno ci dà degna materia
Di dimostrare il poter nostro al mondo.
Però cosa non sia che ne ritragga
Da la incominciat'opra et ogni spezie
30Di crudeltà da noi oggi si tenti.
Sono innocenti i figli, e siano: sono
Figli d'un traditore e al padre anch'essi
Saranno in tutto simili e se bene
Devesser tralignar dal seme loro
35Et essere i meglior del mondo, sono
Del ricevuto oltraggio indizii certi.
Però muoiano anch'essi, perché parte
Nessuna di vendetta a far mi resti.
Non è, non è la ingiuria mia da scherzo,
40Né scorno è questo che per poca pena
Si possa cancellar da l'onor mio.
Ma che farò de la malvagia figlia?
Debb'io le mani por nel proprio sangue?
Sì devrei ben, s'al suo fallir guardassi,
45Ma s'io ne posso far vendetta intiera
Senza la morte, non fia meglio? Meglio
Fia questo certo. E che pena maggiore
E più atta a la vendetta dar le posso
Che con quello ond'avea sommo diletto
50Darle crudele e 'ntolerabil doglia?
Se l'uccido, fia fine al suo dolore:
Che la morte a chi è miser non è pena,
Ma fine de la pena e de l'angoscia.
Però se viva ne riman costei
55E co gli occhi ambe due i suoi figli vegga
Morti e 'l marito, tal sarà l'affanno
Che n'avrà invidia a que' che son sotterra:
Che d'ogni morte è via più grave sempre
Una infelice e miserabil vita.
60Questo mi piace, a questo omai disponti,
Animo mio, né ti distorni nulla:
Che chi non fa vendetta d'uno oltraggio,
Ad aspettarne un altro s'apparecchia.
Biasmato ne sarò? Che biasmo puote
65Avere un Re di cosa ch'egli faccia,
Le cui opere tutte sotto il manto
Real stanno coperte? E come a forza
Soffrir le dee ciascun, così lodarle,
O voglia o no, dal gran timore è astretto.
70Quest'è proprio de' Re, che l'opre ree
Ch'essi si fan, siano da ognun lodate.
Abbiansi gli altri pur le lodi vere,
Queste son nostre e deono seguir sempre
Quel ch'è più loro a grado i Re possenti;
75E s'altrimenti fanno, essi son servi,
Del real nome indegni e de l'impero.
Ma veggio che ne vengono a me insieme:
Ristringer voglio l'ira e simolare
Esser pien di contento e d'allegrezza
80E accompagnar co le parole il viso,
Perché non abbian del pensier mio indizio.
7.4. SCENA IIII
MALECCHE, ORONTE, ORBECCHE, SULMONE, CORO
MAL.
Io non m'avrei giamai pensato, Oronte,
Che ci fosse venuto così a punto
Quanto noi volevamo. Certo i Dei
Ci sono stati assai prosperi. Or meco,
5Alta Reina, e tu con lei, Oronte,
Rendete grazie lor di merto tale.
ORON.
Malecche, ancor ch'a me novo non sia
Che senza volontà de' Dei del cielo
Non ha buon fin cosa mortale alcuna,
10Pur istimo ch'ancor per opra vostra
Mi sia questo avenuto; e com' i Dei
Tutti ringrazio, così rendo a voi
Grazie immortai del ricevuto bene.
E quantunque ora a pien mostrar non possa
15Quant'obrigo abbia a la bontade vostra,
Pur voglio che crediate che se mai
Averrà ch'io vi possa a modo alcuno
Mostrar l'animo mio, compiutamente
Mi troverete grato del piacere
20Ricevuto da voi; e più che 'n voce
Ora non faccio, i' vi farò palese
Co' fatti chiari allor l'animo mio.
Prosperin pur i Dei le cose nostre
Com' incominciat'han.
ORB.
Così li prego,
25Ma un non so che di tristo il cor mi preme
E non so la cagion del mio timore.
Mi veggio il bene innanzi a gli occhi e tremo
In mezzo a l'allegrezza e temo l'amo
Ascoso sotto l'esca e 'l fel nel dolce.
MAL.
30Deh non vogliate voi per voi medesma
Esser nemica a l'allegrezza vostra,
Alta Reina, anzi scacciate fuore
Quanto di tristo il cor vi preme e 'ngombra.
Non vedete del ben gli espressi segni?
35Ecco, ha promesso il regno a Oronte e voi
Co' figli insieme cosi allegramente
Aspetta, che gli par un'ora mille
Che vi raccolga tutti entro le braccia,
E pianger visto i' l'ho de la dolcezza.
ORB.
40Deh, voglia Dio ch'ei non piagnesse allora
La calamità nostra e 'l nostro fato:
Che bench'io veggia e senta e a pien conosca
Il mio gioire espresso, il cor non puote
Non sospirare; e non mi par buon segno
45In cosa tal, da me bramata tanto,
Non potermi allegrare.
ORON.
E che temete?
Abbiam ciò che vogliam. Gran cosa è questa,
Che sian le donne cosi pronte sempre
A divinare il mal! Bene sperate
50E bene vi averrà.
ORB.
Già non voglio io
Turbare il piacer vostro; e prego i Dei
Che vane sian le mie temenze e ferme
Sian le vostre speranze e i piacer vostri,
E ch'i sospetti miei s'abbino i venti.
ORON.
55Deh ditemi, di grazia, per qual cosa
N'avrebbe il Re mostrato tanto amore
E mandatone segno così espresso
De la sua pace, s'ei volesse poi
Mancar di fé?
MAL.
La fé, Reina, è proprio
60Ne' Re, come ne' corpi nostri l'alma.
Che come non si può tenere in vita
Questa caduca salma
Dopo che s'è da lei l'alma partita,
Così se restan vuote
65Le promesse de' Re di fé, non puote
Esser più cosa in lor che Re gli mostri.
Perché le gemme e gli ostri
O 'l posseder molt'oro
Non fa Re altrui, se de la fede è privo,
70Che più val del poter, più del tesoro.
Però vo' che crediate questo vero,
Che ne potria lo impero
Perder pria il nostro Re, che mai smarrita
Volesse ch'apparisse in lui la fede.
75Vedete con che lieto
Aspetto egli vi mira.
Questo sol vi dee far l'animo queto
E tòrvi ogni sospetto:
Che quantunque altri l'ira
80Cerchi chiuder nel petto
E quantunque usi ogn'arte
Perché l'animo suo nessuno intenda,
Forz'è che si comprenda
(Mal grado suo) l'irata mente in parte:
85Che si scuopre di fore
E nel viso dimostra aperto 'l core
ORON.
è come dite, n'esser può altrimenti:
Però andiamosi al Re.
ORB.
Par ch'io non possa
Movere i piedi, e pure andar vorrei,
90E par ch'abbia chi a dietro mi ritragga.
Ben ti prego, Signor che reggi 'l mondo,
Che s'avenir mi dee cosa maligna,
Pria ch'io mi vada al padre, io me ne moia.
MAL.
Non più sospiri omai, alta Reina:
95Andiamo insieme e a me lasciate il peso
Di fare al Re quelle parole ch'io
Conoscerò opportune in questo caso.
ORON.
Andiàn, Malecche, e voi parlate prima,
Poi ch'avete insin qui condotto il fatto.
MAL.
100Invitto Sir, da parte vostra ho esposto
A pieno a Oronte e a la figliuola vostra
Quanto detto m'avete: essi ve n'hanno
Le grazie che per lor si pòn maggiori;
E quanto il loro error veggon più grave,
105Tanto conoscon più la bontà vostra.
Eccovi Oronte, ecco la figlia e i cari
Vostri nepoti, a la vecchiezza vostra
Fidi sostegni e successor del regno,
Ne le cui faccie sì scolpito sete
110Che vedervi mi par ringiovanire
Felicemente nel bel viso loro.
Accoglieteli Sire, e lor mostrate
Che quanto detto gli ho per nome vostro,
Tant'è per attenerli vostra altezza.
SUL.
115Non venne ad alcun men mai la mia fede
Quando ad altrui con fé legata i' l'abbia.
ORON.
Non dubito, alto Sir, che vostra altezza
Non sia per attenermi con fé quello
Che 'l suo fedele consiglier Malecche
120Sotto il pegno di fé dianzi m'ha detto
A nome d'essa. Sol vi cheggio, Sire,
Di spezial grazia, che dopo che tanto
Estesa s'è la gran bontade vostra,
Che imputar non vogliate il mio fallire
125A dislealtà o ad oltraggio, ma a l'amore
Che puote troppo più che non poss'io,
A l'età giovanile, atta ad errare
Via più d'ogn'altra. E de l'error commesso
Ve ne cheggiàn perdon la figlia et io;
130E me con ella et ambo i figli insieme
Commetto a questa man, non men di fede
Che di rara fortezza espresso pegno.
E ben ch'io so che 'n me cosa nessuna
è che possa ugguagliare il dono ch'io
135Da vostra maestà ho ricevuto oggi,
Pur v'offro questa vita, sempre pronto
Ad esporla per voi dove bisogni,
E sempre cercherò che questo errore
In tanto sia da le buone opre vinto,
140Che conoscer potrete agevolmente
Quanta sia la mia fede.
ORB.
Et anch'io, padre,
Perdono a vostra altezza umile i' cheggio.
SUL.
S'io dessi ad ambo voi del fallir vostro
145Debita pena e vi mostrassi quanto
Sia stato avermi offeso iniquo e grave,
Non farei cosa men che giusta e meno
Che dicevole al mal da voi commesso.
Ma il pregar di Malecche, c'ha potuto
150Appresso me quel che poter devea,
E l'amor col qual voi amo et i figli
Vostri e nepoti miei, dispor mi fanno
A fare oggi di voi quel che far voglio.
