Pamela nubile

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Carlo Goldoni

Carlo Goldoni

PAMELA NUBILE

COMMEDIA

Rappresentata per la prima volta in Mantova la Primavera dell'anno 1750.

L'AUTORE A CHI LEGGE

Potrà ciascheduno riconoscere facilmente aver io tratto l'argomento della Pamela da un graziosissimo Romanzo Inglese che porta in fronte lo stesso nome, e chi le carte ha lette di tal Romanzo, vedrà sin dove ho seguitata la traccia del Romanziere, e dove ho lavorata con invenzione la favola.

Il premio della virtù è l'oggetto dell'Autore Inglese; a me piacque assaissimo una tal mira, ma non vorrei che al merito della virtù si sagrificasse il decoro delle Famiglie. Pamela, benchè vile ed abbietta, merita di essere da un Cavaliere sposata; ma un Cavaliere dona troppo al merito di Pamela, se non ostante la viltà de' natali, la prende in isposa. Vero è che in Londra poco scrupolo si fanno alcuni di cotai nozze, e legge non vi è colà che le vieti; ma vero è non meno, che niuno amerà per questo che il figliuolo, il fratello, il congiunto sposi una bassa femmina, anzichè una sua pari, quantunque sia, più di questa, virtuosa quella e gentile. Il Romanziere medesimo arma gli sdegni di Miledi, sorella dell'affascinato Milord, sul dubbio ch'egli discenda ad isposare una serva, e crede alla famiglia ingiuriosissime tali nozze, come le credo io altresì, ad onta del contrario costume.

O non doveva l'Autore Inglese, secondo me, disputare su tale articolo, o lo doveva risolvere con più decoro della sua Nazione.

Piacque a me immaginare una peripezia avvantaggiosa per li due Amanti, e cambiando la condizion di Pamela, premiar la di lei virtù, senza oltraggiare il puro sangue di un Cavaliere, che al pari degli stimoli dell'amore, quelli ascolta eziandio dell'onore.

Sembra che ciò in Italia stato sia dall'unanime consenso degli ascoltatori approvato, e certamente fra noi sconvenevole troppo riuscito sulle nostre scene sarebbe il matrimonio di un Cavaliere colla virtuosa sua Cameriera. Non so, se su tal punto saranno i perspicacissimi ingegni dell'Inghilterra di me contenti. Io non intendo disapprovare ciò che da essi non si condanna; accordar voglio ancora, che coi principi della natura sia preferibile la virtù alla nobiltà e alla ricchezza, ma siccome devesi sul Teatro far valere quella morale che viene dalla pratica più comune approvata, perdoneranno a me la necessità, in cui ritrovato mi sono, di non offendere il più lodato costume.

Poteva io, egli è vero, per ischivare tale scoglio, valermi d'altro argomento, o trasportarlo ad altra Nazione, come sembra abbia fatto il celebre Monsieur Voltaire colla sua Nanine, argomento stessissimo di Pamela; ma troppo compiaciuto mi sono de' bei caratteri Inglesi, ed è mia delizia internarmi, per quant'io posso, nelle massime, nei costumi di quella illustre Nazione.

Quantunque riescita siami felicemente questa Commedia, che da un Romanzo, come diceva, io trassi, non ardirei consigliare alcuno di farlo, nè io medesimo da cotal fonte penso volerne trarre alcun'altra. È troppo malagevole impegno restringere in poche ore una favola, a cui si è data dal primo Autore una estensione di mesi ed anni. Oltre a ciò manca il maggior merito, che nell'invenzione consiste, e rade volte succede ciò che a me questa fiata è riuscito, di valersi dei caratteri solamente, e prendendo della favola il buono, raggirar la catastrofe con un pensier nuovo, e rendere lo scioglimento più dilettevole.

Questa è una Commedia, in cui le passioni sono con tanta forza e tanta delicatezza trattate, quanto in una Tragedia richiederebbesi. Malgrado l'esito fortunato di questa, e d'altre mie di tal carattere e di somigliante passione, non mancan taluni, che dicono non esser buona Commedia quella in cui trionfano le virtuose passioni, si destan gli affetti, si moralizza sui vizi, sul mal costume, su gli accidenti dell'uman vivere. Codesti tali vorrebbono la Commedia o ridicola sempre o sempre critica e mai di nobili sentimenti maestra; quasichè fra gli Eroi solamente si avessero a figurar le virtù, e queste considerarsi in quella iperbolica vista, in cui si pongono gli Eroi medesimi della Tragedia. Il cuore umano risentesi più facilmente all'aspetto di quelli avvenimenti, a' quali o fu soggetto, o divenir potrebbe, e sarà sempre lodevole impresa, se colle Comiche rappresentazioni, movendo degli uditori gli affetti, si tenterà di correggerli, o di animarli, secondo ch'essi o al vizio, o alla virtù sieno variamente inclinati.


PERSONAGGI

MILORD BONFIL.

MILEDI DAURE, sua sorella.

IL CAVALIERE ERNOLD, nipote di Miledi Daure.

MILORD ARTUR.

MILORD COUBRECH.

PAMELA, fu cameriera della defunta madre di Bonfil.

ANDREUVE, vecchio padre di Pamela.

MADAMA JEVRE, governante.

MONSIEUR LONGMAN, maggiordomo.

MONSIEUR VILLIOME, segretario.

ISACCO, cameriere.

La Scena si rappresenta in Londra, in casa di Milord Bonfil, in una camera con varie porte.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Pamela a sedere a un picciolo tavolino, cucendo qualche cosa di bianco. Madama Jevre filando della bavella sul mulinello.

JEV. Pamela, che avete voi, che piangete?

PAM. Piango sempre, quando mi ricordo della povera mia padrona.

JEV. Vi lodo, ma sono tre mesi che è morta.

PAM. Non me ne scorderò mai. Sono una povera giovane, figlia d'un padre povero, che colle proprie braccia coltiva le terre che gli somministrano il pane. Ella mi ha fatto passare dallo stato misero allo stato comodo; dalla coltura d'un orticello all'onor di essere sua cameriera. Mi ha fatto istruire, mi ha seco allevata, mi amava, mi voleva sempre vicina; e volete ch'io me ne scordi? Sarei troppo ingrata, e troppo immeritevole di quella sorte che il cielo mi ha benignamente concessa.

JEV. È vero; la padrona vi voleva assai bene, ma voi, per dirla, meritate di essere amata. Siete una giovane savia, virtuosa e prudente. Siete adorabile.

PAM. Madama Jevre, voi mi mortificate.

JEV. Ve lo dico di cuore. Sono ormai vent'anni, che ho l'onore di essere al servizio di questa casa, e di quante cameriere sono qui capitate, non ho veduta la più discreta di voi.

PAM. Effetto della vostra bontà, madama, che sa compatire i miei difetti.

JEV. Voi fra le altre prerogative avete quella d'uno spirito così pronto, che tutto apprende con facilità.

PAM. Tutto quel poco ch'io so, me l'ha insegnato la mia padrona.

JEV. E poi, Pamela mia, siete assai bella!

PAM. Voi mi fate arrossire.

JEV. Io v'amo come mia figlia.

PAM. Ed io vi rispetto come una madre.

JEV. Sono consolatissima che voi, non ostante la di lei morte, restiate in casa con noi.

PAM. Povera padrona! Con che amore mi ha ella raccomandata a Milord suo figlio! Pareva che negli ultimi respiri di vita non sapesse parlar che di me. Quando me ne rammento, non posso trattenere le lagrime.

JEV. Il vostro buon padrone vi ama, non meno della defunta sua genitrice.

PAM. Il cielo lo benedica, e gli dia sempre salute.

JEV. Quando prenderà moglie, voi sarete la sua cameriera.

PAM. (sospira) Ah!

JEV. Sospirate? Perchè?

PAM. Il cielo dia al mio padrone tutto quello ch'egli desidera.

JEV. Parlate di lui con una gran tenerezza.

PAM. Come volete ch'io parli di uno che m'assicura della mia fortuna?

