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ORFEO

1° atto: Euridice e altre due ninfe corrono felici per i prati fioriti. Giunge Aristeo che insegue Euridice. Euridice viene morsa da un serpente velenoso e muore. Le altre ninfe si disperano e poi corrono (se pure titubanti temendo la reazione disperata di lui) da Orfeo per annunciargli il triste evento. Giunge Thanatos a rapire l’anima di Euridice, quindi Orfeo, disperato.

2° atto: Orfeo scende all’Ade. Incontra le Erinni, quindi Caronte,Polluce ed Ecate.

3° atto: Orfeo a cospetto di Ade e consorte. Persefonee le Erinni piangono. Orfeo (accompagnato dalle Erinni) sale verso il mondo dei viventi con Euridice alle spalle. Orfeo si volta.

4° atto: Dall’Olimpo, Zeus, Hermes e Apollo considerano la vicenda. Le Menadi seguono Orfeo che vaga per le campagne tracie. Dialogo tra Orfeo e Dioniso.

Personaggi

Euridice, 2 farfalle, I° e II° ninfa, Aristeo, Thanatos, Orfeo,Aletto,Tisifone, Megera, Caronte, Polluce, Ecate, Ade, Persefone, Zeus, Apollo, Hermes, I, II e III Menade, Dioniso, Coro di ninfe, Coro di anime.

I° ATTO

Euridice corre lieta su un prato, inseguendo farfalle. Due farfalle volteggiano danzando.

Euridice: Farfalle! Aspettatemi, variopinte figlie del cielo, volteggiate a me d’intorno! Non sono qui per rincorrervi, ma per mescolare i miei sogni ai vostri! Vi prego: non stancatevi! Come io non mi stanco di ammirarvi, e proseguite la vostra sacra danza! Perché mai gli uomini avranno dimenticato un dio a proteggere le più leggiadre e vivaci abitatrici dell’aria? Un dio o una ninfa gentile cui appoggiare le loro ali dorate? E perché mai gli Dei non hanno partorito, nei loro intricati amplessi, qualcuno che potesse dedicarvi il nome e le ore eterne impegnate a districare i venti, ad osservar le aurore? Nate dal sole, che dai fiori le trae in vita ogni primavera, dopo che il verno le ha disperse e spente;forse è lui il dio loro consacrato? Forse sono le loro ali a sorreggerlo in cielo?

Maggior fortuna non hanno i campi Elisi, né Olimpo ne conosce il volo, stretto tra nebbie e nevi! Ed io qui le inseguo e con loro gioco, in un’eterna danza che le mie emozioni nutre e accende la speranza di potere un giorno coglierne i segreti, di poter sapere il senso del loro continuo andare, punteggiato soltanto dai lieti riposi sopra i dorati calici.

I° Ninfa:La nostra Psiche vestita da farfalla!

II° Ninfa: E il suo Eros dov’è?

I° Ninfa: A casa, che compone e suona.

II° Ninfa: Cosa scrive?

I° Ninfa: Un mesto canto in cui una giovane donna inciampa, e trova la morte mentre fugge inseguita da uno spettro.

II° Ninfa: Il suo è un animo triste. Anche quando il cielo gli splende, si perde in fantasticherie accorate e fosche. Vogliano i Numi essergli sempre propizi o i suoi lamenti copriran la terra!

I° Ninfa: Per questo piace tanto alle donne! Sa toccare in loro corde e motivi che altrimenti resterebbero muti. Ed esse tanto amano il riso come la mestizia, specie se di pensieri colma! La sua ninfa invece … è un piacere vederla correre felice! Fortunato Orfeo, che ne conosce il cuore!

II° Ninfa: E fortunata lei a stare accanto a sì gran poeta!

I° Ninfa: Pochi come loro si amano!in terra come in cielo!

II° Ninfa: Mai al mondo si ama abbastanza. Mai è sufficiente un sentimento di fronte al Tempo che avanza e domani ne porterà il rimpianto!

Euridice: Sorelle, che fate li immobili? Non sentite anche voi bisogno di parlare alla natura che benigna ci accoglie nel suo abbraccio? Stagione lieta è questa, che il nuovo risveglio copre terre ed acque, e pure i cieli s’adornano di canti e danze!

I° Ninfa: Primavera ci fa toccare il mondo e ci immerge nel suo corpo, da cui nascemmo a salutare il sole.

II° Ninfa: Chi le città coltiva si è fatto estraneo al naturale ciclo che tutto riassume e spiega.

Euridice: Solo il canto dei poeti, tramandato di voce in voce mette ancora in comunione gli uomini con la loro madre ancestrale. E il mio Orfeo è il primo tra tutti quelli che incantano il mondo, e traggono da ogni ondeggiare e oscillare di luce la musica soave e dolorosa che muove e commuove i cuori.

I° Ninfa: Ben dicesti, Euridice: dolorosa. Perché tanto struggenti toni in lui si esprimono?

II° Ninfa: Perché, se la sua vita è allietata dal tuo gentile amore, e tutto in lui si svolge da favorevoli eventi accarezzato?Nulla giustifica il tono affranto che spesso riveste e vive.

Euridice: Pure, non vi fa amare la vita il suo canto?

I° e II° Ninfa: Questo è vero!

Euridice: Amare la vita è la forza che più di ogni altra ci fa toccare lo struggimento nascosto nel suo natural declino. La gioia che ci accompagna al mondo tanto più ci inebria, più ne soffriamo l’idea che essa abbia fine. Così, più si ama la vita, e più disperato è l’accento del suo addio. E un poeta, se non vuole cadere in una deriva che lo allontana dalla propria e dall’altrui natura, questo deve anche cantare al mondo, perché questo anche vive, e quel vivere necessita parole cui appoggiarsi. Ma ora non pensiamo a tutto ciò, che le notti silenziose e nere già sono momento propizio ai cupi pensieri! Da poco ce ne siamo liberate, fuggita è la stagione avversa! Giunte qui siamo per inebriarci di luce e calore, per correre lievi sopra ai prati e farci tutt’uno con il nuovo percorso del sole che c’inonda, fa fremere e al cuore la sua gioia versa!

I° Ninfa: Sì, corriamo, corriamo ad inseguire il sole!

II° Ninfa: Ad ammirare il cielo e nasconderci nei nuovi boschi di tenere verdi foglie adorni, nostre case e profumi!

Le ninfe ed Euridice iniziano a danzare. Le due ninfe escono.

Euridice: Ci siamo perse! Però odo ancora lontano il canto delle mie sorelle. Meglio che le raggiunga. Anche le selve e i prati possono celare insidie sotto il fresco manto! Le loro naturali e quelle che gli uomini lì posson portare.

Entra Aristeo.

Aristeo: Fermati Euridice! Ninfa felice la cui bellezza solo Afrodite insidia.

Euridice: Aristeo! …

Aristeo: Non turbarti, Euridice. Qui mi condusse solo il sentimento che in te si sublima!

Euridice: Non avvicinarti figlio di Apollo e di Cirene! Già ti dissi impegnato il mio amore! Non vi è spazio per te nei miei giorni, nel mio cuore e nella mente. La mia bellezza, poi … troppo esaltasti. Con Afrodite nessuna potrà mai competere, poiché l’Idea stessa di bellezza in lei sola si compone. Ella è sogno intoccabile, posto oltre i limiti umani.

Aristeo: Non per lei è possibile perdere il cuore, cosa che invece a te è concesso trarre. Fui colpito da quel morbo, da quella freccia che certo Eros scoccò infallibile e in te ora il mio ardor si specchia.

Euridice: Non perseguitarmi Aristeo! Non costringermi a fuggire ancora per boschi e valli. Tu sai che dalle piante frondose vengo, e in esse è un luogo occulto ove accogliermi e proteggermi sapranno. A te i loro rami protenderanno a ostacolar la corsa, e non avranno pietà se tra le loro intricate trame ti perderai; anzi: ancora più inestricabili le renderanno.

Aristeo: Non mi spaventa questo soccorso che so bene esserti accanto e altre volte provai a mio danno. Neppure se tutte le foreste dell’Ellade dovessero precipitarmi addosso, potrei negare al mio sentimento l’ardire cieco che ti brama e spera. Non fuggirmi, ti prego, e accogli il mio amore che spontaneo e senza reconditi fini mi crebbe in seno.

Aristeo si avvicina a Euridice, che inizia a scappare. Fanno due o tre giri del palco, sino a che Euridice viene morsa dal serpente. Cade in preda al dolore fisico, ma anche a un terrore emotivo e spirituale. Infine muore invocando il suo Orfeo. Quando lei muore si spengono le luci, e dopo un po’ si riaccendono. Aristeo le si avvicina, ma non osa toccarla, poi scappa (esce). Entrano le due ninfe che corrono a portare la triste notizia a Orfeo. Giunge Thanatos che porge la mano a Euridice,la cui anima si alza, mentre il suo corpo resta a terra. Thanatos accompagna lo spirito di Euridice ed esce. Entra Orfeo con le due ninfe.

Euridice: Ah! Un dolore mi penetrò la carne! Vedo una serpe fuggire tra le erbe! La vita mi abbandona! Che tremendo destino mi avvinse! Sorse il sole, ma non mi disse che gli ultimi suoi raggioggi avrei colto! Angoscia! Angoscia!Mi sei scesa nell’anima! Pocanzi, lontana e silente, mi osservavi danzare come alata creatura, ed ora mi mostri il mio Orfeo che da me per sempre si allontana. Già aspetto di Thanatos l’ultimo abbraccio e nell’Erebo mi si prepara una dimora eterna! Orfeo! Orfeo! A te il mio ultimo impotente pensier si leva! Il nostro amore empie il mondo, ma oggi svanisce come neve al sole, come la Luna che discende al mare! Ahi! Mondo, più non ti vedo! (Leopardi)

Euridice muore.

Aristeo: Che ho fatto! Il mio folle amore per Euridice ne causò, benché incolpevole, la morte! Perché dal più sublime frutto della natura umana può nascere tale abominio? Quale fu il sentiero che il destino volle legare a se stesso? Perché non con altra natura fu pensato e nel mondo posto a segnare i nostri giorni? Solo un ultimo sguardo ho concesso a una vita che anche in me si spezza! Meglio fuggire! E fuggire sarà d’ora in poi la mia esistenza, dal mondo e da me stesso.  Esce.