Però con quella fé che dianzi i' diedi
155A Malecche per voi e ch'ei vi ha data
A nome mio, perdono a te il tuo errore,
Oronte, e a te il tuo, Orbecche. E te per figlia,
Cara non men di quel ch'esser mi dèi,
Accolgo e te per mio genero e questi
160Dolci fanciulli per nepoti miei,
Non men da me che siate voi amati.
Nepoti miei, anzi miei dolci figli,
Quanto cari mi sete! Oh quanto bene
Conosco in voi il mio medesmo aspetto!
CO.
165Poi che felice effetto, Coppia fedele, amica,
Ha dato a' tuoi desiri
Il ciel benigno, in vece de' martiri
Che minacciava a te sorte nemica,
Prego che dolce affetto
170Cosi t'ingombri il petto
Che non t'offendan mai pianti o sospiri,
E così vane sian tutte l'insidie,
Che 'l tuo dolce gioir nulla t'invidie.
SUL.
Così vi veggia lieti sempre, come
175V'accetto per ostaggi de la pace
Fatta tra noi; così mi doni il cielo
Grazia che far vi possa aver quel bene
Ch'io bramo che v'abbiate e v'apparecchio
E che dar penso anco a' parenti vostri,
180Per voi medesmi, in poco spazio d'ore.
Tu, Oronte, aspetterai Tamule e Allocche,
Poi tuttatre ve ne verrete in casa
Incontanenti, a ritrovarmi insieme.
Noi altri se n'andremo a dar principio
185Che 'n allegrezza et in solazzo degno
Di questo giorno, i' possa far la festa
Et uccider le vittime a gli altari,
Parate già per queste nozze a i Dei.
7.5. SCENA V
ORONTE, TAMULE, ALLOCCHE
ORON.
Chi con san occhio ben le cose umane
Mira, vedrà che non è tanto polve
Minuta e lieve da' soffianti venti
Menata in giro, quanto la fortuna
5Queste cose mortai volve e rivolve.
Indi veder potrà che 'n questo stato
Il miser può sperare e può temere
Chi felice s'istima e che 'l Motore
Eterno de le stelle vuol che 'n terra
10Immortal non si trovi il bene o il male,
Ma che s'egli è senza principio e fine,
Non consente che cosa altra nessuna
Questa condizione in sé contenga.
E che vada così ciò che si trova
15In terra sotto 'l cerchio de la luna
(Ancora che per molti e molti essempi
Ciò paia più che vero), anch'io ne posso
Forse via più d'ognun fare ampia fede,
Che trastullo son stato un longo tempo
20A la fortuna e lungo tempo un giuoco.
Nacqui in Armenia già d'un nobil uomo
E di madre Reina, e fui da lei
Subito dopo il parto in mar gettato
In una cassa, per celare il fallo;
25E ne fui (come intesi) da' corsali
Preso e nodrito in trista sorte. E a pena
Passato avea cinque anni, che qui in Persia
Condutto fui, non men da l'aspra sorte
Sempre agitato, insin che 'l Re Sulmone
30(Non so per qual mio fato) da le mani
Di chi mi tenea servo mi riscosse.
Ma non mutai destin né mutai stato,
Se ben mutato avea paese e cielo;
Che ben ch'io col Re nostro in corte fossi,
35Egli senza pietà mi fe' nodrire
Quattro e quattro anni da servo in sì vile
E miserabil vita, ch'ogni speme
Di poter aver bene avea sbandita,
E non pur invidiava uomini e donne,
40Ma i cani istessi e i più vili animali.
Ma non sì tosto giunsi a quindici anni
(Vedi che gran mutazion fu questa)
Che 'n tanto pregio crebbi appresso lui
Che mi propose a quanti egli avea in corte.
45E qui da gli odii e da le crude invidie
De' cortegiani, come in mar da l'onde
Smarrita nave, combattuto i' fui.
In tanto la crudel sorte nemica,
Che vincer mi vedea l'aspra procella
50E valoroso in così rea tempesta,
Invidiosa del mio bene al fine,
Per farmi perder l'arte et attuffarmi
Tutto ne l'onde, sotto ombra di bene,
Con insidie nascose al mio gioire,
55Mostrandosi via più che mai tranquilla
E tutta in tremolar l'onda marina,
Scoglio tra l'onde inevitabil pose;
Che fe' che de la figlia del Re mio
M'accesi, e ella di me, sì fieramente
60Che non fu mai così fervente fuoco
In Mongibello o sì vivace in Ischia,
Che tepido non fosse appresso il nostro.
Tal ch'ambo fatti da l'amor già ciechi,
Divenimmo marito e moglie insieme,
65Senza che 'l Re ne risapesse nulla.
Da indi in qua doglia crudele e accerba
(Conoscend'io poi quel che non conobbi
In quel primo furor ch'è senza legge)
Mi rose sempre 'l cor, qual roder suole
70Tizio il crudo avoltor tra l'ombre oscure.
Tal ch'io non ebbi mai, non dirò lieta,
Ma riposata un'ora; anzi com'io
Mi vedessi esser tra gli scogli ognora,
Sempre aveva la morte innanzi a gli occhi.
75Et ecco, or quando men di speme avea
Et eran congiurati tutti i venti
Contra me, a la mia morte, e già perduto
Aveva e remi e vele, ancore e sarte,
Et era il mar co l'onde insino al cielo,
80Condutto m'ha così felicemente
Il mio Signor da gli aspri scogli in porto,
Perdonando l'errore a me e a la figlia,
Che non temo più in mar Caribdi o Scilla:
Tal che s'oggi alcun è più di me lieto,
85Non è mortale. Or ben prego il Signore
Che con sommo saper governa il tutto,
Che voglia omai, poi che de la tempesta
(Ch'agitato m'ha quinci e quindi tanto)
Mi trovo fuori, ch'io mi viva in porto
90Questo poco di viver che m'avanza,
E ch'oltre il suo costume a questa volta
Mi tenga fé la rea fortuna, ancora
Che la costanza sua sia nel mutarsi.
Ma veggio che di qua Tamule e Allocche
95Vengono, et io me ne voglio ire a loro
Perché al Re se n'andiamo tutti insieme.
Venite meco, che n'aspetta in casa
Tuttatre il nostro Re.
TAM.
Vengo, Signore.
AL.
Et io: m'andate innanzi, ch'ambo noi
100Dietro voi si verrem così pian piano.
TAM.
Vedi come l'uomo erra! Questi pensa
D'andare al suo contento, e va a la morte.
7.6. CORO.
NODRICE, CORO. La Nodrice parla
NOD.
Poscia che gli infelici e oscuri giorni
Amor (la sua mercé) conversi ha in lieti,
Donne mie care, e noi le nostre voci
Mutiamo a ragionar del novo stato.
5Ma chi ne darà i versi o chi le rime
Atte a spiegare il ben che 'n se tien l'alma?
CO.
Or, dopo c'hai l'afflitta e miser' alma
Volta a gradite notti e puri giorni,
Perché mostrar possiamo a ognuno in rime
10Il ben che chiudiam dentro a' cori lieti
E lodar te, lodando il caro stato,
Danne tu i versi, Amor, danne le voci.
NOD.
Deh perché non portate al ciel le voci,
Aure, che manda or fuor si chiare l'alma,
15Perché sappiano i Dei lo nostro stato
E che le notti che verranno e i giorni
Saran così gioiosi e così lieti
Che nol potrà spiegar forza di rime?
CO.
Apollo, ancor che tu cantassi in rime
20E usassi le più scielte e dotte voci,
Non potresti spiegar quant'or sian lieti
I bei pensier di quella nobil alma,
Cui minacciava il ciel sì amari giorni,
Che temea viver sempre in duro stato.
NOD.
25Voi che 'l viver dolente e 'l crudo stato
De la Reina mia piangeste in rime,
Quand'avea più che notte oscuri i giorni,
Accompagnate or l'amorose voci
E scacciate sì il duol tutti da l'alma
30Che s'odano sol note e canti lieti.
CO.
Ecco ch'i pargoletti Amor già lieti
Gioiscon nosco, e ferma il nostro stato
Chi accende dolce fuoco a altrui ne l'alma.
E Giunon, mossa da l'accese rime
35(Per mostrar ch'al ciel van le mortai voci),
Vuol che mai non veggiam men lieti i giorni.
NOD.
Dunque i giorni averai mai sempre lieti,
Coppia fedele, e voci liete e stato,
Fin che rime orneran ben gentil alma.
FINE DEL TERZO ATTO
8. ATTO QUARTO
8.1. SCENA I
MESSO, CORO
MES.
Oh perché ne'
Rifei monti non sono
Più tosto nato, o tra le tigri Ircane
Ne gli ermi boschi e ne' più alpestri campi,
5Ove vestigio uman non si vedesse,
Che qui dove i' son nato e son nodrito,
Qui dove più d'ogn'aspra fiera crudi
Gli uomini si ritrovano? Oh, che giova
Viver ne le città più che ne' boschi,
10Se crudi più d'i lupi e più de gli orsi
Gli uomini in esse sono? Qual mai fiera
Ne' più solinghi luochi ritrovossi,
Ch'usasse crudeltà nel proprio sangue?
Dunque cosa vist'ho via più crudele
15Che 'n parte alcuna unqua veder si possa.
CO.
Gran cosa è questa, onde sì amaramente
Si duol quest'uomo. O Dea che 'l ciel rischiari
Col tuo sereno lume e i cori infiammi,
Fa' che per noi non sian queste querele.
MES.
20Oh, perché non mi dà Dedalo l'ali,
Sì che poggiando al ciel fuggissi questa
Terra iniqua? Che terra? Anzi ricetto
Di sozzi, dispietati e orribili atti.