JEV. Quand'egli vi nomina, lo fa sempre col labbro ridente.

PAM. Ha il più bel cuore del mondo.

JEV. E sapete ch'egli ha tutta la serietà che si conviene a questa nostra nazione.

PAM. Bella prerogativa è il parlar poco e bene.

JEV. (si alza) Pamela, trattenetevi, che ora torno.

PAM. Non mi lasciate lungamente senza di voi.

JEV. Vedete: il fuso è pieno. Ne prendo un altro, e subito qui ritorno.

PAM. Non vorrei che mi trovasse sola il padrone.

JEV. Egli è un cavaliere onesto.

PAM. Egli è uomo.

JEV. Via, via, non vi date a pensar male. Ora torno.

PAM. S'egli venisse, avvisatemi.

JEV. Sì, lo farò. (M'entra un pensiero nel capo. Pamela parla troppo del suo padrone. Me ne saprò assicurare.) (parte)

SCENA II

PAMELA sola.

Ora che non vi è madama Jevre, posso piangere liberamente. Ma queste lagrime ch'io spargo, sono tutte per la mia defunta padrona? Io mi vorrei lusingare di sì, ma il cuore tristarello mi suggerisce di no. Il mio padrone parla spesso di me; mi nomina col labbro ridente. Quando m'incontra con l'occhio, non lo ritira sì presto; m'ha dette delle parole ripiene di somma bontà. E che vogl'io lusingarmi perciò? Egli mi fa tutto questo per le amorose parole della sua cara madre. Sì, egli lo fa per questa sola ragione; che se altro a far ciò lo movesse, dovrei subito allontanarmi da questa casa; salvarmi fra le braccia degli onorati miei genitori, e sagrificare la mia fortuna alla mia onoratezza. Ma giacchè ora son sola, voglio terminare di scrivere la lettera, che mandar destino a mio padre. Voglio farlo esser a parte, unitamente alla mia cara madre, delle mie contentezze: assicurarli che la fortuna non m'abbandona; che resto in casa, non ostante la morte della padrona; e che il mio caro padrone mi tratta con tanto amore, quanto faceva la di lui madre. Tutto ciò è già scritto; non ho d'aggiungere, se non che mando loro alcune ghinee lasciatemi dalla mia padrona per sovvenire ai loro bisogni. (cava di tasca un foglio piegato e dal cassettino del tavolino il calamaio, e si pone a scrivere)Quanto vedrei volentieri i miei amorosissimi genitori! Almen mio padre venisse a vedermi. È un mese ch'ei mi lusinga di farlo, e ancora non lo vedo. Finalmente la distanza non è che di venti miglia.

SCENA III

Milord Bonfil e detta.

BON. (da sè in distanza) (Cara Pamela! Scrive.)

PAM. (scrivendo) Sì, sì, spero verrà.

BON. Pamela.

PAM. (si alza)Signore? (s'inchina)

BON. A chi scrivi?

PAM. Scrivo al mio genitore.

BON. Lascia vedere.

PAM. Signore... Io non so scrivere.

BON. So che scrivi bene.

PAM. (vorrebbe ritirar la lettera) Permettetemi...

BON. No; voglio vedere.

PAM. (gli dà la lettera) Voi siete il padrone.

BON. (legge piano)

PAM. (da sè) (Oimè! Sentirà ch'io scrivo di lui. Arrossisco in pensarlo.)

BON. (guarda Pamela leggendo, e ride)

PAM. (da sè) (Ride? O di me, o della lettera.)

BON. (fa come sopra)

PAM. (da sè) (Finalmente non dico che la verità.)

BON. (rende a Pamela la lettera) Tieni.

PAM. Compatitemi.

BON. Tu scrivi perfettamente.

PAM. Fo tutto quello ch'io so.

BON. Io sono il tuo caro padrone.

PAM. Oh signore, vi dimando perdono, se ho scritto di voi con poco rispetto.

BON. Il tuo caro padrone ti perdona e ti loda.

PAM. Siete la stessa bontà.

BON. E tu sei la stessa bellezza.

PAM. Signore, con vostra buona licenza. (s'inchina per partire)

BON. Dove vai?

PAM. Madama Jevre mi aspetta.

BON. Io sono il padrone.

PAM. Vi obbedisco.

BON. (le presenta un anello) Tieni.

PAM. Cos'è questo, signore?

BON. Non lo conosci? Quest'anello era di mia madre.

PAM. È vero. Che volete ch'io ne faccia?

BON. Lo terrai per memoria di lei.

PAM. Oh, le mie mani non portano di quelle gioje.

BON. Mia madre a te l'ha lasciato.

PAM. Non mi pare, signore, non mi pare.

BON. Pare a me. Lo dico. Non si replica. Prendi l'anello.

PAM. E poi...

BON. (alterato) Prendi l'anello.

PAM. Obbedisco. (lo prende, e lo tiene stretto in mano)

BON. Ponilo al dito.

PAM. Non andrà bene.

BON. Rendimi quell'anello.

PAM. (glielo rende) Eccolo.

BON. Lascia vedere la mano.

PAM. No, signore.

BON. (alterato) La mano, dico, la mano.

PAM. Oimè!

BON. Non mi far adirare.

PAM. Tremo tutta. (si guarda d'intorno, e gli dà la mano)

BON. (le mette l'anello in dito) Ecco, ti sta benissimo.

PAM. (parte, coprendosi il volto col grembiale)

BON. Bello è il rossore, ma è incomodo qualche volta. (chiama) Jevre?

SCENA IV

Madama Jevre e detto.

JEV. Eccomi.

BON. Avete veduta Pamela?

JEV. Che le avete fatto, che piange?

BON. Un male assai grande. Le ho donato un anello.

JEV. Dunque piangerà d'allegrezza.

BON. No; piange per verecondia.

JEV. Questa sorta di lagrime in oggi si usa poco.

BON. Jevre, io amo Pamela.

JEV. Me ne sono accorta.

BON. Vi pare che Pamela lo sappia?

JEV. Non so che dire; ho qualche sospetto.

BON. Come parla di me?

JEV. Con un rispetto che par tenerezza.

BON. (ridente) Cara Pamela!

JEV. Ma è tant'onesta, che non si saprà niente di più.

BON. Parlatele.

JEV. Come?

BON. Fatele sapere ch'io le voglio bene.

JEV. La governatrice vien rimunerata col titolo di mezzana?

BON. Non posso vivere senza Pamela.

JEV. La volete sposare?

BON. No.

JEV. Ma dunque cosa volete da lei?

BON. Che mi ami, come io l'amo.

JEV. E come l'amate?

BON. Orsù, trovate Pamela. Ditele che l'amo, che voglio essere amato. Fra un'ora al più v'attendo colla risposta. (parte)

JEV. Fra un'ora al più? Sì, queste sono cose da farsi così su due piedi! Ma che farò? Parlerò a Pamela? Le parlerò in favor di Milord; o per animarla ad esser savia e dabbene? Se disgusto il padrone, io perdo la mia fortuna; se lo secondo, faccio un'opera poco onesta. Ci penserò; troverò forse la via di mezzo, e salverò, potendo, l'onore dell'una, senza irritare la passione dell'altro. (parte)

SCENA V

Pamela sola.

Oh caro anello! Oh quanto mi saresti più caro, se dato non mi ti avesse il padrone! Ma se a me dato non lo avesse il padrone, non mi sarebbe sì caro. Egli acquista prezzo più dalla mano che me lo porse, che dal valor della gioja. Ma se chi me l'ha dato è padrone, ed io sono una povera serva, a che pro lo riceverò? Amo che me l'abbia dato il padrone, ma non vorrei ch'egli fosse padrone. Oh fosse egli un servo come io sono, o foss'io una dama, com'egli è cavaliere! Che mai mi converrebbe meglio desiderare? In lui la viltà, o in me la grandezza? Se lui desidero vile, commetto un'ingiustizia al suo merito; se bramo in me la grandezza, cado nel peccato dell'ambizione. Ma non lo bramerei per la vanità del grado. So io il perchè, lo so io... Ma sciocca che sono! Mi perdo a coltivare immagini più stravaganti dei sogni. Penso a cose che mi farebbero estremamente arrossire, se si sapessero i miei pensieri. Sento gente. Sarà madama Jevre.