Si odono le voci delle due ninfe avvicinarsi. Le farfalle, ora però affrante e partecipi al nequitoso evento, continuano sempre a volare intorno, ma con volo più lento.

I° Ninfa: È passata di qua! Euridice!

II° Ninfa: Euridice!

I° Ninfa: Eccola! Laggiù, sdraiata tra le erbe!

II° Ninfa: È morta! È morta!Una serpe qui ha inciso la sua corona dentata e un amaro fiele le ha iniettato!

I° Ninfa: Euridice! Euridice!

II° Ninfa: È inutile. Non può più sentirci! Ciò che ora ode sono solo i passi pesanti d’Ade che risuonano nel cupo antro dell’Erebo!

I° Ninfa: Ed ora? Come dirlo al suo Orfeo? Chi ne avrà il coraggio?

II° Ninfa: Potessimo usare uno di queste farfalle come messaggere alate per così ferale notizia!

I° Ninfa: In inganno lo trarrebbero quei variopinti voli. Non può un colore annunciare la notte! Se una serpe potesse essere il nunzio, lui, che sente e comprende anche il vibrar delle foglie, certo capirebbe.

I° Ninfa: Andiamo! Saremo noi ambasciatrici di morte!

Le due ninfe escono. Entra Thanatos.

Thanatos: Finalmente sola! Ora potrò portare a termine il mio triste compito! Già altre volte provai pena e disagio per la mia nefasta incombenza, ma oggi rapire l’anima di sì leggiadra creatura mi segna nel profondo! Cuore, non esitare, tu sei Thanatos, lo spietato! Siilo anche oggi sino in fondo, così che le genti tutte continuino ad appellarti tale. Voi che assistete (rivolto al pubblico) avrete già inteso diversa mia natura, a tutto questo costretta da un voler maggiore. Almeno in voi spero trovare comprensione e pietà! (gentilmente e con profondo rispetto) Vieni Euridice, ti condurrò nel Regno che sotto terra è posto.

Euridice emette un tenue lamento.

Euridice: Ti prego, Genio, lascia che un ultimo saluto porga al mio Orfeo. Pia e silente poi ti seguirò nell’ombra.

Thanatos: Vorrei poterlo. Non scrissi io il libro che regola il vostro secondo andare, e vieta ogni contatto.

Euridice: Non mi toccare!

Thanatos: È inutile Euridice: sei già morta! Il mio è solo l’ultimo passo necessario affinché l’anima tua dal corpo si separi. Preferiresti forse aver casa per sempre in questa terra?

Euridice: Meglio tra fiori ed erbe che nell’Erebo tenebroso!

Thanatos: Il tuo corpo non appartiene agli Dei, e gli uomini potranno scegliere ove deporlo, ma l’anima ha negli Inferi un luogo già assegnato. Vieni ora, andiamo!

Euridice: Ti prego ancora: un ultimo sguardo al mio Orfeo concedimi! Non mi trascinare! Poi, obbediente, ti tenderò la mano.

Thanatos: Presto lo rivedrai nell’Erebo, mi spiace, non posso più aspettare!Concedimi la mano e più non mi parlare.

Euridice tende la mano a Thanatos, il quale la prende e insieme si incamminano verso l’Erebo. Escono.L’ambiente si adombra totalmente mentre Thanatos ed Euridice escono. La scena successiva l’ambiente è illuminato e Euridice è sdraiata sul prato. Arriva Orfeo, seguito dalle due ninfe, che entra a passi lenti, quasi per non disturbare, come poi dirà, l’amata. Si dispera e china sul suo corpo, che solleva in parte, portandoselo al petto e coprendone i capelli di baci disperati. Le ninfe se ne stanno un po’ appartate, piangenti e addolorate.

Orfeo: O ninfa amata!Chi ti volle gettare morta un’ultima volta alle mie braccia?Triste e prematura fine ti colse! Tu, la cui unica colpa era quella di un sorriso solare tra le fronde ombrose, o quella di danzare ai suoni variopinti di cui natura è pregna! Ancora profumano del tuo corpo e risuonano del tuo canto i sentieri che qui intorno calcasti! Gli uccelli muti si sono fatti al vederti cadere in terra, così che l’eco tuo ancora rimbalza tra crepacci e forre! Lasciati un’ultima volta accarezzare! Ecco: senti il pianto del tuo sposo; ti lascio al suo dolore! Lieve calcai la terra giungendoti appresso, che non volevo disturbare il dolce sonno. Tale appare infatti il sereno tuo volto, in cui ancora una volta (e sarà l’ultima) ora mi specchio. Livido vedo il tuo polpaccio, toccato dal destino. Quel maligno umore ti corruppe il sangue, e salendo tramite esso entro il tuo corpo, ti spense il respiro. Qui tutt’intorno parla di te: da quelle piante nodose nascesti e in ogni voce che qui risuona avevi un eco dentro te stessa. Eppure nulla e nessuno valse a proteggerti. Così accade allorché il Fato sceglie per noi e la nostra vita appende. Ade pietoso, riserva il più bel loco che nell’Erebo si cela a colei che più splendente, dopo Afrodite, stava lieta in terra! Degno di te sarà così l’estremo addio, se pure ben misero orpello sarà a confronto di quella morte che t’avvolge, rendendo vana ogni parola, ogni sacrificio e ogni profumo d’alloro e mirto in tuo onor bruciato. Ma poi, terminati i sacri riti che si devono rispettare in terra, altro viaggio mi attende verso i notturni luoghi ove ora sosti. Già morto sono: la tua dipartita è stata una lancia piantata al mio costato. Naturale mi sarà perciò scendere in fondo. Di riportarti in vita chiederò ad Ade mene sia concessa forza! Ti prometto che, sino a che non avrò di lui il borbottante assenso, non lascerò quei lidi, anche a costo di scandalizzare gli Dei con il gesto empio che dovrò provare.

Coro di ninfe.

Orfeo, uomo triste, il suo corpo stringi

lacrime e baci non hai più da dare

ciò che cantavi spesso ora tu piangi

scuoti il bel volto, non la puoi salvare.

Ah, sulla terra il tempo avanza e teme

la vita già segnata dalla sorte

treman le labbra e tutto il corpo freme

lei non risponde, presa dalla morte.

Il Genio venne, la voleva amare

ma cupo accanto non potea mutare

l’ardua parola scritta dal destino.

Fredda una maschera dovea portare

nato per sempre a tutti ricordare

tetra l’entrata badata da un mastino.

Orfeo prende in braccio Euridice ed esce. (Se ciò non fosse possibile: si spengono le luci e si chiude il sipario).

II° ATTO

Iª scena

Sei mesi dopo, Orfeo, tenendo la lira in mano, si trova sulla sponda del lago d’Averno.

Orfeo: Eccomi al lago d’Averno, la buia entrata che conduce all’ultimo luogo ove s’affollano le anime umane. Già parmi udire lontano il sotterraneo scroscio dei fiumi inferi, lo sciabordio di quelle onde che oltrepassare dovrò per raggiungere la mia Euridice, che laggiù vaga smarrita. Coraggio, squarciami il petto! Ora più che mai tu mi abbisogni! Tante prove superai, tante azioni eroiche, ma sempre alla luce di Helios esse si svolsero. Ben più arduo passaggio qui m’attende. Prova suprema che non il corpo ma l’anima colpisce e offende. Chi oltrepassa quel varco conosce le condizioni del suo entrare, ma ignora se mai ne avràl’uscita. Ecco: quest’antro fumante, che sotto terra è posto, è il mondo estremo in cui ora scendo.

Orfeo entra nell’Erebo.

Orfeo: Qui inizia la mia discesa. Possano gli Dei avere pietà d’Orfeo.

Coro di anime.

Tre son le Erinni, tre le aguzze voci

il cui grido entro l’antro rimbomba

tre il numero delle vecchie atroci

che alfin la vita portano alla tomba.

Tre le Gorgoni, una sol mortale

che nel rimorso ti trasforma in pietra.

Non hanno tempio, non una vestale:

son le Càriti cui la grazia è etra.

Tre son le Horai che le stagioni hanno

e di colmi panier dono ci fanno

immerse in luci e suoni senza affanno.

Tre i divini sovrani d’ogni terra

l’uno scese dal Caos prima del miele

l’altro, Titano, fu figlio crudele

poi venne Zeus che l’Olimpo serra

il cui potere nacque da una guerra

che sopra al mondo sparse amaro fiele.

Ma più profondo ancora è un altro Regno

dove Ade spiega le sue nere vele

nel Tartaro sprofonda chi non degno.

Entrano le Erinni.

Aletto: Ecco il cantore tracio che le leggi divine qui vorrebbe trasgredire.

Tisifone: Ogni suo passo dobbiamo far sì che si appoggi a pungenti rovi, ogni sguardo dovrà sostare su fiamme immani e ogni suono essere lamento e pianto. Lo spavento dovrà scendere in fondo al suo cuore e cancellare dalla mente persino il ricordo di Euridice.

Le Erinni si avvicinano ad Orfeo ed iniziano a danzargli intorno agitando chi una fiaccola (Aletto e Tisifone) chi una frusta (Megera).

Erinni (in coro): Orfeo-o!

Aletto: Fuggi da questo luogo, noie e rimpianti qui solo udirai…

Tisifone: … nebbie fumanti soltanto vedrai …

Megera: … di Sisifo l’immane fatica che eterna gli dura; di Prometeo, Titano, il castigo che i visceri strappa, poiché il fuoco donò a una terra oscura …

Erinni (in coro): Orfeo-o! …

Orfeo: Chi è?

Erinni (in coro): Orfeo-o! …

Orfeo: Qui tutto è tetro! Vedo solo danzare maligne fiamme. Ove anche il silenzio si veste di paura, quelle voci ignote ti scendono nell’anima ad atterrirla ancora.

Erinni (in coro): Orfeo-o! …

Orfeo: Chi mi chiama con così inquietante voce? Chi siete voi? Che volete da me e perché non vi mostrate in volto?

Megera: Siamo coloro che vendicano l’empio gesto, perseguitando chi alla propria stirpe portò lutti e rovine.