E se ciò non si puote, perch'almeno
25Non mi lece passar l'empio Acheronte,
Poi ch'indi qua venuti son gli Atrei,
Gli Atamanti, i Tiesti, anzi i più fieri
Mostri che fosser là ne' laghi stigi?
O secol reo, secol malvaggio e tristo,
30Come dar ci può il sol oggi la luce?
CO.
Che cos'è che ti face uscir del petto
Voci sì crude e versar fuor da gli occhi
Sì amaro pianto ? Non tenere ascosa
A noi la doglia tua.
MES.
Donne, s'io avessi,
35Non dirò tante lingue, quante mani
E braccia e piedi e quante in me son membra,
Ma vi se n'aggiungesser mille e mille,
E avessi voce, non dirò di ferro,
Ma di duro diamante, i' non potrei
40Spiegare il duol ch'a lagrimar mi mena.
Ora pensate voi se può bastarmi
Questa sol lingua, omai debile e fioca.
CO.
Narraci, prego, ciò, sia che si voglia,
Se non a pieno, almeno il me' che puoi:
45Che bramiamo d'udir quello onde piagni.
MES.
Cosa dirò, se tanto spirto avere
Potrò che non s'agghiacci entro le vene
Pel grave orrore il sangue, che dapoi
Tutte vi pentirete averla udita.
50Ma temo che non possano l'orecchie
Vostr'udir quel che miei tristi occhi han visto:
Ch'è così miserabil che devrebbe
Far oscurar nel ciel la luna e 'l sole,
Non che 'n terra stordir gli animi umani.
55E se nol mi credete, questo viso
Pallido e tristo e la tremante voce
Lo vi puote mostrar, senza ch'io il dica.
CO.
Via più d'affanno n'è star sì sospese:
Però da' omai principio a questa istoria.
MES.
60Giace nel fondo di quest'alta torre
In parte sì solinga e sì riposta
Che non vi giunge mai raggio di sole,
Un luoco dedicato a' sacrificii
Che soglion farsi da' Re nostri a l'ombre,
65A Proserpina irata, al fier Plutone;
Ove non pur la tenebrosa notte,
Ma il più orribil orrore ha la sua sede.
Quivi Sulmon fatt'ha condurre Oronte
(Oronte miser, che pensava omai
70Che fosser giunti al fin gli affanni suoi)
Da due che d'improviso l'avean preso,
Mentre egli ragionando il tenea a bada.
E venuto il Re poi ne l'alta torre,
Co le sue proprie mani il prese e disse:
75Ti voglio far mio successor del regno,
Oronte, in questo luoco. E questo detto,
Pigliar gli fe' le braccia a que' malvagi
Ch'ivi l'avean condotto e ambo le mani
Gli fe' por sovra un ceppo; e da le braccia
80Levogliele il crudele in due gran colpi
Con un grave coltello. E dopo, alquanto
Trattosi a dietro, prese in man le mani,
Le porse a Oronte, lui dicendo: Questo
è lo scettro che t'offro. A questo modo
85Ti vo' far Re. Come ne sei contento?
Fa' ch'io lo sappia. Oronte allor rivolto
Verso lui disse: Ai, traditore, è questa
La fé ch'astretta m'hai? è questo quello
Che da tua parte mi narrò Malecche?
90Ma segui, empio Tirranno, eccoti il collo,
Percotilo, malvaggio; eccoti il petto,
Aprilo col tagliente empio coltello:
Che d'altra mai che d'una real mano
(Se sì spietata dir real si deve)
95Morir non devea Oronte. Ma se 'n cielo
Regna pietà, se Dio l'umane cose
Mira con occhio giusto, aspra vendetta
T'aspetta, traditore. A queste voci
Sorrisse quel crudel, come chi cosa
100Oda che schema o che si prenda a giuoco;
E senza altro più dir, ambe due i figli,
Che fatti avea condur prima d'Oronte
Nel luoco oscuro et in disparte porre,
Prese per mano, i quai semplici a l'avo
105Facevan festa, come che far vezzo
Volesse loro il micidiale iniquo.
Ma vider ben, non passò molto tempo,
Il lor error. Perch'egli, preso il primo,
Cui poco giovò aver de l'avo il nome,
110Nudolli il petto e, prese lui le mani,
Dietro gliele legò; poi tra le gambe
Postosi il fanciullin, che pur chiedeva,
Come meglio sapea, mercé e pietade,
Quasi agnello innocente, col coltello
115Crudelmente svenollo e così morto
Lo gettò a' piè del miserello Oronte.
CO.
Oimè, in quanto dolor mutata è quella
Allegrezza che dianzi ebbi nel core,
Quando di perdonar l'empio Re finse
120A Orontee a la figliuola! Io non ho in osso
Medolla o sangue in fibra che non tremi.
Ma che fe' Oronte al lagrimevol caso?
MES.
Quel cor che non poteo il suo mal piegare
Sì che porgesse a sua salute preghi,
125Fu vinto da pietà d'ambedue i figli.
Perché, dolente sì com'era, Oronte
Pos'ambo le ginocchia in terra e alzando
(Credendo aver, come solea, le mani)
I tronchi de le braccia già dal sangue,
130Ch'a gran copia n'uscia, bruttati e molli,
Incomminciò a pregar dal Re crudele
Pietade almen per l'altro figlio vivo:
Che già mercé chiedendo, a braccia aperte,
Tutto pien di paura al miser padre
135Fuggito s'era, aver credendo aiuto.
Oimè, che 'l cor mi scoppia e le parole
Mi mancano e la voce, sol pensando
A l'impeto, al furor di questo iniquo.
Sulmon, poi che 'l fanciullo andò ad Oronte,
140Lo seguì, come can ch'acceso d'ira
Segua pel bosco timidetta damma.
Il che veggendo Oronte, lagrimando
Avoltolisi a' pie, più caldi preghi
Porse a questo crudele e così disse:
145Per la pietà, Sulmon, de' Dei del cielo,
Perdona a questa età ch'è senza colpa:
Bastiti avermi già svenato il primo,
Perdona a l'altro e me colpevol svenna.
E se non può piegare altro 'l tuo core
150A usar pietade in così estremo punto
A un miser uom che dianzi tanto amasti,
Paiati stran ne l'innocente sangue
Bruttar le mani tue; fa' che l'onore
Più possa in te, che la vendetta ingiusta.
155E se non temi di potenzia umana,
Temi almeno li Dei ch'a l'opre buone
Donano merto et a le triste pena.
CO.
Non s'ammollì quel duro core alquanto
A sì calde preghiere, a così giuste?
MES.
160Oimè, che mi chiedete? A queste voci
Vidi pianger le mura e i duri sassi
E tremar de l'orror tutta la torre.
E non pur lagrimar vidi l'imago
Di Pluton fiero, al quale il sacrificio
165De l'anime innocenti il Re facea,
Ma per non mirar cosa così orrenda,
Volger la vidi in altra parte gli occhi.
Sol egli, d'ogni dur sasso più duro,
Immobile rimase, com' a l'onda
170Del mar rimaner suol ben fermo scoglio.
Né pur non si mutò dal fiero uffizio,
Ma qual calcata serpe i denti stringe,
Tutta piena di rabbia e di veleno,
Per dar di morso a chi col piè la preme,
175Tal il Re crudo a così dolci preghi,
Come pungente stral tocco l'avesse,
Con viso fier rivolto al tristo Oronte:
Ricevi - disse - del tuo grave errore,
Perfido, disleal, il giusto premio;
180E se sol de la morte d'un contento
Esser potessi, alcun non avrei morto.
E pochi questi due sono a l'oltraggio
C'hai con la infedeltà tua in me commesso.
CO.
Oimè, che core esser deveva allora
185Quel del misero padre, essendo privo
Già d'ogni speme!
MES.
Il poverello Oronte,
Vinto da l'aspra ambascia e dal dolore,
Ne la desperazion pigliando ardire,
Lasciato in tutto il van pregar da parte
190E vòlto verso il Re, con viso audace,
Ai fiero cane - disse - e come lupo
A l'insidie notturne, a i tradimenti
Sol atto e forte solo e sol feroce
Nel sangue de' fanciulli, i' spero, i' spero
195(E questo in parte il mio dolor rileva)
Che non fia molto che tra l'ombre oscure
De la vendetta mia sentirò nova.
E quindi vòlto lagrimando al figlio,
Gettolli ambo le braccia al collo e disse:
200Poi che pur vuole il ciel, figlio mio caro,
Che tu la mia ti veggia, io la tua morte,
Et è per noi pietà sorda com' aspe,
Cogli (l'ultimo don, caro figliuolo,
Del padre tuo) questi singiozzi e 'l pianto
205E questi estremi basci; andremo insieme
A le parti di Dite, a i regni oscuri,
Ove forse sarem men che qui tristi.
CO.
Ma che faceva intanto il Re crudele?
MES.
Godeva a queste voci il traditore,
210A queste voci ch'averian spezzato
Una selce, un diamante, e fatto molle
Un cor d'acciaio. E quasi che godesse
Ch'Oronte si dolesse lungamente
Del suo tormento e de la morte rea
215De' due figliuoli, il micidial si stava
Come ridendo a le parole intento.
Ma poi che tolse il gran dolore a Oronte
La voce, il Re, via più che mai sdegnoso,
A guisa di leon ch'uccider dassi
220L'armento altrui, che quanto vede il sangue
Più correr per li campi, tanto avampa
Più d'ira e di disdegno e via più cresce
L'appetito del sangue e de la morte,
Aventatosi irato a l'altro figlio
225Che ne le tronche braccia aveva Oronte
Piangendo accolto e del suo sangue asperso,
Sveller il volse dal paterno seno,
Come tigre che vede a la giuvenca
Accostarsi il vitel timido e imbelle,
230Che 'l picciolo e la madre irato uccide.