SCENA VI

Bonfil dalla porta comune, e detta.

PAM. (Oimè! Ecco il padrone.)

BON. (Sono impaziente.) Pamela, avete veduto madama Jevre?

PAM. Da che vi lasciai, non l'ho veduta.

BON. Doveva parlarvi.

PAM. Sono pochi momenti che da voi, signore, mi licenziai.

BON. Dite che siete da me fuggita. Mi scordai di dirvi una cosa importante.

PAM. Signore, permettetemi che io chiami madama Jevre.

BON. Non c'è bisogno di lei.

PAM. Ah signore! Che volete che dica il mondo?

BON. Non può il padrone trattare colla cameriera di casa?

PAM. In casa vostra non istò bene.

BON. Perchè?

PAM. Perchè non avete dama, a cui io abbia a servire.

BON. Senti, Pamela, miledi Daure mia sorella vorrebbe che tu andassi al suo servizio. V'anderesti tu di buona voglia?

PAM. Signore, voi potete disporre di me.

BON. Voglio sapere la tua volontà.

PAM. Si contenterà ella della poca mia abilità? Miledi è delicata, ed io sono avvezza a servire una padrona indulgente.

BON. Per quel ch'io sento, non ci anderesti contenta.

PAM. (Convien risolvere). Sì signore, vi anderò contentissima.

BON. Ed io non voglio che tu ti allontani dalla mia casa.

PAM. Ma per qual causa?

BON. Mia madre ti ha lasciata in custodia mia.

PAM. Se vado con una vostra sorella, non perdo l'avvantaggio della vostra protezione.

BON. Mia sorella è una pazza.

PAM. Perchè dunque, perdonatemi, me l'avete proposta?

BON. Per sentir ciò che mi rispondevi.

PAM. Potevate esser sicuro che avrei detto di sì.

BON. Ed io mi lusingava che mi dicessi di no.

PAM. Per qual ragione, signore?

BON. Perchè sai ch'io ti amo.

PAM. Se questo è vero, signore, andrò più presto a servire vostra sorella.

BON. Crudele, avresti cuore di abbandonarmi?

PAM. Voi parlate in una maniera che mi fa arrossire e tremare.

BON. Pamela, dammi la tua bella mano.

PAM. Non l'avrete più certamente.

BON. Ardirai contradirmi?

PAM. Ardirò tutto, pel mio decoro.

BON. Son tuo padrone.

PAM. Sì, padrone, ma non di rendermi sventurata.

BON. Meno repliche: dammi la mano.

PAM. (chiama forte) Madama Jevre?

BON. Chetati.

PAM. M'accheterò, se partite.

BON. Impertinente! (s'avvia verso la porta comune)

PAM. Lode al cielo, egli parte.

BON. (chiude la porta, e torna da Pamela)

PAM. (da sè) (Cielo, ajutami.)

BON. Chi son io, disgraziata? Un demonio che ti spaventa?

PAM. Siete peggio assai di un demonio, se m'insidiate l'onore.

BON. Via, Pamela, dammi la mano.

PAM. No certamente.

BON. La prenderò tuo malgrado.

PAM. Solleverò i domestici colle mie strida.

BON. Tieni, Pamela, eccoti cinquanta ghinee, fanne quello che vuoi.

PAM. La mia onestà vale più che tutto l'oro del mondo.

BON. Prendile, dico.

PAM. Non fia mai vero.

BON. Prendile, fraschetta, prendile; che, giuro al cielo, mi sentirai bestemmiare.

PAM. Le prenderò con un patto, che mi lasciate dire alcune parole senza interrompermi.

BON. Sì, parla.

PAM. Mi lascerete voi dire?

BON. Te lo prometto.

PAM. Giuratelo.

BON. Da cavaliere.

PAM. Vi credo; prendo le cinquanta ghinee, e sentite ciò che sono costretta a dirvi.

BON. (Dica ciò che sa dire. Ella è nelle mie mani.)

PAM. Signore, io sono una povera serva, voi siete il mio padrone. Voi cavaliere, io nata sono una misera donna; ma due cose eguali abbiam noi, e sono queste la ragione e l'onore. Voi non mi darete ad intendere d'aver alcuna autorità sopra l'onor mio; poichè la ragione m'insegna esser questo un tesoro indipendente da chi che sia. Il sangue nobile è un accidente della fortuna; le azioni nobili caratterizzano il grande. Che volete, signore, che dica il mondo di voi, se vi abbassate cotanto con una serva? Sostenete voi in questa guisa il decoro della nobiltà? Meritate voi quel rispetto che esige la vostra nascita? Parlereste voi forse col linguaggio degli uomini scapestrati? Direste coi discoli: l'uomo non disonora se stesso disonorando una povera donna? Tutte le male azioni disonorano un cavaliere e non può darsi azion più nera, più indegna oltre quella di insidiare l'onore di una fanciulla. Che cosa le potete voi dare in compenso del suo decoro? Denaro? Ah vilissimo prezzo per un inestimabil tesoro! Che massime indegne di voi! Che minacce indegne di me! Tenete il vostro denaro, denaro infame, denaro indegno, che vi lusingava esser da me anteposto all'onore. (pone la borsa sul tavolino)Signore, il mio discorso eccede la brevità, ma non eccede la mia ragione. Tutto è poco quel che io dico e quel che dir posso, in confronto della delicatezza dell'onor mio; che però preparatevi a vedermi morire, prima che io ceda ad una minima ombra di disonore. Ma, oh Dio! parmi che le mie parole facciano qualche impressione sul vostro bellissimo cuore. Finalmente siete un cavaliere ben nato, gentile ed onesto: e malgrado l'accecamento della vostra passione, avete poi a comprendere ch'io penso più giustamente di voi; e forse forse vi arrossirete di aver sì malamente pensato di me, e godrete ch'io abbia favellato sì francamente con voi. Milord, ho detto. Vi ringrazio che mi abbiate sì esattamente mantenuta la vostra parola. Ciò mi fa sperare che abbiate, in virtù forse delle mie ragioni, cambiato di sentimento. Lo voglia il cielo, ed io lo prego di cuore. Queste massime delle quali ho parlato, questi sentimenti coi quali mi reggo e vivo, sono frutti principalmente della dolcissima disciplina della vostra genitrice defunta; ed è forse opera della bell'anima che mi ascolta, il rimorso del vostro cuore, il riscuotimento della vostra virtù, la difesa della mia preziosa onestà. (si avvia verso la porta della sua camera)

BON. (resta sospeso senza parlare)

PAM. (Cielo; ajutami. Se posso uscire, felice me.) (apre ed esce)

BON. (resta ancora sospeso, poi si pone a passeggiare senza dir nulla; indi siede pensieroso.)

SCENA VII

Jevre e detto.

JEV. Signore.

BON. (alterato) Andate via.

JEV. È qui, signore...

BON. Levatemivi dagli occhi. (come sopra)

JEV. Vado. (va per partire) (La luna è torbida.)

BON. (chiama) Ehi?

JEV. (da lontano) Signore!

BON. Venite qui.

JEV. Eccomi.

BON. Dov'è andata Pamela?

JEV. Parmi che sinora sia stata qui.

BON. Sì; inutilmente.

JEV. E che cosa vi ho da far io?

BON. Cercatela: voglio sapere dov'è.

JEV. La cercherò, ma è qui Miledi vostra sorella.

BON. Vada al diavolo.

JEV. Non la volete ricevere?

BON. No.

JEV. Ma cosa le ho da dire?

BON. Che vada al diavolo.

JEV. Sì sì, già ella e il diavolo credo che si conoscano.

BON. Ah Jevre, Jevre, trovatemi la mia Pamela.

JEV. Pamela è troppo onesta per voi.

BON. Ah! che Pamela è la più bella creatura di questo mondo.

JEV. Lasciatela stare, povera ragazza, lasciatela stare.