Orfeo: Siete voi le figlie folli della Notte che dal Caos discese? Quale vendetta volete a me portare? Con quale arma colpirmi, se l’unica che mai usai è stata la lira con cui anche i fiumi incanto? Perché perseguitarmi, se nessuno mai uccisi, né in alcun modo violai Giustizia? Non una bilancia ho rovesciato, né un pianto causato. Chi mai può imputarmi colpa alcuna? Anzi: furono Thanatos e la Moira a spezzare la mia vita, rapendo colei che sommamente amavo, quella ninfa gentile che sui boschi vegliava, accompagnando gli uccelli ad udire il mio canto, e gli uni e gli altri ne restavano estasiati.

Megera: Lo sappiamo, Orfeo. Ben conosciamo la fama del tuo canto, che anche in Olimpo è accolto! Ma questo non ti permette di infrangere le leggi cui gli Dei legarono gli uomini! Nessun mortale può scendere negli Inferi ancor vivo, e ancor più nessun mortale può lasciare quei luoghi se già una volta da Thanatos toccato! Chi mai sei tu per sconvolgere quest’ordine che dal Ciel discende? È vero: non commettesti iniquità o delitto alcuno, ma esiste un limite tra ciò che è lecito all’uomo nei confronti della vita e della morte, e questo limite ha una sua strada di giustizia. Anche su quella noi dobbiamo vigilare. Orfeo, torna da dove sei venuto! – Erinni: Orfeo-o!

Orfeo: Chi di voi con tali accenti mi parla? Sei tu Aletto che mai riposa, pronta a suscitare odi e guerre; o tu, Tisifone, che il bel Citerione uccidesti col morso di uno dei serpenti del suo capo? O forse Megera tu t’appelli?

Megera: La terza che nominasti io sono!

Orfeo: E proprio tu mi parli con tali parole?! Tu, che invidia porti nel cuore e induci a commettere infedeltà d’amore?! Mostra il tuo volto allora, se coraggio bastante hai per guardar negli occhi chi invece per giorni sparse lacrime, reclamando al Cielo il nome dell’amata. E quelle lacrime che mi bagnavano il viso le sentivo salire dall’anima, scorrere in me come sangue, irruenti come la piena di un fiume; e bruciare come fiamme nel mio corpo. Solo quando esse uscivano dagli occhi, ne traevo un tenue e dolce sollievo, che ancora mi lasciava in vita. Per tale amore, che rassegnarsi non poteva, né spegnersi nell’anima, decisi di scendere nell’Erebo (più orrendo viaggio non conosce l’uomo) nel tentativo, forse vano, d’impietosire Ade a concedermi di riportare Euridice in terra, sotto quel sole in cui tanto lei si inebriava al vento. Chi siete voi per giudicare i dolori estremi degli uomini, se mai guardate umilmente prima in voi stesse? Condurvi non dovrebbe pietà ed amore? O altri valori nutrono gli Eterni?

Tisifone: Nostra natura è imposta!Così essa fu fatta e così la cantarono i poeti! Tu che sei tale certo questo intendi!

Orfeo: Intendo quanto sia facile appellarsi a una imposizione la cui trasgressione manca solo di una volontà che vi si opponga!

Megera (rivolta alle altre Erinni): Che rispondere a tali parole?

Tisifone: Le parole sono lo specchio del cuore. Puro è quello di quest’uomo, che sembra non conoscere altra strada se non quella della virtù e dell’amore, pronto a sacrificare sé stesso!

Aletto: Lasciamo sia Ade a decidere il da farsi; questo è il suo Regno, ove il volere impone. Gli Dei non potranno accusarci di nulla. Di fronte a tanta dedizione ogni parola tace, e muto il cuore degli Eterni forse si pone, per rispetto a così sofferto strazio.

Orfeo: Dunque…perché non rispondi?

Aletto: Orfeo, chi ti parla è Aletto, e lo faccio anche a nome delle mie sorelle. Il tuo parlare ci ha toccato il cuore e mostrato il retto agire che anche a noi vien chiesto. Pertanto non più ti perseguiteremo in questa tua discesa, ma accompagnandoti, se necessario, ti aiuteremo anzi a superare gli ostacoli che a te si frapporranno prima di giungere al reggitor degli Inferi.

Orfeo: Di quali ostacoli parli?

Aletto: Traghettatore diffidente e puntiglioso e immonda bestia stanno sul cammino, prima della dimora d’Ade.

Orfeo: Pronto sono a tutto, anche la mia vita donare potrei, se necessario. Ma vi ringrazio della disposizione, difficile perché sospesa tra l’umano e il divino.

Aletto: A te non ci mostreremo, che orrendo e pauroso è il nostro aspetto, ma come ombra che taglia la luce ti seguiremo e veglieremo insieme.

Orfeo e le Erinni si incamminano ed escono.

IIª scena

Lungo l’Acheronte, sta Caronte pronto a traghettare le anime dei defunti. Entra Orfeo seguito dalle Erinni.

Tisifone: Ecco Caronte dal canuto pelo…

Megera: … lo sguardo fosco …

Aletto: … il piglio altero.

Tisifone: Non ti crucciare se ombroso e scontroso qui lo troverai, e non temerne il burbero cipiglio.

Megera: Buono è il suo cuore, ma mostrarsi dèe severo per ottenere il rispetto dovuto.

Aletto: Troppo non dire e ascolta il suo parlare.

Caronte: Dove vai sconsiderato essere, che ancora vibra in te un granel di luce e con divina scorta ti appressi al livido guado che il mondo in due divide? E voi, spiriti immortali, perché seguite chete chi invece dovreste vessare con gesti e con parole, tetri silenzi ed urla?

Tisifone: Chi a te portiamo è quell’Orfeo il cui canto sa ammaliar le belve e sin gli Dei confonde. Non per capriccio vuol varcare d’Acheronte l’onda, ma per l’amore che il cuor suo l’inonda.

Caronte: Orfeo!... Quasi un dio tu sei! E a un dio tutto è concesso! Già sei mesi passarono da quando la tua Euridice traghettai.

Orfeo: Lunga strada dovetti percorrere dalle campagne tracie sino al lago d’Averno. Aspre contrade e il tumultuoso mare varcai. Che mi puoi dir di lei?

Caronte: Muta era in volto come qui si addice, ma lo sguardo volgeva indietro, quasi a supplicare il ricordo del suo vivere in terra; o forse te cercava, sperando che la tua mano potesse trarla in salvo, lungi da questa sponda.

Orfeo: Pien d’angoscia ne avrai letto il viso e la sembianza tutta!

Caronte: No, Orfeo! L’angoscia non è di questo mondo! Solo a chi ancora vive essa s’addice. Qua solo noia e rimpianto stan nel respiro di chi il nulla osserva. Non dolore e pianto si conserva, ma solo un vago tremore, colmo di rassegnazione e mestizia; uno stato sospeso che sopporta se stesso.

Orfeo: Già sarà giunta al cospetto d’Ade!

Caronte: Quando presente, Persefone il frutto femminile accoglie. Men duro è così il passaggio tra la luce e il buio, ma sempre amaro è il destino assegnato. Vedo che taci. Il tuo viso è smorto. Ancora in tempo sei per tornare in terra! A che pro qui inseguirne l’ombra?

Orfeo: Ad Ade chiederò il riscatto. Il permesso di riportarla ove la vita è bella. Non potrà ignorare il mio dolore; forse il mio canto lo farà tremare.

Caronte: Forse tu tremerai, dopo che visto avrai le genti qui assiepate e mute. Ma se forza bastante serberai, piuttosto a Persefone volgi la voce. Più tenero ha il cuore che pocanzi tra messi e ulivi stava ancora in terra, e il suo volere anche ad Ade impone! Seducile il cuore e avrai la tua richiesta accolta.

Orfeo: Grazie Caronte. Per questo pio consiglio!

Caronte: Sali ora Orfeo, che il remo trema come un giglio, ed è un onore agevolarti il passo.

Orfeo e le Erinni salgono sulla barca ed escono insieme a Caronte.

IIIª scena

Orfeo e le Erinni, passato l’Acheronte, si incamminano verso l’entrata profonda dell’Erebo. L’ambiente è appena illuminato. Improvvisa, sullo sfondo si accende una gran luce.

Orfeo: Quanti gradini dovremo scendere?

Tisifone: Mille prima di incontrare Cerbero e dopo lui altri mille ancora.

Si accende la luce del Fato.

Orfeo: Cos’è quella luce che sì tanto splende?

Tisifone: È colui che tutto scruta, anche se d’occhi privo. Che ogni cosa decide, padrone del destino. Cui vita e morte s’inchinano, mentre dispensa gioie e dolori a suo piacere. Persino gli Dei a lui si sottomettono, e il loro voler s’annulla in sua presenza.

Megera: È colui che prima del prima stava cavallo al Tempo, e prima del Caos già ogni luogo empiva. La stessa Eurinome  e Ecate, che ogni spazio doma, erano solo ombre al suo cospetto, perché Egli mai ebbe inizio né avrà mai fine.

Aletto: È ciò che Dei e uomini chiamano Fato, senza intendere cosa esso sia davvero.

Orfeo: Non fu lui generato dal Caos?

Tisifone: Il Caos aveva già nelle spire che avvolgevano ogni cosa il suo profondo respiro impresso. Egli era l’anima che vibrava tra la materia informe, vagando ovunque tra vortici e sibilanti scoppi.

Orfeo: Perché osserva questo nostro andare, se insensibile al tutto?

Tisifone: Forse tale non è. L’amore che stravolge ogni regola e ogni pensiero razionale ribalta, anche in lui desta interesse. Forse sa che qui qualcosa sta per compiersi da cui dipenderà il senso di tutte le vicende umane.

Orfeo: Ma perché a noi mostrarsi, se pure vago, irraggiungibile e lontano?

Megera: È solo un’immagine, un voler dire: guardate che io sono. E se è ovunque e tutto guida, anche i nostri passi quaggiù transitano attraverso il suo volere.

Orfeo: Neppure Ade può oscurarne il volto?

Aletto: Te lo abbiam detto: Ade non è nulla, Lui è tutto.

Orfeo: Per noi umani, invece, Ade è tutto, perché è la fine, ed essa soltanto ha dimensione eterna.

La luce che rappresenta il Fato si spegne.

Orfeo: Come era apparso ora è svanito.