Ma non volendo il suo padre lasciare
Linco (che tal del fanciullo era il nome)
E stringendolsi il padre al petto, il fiero
E spietato tiranno, alzato il braccio,
235Percossili ambe due sì acerbamente,
Ch'a' piedi suoi se ne cadderon morti.
CO.
Chi non diria ch'un cor di tigre o d'orso
Nel petto avesse, sotto finto aspetto
D'uomo, questo crudel? Non fu giamai
240Cosa più strana o più malvagia udita.
MES.
Ma che pensate voi che qui finisca
La crudeltà di così orribil mostro?
Quel che fine vi par, principio è stato
A maggior male, a più scelerat'opra.
CO.
245Ma ch'esser può dopo la morte peggio?
Non è ella estrema de le cose orrende?
Non è ella fin de tutti e mali al mondo ?
MES.
Peggio non puote aver già de la morte
Chi morto giace, ma chi vive puote
250Mostrar la crudeltà via più palese
Ne' morti corpi.
CO.
Ai quanto è sozza cosa
Ne' morti incrudelir! quanto disdice
Servar l'ira e 'l furor dopo la morte!
MES.
Sozza cos'è, ma perché nulla resti
255Di sozzo a fare a l'empio Re, finito
Ch'ebbe sì miserabile e reo ufficio,
Tutt'asperso di sangue, a Oronteandossi
E li levò la testa e fece il corpo
Gettare a i nibi, a gli avoltori, a i cani.
260Poi fattosi portare un nobil vaso
D'argento puro, in esso ambo le mani
E 'l capo pose, e d'un zendado nero
Lo ricoperse e lo si fe' servare.
CO.
Ai, quanto è somma la giustizia eterna!
265Vedi come ben ha questo crudele,
Credendo incrudelir, mostro pietade:
Che quella illustre et onorata testa
E quelle man dignissime di scettro,
Dal micidiale, dal nemico istesso
270Ricevuto hanno il meritato onore.
Ma che fatt'ha de' fanciullini morti?
MES.
Sì tosto com' a Oronte il capo tolse,
Levolli da le braccia il figlio, il quale
Stretto era ancor dal miserabil tronco;
275E veggendolo pur torcersi alquanto,
Due volte e tre nel delicato petto
Il percosse il crudel, tal ch'ei col sangue
Spirò del tutto l'anima innocente.
Dopo spogliollo, et indi a l'altro vòlto
280Che gia fredd'era e senza spirto alcuno,
Dal corpo li levò la vesta e nudi
In due vasi d'argento ambo li pose;
E a l'un nel petto e a l'altro ne la gola
Pose i ferri con cui gli aveva uccisi:
285E col capo del padre e co le mani
A la stanza real fece portarli
Et ivi posti gli ha, né so a qual fine.
CO.
Ai misera Reina, quest'orrendo
Spettacolo t'aspetta! a te il crudele
290Riserba questo don! Ma forse il cielo,
Pietoso del tuo mal, giusta vendetta
Per te stessa apparecchia a questo cane:
Che chi a far cosa ingiusta si dispone,
Deve aspettar vendetta, onde non teme.
8.2. CORO
CORO
Fede, per lo cui fido nodo insieme
Son le cose contrarie
Con tanta fede aggiunte,
Che non si vede mai ch'alcuna varie
5Da l'ordine che lor diè la natura,
Quando l'ascoso seme
De le cose create in un congiunte
Con tanto studio e con sì estrema cura
Aperse dal profondo
10Orror che 'n se celava il bel del mondo.
Se per te sol di cerchio in cerchio il cielo
Serva l'usata legge
Et al moto del primo
Ciascun de gli altri il suo camino regge,
15Né mai da l'ordin certo alcun si parte
Pur per un picciol pelo,
Dal più sublime cerchio insino a l'imo,
Onde con sì bel studio e con tant'arte
Del sol la vaga luce
20Ciede a la notte e 'l dì dopo n'adduce;
Se gli elementi la lor propria sede
Servan con ordin tale
Che da sé 'l caldo fuoco
Sovra ciascun sublime e leggier sale,
25E 'l mezzo l'aer tien tra lui e l'onde,
E la terra si vede
Mai sempre aver lo stabilito luoco,
E ch'un sì bene a l'altro corrisponde,
Che benché sian nemici,
30Divengono a creare il tutto amici;
Anzi si fan d'eterni e d'immortali,
Perché nascan le cose
Che 'n potenza in lor foro,
Mortali in parte, come già dispose
35Il supremo Mottor de l'alte stelle.
Indi piante, animali
Vengono, quai poi ne' principi loro
Risolvonsi, onde gli elementi belle
Opre producono anco,
40Tal che non viene il generar mai manco:
Che 'l corromper di questo, quel produce
Con così certe tempre
Che l'un da l'altro viene,
Onde morendo l'un, rinasce sempre
45L'altro et eterne di mortai si fanno
Le cose in questa luce;
Perché 'l mancar de l'un l'altro mantiene,
E con fede perpetua così vanno
E andranno insin che giri
50Il ciel la terra, e 'l sole il tutto miri.
Perciò con tanta fé succiede al verno
La bella primavera
E l'auttunno a l'estate,
E l'onor, che dal gel levato gli era,
55Rianno i campi, e frondi e frutti et erbe;
E al fin, se con eterno
Modo le cose son tutte legate,
Fede, per te, perché non fai che serbe
Fede l'umano stuolo?
60Perché tua purità macchia egli solo?
Perché lasci che sotto il puro e netto
Tuo nome altri a la morte,
Sotto spezie di bene,
Condotto sia per vie maligne e tòrte?
65Deh fa che porti del commesso errore
Ogni disleal petto,
Non pur l'empio Sulmon, sì acerbe pene,
Che passi per essempio e per orrore
Di quanti avran desire
70Di fare il santo tuo nome perire.
Sulmon, Sulmon, superbo, empio Tiranno,
Bench'abbi e morte e vita
In man de' servi tuoi,
Non è la forza tua però infinita,
75Ma sovra te è un Signor d'altra potenzia
Che, con tuo grave danno,
In te può quel che tu ne' minor puoi,
Ch'al fine, al fin, senza più usar clemenzia,
Con fermo ordine e certo
80Dà a l'ingiustizia altrui dicevol merto.
Dunque se non vien meno
Quella immensa giustizia, iniquo, aspetta
De la tua rotta fé giusta vendetta.
IL FINE DEL QUARTO ATTO
9. ATTO QUINTO
9.1. SCENA I
SULMONE, ALLOCCHE, TAMULE
SUL.
Levata i' m'ho dal viso quella macchia
Che m'avea impressa Oronte. Egli ha provato
Co l'ignobile sua mal nata prole
Che cosa importi il non guardar l'onore
5D'un Re come son io. Se non son sciocchi,
Gli altri che 'n corte son sol per costui
Potranno avere innanzi essempio tale
Che sapran per qual via debbano inviarsi
Per fuggir casi crudo e fiero intoppo.
AL.
10Sì bene, invitto Sir, s'avranno senno
E non fian più che ciechi.
SUL.
E se fian ciechi,
Io bene in guisa gli occhi aprirò loro
Che potran far veder a gli altri quello
Che non avran voluto essi vedere.
15Se così non facessero, i Signori
E i Re sarian da meno ch'i più vili
Uomini ch'abbia il mondo e le lor corti
Verrebbero da men che le capanne.
TAM.
E così, alto Sir, è, come voi dite,
20E devonsi mostrare i Re a tal modo
Esser Signori e Re come voi fate:
E cianzi poi chi vuoi cianzar. Gli oltraggi
Fatti a' Signori aspettan questo premio
Che ricevuto ha il traditor d'Oronte,
25E quest'è de l'imperio avere il frutto.
SUL.
Dicon costor che la violenzia è quella
Che consuma gli stati e che l'amore
Sol i mantiene e ch'a' Signor bisogna
Tenir la briglia in man con la man lieve
30E dee temere un Re sovra ogni cosa
Di non esser temuto. Ma io tengo
Per cosa più che certa che 'l timore
Sia colonna de' regni e che senz'esso
Ne vadano gli imperii a la mal'ora.
35Un Re devrebbe esser terribil sempre,
E lo dimostra chiaro il Re del cielo,
Il qual, mentre serbar vuol la sua altezza,
Tien ne la mano il fier fulmine ardente,
E quando lo depon, di Re d'i Dei
40Diviene bove, augel, satiro e capro.
Sta' pur sicur ch'io non son per lasciare
Cosa ch'a por timor mi s'offra innanzi.
Abbiammi in odio pur, pur che mi teman
Tutti i sudditi miei. Nati ad un parto
45Son, come due fratelli, il regno e l'odio,
E chi non cerca esser temuto, cerca
Lasciare il regno tosto e venir servo.
Questo non verrà a me. Ma che ti parve
Del cor d'Oronte, quand'egli si vide
50Colto a la rete?
AL.
Parmi ch'ei facesse
Come color che son senza speranza,
C'hanno nel disperarsi ogni salute.
Egli pensò co lo rimproverarvi
La fede rotta e col mostrarsi forte
55A tolerar la morte, che fuggire
Non potea a modo alcun, trovar mercede;
O farvi vergognar di voi medesmo
A quelle sue parole, onde lasciaste
La vostra impresa. Ma non sapev'egli
60Che s'altri inganna altrui sotto la fede
Aver ne dee sotto la fé castigo?
E chi biasima quei che così fanno,
S'inganna molto et è fuori del vero.