BON. Trovatemi la mia Pamela, la voglio.

JEV. Vi dico ch'è onesta, che morirà piuttosto...

BON. Io non le voglio far verun male.

JEV. Ma! la volete sposare?

BON. Che tu sia maledetta. La voglio vedere.

JEV. (in atto di partire, senza parlare)

BON. Dove vai? Dove vai?

JEV. Da poco in qua siete diventato un diavolo ancora voi.

BON. Ah Jevre, fatemi venire Pamela.

JEV. In verità, che mi fate pietà.

BON. Sì, sono in uno stato da far pietà.

JEV. Io vi consiglierei a fare una cosa buona.

BON. Sì, cara mia, ditemi, a che mi consigliereste?

JEV. A far che Pamela andasse a star con vostra sorella.

BON. Diavolo, portati questa indegna! Vattene, o che ti uccido.

JEV. (Corda, corda.) (fugge via)

BON. Maledetta! maledetta! Vent'anni di servizio l'hanno resa temeraria a tal segno. (smania alquanto, poi s'acquieta)Ma Jevre non dice male. Quest'amore non è per me. Sposarla? Non mi conviene. Oltraggiarla? Non è giustizia. Che farò dunque? Che mai farò? (siede pensoso, e si appoggia al tavolino)

SCENA VIII

Miledi Daure e detto.

MIL. Milord, perchè non mi volete ricevere?

BON. Se sapete che non vi voglio ricevere, perchè siete venuta?

MIL. Parmi che una sorella possa prendersi questa libertà.

BON. Bene, sedete, se vi aggrada.

MIL. Ho da parlarvi.

BON. Lasciatemi pensare, mi parlerete poi.

MIL. (Siede)(Mio fratello ha il cuore oppresso. Assolutamente Pamela lo ha innamorato. Se mai sognar mi potessi, che costei avesse a recar disonore alla casa, la vorrei strozzare colle mie mani. Convien rimediarci assolutamente.) Milord.

BON. Non ho volontà di parlare.

MIL. (da sè) (Voglio prenderlo colle buone.)

SCENA IX

Monsieur Villiome e detti.

VIL. (entra senza parlare, s'accosta al tavolino; presenta due lettere a Milord. Egli le legge, e le sottoscrive, Villiome le riprende, e vuol partire)

MIL. (a Villiome) Segretario?

VIL. Miledi?

MIL. Che cosa sono quei fogli?

VIL. (parte) Perdonate, i segretarj non parlano.

MIL. (Sarà meglio che io me ne vada. A pranzo gli parlerò.) (si alza) Milord, addio.

BON. Che volevate voi dirmi?

MIL. È giunto in Londra il cavalier mio nipote.

BON. Sì? me ne rallegro.

MIL. Fra poco verrà a visitarvi.

BON. Lo vedrò volentieri.

MIL. Il giro d'Europa l'ha reso disinvolto e brillante.

BON. Ammirerò i suoi profitti.

MIL. (Parmi alquanto rasserenato. Voglio arrischiarmi a parlar di Pamela.) Ditemi, fratello amatissimo, vi siete ancora determinato a concedermi per cameriera Pamela? Che dite? Avete delle difficoltà? Pamela è una buona fanciulla; nostra madre l'amava, ed io ne terrò conto egualmente. Voi non ne avete bisogno. Una giovine come lei non istà bene in casa con un padrone che non ha moglie. Piuttosto quando sarete ammogliato, se vi premerà, ve la darò volentieri. Che ne dite, Milord? Siete contento? Pamela verrà a star meco?

BON. Sì. Pamela verrà a stare con voi.

MIL. Posso dunque andarla a sollecitare, perchè si disponga a venir meco?

BON. Sì, andate.

MIL. (Vado subito, prima ch'egli si penta.) (da sè, e parte)

BON. Questo sforzo è necessario alla nobiltà del mio sangue! Ah! che mi sento morire. Cara Pamela, e sarà vero che non ti veda più meco? (pensa un poco, e poi chiama)Ehi?

SCENA X

Isacco e detto.

ISAC. (entra e s'inchina, senza parlare)

BON. Il maggiordomo.

ISAC. (con una riverenza parte)

BON. Non v'è altro rimedio. Per istaccarmi costei dal cuore, me n'anderò.

SCENA XI

Monsieur Longman e detto.

LON. Signore?

BON. Voglio andare alla contea di Lincoln.

LON. Farò provvedere.

BON. Voi verrete meco.

LON. Come comandate.

BON. Verranno Gionata e Isacco.

LON. Sì, signore.

BON. Dite a madama Jevre che venga ella pure.

LON. Verrà anche Pamela?

BON. No.

LON. Poverina! Resterà qui sola?

BON. Ah buon vecchio, vi ho capito. Pamela non vi dispiace.

LON. (da sè) (Ah, se non avessi questi capelli canuti!)

BON. Pamela se n'anderà.

LON. Dove?

BON. Con Miledi mia sorella.

LON. Povera sventurata!

BON. Perchè sventurata?

LON. Miledi Daure? Ah! Sapete chi è.

BON. Ma che ne dite? Pamela non è gentile?

LON. È carina, carina.

BON. È una bellezza particolare.

LON. Ah, se non fossi sì vecchio...

BON. Andate.

LON. Signore, non la sagrificate con Miledi.

BON. (alterato) Andate.

LON. Vado.

BON. Preparate.

LON. Sì signore. (parte)

SCENA XII

Milord Bonfil, poi Isacco.

BON. Tutti amano Pamela, ed io non la dovrò amare? Ma il mio grado... Che grado? Sarò nato nobile, perchè la nobiltà mi abbia a rendere sventurato? Pamela val più d'un regno, e se fossi un re, amerei Pamela più della mia corona. Ma l'amo tanto, ed ho cuor di lasciarla? Mi priverò della cosa più preziosa di questa terra? La cederò a mia sorella? Partirò per non più vederla? (resta un poco sospeso, e poi dice:)No, no; giuro al cielo, no, no. Non sarà mai.

ISAC. Signore.

BON. Cosa vuoi?

ISAC. Vi è milord Artur.

BON. (sta un pezzo senza rispondere, poi dice):Venga. (Isacco parte)Non sarà mai, non sarà mai.

SCENA XIII

Milord Artur e detto, poi Isacco.

ART. Milord!

BON. (si alza e lo saluta)Sedete.

ART. Perdonate, se io vengo a recarvi incomodo.

BON. Voi mi onorate.

ART. Non vorrei aver troncato il corso dei vostri pensieri.

BON. No, amico. In questo punto bramava anzi una distrazione.

ART. Vi farò un discorso, che probabilmente sarà molto distante dal pensiero che vi occupava.

BON. Vi sentirò volentieri. Beviamo il tè. Ehi.

ISAC. Signore?

BON. Porta il tè. (Isacco vuol partire)Ehi, porta il rak. (Isacco via)Lo beveremo col rak.

ART. Ottima bevanda per lo stomaco.

BON. Che avete a dirmi?

ART. I vostri amici, che vi amano, bramerebbono di vedervi assicurata la successione.

BON. Per compiacerli mi converrà prender moglie?

ART. Sì, Milord. La vostra famiglia è sempre stata lo splendore di Londra, il decoro del Parlamento. Gli anni passano. Non riserbate alla sposa l'età men bella. Chi tardi si marita non vede sì facilmente l'avanzamento de' suoi figliuoli.

BON. Finora sono stato nemico del matrimonio.

ART. Ed ora come pensate?

BON. Sono agitato da più pensieri.

ART. Due partiti vi sarebbero opportuni per voi. Una figlia di milord Pakum, una nipote di milord Rainmur.

BON. Per qual ragione le giudicate per me?

ART. Sono ambe ricchissime.

BON. La ricchezza non è il mio nume.

ART. Il sangue loro è purissimo.

BON. Ah, questa è una grande prerogativa! Caro amico, giacchè avete la bontà d'interessarvi per me, non vi stancate di parlar meco.

ART. In questa sorta di affari le parole non si risparmiano.