Tisifone: Lascia perdere, Orfeo, ciò che troppo in alto è posto. Non ne trarresti bene alcuno, ma solo a confondere la mente finiresti. Ormai siam giunti dell’Erebo all’entrata. Tra poco udrai un latrato struggente, e atterritoti sentirai in ogni nervo. Cerbero, lì posto, vieta il passaggio a chi ancor serba la vita.

Orfeo: Chi lo pose a presidiare il passo?

Tisifone: Lo stesso Ade chiese al padre degli Dei un guardiano a vigilar l’entrata, e l’Olimpio scelse quell’orrida belva che con tre teste ulula e latra.

Orfeo: Se ai vivi sbarra la strada e nega d’oltrepassar l’estremo limite, come potrò piegare il suo consenso? Qui venni a riportare in vita la mia Euridice per potere alfin restarle accanto, non a gelare il sangue che mi scorre e vive!

Tisifone: Ricordi quando Eracle, per compiacere Euristeo, la belva trascinò su in terra stringendone l’unica gola, e poi riportò all’Erebo, perché il re ne provò paura e orrore?

Orfeo: Rammento, ma questo come mi sarà d’aiuto?

Tisifone: Non fosti anche tu fra i cinquantadue valorosi che accompagnarono Giasone a ricercare il Vello in Colchide? E fra essi non era anche Eracle, compagno d’armi, con cui dividesti fortuna ed avventura? Se tu al mastino rammenterai quel viaggio, e il legame tuo col grande eroe che lo vinse e domò, la strada avrai aperta al Regno d’Ade.

Orfeo: Così farò allora, e vivo entrerò nell’Erebo!

(Tra sé): Quanti ostacoli frapposti, ad impedire un gesto che nessun uomo brama, e anzi rifugge con pensiero e mente. Solo la disperazione estrema, come or vivo e porto, può guidare in quel luogo un’anima affranta, prima che la sua ora sia scoccata!

IV Scena

Orfeo e le Erinni,passato il varco presidiato da Cerbero, camminano verso la dimora d’Ade.Incontrano alcuni uomini e donne. Tristi figure che non parlano e procedono assenti a capo chino, rigido come automi (entrano e escono). Nascosto vi è anche Hermes, che seguirà silente Orfeo sino all’uscita dall’Erebo.

Coro di anime:

Ora qui vedrai tristi trascorrere

ombre d’uomini i cui corpi mortali

l’alma persa non sapean rincorrere

e giunsero quaggiù tristi e fatali.

Non ti struggere Orfeo se nulla sanno

non perderti a scrutarli dentro agli occhi

fallaci son le voci che non hanno

ma solo un vuoto abisso e denti secchi.

Così cadrai al fondo del cratere

rotta la vita, perso ogni sentire

che regge il senso che ti tiene in terra.

Qui si distrugge e muore ogni potere

il nulla è tutto, verbo non sai dire

ferrea la grata che il cuore ti serra.

Orfeo: Chi sono quei volti si silenti e cupi, che il suolo guardano, soli come lupi?

Aletto: Sono gli umani che qui hanno avuto alloggio.

Tisifone: Triste han lo sguardo, or che scesero dal poggio.

Megera: Qui non sanno il come e il perché. Meglio non sperano, ma peggio neppure è a lor segnato.

Orfeo: Giorno e notte qui vagano invano?

Aletto: Ancora pensi al giorno, Orfeo, che da poco ne sei orfano, ma da qui esso è in eterno bandito.

Tisifone: Qui l’anime scorrono e non si dan la mano.

Megera: Anche i parenti possono sol gioire d’essere ancor vicini. Vivo ed eterno è in loro il ricordo che li fa bambini, ma è come se la gioia di un abbraccio contro stoffe e panno urtasse, e si spegnesse con affanno.

Orfeo: Il lungo vagare scava quei sentieri ch’essi percorrono, qui già passaron ieri. Sempre d’intorno che altre vie non hanno! Chi volle questo? Ingiusto è questo danno!

Aletto: Non ti crucciare Orfeo. Chi volle qui noi pure far stare? Chi pose Ade a regnare sopra il nulla?

Tisifone: Chi volle Zeus a comandare ai nembi?

Megera: Tutto par vano, non ne intendi il senso.

Orfeo: Chi volle i prati, le fonti e le campagne: chi assegnò loro stagioni, che secche e spoglie attendono un risveglio? L’uomo questo non volle! Piuttosto a un canto eterno di speranza e vita affidala sua anima. Il mio canto è eterno, rifugge esso la morte.

Aletto: Ma spesso è triste, una lacrima l’abbaglia.

Tisifone: Spesso si spegne la sua voce a sera.

Megera: Spesso nasconde il suo volto primavera.

Orfeo: Ma sempre speranza in esso suona e rima. Il vero vede e ne sente l’assurdo, ma sempre forte e invincibile gli alita dentro l’afflato che si sublima e si protende in alto.

Aletto: Vieni ora, Orfeo, più non ci attardiamo. Senza risposta sta questo indagare.

Tisifone: Non infinito è il tempo a te concesso.

Megera: Ade il tuo incontro non può troppo aspettare.

Orfeo e le Erinni escono, le anime pure. Rientrano Orfeo e le Erinni. Entra Polluce. Qualche anima, sullo sfondo, ancora vaga.

Orfeo: Chi sei tu, che sì tristo vaghi in quest’antro silenzioso e tetro?

Polluce: Sono Polluce, figlio di Leda e di Zeus, fratello di Castore, domatore di cavalli.

Orfeo: Ma non era tua natura immortale? Come mai qui ti trovo?Anche tu, come me, hai da perorare una gran causa ad Ade?

Polluce: La mia unica causa fu l’amore fraterno che mi fece desiderare la morte, per condividere con Castore un destino.

Orfeo:Rara volontà la tua, capace di sopire il cieco egoismo rivolto a se stesso per inseguire un sentimento legato a un altro essere, sia esso parente, amico,o un incontro avuto al limitare dell’estasi amorosa. Immortale eri nel corpo, ma la tua anima altre prode percorreva. Così Zeus accolse il tuo pregare?

Polluce: Non può un padre accettare da un figlio simile richiesta. Mi generò immortale per avermi sempre assiso alla sua mensa.

Orfeo: Perché l’eterno non volle altrettanto donare a tuo fratello?

Polluce: Questo dirti non so. Forse non fu suo il volere, e ne subì anche lui uno maggiore. Altro era poi il padre, sol la madre comune.

Orfeo: Come rispose al tuo pregare?

Polluce: S’ingegnò d’accontentarmi e, al contempo, non volle perdermi per sempre e sapermi un’ombra. Così decise che a giorni alterni avremmo conosciuto l’Erebo, e tra due notti un giorno tra lo splendore d’Olimpo al suo cospetto! Ieri Castore qui avresti trovato e domani lo stesso; fu solo il caso a farci qui incontrare. Ma tu chi sei, che scortato vai dalle tre dee immortali?

Orfeo: Il mio nome è Orfeo, cantore tracio.

Polluce: Avrei dovuto intenderlo dalla lira che tieni in mano. Modesto è il tuo appellarti, che larga fama ti accompagna in terra e in cielo. Perché qui venisti, ove nessuno ti serberà la gloria che ti concesse Apollo?

Tisifone: Qui giunse per ritrovare la sua Euridice e riportarla in terra.

Megera: Ad Ade e consorte ne chiederà il permesso.

Aletto:Strappare per lei proverà ben altra sorte!

Polluce: Coraggioso proposito ti anima!

Orfeo: Simile a quello che quaggiù ti pose. Sempre per affetto il tuo destino così si compose.

Tisifone: (rivolta alle altre Erinni) Spesso gli uomini si scoprono meschini. Qui in entrambi osserviamo invece una natura magnanima e grandiosa. La stessa che condusse la dolce Alcesti nella tomba e Antigone a sfidare e darsi infin la morte per amore fraterno, obbedendo alle leggi naturali piuttosto che a quelle ingiuste e crudeli dagli uomini dettate.

Megera: Fossero gli Dei sempre di altrettanta virtù ricolmi!

Aletto: Possa Ade, il paziente, intendere questa verità, ed essa possa toccargli il petto.

Polluce: Ti saluto, Orfeo! Non sostare a lungo in queste anse, che i loro miasmi potrebbero farti contrarre strane pazzie e desideri disperati! Domani, se già non sarai con Euridice in terra, allorché sarò al cospetto del padre mio, potrai contare sul mio consiglio in tuo favore.

Orfeo: Domani conto di osservare già alla luce le balze d’Olimpo! Ma grato di questa promessa ti sono.

Esce Polluce. Entra Ecate che va incontro ad Orfeo, tenendo anche lei una fiaccola in mano.

Orfeo: Chi è colei che incontro ci viene silenziosa?

Tisifone: È Ecate, figlia di Perse e di Asteria, colei che sta in cielo, in terra e agli Inferi.

Orfeo: Salve a te, che il ratto di Persefone annunciasti a Demetra e libera calchi questi lidi! Io sono Orfeo il cantore tracio.

Ecate: Ti conosco, Orfeo. Conosco il motivo che quaggiù ti spinse. Giunto sei ormai alla dimora d’Ade: oltre quei massi i suoi lidi ei copre. Vedo che altre luci ti hanno qui condotto. Anche senza il mio ausilio potesti andare attraverso le buie contrade.

Orfeo: In loro trovai aiuto e conforto! Ma dimmi, o divina, prima che ad Ade mi presenti, sciogli in me questo dubbio che da sempre mi attanaglia: qualcuno in terra afferma che tu ed Artemide siete eguali.È vero questo? Medesima natura vi raccoglie?

Ecate: Chi l'afferma: un uomo o un Dio?

Artemide: Che importa! Qualcuno, forse sia uomo che Dio.

Ecate: Chiunque sia non conosce. Ci confonde e offende. E’ vero: entrambe siam altro dagli uomini, entrambe regniamo nell’ombra. Zeus ci concesse poteri che neppure gli Dei posseggono. Ma io non fui un dio. Non fui figlia loro, un Titano mi crebbe nel ventre, di lei porto il sangue.

Orfeo: Il sangue è rosso per tutti, in ognuno è principio e fine.