Fedele esser si deve a chi è fedele,
65Ma fé servare a chi di fede manca
è proprio usare infideltade espressa;
E ben felice è quattro volte e sei
Chi de le 'ngiurie far vendetta puote.
SUL.
E perché credi tu che, potend'io
70Subito far morire il traditore
Senza darli altra fé, gli l'abbia data?
Non per altro se non che simil fosse
La vendetta a l'oltraggio. Egli l'ingiuria
Mi fece allor che per lo più fedele
75L'avea de la mia corte, et io ho voluto
Che la fé istessa lo conduca a morte.
AL.
Non pensava altrimenti. E per dir vero
Conosciuto v'ho, Sir, sempre prudente,
Ma oggi via più che mai; e a molte prove
80V'ho conosciuto Re, ma in questa d'oggi
Avete superato anco voi stesso.
Ond'ora tengo il vostro animo invitto
Dignissimo di scettro e di corona.
SUL.
Certo ch'anch'io mi pregio che nel fine
85Quasi de la mia vita abbia mostrato
Con opra di me degna esser Re vero.
Oh, se permesso avessi che Malecche
M'avesse con sue fole a veder dato
Che 'l perdonare i ricevuti oltraggi
90Via più d'ogn'altra cosa a un Re conviene,
Quanto scemato avrei de la mia gloria!
TAM.
Che sa di ciò Malecche? Egli è nodrito
Tra le donne ne gli ozii e voi misura
Col suo vil core; egli non sa che cosa
95Sia una real e gloriosa impresa.
Invitto Sir, io dico e dirò sempre
Che 'l rimedio d'oltraggi è la vendetta
E che le crude morti e i sangui sparsi
Indizii son de gli animi reali:
100E chi far lo si dee, se i Re nol fanno?
SUL.
Non è altrimenti. Ma lasciàn da parte
Il ragionar di ciò: vo' che tu vada
In casa e che qui porti que' tre piati
Ove è 'l capo d'Oronte e i figli morti
105E di zendado ner sono coperti.
AL.
I' vo, Signor.
SUL.
Va' tosto e tosto torna.
E tu, Tamul, vatene a la mia figlia
E dille ch'ella a me subito venga,
Che le voglio far don degno di lei
110E de le nozze e di sì lieto giorno.
TAM.
Vorestele mai voi, Signor, offrire
Que' piati che portati avemo in casa,
Ov'è 'l capo d'Oronte e i figli morti ?
SUL.
Cosi vo' far.
TAM.
Per Dio, che fate bene,
115Perch'ella del suo error porti la pena,
E del colpo di c'ha percosso voi
è degno che ne sia percossa anch'ella.
SUL.
Or va' e di' che non tardi.
AL.
Eccomi, Sire.
Ove volete ch'io mi ponga i piati?
120Qui forse?
SUL.
No, ponli un po' più discosti
Da questo palco.
AL.
Qui?
SUL.
Sì: ma con ch'occhio
Pensi tu che vedrà la figlia questo
Dono che far le voglio?
AL.
Io tengo certo
Che via più grave a lei fia la ferita
125Che le farete con tal don nel core,
Che se l'aveste d'un coltel trafissa:
Peggio è d'una ferita e de la morte
Un continuo dolor senza rimedio.
E certo che pensato avete bene
130Che, senza darle morte, ella vivendo
Sia di continuo da l'affanno uccisa.
Ma veggio che Tamule a noi ne viene
Senz'essa.
SUL.
E che non vien, Tamule, Orbecche?
TAM.
Dice ch'incontinenti a vostra altezza
135Verrà, pel don ch'aver da quella spera.
SUL.
Or ritiriansi un po' tutti da canto,
Ch'al suo primo apparir qui non ne scorga.
9.2. SCENA II
NODRICE, ORBECCHE, SULMONE, SEMICORO
NOD.
Qual fia quel giorno mai, alta Reina,
Ch'apporti fine a le querele vostre?
ORB.
Nodrice mia, per me quel giorno lieto
Fia che mi mandarà morte sotterra.
NOD.
5Deh vani sian, Signora, questi augurii
Che voi fuor di ragione ora vi fate.
Ben vi prego, s'appresso voi pòn nulla
Le mie preghiere e queste bianche chiome
E la fede e l'amor con cui sin ora
10I' v'ho nodrita, che vi piaccia omai
Dar bando al duolo, a le querele, a i pianti.
Nel tempo più seren temete pioggia
E nel più queto mar cruda tempesta.
Gli altri nel male istesso speran bene
15E con la speme si mantengon: voi
Quanto più avete ben, peggio temete.
Deh piacciavi che dubbia e inutil tema
Non turbi certa gioia e ver riposo.
ORB.
Non sai, Nodrice mia, che quanto lieta
20Si mostra a noi più la fortuna, tanto
Più devemo temerla e men fidarsi
De le lusinghe sue sempre fallaci?
Ella a le volte ci solleva in alto
Perché maggior dopo sia la ruina;
25E spesse volte, quando per la fronte
Crediam tenerla, in un picciol momento
Le spalle a noi volgendo se ne fugge
E del creder fallace nostro a noi
Lascia per guiderdon solo il dolersi
30E 'l veder chiaramente che chi ferma
In lei la speme e a sue lusinghe crede
Si trova al fin le man piene di vento.
E chi non temeria, vedendo un tale,
Qual è stato Tamule, a me venire
35E chiedermi per parte di mio padre?
Non sai che mai micidial più crudo
Non fu sovra la terra di Tamule?
Né alcuno ch'usi più nel mal oprare
Di costui il mio padre? Oltre ch'un sogno
40Ch'io vidi questa notte e insino ad ora
Celato i' l'ho ad Oronte, per non darli
Materia di più acerba e cruda doglia,
Non mi lascia sperar nulla di bene.
NOD.
Che sogno è questo? Deh, di grazia fate
45Che lo sappia ancor io, se non v'è grave.
ORB.
Era questa passata notte corsa
E già l'Aurora co' bei crini d'oro
Si mostrava al balcon de l'oriente
Lieta, con faccia candida e vermiglia,
50Per fare al sol la consueta scorta,
Quand'io, vinta dal duolo e da l'affanno,
Dal sonno sovrapresa i' fui (se sonno
Dir si può lo stupor ch'occuppa altrui
La mente afflitta da dolore interno).
55Et a pena ebbi chiusi i languid'occhi,
Che mi parve veder venirmi inanzi
Una columba più che neve bianca,
Seguita dal compagno e da' due figli,
E sotto l'ale accòrre i polli e lieta
60Gioirsi col compagno. Et ecco venne
Una aquila dal ciel, turbata in vista,
Et aventosi a i pargoletti e al maschio,
Che 'n dolce trastull'era co l'amica,
E col rostro crudele e co gli artigli
65Ne fece così accerbo e fiero strazio
Che la memoria sola anco m'attrista.
E così morti inanzi a la meschina
Gli gittò fieramente et ella mesta
Con mormorio dolente il fiero fato
70Piangendo, vinta da l'acerbo affanno,
Morta cadeo sovra li morti corpi.
Io allora mi svegliai, di tal paura
Piena che mi tremava il cor nel petto.
E mi ha tanto terror ne l'alma posto
75Questo orribile sogno, ch'io non posso
Cosa penser se non dogliosa e trista.
O Dio immortal, fa' che sia vana in tutto
Sì orribil visione e da' miei scaccia
Così crudele e miserabil caso.
NOD.
80Io tengo che v'abbiate in mezzo 'l core
Accolta tutta la maninconia
Ch'esser possa nel mondo. Non fia pazzo
Uno ch'a mezzo 'l dì tema la notte?
Così, Signora (e cheggio a voi perdono
85S'io dico or questo), è ben poca prudenzia,
In tanta festa, in così lieto giorno,
Temer di cosa che v'apporti noia.
Né vo' che 'l sognar mal v'aggiunga tema,
Che, posto che disdica a ognun dar fede
90A cose tal, tanto più a voi disdice,
Quanto devete esser di quello ingegno
Ch'al vostro real grado si conviene.
Ditemi, che volete altro sognarvi
Ch'affanno e morti, se 'n affanni sempre
95Vi state e v'opponete al piacer vostro?
Non si dee dar, Signora, a' sogni mente,
Che vani sono e da' pensier del giorno
Nascono e per lo più si trovan falsi.
Se così stata foste in pensier lieti,
100Come vi state in tristi, lieti i sogni
Avreste avuto e non, com'ora, mesti.
ORB.
Par che non sappi che sovente i Dei
Per monir altri de' lor casi in sogno
Mostran quel c'ha avenir; e chi li sprezza,
105Sprezza la sua salute e la sua vita.
Tale il sogno già fu d'Apollodoro
E quel d'Imera e quel d'Ipparco e quello
D'Alessandro, di Cresso e d'Anniballe
E di molt'altri che, s'a' sogni loro
110Avesser dato fede, avrian schifato
O fatto acerbo o abominevol morte.
NOD.
La fé, Reina, che dal Re v'è data,
Esser vi deve com'un chiaro raggio
Ch'ogni nebbia di duol dal cor vi sgombri.
ORB.
115I' so, Nodrice, per aperta prova
Che la fede ben sta sempre a la porta
De le reali stanze, ma non osa
Por dentro da la soglia il piede mai.
E poi che fede è quella del mio padre
120(Per dire or tra noi due come sta il fatto)
Che n'ha sotto la fé mille traditi?
Non è più bel rifugio per le frodi
Del venerabil nome de la fede
Che da' gran Re sì rado oggi si serba.
NOD.
125Reina mia, lasciam omai da parte
Il lamentarsi e andiam al vostro padre,
Che spero che quel don ch'ei far vi vuole
Vi farà rimaner tutta giuliva.