BON. Ditemi sinceramente: credete voi che un uomo nato nobile, volendo prender moglie, sia in necessità di sposare una Dama?

ART. Non dico già che necessariamente ciascun debba farlo; ma tutte le buone regole insegnano, che così deve farsi.

BON. E queste regole non sono soggette a veruna eccezione?

ART. Sì, non vi è regola che non patisca eccezione.

BON. Suggeritemi in qual caso, in qual circostanza, sia permesso all'uomo nobile sposare una che non sia nobile.

ART. Quando il cavaliere sia nobile, ma di poche fortune, e la donna ignobile sia molto ricca.

BON. Cambiar la nobiltà col denaro? È un mercanteggiare con troppa viltà.

ART. Quando il cavaliere onorato ha qualche obbligazione verso la men nobile onesta.

BON. Chi prende moglie per obbligo, è soggetto a pentirsi.

ART. Quando un cavaliere privato può facilitarsi la sua fortuna, sposando la figlia d'un gran ministro.

BON. Non si deve sagrificare la nobiltà ad una incerta fortuna.

ART. Quando il cavaliere fosse acceso delle bellezze d'una giovine onesta...

BON. Ah Milord, dunque l'uomo nobile può sposar per affetto una donna che non sia nobile?

ART. Sì, lo può fare, ed abbiam varj esempi di chi l'ha fatto, ma non sarebbe prudenza il farlo.

BON. Non sarebbe prudenza il farlo? Ditemi: in che consiste la prudenza dell'uomo?

ART. Nel vivere onestamente, nell'osservare le leggi: nel mantenere il proprio decoro.

BON. Nel vivere onestamente, nell'osservare le leggi, nel mantenere il proprio decoro. Se un cavaliere sposa una figlia di bassa estrazione, ma di costumi nobili, savj e onorati, offende egli l'onestà?

ART. No, certamente. L'onestà conservasi in tutti i gradi.

BON. Favoritemi: con tal matrimonio manca egli all'osservanza di alcuna legge?

ART. Sopra ciò si potrebbe discorrere.

BON. Manca alla legge della natura?

ART. No, certamente. La natura è madre comune, ed ama ella indistintamente i suoi figli, e della loro unione indistintamente è contenta.

BON. Manca alle leggi del buon costume?

ART. No, perchè anzi deve essere libero il matrimonio, e non si può vietarlo fra due persone oneste che si amano.

BON. Manca forse alle leggi del Foro?

ART. Molto meno. Non v'è legge scritta, che osti ad un tal matrimonio.

BON. Dunque su qual fondamento potrebbe raggirarsi il discorso, per formare obbietto alla libertà di farlo, senza opporsi alla legge?

ART. Sul fondamento della comune opinione.

BON. Che intendete voi per questa comune opinione?

ART. Il modo di pensare degli uomini.

BON. Gli uomini per lo più pensano diversamente. Per uniformarsi all'opinione degli uomini, converrebbe variar pensiero con quanti si ha occasione di trattare. Da ciò ne proverrebbe la volubilità, l'incostanza, l'infedeltà, cose peggiori molto all'osservanza della propria opinione.

ART. Amico, voi dite bene, ma convien fare dei sacrifizj per mantenere il proprio decoro.

BON. Mantenere il proprio decoro? Questi è il terzo articolo da voi propostomi dell'umana prudenza. Vi supplico. Un cavaliere che sposa una povera onesta, offende egli il proprio decoro?

ART. Pregiudica alla nobiltà del suo sangue.

BON. Spiegatevi. Come può un matrimonio cambiar il sangue nelle vene del cavaliere?

ART. Ciò non potrei asserire.

BON. Dunque qual è quel sangue a cui si pregiudica?

ART. Quello che si tramanda nei figli.

BON. Ah, mi avete mortalmente ferito.

ART. Milord, parlatemi con vera amicizia, sareste voi veramente nel caso?

BON. Caro amico, i figli che nascessero da un tal matrimonio, non sarebbero nobili?

ART. Lo sarebbero dal lato del padre.

BON. Ma non è il padre, non è l'uomo quello che forma la nobiltà?

ART. Amico, vi riscaldate sì fortemente, che mi fate sospettare sia la questione fatta unicamente per voi.

BON. (si ammutolisce)

ART. Deh, apritemi il vostro cuore; svelatemi la verità e studierò di darvi quei consigli che crederò opportuni, per porre in quiete l'animo vostro.

BON. (da sè) (Vada Pamela con Miledi.)

ART. Molte ragioni si dicono in astratto sopra le massime generali, le quali poi variamente si adattano alle circostanze de' casi. La nobiltà ha più gradi; al di sotto della nobiltà vi sono parecchi ordini, i quali forse non sarebbero da disprezzarsi. Mi lusingo che a nozze vili non sappian tendere le vostre mire.

BON. (da sè) (Anderò alla contea di Lincoln.)

ART. Se mai qualche beltà lusinghiera tentasse macchiare colla viltà delle impure sue fiamme la purezza del vostro sangue...

BON. (con isdegno) Io non amo una beltà lusinghiera.

ART. (si alza) Milord, a rivederci.

BON. Aspettate, beviamo il tè. Ehi?

SCENA XIV

Isacco e detti.

ISAC. Signore.

BON. Non t'ho io ordinato il tè?

ISAC. Il credenziere non l'ha preparato.

BON. Bestia, il tè, bestia! Il rak, animalaccio, il rak.

ISAC. Ma signore...

BON. Non mi rispondere, che ti rompo il capo. (Isacco parte, e poi ritorna)

ART. (Milord è agitato.)

BON. Sediamo.

ART. Avete voi veduto il cavaliere Ernold?

BON. No, ma forse verrà stamane a vedermi.

ART. Sono cinque anni che viaggia. Ha fatto tutto il giro dell'Europa.

BON. Il più bello studio che far possa un uomo nobile, è quello di vedere il mondo.

ART. Sì, chi non esce dal suo paese, vive pieno di pregiudizj.

BON. Vi sono di quelli che credono non vi sia altro mondo che la loro patria.

ART. Col viaggiare i superbi diventano docili.

BON. Ma qualche volta i pazzi impazziscono più che mai.

ART. Certamente; il mondo è un bel libro, ma poco serve a chi non sa leggere.

(Isacco, col tè e il rak, varie chicchere, entra e pone tutto sul tavolino. Bonfil versa il tè, ponendovi lo zucchero, e poi il rak, e ne dà una tazza ad Artur, una ne prende per sè, e bevono)

ISAC. (a Bonfil) Signore.

BON. Che c'è?

ISAC. Milord Coubrech e il cavaliere Ernold vorrebbero riverirvi.

BON. Passino. (Isacco parte)

ART. Vedremo che profitto avrà fatto il nostro viaggiatore.

BON. Se non avrà acquistata prudenza, avrà approfittato poco.

SCENA XV

Milord Coubrech e Isacco che porta la sedia, poi parte, e detti.

COU. Milord.

BON. Milord.

ART. Amico.

BON. (a Coubrech) Favorite, bevete con noi.

COU. Il tè non si rifiuta.

ART. È bevanda salutare.

BON. (a Coubrech) Volete rak?

COU. Sì, rak.

BON. Ora vi servo. (gli empie la chicchera, e gliela dà) Dov'è il cavaliere?

COU. È restato da Miledi sua zia. Ora viene.

ART. Com'è riuscito il Cavaliere dopo i suoi viaggi?

COU. Parla troppo.

BON. Male.

COU. È pieno di mondo.

BON. Di mondo buono, o di mondo cattivo?

COU. V'ha dell'uno e dell'altro.

BON. Mescolanza pericolosa.

ART. Eccolo.

COU. Vedetelo, come ha l'aria francese.

BON. L'aria di Parigi non è sempre buona per navigare il canale di Londra.

SCENA XVI

Il Cavaliere Ernold ed Isacco, che accomoda un'altra sedia, e detti.

ERN. (con aria brillante) Milord Bonfil, milord Artur, cari amici, miei buoni amici, vostro servitor di buon cuore.