Ecate: Non così è per gli Dei. Forse solo questo ci lega, che la morte ci è strana. Ma il suo sangue ha qualcosa in comune con quello dei mortali, delle belve che caccia con l'arco e delle cui carni si nutre. Qualcosa ha in sé che è anche in loro.

Orfeo: Tu non hai sangue, Ecate? Non saresti qui ora a parlare!

Ecate: Il mio sangue non urla, non si versa e non nasce. Dentro me è come un vetro, come nebbia che tace. Il mio corpo non freme, sono silenzio soltanto. Anche in questo io e lei siamo altro. Lei è ombre ed è selve. Anch’io vengo da ombre e da boschi, che la Notte mi accudì fanciulla. Ma non sono solo quell’ombra che la mia fiaccola svela. Ovunque mi muovo. Il mio passo oltrepassa lo Stige; nel cielo od in terra ho un potere nascosto. Sono ombra e son luce. Chi tra gli Dei è altrettanto? Neppure Zeus oltrepassa la notte, solo ad Ade ha lasciato il governo degli Inferi.

Orfeo: Pensi ne abbia paura?

Ecate: Non ne tiene il potere.

Orfeo: Solo la Moira può negargli il passaggio.

Ecate: La Moira lo osserva e ha diviso nei Regni lo scettro.

Orfeo: Ma questo non vale per chi, come te, ovunque si adatti, ovunque si muova, con in mano una fiamma o abbagliata dal sole.

Ecate: Ciò che da lei mi divide è l’affanno, il lasciarci coinvolgere dagli umani pensieri, l'esserne feriti o esaltati.

Orfeo: Alludi a Niobe, a Ifigenia...?

Ecate: Alludo al non esserne immune, a subirne il contagio.

Orfeo: Come mai non ti accade? Quale forza ti muove e conduce oltre i loro orizzonti di parole e di gesti?

Ecate: Il conoscere vano ogni dire od agire. Vano il corso mortale, ma anche il sogno immortale stare stretto in un'urna. Ha un suo limite strano.

Orfeo: Sei maggiore degli Dei?

Ecate: Vengo da più lontano. Qualcosa ho imparato, conoscendo quel tempo che per sempre è passato.

Orfeo: Quindi anche Zeus di te ha timore! Ti vede simile alla Moira e per questo ti sfugge!

Ecate: La Moira mi è maggiore e comanda.

Orfeo: Solo lei è l'assoluto ed è l'altro?

Ecate: Fila e recide soltanto, ma vi è altro nel mondo, che sta oltre il principio e la fine degli esseri. Vi è un inizio che nel tempo si allunga infinito, e un termine più vasto che nessuno può dire. Neppure gli Dei, che d’altre cose si curano. Non hanno memoria di un prima, non lo conoscono e si affidano all’oggi. Il domani anche per loro è uno stame su cui non hanno potere.

Orfeo: Tu non temi la Moira?

Ecate: Ne porto solo il soffio sul mondo. Ma da lei viene il vento.

Orfeo: E quel vento che avvolge, anche gli Dei fa tremare!

Coro di anime.

Ecate, diva, non ha nessun regno

ma ovunque muove suoi passi leggeri

porta la fiaccola che è di lei segno

tiene nascosti gli eterei pensieri

cui forma prese imo l’Erebo in terra

il suo segreto silente si muove

dentro il suo cuore più forte si serra

bianca ragione che tutto commuove.

Ora lei nunzia sarà presso ad Ade

d’Orfeo la voce dovrà presentare

già la sua bocca è un viatico immenso.

Chi con lei viaggia per quelle contrade

facile ha il passo, men arduo il pregare,

sperare egli può d’averne l’assenso.

III ATTO

I° scena

Orfeo, Ecate e le Erinni (oltre ad Hermes, sempre nascosto) entrano nell’antro in cui dimora Ade. Il re degli Inferi sta seduto su una sorta di letto/divano (Kline) avendo al suo fianco Persefone su una sedia (klismos).

Coro di anime.

Ade, infero, che oltre Stige regni

sull’anime perse e i poveri cuori

quei riscatti che d’amor son degni

hai pur negato, nessuno esce fuori.

Ma qui giunse per avere Euridice

sommo cantor che fa fremer gli Eterni

trema l’Olimpo a quel suono che dice

pianto e mestizia che portan gli inverni.

S’è rotta adesso tua essenza di noia

arduo un pensiero s’affaccia alla mente:

violar le Leggi, dei morti lo stato

certo il castigo, negata ogni gioia

che qui imprigiona ogni schiera di gente

a chi obbedire: a pietà oppure al Fato?

Ade: Ecate! Che accade? Nome importante deve avere colui che qui presenti, se tu e le Erinni insieme gli venite appresso!

Ecate: Non un uomo soltanto, ma quasi un dio scese oggi nell’Erebo. Nobile impresa la sua, benché ardua, come amaro fu il destino che qui lo condusse.

Ade: Chi è dunque questo semidio che accompagni?

Ecate: Orfeo è il suo nome, e certo non ti è ignoto.

Ade: Orfeo!? Il cantore tracio!

Ecate: Il solo il cui canto salì fin sull’Olimpo!

Persefone: Orfeo! Tanto sentii parlare di te su in terra! Non v’era pastore che in Arcadia non intonasse un tuo canto. Tra viti e olivi chi raccoglieva e chi potava i tralci, di te e di Dioniso narrava. Neppure mia madre Demetra, che delle messi e del lavoro agreste è diva, tanto era da tutti ricordata. Cosa ti spinse a scendere quaggiù? Cosa chiedi al mio tenebroso sposo? Qual cruccio ti assilla, che leggo nei tuoi occhi e nel viso stravolto si manifesta alquanto.

Orfeo: La mia Euridice persi in terra, troppo tardi il suo corpo strinsi tra le braccia: già fuggita era l’anima da Thanatos rapita, ed ora essa qui vaga, spenta e avvilita.

Ade: Ricordo la fanciulla. Qui si presentò spaurita, e per prima la mia consorte l’accolse. Compassione facea nel triste aspetto. Una serpe disse la causa del viaggio. Altre parole non le uscirono dal petto. Per rispetto la destinai al luogo meno tetro che quaggiù si trova, quello che in cima a un colle è posto, lontano dai miasmi delle oscure acque stagnanti. Quale è la richiesta per cui sin qui giungesti?

Orfeo: Ciò che nessuno ha mai potuto dire in tua presenza. Chiedo di ricondurre in terra la mia amata e liberarne l’anima atterrita.

Persefone: O caro Orfeo, non ti dissero le Erinni che questo non è concesso? Che una volta entrati, ai morti è impossibile il ritorno?

Orfeo: Lo dissero! Lo dissero! Ma ugualmente qui dovevo scendere. Sarà il tuo sposo a dire l’ultima parola, ed io giuro che da qui non me ne andrò se non con ella accanto.

Tisifone: Non possono i vivi qui restare!

Megera: Gli Inferi ne sarebbero sconvolti!

Aletto: Ti dovrebbe Thanatos toccare!

Orfeo: Che venga il Genio! Anche a ciò son pronto!

Ade: Uomo caparbio! Non ancora è giuntala tua ora! E altrove Thanatos è impegnato, che sopra impazza una gran guerra. A lungo resterà lontano.

Tisifone: La luce si accese mentre qui scendeva! …

Persefone: Anche il Fato per te si espose, mai prima ciò accadde.

Ade: Raccontaci intanto come avvenne il fatto; penseremo poi se il tuo desiderio, seguito da così alto ciglio, trovar potrà ristoro ed essere esaudito.

Orfeo: O Dei tenebrosi, a narrare con il mio canto ora mi accingo, e possa un saggio consiglio frattanto scendere nel petto vostro e condurvi al meglio.

Orfeo inizia a cantare,accompagnandosi con la lira Bistonia. Dopo poche strofe Ade parla sottovoce a Persefone (alcune battute reciproche che non si devono sentire,con cenni del capo di assenso da parte di lei) poi si addormenta. A un certo punto del canto Persefone e le Erinni iniziano a piangere.

L’alba dai monti spuntata era appena

le rosee dita sfioravano il mondo

nel ciel la Luna splendente era piena

tra le pietre stava un serpente immondo.

S’era Euridice dal sonno levata

lieta al fragrante profumo di rose

tra prati e boschi fuggiva estasiata.

Altre due ninfe, e parevano spose,

con lei correvan slegando le membra

lasciando fresca una scia profumata

ma non sempre è vero ciò che ci sembra.

S’udiva intanto un rumor di cascata,

fresche le acque scendevano azzurre

vapori lievi salivano al cielo

mentre lei lieta si facea condurre

su verdi lidi stendeva il suo velo.

Giunse Aristeo di greggi pastore

pien di desio per il suo dolce sguardo

a lei svelando il suo straziato amore

ad inseguirla prese come un dardo.

Oh, poverina, il tuo tenero passo

tra selve e sterpi dovesti portare

fuggir le fronde, schivare ogni masso

senza aver mai dove poter sostare.

Io non potevo soccorrerti, vano

era il mio amore trafitto di spine

mentre correvi sempre più lontano

verso quei monti ove regnan le brine.

Il piede ignaro la testa al serpente

sfiorò mentr’era nascosto nell’ombra

fu solo un attimo che lui repente

col suo veleno ti spense le membra.

Così cadesti leggera tra l’erbe

lì ti trovammo piegata alla terra

piansi come far sa un fanciullo imberbe

come una madre il cui figlio va in guerra.

Io ti chiamavo, invocavo il tuo nome

mentre delle ninfe il grande dolore

levava un eco e un lamento come

se avessero loro squarciato il cuore.

Già la tua anima un soffio soltanto

a questo loco correa come un velo

la trasportavan le ali del vento

la salutavan le muse del cielo.

Capii che starle lontan non potevo

capii che ancor la dovevo baciare

per questo nell’Erebo scender dovevo

per riscattare il suo cuore da amare.

Ora vi prego, o Dei ognipossenti

di non negar, non ucciderla ancora

di fare sì che io dica alle genti

come pietà il vostro cuore l’onora.

Non me ne andrò, resterò fra le ombre

tra quei silenzi ove il cuore s’impiglia

vedo lacrime bagnarvi le ciglia.

Già è beodromione, nunzio alle tenebre

prima che ne cada la verde foglia

con Euridice varcar spero la soglia.

Persefone si asciuga le lacrime.