ORB.
Odano i Dei le voci tue!
130M'andiamo,
Ch'egli a l'usato luoco s'è ridutto
E lì n'aspetta.
NOD.
Fate allegro viso
Quanto più far potete e via scacciate
Quanto chiude di tristo il vostro core.
ORB.
135Così farò più che possibil fia.
Che vuol da me la maestade vostra?
SUL.
Non voglio se non bene. Andate in casa
Voi tutti, perch'io voglio esser qui alquanto
Co la mia cara figlia, a parlar solo.
140Orbecche, poi che tuo marito venne
Il nostro Oronte, e a me genero, a lui
Ho fatto, ha men d'un'ora, apertamente
Conoscere il mio core e quanto caro
Stato mi sia l'aver saputo ch'egli
145Pres'abbia te per moglie. Or sol m'avanza
Far che tu intenda ancor quant'allegrezza
Avuto i' m'abbia che lui per marito
Pres'abbi; e però or voglio farti un dono
Onde potrai veder chiaro e palese
150Quant'io di fatto tal resti contento
E quanto ferma sia la pace nostra.
ORB.
Padre, i' non cerco aver più espresso segno
Da la maestà vostra de la pace,
Che 'l perdon c'ho da voi ricevuto oggi
155Oltre ogni mia credenza, ogni mio merto.
Pur, se vi è a grado farmi questo dono,
Non per chiarir più il ben che mi portate,
Ma per farvi piacere e per mostrare
Che quanto piace a voi, tanto a me piace,
160Accetterollo con benigna fronte.
SUL.
Così, figliuola mia, vo' che tu faccia.
Or leva quel zendado et ivi sotto
Vedrai la mia allegrezza e 'l tuo contento.
ORB.
Par che tema la mano avicinarsi
165A quel zendado, il core in mezzo il petto
Mi trema e par ch'io non ardisca alzarlo.
SUL.
Che tardi, figlia? Leva arditamente,
Che vedrai quel che t'aprirà qual sia
Verso di te il mio core.
ORB.
Oimè, ch'è questo?
SUL.
170Il don, malvagia figlia, che d'avere
Ha meritato il simolato amore
Verso di noi.
ORB.
Ai trista me! ai meschina!
SUL.
E la tua rotta fede.
ORB.
Oimè dolente!
SUL.
E 'l poco riguardare il nostro onore.
ORB.
175O spettacol crudele, o caso acerbo!
SUL.
Egli tal è, qual meritato l'hai.
ORB.
Ai, di ch'aspro coltello ora trafissa
M'avete, oimè!
SUL.
Di quel di ch'eri degna.
ORB.
180Oimè, pur devevate a' figli almeno
Usar pietà.
SUL.
Pietà non puote dove
è ingiuria così atroce.
ORB.
Oimè, più tosto
Morta foss'io, che veder cosa tale!
SUL.
185Tu vedi quel contento, o scelerata,
C'hai dato al padre tuo.
ORB.
Quant' oimè lassa
Lagrimevol mi s'offre questo dono
Ond'io credeva esser
contenta al mondo!
190Ai padre, ai caro padre!
SUL.
Or son tuo padre,
Ma allor non fui che ti pigliasti questo
Traditor per marito, iniqua figlia!
Ora m'è a grado ch'abbi aperti gli occhi
E mi conosca.
ORB.
Ai spettacol crudele!
195Oimè marito, oimè!
Oimè figliuoli, oimè!
Di quant'affanno, oimè, cagion mi sete!
SUL.
Quanto ciò è a te dolente, è tanto lieto
E piacevole a me, figlia proterva;
200E quanto più doler ti veggio, tanto
Più me n'allegro e più men gode il core.
ORB.
Spiaccievol più che non m'è mi sarebbe,
Padre, cosa veder così crudele
Che non pur altri, ma voi stesso indurre
205Porria a pietade; e quel che aggraveria
Più il mio dolor, sarebbe che da voi,
Da cui sperar devean grandezza e onore
Il mio caro marito e i cari figli,
Avessin ricevuto oltraggio e morte.
210Ma l'allegrezza ch'io vi veggio avere
Del mio dolore e de la morte loro
Et il considerar che 'l grave errore
Da noi commesso pena men crudele
Non meritava né men fier castigo,
215Più pazienzia aver fammi in sì gran doglia
Ch'io non avrei se ciò non fosse: ch'io
Molto più istimo l'allegrezza vostra,
Ch'io lieta fossi e voi foste dolente.
Ma perché, s'io riguardo la gravezza
220De la mia colpa et il mio grave errore,
Non merito ancor io pena men dura,
Come colei che sono stata prima
Cagion di tanto mal, padre, vi prego
(S'ottenne grazia mai figlia da padre)
225Che col nocente mio sangue lavate
La macchia fatta a la real progenie
E al nome venerabile del padre.
E perché più non vada a lungo il fatto,
Qual più vi piace di questi coltelli
230Prendete e 'n guisa il mio colpevol petto
Percotete che l'alma se ne vada
Et io ne resti qui pallida e essangue.
SUL.
Far ben lo mi devrei, se sol guardare
Volessi a l'error tuo, ma più non voglio
235Nel sangue mio por man di quel ch'io m'abbia:
Basta che quindi omai conoscer puoi
Quel che far ti convien per l'avenire
E 'n che rispetto aver mi dèi. Per ora
Proceduta insin qui sia l'ira nostra,
240Estinta in tutto nel colpevol sangue.
Te voglio, come pria, per cara figlia
E voglio che tu tenga me per padre.
ORB.
Non merto questo don, padre: la morte
Deve emendar l'error che 'n voi commisi.
SUL.
245Viviti pure e sii contenta meco
Che morti sian chi eran di morir degni,
Né meno erano a te ch'a me d'infamia;
E disponti d'aver marito uguale
A la tua altezza e al tuo sublime grado,
250Onde figli abbi de la stirpe tua
Degni, con mia sodisfazione. Or poni
Giù que' coltelli et entra meco in casa,
Ove da me chiar segno avrai di pace.
ORB.
S'ora anco il ciel non m'è contrario, guari
255Non andrà, traditor, che la vendetta
Farò io stessa de l'avuta ingiuria,
Se non mi vengon men questi coltelli.
SUL.
Ai malvagia, ai crudele, oimè, ch'io moro,
Oimè, che posto m'ha il coltel nel petto
260La scelerata figlia! oimè, aiutate
Il vostro Re, soldati. A che tardate?
Pigliatela, uccidetela, ch'io veggia,
Pria che del tutto i' moia, la vendetta.
SEM.
Che grido, oimè, che voce è questa orrenda
265Del Re Sulmon? La figlia col coltello
Che tenea ascoso ne la destra mano
Gli ha dato in mezzo il petto, mentre ch'egli
La voleva abbracciare, e li dà morte.
Ma questo non le basta, anco lo sgozza
270Con un altro coltello.
SUL.
Oimè, pietade!
SEM.
Egli è del tutto morto. Oh quanto sangue
Versa d'ambo le piaghe! Ma che veggio?
Puot'esser tal furore in petto umano?
E spezialmente in una donna? Il capo
275Gliele leva dal collo e da le braccia
Ambo le mani. Egli è come si dice,
Che né vento, né fuoco, né altra forza
è tanto da temer, quanto una donna
Che si veggia privar del suo marito
280E sia dal duolo a un tempo e d'Amor spinta.
Ma chi di Sulmon ben la crudeltate
Tra sé contempla, certo era ben degno
Che per le mani di colei ch'uccisa
Egli aveva ne' figli e nel marito,
285Egli mort' anch' avesse; e co' coltelli,
Co l'un de' quali aperto aveva a l'uno
De gli innocenti figli il petto e l'altro
Svenato avea, fusse sgozzato e aperto
Anch'egli; e se la testa avea ad Oronte
290Tolta dal collo e le man da le braccia,
Fori d'ogni giustizia, anch'ei devesse
Da le man che devean porgerl'aiuto
Contra ogni assalto, ugual mercede avere.
Ma non è stato mal a uccider lui,
295Ch'a Dio non s'offre vittima più grata
D'un malvagio Tiran com'era questo:
Mal è stato d'Oronte, di cui mai
Non fu veduto il più gentile, e male
è stato di que' figli che poteano
300(Come giust'era) assimigliarsi al padre,
E mal di questa povera Reina,
Di cui tant'è 'l dolore e così grave
Che gran meraviglia è ch'ella sia viva.
Parmi proprio vedere un'aspra tigre
305A cui tolt'abbia il cacciatore i figli,
Che cerchi tutto il bosco e d'aspre voci
Empia ruggendo tutta la campagna
E seco di dolor si strugga e roda.
Altro non è 'l suo viso che dolore
310E sol dal cor l'escon lamenti e grida
E come forsennata, or quinci or quindi
Crudelmente guatando, aggira gli occhi,
Che due facelle sembrano di fuoco.
Ma veggio che col capo e co le mani
315Del crudo padre e col coltello in mano
Se ne viene di fore; et io qui in casa
Me ne vo' gir, che non vorrei talora
Che 'n così oscuro e nubiloso tempo
Cadesse sovra me questa tempesta:
320Che toglie a altrui così l'ingegno l'ira
Et il fiero dolor, che non discerne
L'amico dal nemico; e ognuno a strazio
Conduce e a morte, senza alcun riguardo,
Chi ha l'animo disposto a la vendetta.
9.3. SCENA III
ORBECCHE, NODRICE, DONNE DI CORTE della Reina
ORB.