BON. Amico, siate il benvenuto. Accomodatevi.

ART. Mi rallegro vedervi ritornato alla patria.

ERN. Mi ci vedrete per poco.

ART. Per qual causa?

ERN. In Londra non ci posso più stare. Oh bella cosa il viaggiare! Oh dolcissima cosa il variar paese, il variare nazione! Oggi qua, domani là. Vedere i magnifici trattamenti, le splendide corti, l'abbondanza delle merci, la quantità del popolo, la sontuosità delle fabbriche. Che volete che io faccia in Londra?

ART. Londra non è città che ceda il luogo sì facilmente ad un'altra.

ERN. Eh, perdonatemi, non sapete nulla. Non avete veduto Parigi, Madrid, Lisbona, Vienna, Roma, Firenze, Milano, Venezia. Credetemi, non sapete nulla.

BON. Un viaggiatore prudente non disprezza mai il suo paese. Cavaliere, volete il tè?

ERN. Vi ringrazio, ho bevuto la cioccolata. In Ispagna si beve della cioccolata preziosa. Anche in Italia quasi comunemente si usa, ma senza vainiglia, o almeno con pochissima, e, sopra ogni altra città, Milano ne porta il vanto. A Venezia si beve il caffè squisito. Caffè d'Alessandria vero, e lo fanno a maraviglia. A Napoli poi conviene cedere la mano per i sorbetti. Hanno de' sapori squisiti; e quello ch'è rimarcabile per la salute, sono lavorati con la neve, e non col ghiaccio. Ogni città ha la sua prerogativa, Vienna per i gran trattamenti, e Parigi, oh il mio caro Parigi poi, per la galanteria, per l'amore! Bel conversare senza sospetti! Che bell'amarsi senza larve di gelosia! Sempre feste, sempre giardini, sempre allegrie, passatempi, tripudi. Oh che bel mondo! Oh che bel mondo! Oh che piacere, che passa tutti i piaceri del mondo!

BON. (chiama) Ehi?

ISAC. Signore.

BON. Porta un bicchiere d'acqua al cavaliere.

ERN. Perchè mi volete far portare dell'acqua?

BON. Temo che il parlar troppo v'abbia disseccata la gola.

ERN. No, no, risparmiatevi questa briga. Dacchè son partito da Londra, ho imparato a parlare.

BON. S'impara più facilmente a parlar che a tacere.

ERN. A parlar bene non s'impara così facilmente.

BON. Ma chi parla troppo, non può parlar sempre bene.

ERN. Caro Milord, voi non avete viaggiato.

BON. E voi mi fate perdere il desio di viaggiare.

ERN. Perchè?

BON. Perchè temerei anch'io d'acquistare dei pregiudizj.

ERN. Pregiudizio rimarcabile è l'ostentazione che alcuni fanno di una serietà rigorosa. L'uomo deve essere sociabile, ameno. Il mondo è fatto per chi sa conoscerlo, per chi sa prevalersi de' suoi onesti piaceri. Che cosa volete fare di questa vostra malinconia? Se vi trovate in conversazione, dite dieci parole in un'ora; se andate a passeggiare, per lo più vi compiacete d'essere soli; se fate all'amore, volete essere intesi senza parlare; se andate al teatro, ove si fanno le opere musicali, vi andate per piangere, e vi alletta solo il canto patetico, che dà solletico all'ipocondria. Le commedie inglesi sono critiche, instruttive, ripiene di bei caratteri e di buoni sali, ma non fanno ridere. In Italia almeno si godono allegre e spiritose commedie. Oh se vedeste che bella maschera è l'Arlecchino! È un peccato, che in Londra non vogliano i nostri Inglesi soffrir la maschera sul teatro. Se si potesse introdurre nelle nostre commedie l'Arlecchino, sarebbe la cosa più piacevole di questo mondo. Costui rappresenta un servo goffo ed astuto nel medesimo tempo. Ha una maschera assai ridicola, veste un abito di più colori, e fa smascellar dalle risa. Credetemi, amici, che se lo vedeste, con tutta la vostra serietà sareste sforzati a ridere. Dice delle cose spiritosissime. Sentite alcuni de' suoi vezzi che ho ritenuti in memoria. Invece di dir padrone, dirà poltrone. In luogo di dir dottore, dirà dolore. Al cappello dirà campanello. A una lettera, una lettiera. Parla sempre di mangiare, fa l'impertinente con tutte le donne. Bastona terribilmente il padrone...

ART. (si alza)Milord, amici, a rivederci. (parte)

ERN. Andate via? Ora me ne sovviene una bellissima per la quale è impossibile trattenere il riso. Arlecchino una sera in una sola commedia, per ingannare un vecchio che chiamasi Pantalone, si è trasformato in un moro, in una statua movibile, e in uno scheletro, e alla fine d'ogni sua furberia regalava il buon vecchio di bastonate.

COU. (si alza)Amico, permettetemi. (Non posso più.) (parte)

ERN. (a Bonfil) Ecco quel che importa il non aver viaggiato.

BON. Cavaliere, se ciò vi fa ridere, non so che pensare di voi. Non mi darete ad intendere che in Italia, gli uomini dotti, gli uomini di spirito, ridano di simili schioccherie. Il riso è proprio dell'uomo, ma tutti gli uomini non ridono per la stessa cagione. V'è il ridicolo nobile, che ha origine dal vezzo delle parole, dai sali arguti, dalle facezie spiritose e brillanti. Vi è il riso vile, che nasce dalla scurrilità, dalla scioccheria. Permettetemi ch'io vi parli con quella libertà, con cui può parlarvi un congiunto, un amico. Voi avete viaggiato prima del tempo. Era necessario che ai vostri viaggi faceste precedere i migliori studj. L'istoria, la cronologia, il disegno, le matematiche, la buona filosofia, sono le scienze più necessarie ad un viaggiatore. Cavaliere, se voi le aveste studiate prima di uscir di Londra non avreste fermato il vostro spirito nei trattamenti di Vienna, nella galanteria di Parigi, nell'Arlecchino d'Italia. (parte)

ERN. Milord non sa che si dica; parla così, perchè non ha viaggiato. (parte)

SCENA XVII

Pamela sola.

Tutti i momenti ch'io resto in questa casa, sono oramai colpevoli e ingiuriosi alla mia onestà. Il mio padrone ha rilasciato il freno alla sua passione. Egli mi perseguita, e mi conviene fuggire. Oh Dio! È possibile ch'ei non possa mirarmi, senza pensare alla mia rovina? Dovrò partire da questa casa, dove ho principiato a gustare i primi doni della fortuna? Dovrò lasciare madama Jevre, che mi ama come una figlia? Non vedrò più monsieur Longman, quell'amabile vecchio che io venero come padre? Mi staccherò dalle serve, dai servitori di questa famiglia, che mi amano come fratelli? Oh Dio! Lascerò un sì gentile padrone, un padrone ripieno di tante belle virtù? Ma no, il mio padrone non è più virtuoso; egli ha cambiato il cuore; è divenuto un uomo brutale, ed io lo devo fuggire. Lo fuggirò con pena, ma pure lo fuggirò. Se Miledi continua a volermi, io starò seco finchè potrò. Renderò di tutto avvisato mio padre, e ad ogni evento andrò a vivere con esso lui nella nativa mia povertà. Sfortunata Pamela! Povero il mio padrone! (piange)

SCENA XVIII

Monsieur Longman e detta.

LON. Pamela?

PAM. Signore.

LON. Piangete forse?

PAM. Ah pur troppo!

LON. Le vostre lagrime mi piombano sul cuore.

PAM. Siete pur buono; siete pur amoroso!

LON. Cara Pamela, siete pur adorabile.

PAM. Ah, monsieur Longman, non ci vedremo più!

LON. Possibile?

PAM. Il mio padrone mi manda a servire Miledi sua sorella.

LON. Con Miledi, cara Pamela, non ci starete.

PAM. Andrò a star con mio padre.

LON. In campagna?

PAM. Sì, in campagna, a lavorare i terreni.

LON. Con quelle care manine?