Persefone: Volevi strapparci il cuore Orfeo? Ancora un po’ e di noi non sarebbe rimasto nulla, che ci saremmo sciolte in lacrime. Solo il mio sposo si è salvato da tanto struggimento, che un dolce sonno gli ispirò Hypnos benigno. Ma prima di abbandonarsi ad esso mi confidò il suo volere. A me sola ha lasciato la decisione che tanto attendi. Non vuole essere lui a infrangere le regole che governano l’Erebo. Difficile mi è ora la scelta, presa da opposte forze, come in opposti mondi si divide la vita.

Orfeo: Non temere, regina, di donarmi ciò che il cuor tuo già vedo acconsente. Per sempre non sarà. So che non posso chiedere questo. Al termine del suo tempo naturale Euridice qui ritornerà… (Orfeo scoppia a piangere. Nessuno nel frattempo osa parlare. Poi riprende, inizialmente ancora tra le lacrime.)Allora anch’io, se già non l’avrò preceduta, sarò quasi pronto a raggiungerla per sempre. Così ci riuniremo in questo luogo ove ogni emozione è spenta, ma almeno resta il mesto sorriso che si fa complice del vedersi vicini, anche se incapaci di toccarsi e di vivere le pur misere gioie cui ci si aggrappa in terra.

Persefone: E sia,Orfeo, m’inchino alla potenza sublime della tua poesia. Grazie ad essa e allo straziato cuore che la sostiene ti concedo ciò che tanto brami. Ma una condizione pongo: tu e Euridice salirete in terra non mano nella mano, come conviene a chi è legato da un sentimento invincibile, ma lei dietro a te. Tu non dovrai voltarti sino a che entrambi non calcherete il suolo dal sol bagnato. Questa ultima prova vi chiedo, atta a misurare la forza del vostro amore. Se voltarti tu dovessi,Euridice ripiomberà negli Inferi. Presto ora, andate! Ecate sa ove trovare Euridice. Prima che il mio sposo si risvegli dovrete esserne fuori!

II° scena.

Orfeo ed Euridice stanno salendo l’erta scala che conduce fuori dall’Erebo. Li seguono le Erinni e, sempre nascosto, Hermes.

Orfeo: Come ti rapì il Genio? Non te lo chiedo per farti rivivere quell’istante che certo ti spaventa, ma perché con me condividendolo svanisca quel ricordo; così come ora stai camminando verso quel cielo che cancellerà il tetro abbandono che quaggiù ti accolse.

Euridice: Solo questo è motivo al tuo chiedere strano?

Orfeo: Non solo: mi è anche ardente il desiderio di sapere come egli si presenti a noi mortali, per essere pronto a riceverlo il giorno in cui anche a me le sue attenzioni riserverà.

Euridice: Cauto fu nell’avvicinarsi, quasi gentile mi chiamò e mi attese, una dolce luce avea negli occhi.

Orfeo: Pare un devoto amante, a sentirti. Forse gelosia di lui devo nutrire?

Euridice: Che dici, Orfeo! Non vi può essere nulla tra lui e un mortale, oltre al tocco estremo. Ma a volte, e fu il mio caso, rispetto e compassione.

Orfeo: Fu lungo il tuo patire o un breve istante?

Euridice: Tre sono i modi con cui quell’Essere ineffabile ci affida all’oblio. Non so quali motivi lo spingano a comportamenti così dissimili, forse tutto è dovuto al caso, un caso non voluto da nessuno, che percorre sentieri inesplicabili, incrocianti le nostre vite, così protese al domani e ignare che già oggi si decide la partita col Destino. Un Destino freddo e implacabile che viene a stravolgere tutti i nostri piani e si inserisce come un ladro nei nostri intimi pensieri, come nelle nostre passioni più nascoste.Il primo di essi è il più violento e immediato, quello che non lascia il tempo di un pensiero, a volte neppure l’ansia di un sospiro. È come se un baratro si aprisse improvviso sotto di noi, come se ci fossimo sporti sull’orlo del pozzo e, soggiogati e incantati da quel fresco specchio d’acque, fossimo improvvisamente precipitati nell’abisso. In tali circostanze si evita la conoscenza, la tentazione di una stretta di mano non ha tempo di materializzarsi, tutto si svolge in un attimo; l’anima non viene toccata o coinvolta, è esclusa dal processo, non vi è tempo per nulla. È il modo meno doloroso di tutti, quello che sicuramente tutti preferiremmo, a cui perciò affidiamo la nostra speranza.

Orfeo: Ma così non fu. A qual guisa allora ti raggiunse il Genio?

Euridice: Neppure il terzo modo scelse, quello che si prolunga in stenti e ci accompagna lentamente nell’ultimo tragitto. In esso l’anima rischia di perdersi, e nel petto si stringe una morsa dolorosa che trascina su sentieri confusi ed aspri, ancor più della meta che goccia a goccia ti discende a colmare il cuore.

Orfeo: La via mediana scelse quindi?

Euridice: Sì. Quella che lascia appena il tempo di un ricordo e di un addio, ma questo transita nella mente senza poterti scavare nei più profondi recessi l’anima. Di questo gli fui grata che fu comunque rapido dello sgomento il tempo. Non però di negarmi un ultimo saluto a te amore mio. Questo non ebbi, e benché sapessi che molte volte accade, non ne compresi il senso, e neppure oggi a ripensar l’intendo.

Orfeo: Fretta aveva di condurti all’Erebo.

Euridice: Non ebbi modo neppure di vedere l’estrema fine del mio corpo. Per quanto provassi a immaginar quella “fossa col cielo al di sopra” quella trappola di terra il cui pavimento è un soffice letto di nulla, un nulla più letale di mille punte di lancia, non mi sorresse il pensiero che l’immaginazione,libera di prolungare a proprio piacimento la caduta nel tempo e nello spazio, era incapace di disegnare un volto o un luogo. Così mi allontanai dalla realtà, da quella realtà che in fondo ormai contava assai poco… o nulla, ma non per la mia anima. Perché se pur volentieri non avrei portato con me quel ricordo, avrei altresì evitato di portare il dubbio ancor più lacerante che si nutre di quell’oblio totale.

Orfeo: Ardua scelta quella. Comunque la si colga sempre amara si svela.

Euridice: Ma è un bivio ineludibile che non concede scampo.

Orfeo: Un solo cammino avevi invece oltre i tuoi occhi, e tramite esso giù ti condusse…

Euridice: Mi offrì la sua compagnia per il breve tragitto che veloci percorremmo. Mano nella mano, in viaggio verso l’ultimo villaggio ai confini del mondo in cui tutto si ribalta, ogni aspetto della vita riacquista la sua giusta dimensione, il suo ruolo preciso sotto al sole.

Orfeo: Che ti diceva, stringendoti la mano?

Euridice: Restò muto, non furono le sue labbra a guidarmi, no: è sempre dentro noi stessi che scaviamo, che troviamo sentimenti e pensieri, che valutiamo e pesiamo tutto ciò che ci si mostra ai lati del sentiero. Lo spazio che coltiva la mente si dilata, possiamo soffermarci quanto vogliamo sull’aspetto del nostro eburneo compagno di viaggio, esaminarne i lineamenti, intenderne gli umori. Scopriamo così che anche lui vive e si emoziona … sentii infatti tremare la sua mano. Ma soprattutto abbiamo il tempo per valutare il nostro viaggio, quello già percorso, che ormai si perde nel passato con tutte le figure ed i gesti che ci hanno accompagnato, ed anche di provare ad immaginare quello futuro, ancora a noi sconosciuto. Ma ora basta, non indugiamo ancora su ciò che è stato e sol paura induce! Affretta invece il passo, amore mio!

Orfeo: Brami tanto tornare in terra? Non temere: ogni scalino ci avvicina ai lidi aprichi. Presto ritroverai le ninfe gentili con cui solevi rincorrere i prati; avrai ancora il dolce talamo a scaldarti la notte, potrai veder di nuovo le stelle e la luna segnare nel cielo la presenza loro.

Euridice: Non è questo, Orfeo! Ma il pensiero di ciò che qui lascio a tormentarmi. Basterà il respiro, finalmente colmo di profumi e suoni, a nascondere all’anima mia l’orrida promessa di un ritorno che comunque dovrò affrontare di nuovo un giorno?

Orfeo: Non pensare a quello. Non adesso che ancora ne sopporti il peso; né dovrai domani, quando altra vita avrai da condurre nuovamente in terra.

Euridice: Non si dimenticano gli Inferi una volta che ne hai percorso i lidi e sopportato il silenzio. Ne porti impresso nel sangue e nella carne il tetro aspetto. L’anima tua ne respira il vento lento che ogni cosa avvolge; ritornano i volti grigi di coloro che incontrasti e a cui non dicesti addio, ma un mesto arrivederci ti lega ancora. Non è così semplice, Orfeo!

Orfeo: Lo so, Euridice. Ti capisco perché anch’io non sono più lo stesso Orfeo che varcò l’Acheronte. Qualcosa in me è mutato!

Euridice: Una cosa è pensare agli Inferi quasi per gioco, distratti da balli e canti, altro è conoscerlo calcandone il suolo.

Tisifone: Non pensate a questo. E tu, Orfeo, guarda sempre e soltanto avanti! Anche per tale ragione ti fu imposto il non voltarti! Chi lo fa è perché ha perso la speranza nel domani e si lascia trascinare dal vortice che conduce a una condizione infima e rassegnata.

Euridice: Occorre forza ad affrontar la vita!

Megera: Occorre sapersi accontentare. Comprendere che tutto ha un limite, che ogni cosa sfuma. Ma quando si ama la vita, e il tuo Orfeo tanto l’amò da sfidar la morte, se ne può riempire ogni istante di una fremente brama; si può trovare nelle proprie passioni l’invincibile motivo che giustifica ogni azione, empire il forziere del proprio cuore con la sua energia.

Aletto: Del resto così essa è fatta: instancabile costruisce su se stessa, guidata da una cieca intelligenza i cui fili una invisibile natura regge. Abbandonati ad essa Euridice! Se non per te, fallo per chi tanto rischiò venendo sin quaggiù a riscattarti.

Euridice:E tu che dici, Orfeo? Vuoi davvero salvarmi? Vale la pena godere ancora una vita piena per pochi istanti, avendo quel ricordo a parlarti di un ritorno ineluttabile?