Or godi, traditor, de' tuoi misfatti,
Godi, via più d'ogni dur Scita crudo
E più fier d'ogni fiera, del tuo orgoglio
E de la fé violata. Tu, spietato,
5Sazio ti sei del sangue mio innocente:
Et io mi son del tuo colpevol sazia,
Ma con cagion più giusta. E 'n che t'aveva
Offeso Oronte mio, crudele, et io?
E s'avevamo noi fattoti oltraggio,
10Che colpa se n'aveano i figli nostri
Che tu li mi devessi far vedere
Tali quali ora i veggio? O scelerato,
E come, quando col coltel ferire
Volesti i chiari e generosi figli,
15Non trafisse a te il cor vera pietade?
O sol che sol il mondo orni et illustri,
Perché non ti fugisti allor dal cielo
Che questo fier Tiran, ch'or per me giace,
Commise così sozzo e orribil atto?
20Come poté la tua serena luce
Veder cosa sì cruda e così orrenda
E non venire oscura? O sommo Giove,
Perché non fu da' fulmini tuoi arso
Sì abominevol mostro e sì nefando?
25E come consentistù, terra, mai
Che fusse sovra te sì malign'opra
Commessa, oimè, perché nel basso centro
Non tragiuttistù l'omicida fiero
Che di pianger mi dà cagion sì cruda
30Che non so qual pianger mi debba prima,
O 'l marito o i figliuoli ? Ai, occhi miei,
Come potete voi questo mirare,
E non divenir ciechi? e tu, mio core,
Come mandare a mio sostegno puoi
35Lo spirito vitale, essendo morti
Que' ch'eran la mia vita, la cui imago
Con tanta gioia in te scolpita avevi?
Oimè, marito, oimè, figliuoli, oimè,
Perché non mi conciede il Re del cielo,
40Per sua bontà, che com'io mi viveva
In tuttatre voi lieta, ora morendo
A tuttatre donassi anco la vita?
E se non lece a me co la mia morte
Tornarvi in vita, perché almen non puoi,
45Marito mio, impetrar tanto di spirto,
Ch'a la dolente tua moglie infelice,
Che con sì amara voce ora ti chiama,
Risponder possi almeno una parola?
Ai sovra ogn'altra cosa amato capo,
50A che cheggio io quel ch'avenir non puote?
Maladetto colui che mi ti face
Tal or veder qual io ti miro. Accogli
Quel che la donna tua t'offere, il capo
Del traditor, che 'l tuo ti tolse, e quelle
55Mani che fèr lo scelerato ufficio.
E voi, fidi sostegni a la mia vita,
Figliuoli nati d'infelice madre,
Viscere espresse del mio corpo e vera
E viva imago del mio caro Oronte,
60Come son senza voi, oimè meschina,
Misera, trista, dolorosa, afflitta!
Perché vi dèi, come innocenti agnelli,
A quel lupo arrabbiato? perché prima
Non mi lasciai svenare e aprire il core
65Che darvi ne le man di quel crudele,
Assetato via più del vostro sangue
Che di quel de le fiere orso selvaggio?
Oimè, che mi mostraro bene in sogno
La mia trista ventura i Dei del cielo,
70E del suo aperto mal fu ben presaga
La mente mia; ma non si può schifare
L'empio destin né la malvagia sorte.
Ma godetevi almeno, alme innocenti,
Godete, che ne giace ora colui
75Per cui voi vi giacete. E co' coltelli
Con cui da lui ne sete stati uccisi,
N'è stato ucciso anch'ei, da quelle mani
Per cui ne devevate esser difesi
Dal suo furor, s'al ciel piaciuto fosse,
80E qual vittima a voi da lor sacrato.
Oimè, figli, o marito,
Oimè, marito, o figli,
Quant'è grave il dolor che per voi porto!
NOD.
O che pianto, o che grida, o che querele
85Crudeli i' sento!
DON. DI
Certo che son gravi,
COR.
Né lontano molt'è questo lamento.
ORB.
O giorno sempre acerbo a gli occhi miei,
Giorno sovra ogni giorno amaro e oscuro,
Quanto trista mi fai, quanto dolente!
90Oh che bel morir era oggi ha quattr'anni!
Non credo che di me sia più infelice
La infelicità istessa; e s'aver puote
Corpo mortale, ella nel mio si vive.
NOD.
Certo ch'io n'ho pietà, senza ch'io sappia
95La cagione del male o chi si dolga.
ORB.
Ma che prolungo più la vita mia?
Già verso voi finito è ogni mio ufficio,
Figliuoli miei, caro marito mio;
E più cosa nessuna a far mi resta
100Se non che venga a giungersi con voi
Questa infelice e miserabil alma.
Però, caro marito e cari figli,
Le cui anime forse a le mie grida
Venute sono e 'n questo loco insieme
105Godon de la vendetta da me fatta,
Cogliete questo spirto ch'a voi viene
Per più non si partir da voi, per sempre
Godervi. Or noi, contra il suo antico stile,
La morte, che disgiunge tutti gli altri,
110Congiungerà con sempiterno nodo.
Oimè, caro marito, o cari figli!
NOD.
Deh di grazia guardiam se noi vediamo
Chi sparge al ciel così dogliose voci.
ORB.
Ben prego, se non è pietà dal mondo
115Sbandita in tutto, ch'una grazia almeno
Mi sia concessa in questo estremo punto:
Che così come l'anime congiunte
Saran ne l'altra vita . . .
DON. DI
Oimè, Nodrice,
COR.
Che la Reina nostra è che si duole!
120Vedila là con un coltello in mano,
Che par che sé medesma uccider voglia.
NOD.
Oimè, che 'l traditor del padre avralle
Rotta la fede e l'averà costretta
A darsi morte co la propria mano!
125Ai trista me! M'andianle, andianle incontro,
Donne mie care, ma così nascose
Ch'ella non se n'aveggia, acciò che forse
Non s'avacciasse di passarsi il petto,
Veggendone a sé gire; e a poter nostro
130Levianla da la morte.
ORB.
Così insieme
In un medesmo luoco sian riposti
I corpi nostri in questa vita ch'ora,
Il petto trafigendomi, abbandono.
NOD.
Che cosa è questa, oimè, Reina, e quale
135Empio furor così cieca vi mena
A darvi morte ?
Ai trista me, che tardi
Siam giunte! Oimè,
Già si ha passato il core
140La nostra alta Reina!
Oimè, che morta
La veggio, oimè, giacere!
Ve' la cagione
De la sua acerba morte.
145Ai crudo padre,
Com'hai, essendo padre, mai potuto
Privar la figlia tua de' propri figli,
Oltre ogni merto lor, sì indegnamente?
Non dico del marito, ancor che vile
150Sia stata et iniqua opra averlo ucciso.
O che perdita è questa! oimè, che danno!
Ai vecchiezza infelice, ai vita amara
E più cruda che morte! ai destin fero,
Destin rapace e reo, destino ingiusto,
155Che più t'avanza a fare in questa corte
D'infelice, di tristo e di dolente,
Perché sazio ti resti ?
Oimè, Reina!
E perché non chiamaste anco con voi
160Questa infelice vecchia a morir vosco,
Acciò che mai non si potesse dire:
Orbecche è morta e la Nodrice è viva?
Oimè, che divinaste ben voi quello
Ch'esser deveva; et io, semplice e sciocca,
165Creder giamai nol volli, anzi vi spinsi,
O me infelice, a la palese morte,
Col mio persuadervi che contenta
Vi faria il don de lo spietato padre,
Che stato vi è cagion di darvi morte.
DON. DI
170Misere noi, ben siam come smarrita
COR.
Nave che 'n mar senza governo sia,
Piene d'ogni dolore
E senza alcuno onore,
Senza speme d'aita.
175Poi che colei, a cui non fu né fia
Simil unqua tra noi,
Al fin de' giorni suoi
Venuta e qual baleno è a noi sparita.
Ai fortuna aspra e ria,
180Ai sorte acerba, ai sorte,
Com'hai a un colpo sol tutte noi morte!
NOD.
Giusto duol bene a lamentar vi mena,
Figliuole mie, ch'a voi tolt'ha la morte
Ogni speme, ogni onore, e a me la vita.
185O fallaci pensier di noi mortali!
Or che Reina e maritata e lieta
I' sperava vedervi in somma altezza,
Morta i' vi veggio. Oimè trista e dolente!
O Signora, o Reina amata e cara,
190Alzate gli occhi a la Nodrice vostra
E vedete il suo pianto; e a le parole
Risponda questa bocca da la quale
Uscian sì dolci e sì soavi accenti
Che potean di dolcezza ogni gran pianto
195Condire, oimè!
Ma non farà la morte
Ch'io non accolga almen da queste labbra
Lo spirto estremo, se ven resta punto.
O dolci e care labbra,
200O labbra amate,
Che con tanta mia gioia già succiaste
Le poppe mie, com'or vi veggio essangui!
Misera me, ben sono, oimè, di vetro
Le spemi nostre e d'ogni lieve vento
205Più veloci a fuggirsi.
O vita mia,
Deh rispondete almeno una parola
A la trista Nodrice ch'or vi chiama.
Ma che pur chiamo? Ella non sente nulla.
210Però, care mie figlie, or m'aiutate
A portarla qui in casa e i figli e 'nsieme
Il capo del marito, acciò ch'almeno
Compiamo verso lor l'ultimo ufficio
E gettiamo il crudele empio Tiranno
215A divorare a gli avoltori, a i lupi.
Peso già a me via più d'ogn'altro dolce,
Com'or mi sei via più d'ogn'altro amaro!
Oimè, Reina, oimè,
Oimè, perché non moro,
220Conoscendo voi morta?
Oh come mai
Potrò più senza voi vivermi al mondo?