PAM. Bisogna uniformarsi al destino.

LON. (Mi muove a pietà.)

PAM. Che avete che piangete?

LON. Ah Pamela! Piango per causa vostra.

PAM. Il cielo benedica il vostro bel cuore. Deh, fatemi questa grazia. Incamminatemi questa lettera al paese de' miei genitori.

LON. Volentieri; fidatevi di me, che anderà sicura. Ma, oh Dio! E avete cuore di lasciarci?

PAM. Credetemi, che mi sento morire.

LON. Ah fanciulla mia!...

PAM. Che volete voi dirmi?

LON. Son troppo vecchio.

PAM. Siete tanto più venerabile.

LON. Ditemi, cara, prendereste marito?

PAM. Difficilmente lo prenderei.

LON. Perchè difficilmente?

PAM. Perchè il mio genio non s'accorda colla mia condizione.

LON. Se vi aveste a legare col matrimonio, a chi inclinereste voi?

PAM. Sento gente. Sarà madama Jevre.

LON. Pamela, parleremo di ciò con più comodo.

PAM. Può essere che non ci resti più tempo di farlo.

LON. Perchè?

PAM. Perchè forse avanti sera me n'anderò.

LON. Non risolvete così a precipizio.

PAM. Ecco Miledi con madama Jevre.

LON. Pamela, non partite senza parlare con me.

PAM. Procurerò di vedervi.

LON. (Ah, se avessi vent'anni di meno!) A rivederci, figliuola.

PAM. Il cielo vi conservi sano.

LON. Il cielo vi benedica. (parte)

PAM. Povero vecchio! Mi ama veramente di cuore. Anche il padrone mi ama. Ah che differenza di amare! Monsieur Longman mi ama con innocenza; il padrone mi ama per rovinarmi. Oimè! Quando uscirò da questa casa fatale?

SCENA XIX

Miledi, Madama Jevre e detta.

MIL. Pamela.

PAM. Signora.

MIL. Finalmente Milord mio fratello accorda che tu venga a stare con me. Preparati, che or ora ti condurrò meco colla carrozza.

PAM. (Oimè!) Poco vi vuole a prepararmi.

MIL. Ci verrai volentieri?

PAM. Ascriverò a mia fortuna l'onor di servirvi.

MIL. Assicúrati, che ti vorrò bene.

PAM. Sarà effetto della vostra bontà.

JEV. (Povera Pamela!) (piange)

PAM. (a Jevre) Madama, che avete voi, che piangete?

JEV. Cara Pamela, non posso vedervi da me partire, senza piangere amaramente.

PAM. Spero che la mia padrona permetterà che venghiate qualche volta a vedermi.

JEV. E voi non verrete da me?

PAM. No, madama, non ci verrò.

JEV. Ma perchè, cara, perchè?

PAM. Perchè non voglio abbandonare la mia padrona.

MIL. Se tu sarai amorosa meco, io sarò amorosa con te.

PAM. Vi servirò con tutta la mia attenzione.

MIL. Via dunque, Pamela, andiamo. Madama Jevre ti manderà poscia i tuoi abiti e la tua biancheria.

PAM. Son rassegnata a obbedirvi. (Oh Dio!) (piange)

MIL. Che hai? Tu piangi?

PAM. Madama Jevre, vi ringrazio della bontà che avete avuta per me. Il cielo vi rimeriti tutto il bene che mi avete fatto. Vi domando perdono, se qualche dispiacere vi avessi dato. Vogliatemi bene, e pregate il cielo per me.

JEV. Oh Dio! Mi si spezza il cuore, non posso più.

MIL. Pamela, più che stai qui, più ti tormenti. Andiamo che in casa mia avrai motivo di rallegrarti. È venuto mio nipote, dopo un viaggio di cinque anni. Egli è pieno di brio; egli è affabile con chicchessia, ha condotto seco dei servitori di varie nazioni, e dopo la sua venuta, la mia casa pare trasportata in Parigi.

PAM. Spero che il cavaliere vostro nipote non avrà a domesticarsi con me.

MIL. Orsù andiamo, non perdiamo inutilmente il tempo.

JEV. Non volete restare a pranzo con vostro fratello?

MIL. No, mi preme condurre a casa Pamela.

PAM. Signora, che dirà il mio padrone, se parto così villanamente senza baciargli la mano?

MIL. Vieni meco, passeremo dal suo appartamento.

JEV. Eccolo, ch'egli viene alla volta nostra.

PAM. (Oh Dio! Tremo tutta, il sangue mi si gela nelle vene.)

SCENA XX

Milord Bonfil e dette.

BON. Miledi, che fate voi in queste camere?

MIL. Son venuta a sollecitare Pamela.

BON. Che volete far voi di Pamela?

MIL. Condurla meco.

BON. Dove?

MIL. Non me l'avete voi concessa per cameriera?

BON. Pamela non ha da uscire di casa mia.

MIL. Come! Mi mancate voi di parola?

BON. Io non mi prendo soggezione di mia sorella.

MIL. Una sorella, ch'è moglie d'un cavaliere, deve essere rispettata come una dama.

BON. Prendete la cosa come vi piace. Pamela non deve uscire di qui.

MIL. Pamela deve venire con me.

BON. Va nella tua camera. (a Pamela)

PAM. Signore...

BON. Va nella tua camera, ti dico, che giuro al cielo vi ti farò condurre per forza.

MIL. Eh, Milord, se non avrete rispetto...

BON. (a Miledi)Se non avrete prudenza, ve ne farò pentire. (a Pamela, con isdegno) Va in camera, che tu sia maledetta.

PAM. Madama Jevre, aiutatemi.

JEV. Signore, per carità.

BON. Andate con lei.

JEV. Con Pamela?

BON. Sì, con lei nella sua camera. Animo, con chi parlo?

JEV. Pamela, andiamo; non lo facciamo adirar d'avvantaggio.

PAM. (a Jevre) Se venite voi, non ricuso d'andarvi.

JEV. (a Bonfil) Signore, facciamo il vostro volere.

PAM. Obbedisco a' vostri comandi. (s'inchina, ed entra con Jevre)

BON. (da sè) (Ah Pamela, sei pur vezzosa!)

MIL. Fratello, ricordatevi dell'onore della vostra famiglia.

BON. (s'accosta alla camera dov'è andata Pamela)

MIL. Che? Andate voi nella camera con Pamela? Mi farete vedere sugli occhi miei le vostre debolezze? Giuro al cielo!

BON. (serra per di fuori colla chiave la camera ov'è Pamela, e si ripone la chiave in tasca)

MIL. Assicurate la vostra bella, perchè non vi venga involata! Milord, pensate a voi stesso, non vi ponete a rischio di precipitare così vilmente.

BON. (senza abbadare alla sorella, parte)

MIL. Così mi lascia? Così mi tratta? Fa di me sì bel conto? Non son chi sono, se non mi vendico. Sa molto bene Milord che nati siamo entrambi di un medesimo sangue. Lo sdegno che in lui predomina, non è inferior nel mio seno; e s'egli mi tratta con un indegno disprezzo, mi scorderò ch'egli mi sia fratello, e lo tratterò da nemico. Pamela o ha da venire con me, o ha da lasciare la vita. (parte)

Fine dell'Atto primo.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Milord Bonfil con una chiave in mano, poi Isacco.

BON. La povera Pamela, la povera Jevre sono ancora imprigionate. Andiamo a dar loro la libertà. Ma, oh cielo! che farò di Pamela? Pamela è l'anima mia. Talora faccio forza a me stesso per allontanarmi col pensiero dal suo bel volto, e parmi possibile l'abbandonarla; ma quando poi la rivedo mi sento gelar il sangue nelle vene; giudico unicamente da lei dipendere la mia vita, e non ho cuor di lasciarla. Ma che mai far dovrò? sposarla? Pamela, sì, tu lo meriti, ma a troppe cose mi convien pensare. Orsù, aprasi quella porta; escano di timore quelle povere sventurate. (va per aprire)

ISAC. Signore.

BON. Cosa vuoi?