Orfeo: Vale tutto ciò per cui convinciamo il nostro cuore. Non esiste una sola risposta. Noi siamo la risposta a noi stessi. In noi è depositato il volere, e per esso un affitto esoso paghiamo. La speranza si aggrappa al muro che intorno a noi s’innalza, e un’ardua contesa con essa sviluppiamo.  Lasciarla vivere o, affranti, arrenderci al destino che ci attende, assiso a noi vicino? I giorni nostri sono incisi sulla pergamena dove un essere soltanto ha il potere di scrivere l’ultima parola, anche quando ci sembra esser noi a graffiarne il margine. Arduo è vedere la propria vita in una totalità che prende avvio dai primi ricordi, e pesi i momenti vissuti sino a farne un bilancio, per capire il valore di quel vissuto o la sua inutilità. Che fare allora di fronte all’estremo traguardo che concedere può ancora un ultimo respiro?

Euridice: Qui una lama ti penetra nel corpo e ne diventa l’anima.

Orfeo: Per questo in te ogni sorriso è spento?

Euridice: Per questo quaggiù quell’atteggiarsi del volto non leggerai mai in nessuna anima che qui incontrar potrai!

Aletto (Rivolta alle altre Erinni): Dobbiamo distrarli da sì tristi pensieri o non giungeranno insieme a sorseggiar la luce!

Tisifone: Anche in me uno strano presentimento si addensa!

Aletto: (Rivolta ai due amanti): Guardate: si intravede la luce del mondo! Manca poco a varcarne il confine!

Orfeo fa ancora qualche passo e poi si volta. In quell’istante si accende la luce che rappresenta il Fato. Contemporaneamente Euridice inizia a retrocedere, come se una forza ignota la risucchiasse nell’Erebo. Il suo volto resta sereno, quasi compiaciuto. Esce. In quel momento la luce si spegne.

Euridice: Ti aspetterò Orfeo! Ti amo!

Megera: Che hai fatto, sciagurato!

Aletto:Dopo tanto penare! Dopo aver trovato il coraggio che trema nel cuore di ogni uomo. Dopo averla rivista, averle toccato gli occhi con le tue parole, averne abbracciato il sorriso, per quanto mesto, tutto a un tratto gettare la promessa di una nuova vita, lasciarla precipitare ancora nell’Erebo!

Tisifone: Orfeo! Orfeo! Tu, che ci hai fatto piangere, addolcito la nostra natura, fatto ignorare il divino compito che quaggiù ci lega, per una verità e una giustizia maggiore di quella che il Fato legò alla natura vostra e gli Dei accolsero tra le leggi divine!

Megera: Ora Euridice hai perso per sempre! Una seconda volta non si aprirà l’orrida bocca, e un nuovo viaggio e un nuovo ascolto d’Ade più non sarà possibile!

Orfeo scoppia in pianto.

Orfeo: Tacete! Per favore! Forse ho sbagliato. Forse, ma un mondo avevo sulle spalle, e quel peso mi ha fatto crollare il cielo addosso! Voi siete eterne, e non potete comprendere le ragioni del mio agire, quello che ogni uomo, posto di fronte allo stesso passo, abbraccerebbe. Lasciatemi solo. Solitudine e silenzio ora si addicono al mio cuore,se potrà sopportare la vita ancora.

Esce dalla parte del sole. Esce Hermes, contrito, dietro di lui. Escono le Erinni, disperate e incredule, dalla parte opposta.

Coro di ninfe.

Silenzio uomini, silenzio mari!

non vi è commento a questo gesto strano

chi lo commise capito avea quello

che sulla terra gli uomini ignari

non ebbero mai a prender per mano:

la morte stride dentro ad un avello.

Perciò di quest’uomo è cupo il destino

lui che cantando le rocce stregava

lui che le Erinni sciolse nel pianto

più non avrebbe destato il mattino

più non poteva gioir se sapeva

ciò che attendeva laggiù un cuore affranto.

Così che la sciolse d’ogni rimorso

chiuse l’angoscia d’un triste ritorno.

Certa era l’ombra, ancor più l’era il Fato

che di suo pugno picchiava sul dorso

e la chiamava a fuggire dal giorno

dal lieto mondo che s’era strappato.

IV° ATTO

I° scena

Zeus, Hermes e Apollo sull’Olimpo. Zeus in trono.

Zeus: Che è accaduto, Hermes? Come mai non riuscì nell’intento? Eppure ti raccomandai di fornirgli saggi consigli, oltre che suggerire ad Ade, per una volta, di essere almeno un po’ accomodante.

Hermes: Si accese la luce, Padre. Ritenni perciò di lasciare a Ecate il compito di accompagnarlo, essendo lei più vicina al mistero che anche noi avvolge. Con lui erano anche le Erinni, che lo avevano preso a cuore. Sempre, comunque, vegliai ogni suo passo.

Zeus: La luce?! Mai accadde sinora!

Apollo: Neppure mai, prima di lui, un mortale scese nell’Erebo.

Zeus: Anche questo è vero. Ma com’è che non coronò il suo sogno e volere?

Hermes: Ottenne l’assenso di Persefone, in questo delegata a decidere da Ade, dopo un mesto canto che le strappò le lacrime, e alle Erinni pure. Giunto era ormai al limitare degli Inferi, quando all’improvviso si voltò, e quel gesto, come detto da Persefone, gli strappò Euridice, che ripiombò nell’Erebo.

Zeus: Tutto ciò è inspiegabile… Cosa mai lo indusse a voltarsi? Forse, voleva assicurarsi d’essere da lei seguito…

Hermes: Udii le ultime parole tra lui e Euridice: sapeva d’averla vicina: ma furono proprio quelle parole a consegnargli una stanchezza e un abbandono estremi verso una vita che non sarebbe più stata tale. Solo la pesante attesa di un ritorno inevitabile sarebbe rimasta sospesa su di loro. Voltandosi le tolse quel destino.

Zeus: Ora lui solo ne porterà il peso, sino al suo estremo, ultimo giorno.

Apollo: I poeti sono esseri sensibili, come ali di farfalle si muovono nel mondo. Sanno cogliere gli accenti più leggeri che guidano gli uomini. Le loro risposte appaiono a volte incomprensibili, ma sono solo il frutto amaro dell’intendere il senso di ogni cosa.

Zeus: Ed ora che farà il tuo protetto? Vagare stordito lo vedremo, come colui che, smarrito il senno, rimbalza di terra in terra, di giogo in giogo?

Apollo: I colli traci l’attendono, vivi come sentirli può lui soltanto. Là ogni cosa ancora gli parla della sua Euridice. Là è il luogo ove le sue ceneri disperse al vento, che ogni foglia e ogni erba ne portano il respiro. Là le ninfe amiche danzano per le campagne, e la gioia, che nel sole si bagna, ancora abbraccia ogni vivente. Giusto è relegare le ombre al loro posto, pur tenendo uno spazio ad accoglierle nel cuore.

Zeus: Dubito che Orfeo possa unirsi a quelle danze. Immane è la frana che lo ha avvolto, e sino all’ultimo ne soffrirà lo schianto. La sua vita è un dirupo di nuda terra e sassi.

Hermes: Stravolto uscì dagli Inferi, provato nel corpo e nello spirito. Benché assaporasse anche la dolce soavità di Persefone e la saggezza d’Ecate, la cupa atmosfera di laggiù gli si pose addosso. Rivedere la regina degli Inferi nei sei mesi delle messi e del lavoro agreste, non basterà certo a risvegliare in lui nuova vita. Solo un rimpianto anzi porterà, un incidere ancora la piaga sanguinante.

Zeus: Sarà l’unico vivente a non sentirne la forza vitale e lieta.

Hermes: Che tremenda fine per un sì gran poeta!

Apollo: I poeti non hanno mai fine. Il loro canto resta eterno nel cielo delle genti: ne guideranno l’andare, accompagnandone ed elevandone i sentimenti.

Zeus: Se questo basta loro…

Apollo: Questo è quanto può disporre il mondo. Di più non esiste sotto al sole.

Zeus: Gli scenderai appresso?

Apollo: A che pro? Non posso infondere coraggio a chi tutto l’ha bruciato e perso. Poesia gli è infusa, e di suggerimenti più non abbisogna. Anzi: sono io ad apprendere ogni volta dal suo canto. No, Padre, non voglio scendere per condividerne il pianto soltanto. Fossi una ninfa gentile, con molli gesti e lievi sospiri potrei provare a confonderlo, ma in me altra natura è scolpita.

Hermes: Gli Dei non sanno né possono piangere! I sentimenti che comunque provano sempre prima di tale baratro si fermano.

Zeus: Non sarebbero Dei, altrimenti.

Apollo: Di ridere ci è però concesso!

Zeus: Il nostro sentire oscilla, ma ad un estremo qualcosa ne chiude il varco, oltre non ci è dato andare.

Apollo: Mi affaccerò dalla rupe Olimpia, a seguirne ancora i passi, e possa non scorgere un nuovo abisso aprirsi a lui d’intorno!

Zeus: Questo almeno sino al giorno del suo naturale. Confidiamo che sino ad allora si sappia guardare. Una volta persa l’ansia che la vita impregna, più facile è arrendersi alle avversità del mondo. Quasi uno spontaneo abbandono, come infuso d’erbe, può scendere in un animo affranto a portare un oblio agognato e disperatamente atteso!

II° scena

Orfeo vaga per boschi e valli, le Menadi lo seguono e parlano di lui.

I Menade: Ecco Orfeo! Da quando tornò sembra un altro uomo!

II Menade: Vaga spaesato per boschi e valli; segue i fiumi come un orso che ne cerchi i pesci per soddisfare la fame quotidiana.

III Menade: Avete notato che quasi mai pizzica la sua Bistonia, e anche il suo canto spesso tace? Lui, cui necessita il cantare, così come un fanciullo la corsa anela. Qualcosa di irreparabile deve essergli accaduto sull’altra sponda dell’azzurro mare!

I Menade: Si dice che sia disceso agli Inferi per provare a riportare in vita la sua Euridice.

II Menade: Lui, che avrebbe potuto avere ogni donna di Tracia!

III Menade: All’amore non si comanda!