Oh perché, come m'hai d'ogni ben priva,
Crudele, acerba, inessorabil morte,
225Togliendomi colei ond'io viveva,
Tolta non m'hai con lei di questa vita?
DON. DI
E noi che più sperar, lasse, devemo?
COR.
Morta ogni nostra spene,
Sol n'avanzan sospiri, angoscie e pene.
230In voi perduto ogni sostegno avemo,
Cara Reina nostra, e con voi giace
Ogni nostro contento et ogni pace.
9.4. CORO
CORO
Ben è vana e fugace
Questa felicità nostra mortale,
Ch'un'ombra è de l'eterna;
E a chi ne la divina l'alma interna,
5Quanto più bella par, tanto men vale.
Dunque a quella immortale
Ch'è là dov'è il Signor che 'l ciel governa,
Chiunque il ver discerna,
Del veloce pensier spiegar dee l'ale
10E lasciar questa frale
Qui godere a gli sciocchi,
Cui le cose terrene appannan gli occhi.
IL FINE DEL QUINTO ATTO
10. LA TRAGEDIA A CHI LEGGE
Tragedia
Venut'è omai il mio doglioso fine,
Caro lettore, e se potuto avessi
Di me medesma a voglia mia disporre
Stando nascosa, non avrei noiato
5Co le dolenti mie querele alcuno.
Che quantunque io sapessi ch'i più saggi
Preposero a ogni sorte di poema
La real gravità de la Tragedia,
Come color che ben vedean che nulla
10Era nel mondo onde potesse avere
Lo stuolo uman modo miglior di vita,
Non dimeno i' vedea che sì cresciuta
(Mercé del guasto mondo) è la lascivia
Che non pur la Tragedia non è in pregio,
15Ma il suo nome real è odioso a molti.
Ma poi c'han vinto il mio voler l'altrui
Voglie e costretta sono uscire in luce
Mal grado mio, s'è 'n te pietà ti prego
Ch'esser vogli vèr me più tosto mite
20E benigno censor, ch'aspero e crudo:
Perché tu non aggiunga al mio dolore,
Ch'è dur da sé, col lacerarmi, affanno.
E se forse parrà ch'io non mi scopra
In quell'abito altero in che devrei,
25Iscusimi la forza de' martiri
Che tanto ogni desio d'ornarmi m'hanno
Tolto, che spesse volte ho avuto invidia
A le più rozze pastorelle, essendo
Ne l'umile lor abito riposo,
30Ov'è 'l grave e real pieno di cure.
Né mi dèi men pregiar perch'io sia nata
Da cosa nova e non da istoria antica:
Che chi con occhio dritto il ver riguarda,
Vedrà che senza alcun biasimo lece
35Che da nova materia e novi nomi
Nasca nova Tragedia. Né perch'io
Da gli atti porti il prologo diviso
Debbo biasimo aver, però che i tempi
Ne' quai son nata e la novità mia
40E qualche altro rispetto occulto fammi
Meco portarlo: che ben pazzo fora
Colui il qual, per non por cosa in uso
Che non fosse in costume appo gli antichi,
Lasciasse quel che 'l loco e 'l tempo chiede
45Senza disnor. E s'io non sono in tutto
Simile a quelle antiche, è ch'io son nata
Testé da padre giovane e non posso
Comparir se non giovane; ma forse
Potrà levare il dispiacer ch'avrai
50Del mio grave dolor, la verde etade.
E che divisa in atti e 'n scene io sia,
Non pur non deve essermi ascritto a vizio,
Ma mi deve mostrar via più leggiadra.
Che com' un uom fia strano mostro al mondo
55Che non abbia distinte in sé le membra,
Cosi anch'io istimo che spiacevol fora
Vedermi in un tutta confusa. E bene
Seneca vide et i Romani antichi,
Quanto vedesser torto i Greci in questo.
60E ch'io sia grande e grandi abbia le parti,
Fuor de l'ordin non è de la natura,
Anzi maggior beltà regna in que' corpi
Che ne la spezie lor sono maggiori.
E s'ad alcun, cui grave sia d'udire
65Ragioni ch'a pietà possin piegare
Un animo disposto a la vendetta,
Troppo lungo parrà forse Malecche,
Egli a sua volta lo si accorci, ch'io
Mai perciò non verrò seco a tenzone.
70Né stran ti paia che le donne ch'io
Ho meco in compagnia sian via più saggie
Che paia altrui che si convenga a donne.
Ch'oltre il lume, qual ha de la ragione
Come l'uomo la donna, il gran sapere
75Che chiude in sé quella sublime e rara
Donna, il nome di cui alto e reale
Con somma riverenza e sommo onore
Oscuramente entro a me chiaro serbo,
Far può palese a ogni giudicio intiero
80Non pur quanto di pregio in sé aver possa
Donna gentil, ma che 'n prudenzia e senno
(Rimossa che ne sia la invidia altrui)
Agguagliar puote ogni saggio uom del mondo.
Appresso non ti paia stran che i Ciri
85Meco non abbia e i Dari e le Satipne,
Quantunque i' mi confessi esser di Persia:
Che da sì fatto biasimo iscusare
Mi può il mio nascimento, a chi ben mira.
Né dee duro parere, ad uom che sappia
90Che può desperazione e grave doglia
In cor di donna, che la figlia, senza
Speme alcuna rimasa nel dolore,
Dat'abbia acerba morte al crudo padre.
E quantunque ne moia il fier tiranno,
95Nessun di sceleragine giamai
M'accuserà che con sano occhio miri
A qual pietade desti i cori umani
Il caso di coloro ond'io son nata.
E s'avut'ha lo Stagirita duce,
100Che tanto vide e tanto seppe e scrisse
E di compor Tragedie aperse l'arte,
Nel darsi aperta morte la Reina
Ond'ho il nome io, per per fine al suo male,
Maraviglia non è se da le leggi
105Del Venusino in ciò partissi e volle
Nel cospetto del popolo col ferro
Darsi con forte man la morte in scena.
A que' ch'a' giri de le voci intenti
Vanno ansiosamente mendicando
110Gonfie parole et epiteti gravi
E d'orror ciechi e sanguinose morti,
D'Acheronti, di notti orride e nigre
Empion le carte lor se scrivon pianto,
E s'allegrezza, altro da lor non s'ode
115Che fiori, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
Rubin, perle, zefir, topazi et oro,
Dirai ch'a scielta tal mi fece inetta
La forza del dolor che mi premea;
Et ho voluto aver più tosto duce
120Con l'ornamento debito natura,
Che con pompose voci una finta arte.
A' molti ch'oggi scrivono volgare
E lascian l'uso de' scrittori eletti,
Fidandosi di sé per esser nati
125In parte ove par lor che sia perfetta
La volgar lingua, ch'è senza alcun pregio
S'a lei non danno onor gli auttori antichi
Tu risponder potrai agevolmente,
Se forse contra me parlar vorranno,
130Perché seguito in parte abbia il gran Tosco
Che per Laura cangiò l'Arno con Sorga,
Et il buon Certaldese, eterni e chiari
Lumi de la volgar dolce favella.
Che tal fu la Romana e tal la Greca
135Lingua, qual ora è la volgare et ambe
Non dal parlar comun, ma da' scrittori
Che 'n esse si scoprirono eccellenti
Ebbero nome e tanto for pregiate,
Quant'era simil l'una e l'altra a quelli
140Tre, quattro e sei ch'avean la scielta fatta
Del meglio tra il parlar del volgo indotto.
E chiunque nel dir cercava fama,
Seguia que' scrittor buon, né si fidava
Di sé per esser nato in Grecia o 'n Roma.
145è vero ben che per essere ancora
Vivo questo volgar grato idioma,
Giudico che sia lecito a chiunque
Scrive in tal lingua, usare alcuna voce
(Scielta però da singolar giudicio)
150Che ne' predetti Toschi non si trovi.
Però a quei che ristretta han questa lingua
(Che in tal oppinione oggi son molti)
Solo a le voci de' due chiari Toschi,
Se voce è 'n me che non si trovi in essi,
155Vo' che risponda teco il divin Bembo,
Bembo divino che la volgar lingua
Tolt'ha dal carcer tenebroso e cieco
Regno di Dite, con più lieto plettro
Ch'Orfeo non fe' la sua bramata moglie;
160E 'l Trissino gentil che col suo canto
Prima d'ognun dal Tebro e da l'Illisso
Già trasse la Tragedia a l'onde d'Arno;
Et il gran Molza, il cui onorato nome
Vola con chiaro grido in ogni parte;
165Et il buon Tolomei ch'i' volgar versi
Con novo modo a i numeri Latini
Ha già condotto e a la Romana forma;
E quel che 'nsino oltre le riggid'Alpi,
Da Tebbe in Toscano abito tradusse
170La pietosa soror di Polinice:
I' dico l'Alamani che mi vide
Per mio raro destino uscire in Scena.
Questi felici e pellegrini ingegni,
Co gli altri che seguiti han le lor orme
175(Ancora che que' due celebri auttori
Abbiano in pregio tal qual deono aversi),
Cercando d'aumentar questa favella
Con ferma elezione e ver giudicio,
Han più tosto voluto procacciarsi
180Con libertà lodevole di voci
Ch'aprano e lor concetti, che 'n prigione
Co' ceppi a' piedi rimanersi muti.
Lasciando adunque a te tal peso e a loro,
Attenderò, sotto il presidio raro
185Del Signor sotto il cui favor son fuori,
Ch'altri, da le mie voci forse desto,
In abito più altero e più onorato
Mostri Tragedie e di beltà più rare.
Perché a le virtù loro, a le lor doti,
190A la mirabil lor rara bellezza
(Pur che non sia diforme al mio dolore)
Cercherò somigliarmi a mio potere.
IL FINE