I Menade: Pare che, ormai prossimo a coronare il suo intento, disegnasse un gesto improvvido, per cui la perse nuovamente.

II Menade: Perché mai l’avrebbe fatto? dopo tanto penare! Non un errore, ma una volontà insensata lo colse!

III Menade: Forse gli Inferi lo avevano cambiato.

I Menade: Chi vi scende non può restare lo stesso!

II Menade: Lo vediamo, e non lo riconosciamo più nel suo strano muoversi ed agire. Non cerca più le donne, noi per prime, sebbene si sia vicine al Dio!

III Menade: Si mormora che ora abbia attenzione per i fanciulli!

I Menade: Se fosse vero un altro spirito vivrebbe in lui, trasmesso da un tremendo morbo.

II Menade: Guardate: si è fermato; nascondiamoci tra gli arbusti!

III Menade: Si volta. Ci avrà scorto?

I Menade: Ha uno strano sorriso. Lo stesso del sole che tramonta la sera.

II Menade: Sembra volerci dire: venite, son qua! Non fuggirò il mio destino!

III Menade: Non fidiamoci: è uomo astuto!

I Menade: Se d’uomo si può parlare, e non di un dio.

II Menade: Comunque, sa ben dissimulare il suo pensiero.

III Menade: Non sembra però questo il suo intento.

I Menade: Qualcuna tra noi lo vorrebbe morto!

II Menade: Sono quelle che più lo hanno amato, ed ora non si rassegnano a saperlo solo e pure irraggiungibile.

III Menade: Che dice Dioniso? Non ne è geloso?

I Menade: Dioniso ci fa all’amore, non parla con loro.

II Menade: Ci inebria tutte col suo liquore e poi ci prende.

Orfeo si incammina lentamente verso le Menadi.

I Menade: Guardate! Ci viene incontro!

II Menade: Ha il passo lento degli uomini che, scorto il lupo, lo avvicinano per dimostrargli di non averne paura.

III Menade: Facciamo allora come il lupo: scappiamo! Non è ancora giunta la sua ora.

I Menade: Dioniso in persona vuole parlargli!

II Menade: Lasciamo che questo colloquio si svolga, poi vedremo come incontrare la sua strada.

III Menade: Il nettare ci indicherà quale istinto seguire.

I Menade: Il nettare ci entra nella mente e sconvolge le azioni, facendole deragliare su pericolose chine.

II Menade: Forse un solo consiglio in lui si svela.

III Menade: Il mondo conoscerà quel destino ineluttabile che gli procureremo, e ne parlerà in ogni tempo ancora.

Le Menadi escono.

III° scena

Campagna tracia. Si incontrano Orfeo e Dioniso.

Dioniso: Perché ti voltasti?

Orfeo: Capii questo negli Inferi: non si può rinascere una volta già morti. Può rinascere il corpo, può riaversi il colore, la forza e il profumo, ma lo spirito no: ha passato un confine che non ammette ritorno. Sarebbe solo finzione, un continuo strazio colmo di paura.

Dioniso: Strazio è parola tremenda.

Orfeo: Anche paura è tremenda. Sta sospesa nel vuoto, ti segue ogni istante, nasconde un abisso: forse è ancor più tremenda.

Dioniso: Quale mostro può lacerare l’anima e il corpo a chi, già sceso negli Inferi, ne conosce le ombre? Che può temere di peggio?

Orfeo: Desiderare la morte. Esser morti da vivi è peggior che morire. Non potevo chiederle questo.

Dioniso: Non basta dunque il canto che fa piangere le Eumenidi, le rocce coinvolge e fa vivere, a cancellare un passato?

Orfeo: Il passato rimane, incombe sul tuo respiro e sull’anima. Lo nascondi e lui torna, si affaccia dalle colonne del tempio, ti guarda nascosto, poi addosso ti piomba, ti ghermisce con l’unghie, ti stringe al suo petto, ti bacia alla bocca. Tu sei suo e non ti muovi, sei un cerbiatto preso nel prato, non hai forza e volere. Ti abbandoni e lo segui.

Dioniso: Così debole è dunque il cuore dell’uomo, da non saper ritrovare la strada della gioia, della speranza, la luce della vita, degli affetti i sapori? Vi arrendete subito al nulla?

Orfeo: Non è nulla e lo sai. È il destino, il domani, il comune traguardo. Quando l’hai dentro te stesso, tu più non esisti. Ti illudi un momento, a nuova vita portato, ma presto tutto svanisce, resta solo il richiamo che ricorda il reale.

Dioniso: E il reale è la morte?

Orfeo: Vi è un tempo per essa e un tempo per vivere. Ma il vivere è un lampo soltanto, la morte infinita. Si svanisce nel vuoto.

Dioniso: La morte è qualcosa. Pure un sogno non svanisce e si vive.

Orfeo: Ma rimane sempre illusione. Se scompare non ne resta più di un sospiro.

Dioniso: Anche un sospiro è qualcosa. Ma tu volesti perdere tutto.

Orfeo: Qual colpa mi addossi? Per cosa mi vorresti punire?

Dioniso: Già da solo fai questo abbastanza: perdesti Euridice e quasi sembrava che la cosa te non toccasse.

Orfeo: La prima volta che mancò piansi e disperai il cuore. Non così la seconda: accolsi il lutto come dovrebbe chi già conosce il destino, e rassegnato e muto se ne sta sotto la grandine del dolore. Non concedetti al volto spietato dell’apparente nonsenso di ogni cosa più di un amaro sorriso, ed un discreto ricordo che ogni tanto riaffiora.

Dioniso: Ora schivi gli amori che il mondo ti offre.

Orfeo: Tanti si affidano al mio canto ammaliante. Ma io vivo lontano da ogni tentazione che la carne ci offre. Ancor ieri, scendevo giù al fiume, e, nascoste nel bosco, alcune donne discinte, nell’edera avvolte, mi guardavano strane. Mi seguirono sinché tornai sui miei passi; solo allora si ritirarono e sparirono tra le felci e i noccioli, ma le vidi negli occhi, e il loro sguardo invasato mi suggerì essere tra quelle che si fan tue seguaci.

Dioniso: Delle Menadi, intendi?

Orfeo: Quelle che, selvagge, nelle orge si gettano. Non le temo, ma, se ripenso all’incontro, intuisco le loro intenzioni. Vorrebbero amarmi, ma mi sanno lontano. Mi san morto nel cuore. Forse un’altra morte in loro mi attende.

Dioniso: Tu sai certo che terribile fine sarebbe. Se prese dal nettare, di tutto fan scempio. Anche il corpo di un uomo ridurrebbero in brani.

Orfeo: Io sono già morto, non ne temo la furia.

Dioniso: Hai un potere invincibile che legherebbe anche loro.

Orfeo: Qual potere ora invochi?

Dioniso: Quello del tuo canto celeste, che ogni cosa sospende. Con la voce e col suono anche Zeus e gli altri Dei potresti piegare. Come ottenesti la resa di Ade e il complice assenso di Persefone, anche il cuor d’Afrodite e l’abbraccio di Artemide strapperesti all’Olimpo. Quando canti non solo alberi e fiumi si sospendono attenti, ma dai gioghi celesti si sporgono i Numi per restarne estasiati.

Orfeo: E le Menadi, tu pensi farebbero anch’esse altrettanto? Sensibile credi il cuor loro al mio vibrar della voce? O anche quel canto vorrebbero far tacere per sempre, prese dal terribile fremito?

Dioniso: Il tuo canto è invincibile, perché in esso è nascosto il respiro del mondo, ogni sguardo e destino. Come luce e bagliore accecherebbe i lor occhi; più di tutte le vigne sarebbe dolce liquore. Loro lo sanno, e per questo in silenzio ti seguono. Ti amano e odiano allo stesso tempo. Ma non osano ancora toccarti. Non si sbrana un Dio facilmente.

Orfeo: Lo faranno domani, glielo leggo negli occhi. Tu pure lo sai. Attendono solo il momento che al loro cuore si leghi. Lo vedo nei sorrisi inquietanti che sovente in lor scorgo, in quei denti taglienti che scintillano al sole. Le loro orme, che sconvolgon le foglie, sembrano quelle di un branco di belve selvagge. Io sono sul loro sentiero; mi troveranno, lo so, e, insieme a me, anche il mio canto proveranno ad uccidere.

Dioniso: Ti preoccupi d’esso?

Orfeo: Di me stesso non curo.

Dioniso: Non ha fine il tuo canto. È ricordo per tanti, ha legato anche chi ha eterna memoria, si è distinto in imprese che i poeti diranno. Io non amo i poeti, che d’istinto e di sensi adorno i miei giorni. Pure in te vi è qualcosa cui non resto insensibile. Sento vibrare nella tua voce distesa le dimensioni e gli accenti che legano spirito e corpo. Se anche tu fossi morto, le tue note continuerebbero a fluire come l’acqua di un fiume, come il mare che trasporta le onde.

Orfeo: Le onde sulla spiaggia si frangono, non ne resta più nulla.

Dioniso: Ne resta il sospiro diffuso nell’aria, che richiama altre onde e altri suoni. Te l’ho detto, Orfeo: eterno è il tuo canto. Basterebbe che tu slegassi la voce, che toccassi quella lira che ha un nome, per fermarne l’ardore ed averle impotenti ai tuoi piedi. Potresti farne il tuo seguito, se soltanto volessi.

Orfeo: Non posso sempre cantare, per tutta la vita sognare e temere un ricordo. Se domani, anziché allontanarsi, decideranno l’assalto, chiuderò la mia bocca, Bistonia cesserò di pizzicare. Forse, solo da morto potrò cantare in eterno.

Coro di ninfe

Vedi? Le Menadi addensano intorno

il riso strano, il tralcio ai capelli

scrutano folli chi ormai notte e giorno

triste trascina l’ombra degli avelli.

Non gli perdonan d’amore la febbre

lo sguardo assente, il volto cupo.

Il calice alzato, di nettare ebbre:

Evoè! Evoè! Fan come grida il lupo.

Dioniso riccio non le tien più a freno

vagano cieche per campagne e boschi

pronte a colpire, lame hanno alle mani.

Rassegnato è Orfeo, di dolore pieno

sulla sua strada con pensieri foschi

rotto lo faranno, in pezzi ed a brani.