ISAC. Milord Artur.

BON. Venga. A tempo egli arriva. La sua buona amicizia mi darà de' sinceri consigli. Soffrano ancor per poco Pamela e Jevre la pena de' loro timorosi pensieri. Qualche cosa risolverò.

SCENA II

Milord Artur e detto.

ART. Amico, troppo presto vi rinnovo l'incomodo di mia persona.

BON. Vi amo sempre, e vi desidero or più che mai.

ART. Vi contentate che io parli con libertà?

BON. Sì, vi prego di farlo sinceramente.

ART. Sono informato della ragione, per cui stamane teneste meco il forte ragionamento.

BON. Caro amico, non sapete voi compatirmi?

ART. Sì, vi compatisco, ma vi compiango.

BON. Trovate voi che il mio caso meriti d'esser compianto?

ART. Moltissimo. Vi par poco per un uomo di merito, di virtù, il sacrificio del suo cuore e della sua ragione?

BON. Il cuore vi confesso averlo perduto. Ma se voi m'imputate aver io operato senza ragione, Milord, credetemi, voi v'ingannate.

ART. Qual argomento avete voi per sostenere che il vostro amore sia ragionevole?

BON. Amico, avete veduta Pamela?

ART. Sì, l'ho veduta, ma non con i vostri occhi.

BON. Negherete voi ch'ella sia bella, ch'ella sia amabile?

ART. È bella, è amabile, io lo concedo; ma tutto ciò è troppo poco in confronto di quella pace che andate perdendo.

BON. Ah Milord, Pamela ha un gran pregio, che non vedono nè i vostri occhi, nè i miei.

ART. E in che consiste questo suo invisibile pregio?

BON. In una estraordinaria virtù, in una illibata onestà, in un'ammirabile delicatezza d'onore.

ART. Pregi grandi, grandissimi pregi, che meritano tutta la venerazione; ma se Pamela è delicata nell'onor suo, voi non lo dovete essere meno nel vostro.

BON. Vi ho pur convinto stamane, che l'uomo nobile con nozze ignobili non offende nè l'onestà, nè la legge.

ART. Ed io vi ho convinto ch'egli tradisce i proprj figliuoli.

BON. Questi figli non son sicuri.

ART. Bramereste voi morir senza prole?

BON. (pensa un poco)No certamente. Muore per metà chi lascia un'immagine di se stesso ne' figli.

ART. Dunque avete a lusingarvi anzi di conseguire quello che ragionevolmente desiderate.

BON. Ah che bei figli, che cari figli uscirebbero dalla virtuosa Pamela!

ART. Il sangue di una madre vile potrebbe renderli bassamente inclinati.

BON. Non è il sangue, ma la virtù della madre che opera mirabilmente ne' figli.

ART. Milord, siete voi risoluto di sposare Pamela?

BON. Il mio cuore lo brama, Pamela lo merita, ma non ho stabilito di farlo.

ART. Deh, non lo fate; chiudete per un momento l'orecchio alla passione che vi lusinga, e apritelo ad un amico che vi consiglia. Fermatevi a considerare per un momento questo principio vero: esser dovere dell'uomo onesto preferire il decoro all'amore, sottomettere il senso all'impero della ragione. Tutto voglio accordarvi, per iscemare l'inganno della vostra passione. Sia vero che l'onestà non si offenda; verissimo, che le leggi non l'impediscano; e diasi ancora, che i figli poco perdano per un tal maritaggio: udite le infallibili conseguenze ch'evitare non si possono, e preparatevi a soffrirle, se avete cuore di farlo. I vostri congiunti si lagneranno aspramente di voi, si crederanno a parte dell'ingiuria che fatta avrete al vostro medesimo sangue, e vi dichiareranno debitore in perpetuo del loro pregiudicato decoro. Ne' circoli, nelle veglie, alle mense, ai ridotti si parlerà con poca stima di voi. Ma tutto questo può tollerarsi da un uomo che ha sagrificato il mondo tutto al suo tenero amore. Udite, Milord, udite ciò che non avrete cuor di soffrire: gli oltraggi che si faranno alla vostra sposa. Le donne nobili non si degneranno di lei; le ignobili non saranno degne di voi. Vi vedrete quanto prima d'intorno un suocero colle mani incallite ed una serie di villani congiunti, che vi faranno arrossire. L'amor grande, quell'amore che accieca e fa parer tutto bello, non dura molto. Lo sfogo della passione dà luogo ai migliori riflessi; ma questi, quando giungono fuor di tempo, accrescono il dolore e la confusione. Vi parlo da vero amico col cuor sulle labbra. Mirate da un canto le dolci lusinghe del vostro Cupido, mirate dall'altro i vostri impegni, i vostri doveri, i pericoli a' quali vi esponete; e se non avete smarrito il senno, eleggete da vostro pari, preferite ciò che vi detta l'onore.

BON. (si getta colle braccia al collo d'Artur) Caro amico.

ART. Via, Milord, risolvete, fate una magnanima azione, degna interamente di voi; allontanatevi da questo incanto, scioglietevi da questa ingiuriosa catena.

BON. Ma come, amico, come ho da far io ad abbandonarla?

ART. Concedetela a vostra sorella.

BON. No, questo non sarà mai. Con Miledi non anderà certamente.

ART. Ma per che causa?

BON. Ella è una pazza; ha degl'impeti sregolati. Lo dirò a mia confusione, ella mi assomiglia assaissimo ne' difetti. Povera Pamela! avvezza con mia madre, che la trattava come una figlia, perderebbe con lei la salute, perderebbe miseramente la vita.

ART. Fate una cosa migliore; procurate di maritarla.

BON. (pensa un poco)Sì, non sarebbe mal fatto.

ART. Volete che io procuri di trovarle marito?

BON. Procuratelo prestamente.

ART. Lo farò volentieri.

BON. Mia madre me l'ha teneramente raccomandata.

ART. Datele una discreta dote, e adempirete agli ordini di vostra madre.

BON. Sì, le darò di dote duemila ghinee.

ART. O Milord, questo è troppo. Chi volete voi che la sposi?

BON. Pamela non soffrirebbe un marito plebeo.

ART. Nè un marito nobile la prenderà per la dote.

BON. Avvertite a non procurarle un marito straniero.

ART. Che! vi spiacerebbe ch'ella andasse lontana?

BON. Non m'inasprite più crudelmente la piaga.

ART. Orsù, diciamolo a madama Jevre. Ella è donna di senno; ella provvederà a Pamela lo sposo.

BON. Sì, Jevre l'ama. Niuno meglio di lei saprà contentar Pamela.

ART. Ecco l'affare accomodato; ecco quasi assicurata la sorte di questa buona ragazza; ed ecco voi fuor di pericolo di rovinarvi per sempre.

BON. Caro amico, i vostri consigli operano sopra il mio cuore con la forza della ragione; ma io provo, io solo provo le atroci pene della passione nemica.

ART. Giacchè avete dell'amore per me, vorrei pregarvi di un'altra grazia.

BON. Siete arbitro della mia vita.

ART. Vorrei che vi compiaceste di venir meco per otto giorni in campagna.

BON. No, compatitemi, non posso in ciò compiacervi.

ART. Ma perchè mai?

BON. Gli affari miei non mi permettono uscire dalla città.

ART. Fra questi affari v'ha parte alcuna Pamela?

BON. Sì, ma unicamente per maritarla.

ART. Questo si può procurare senza di voi.

BON. Ma non si può risolvere senza di me.

ART. In otto giorni non si fa così facilmente un maritaggio per via di contratto.

BON. Dispensatemi, ve ne prego.

ART. Milord, voi mi adulate. Voi non siete persuaso de' miei consigli. Partito ch'io sono, voi tornate a sollecitare Pamela.

BON. Non giudicate sì malamente di me. Stimo i vostri consigli, li apprezzo e li gradisco.

ART. Se così fosse, non ricusereste di venir meco.

BON. Otto giorni non posso lasciare la casa senza di me.

ART. Eccomi più discreto; mi contento che restiate meco tre soli giorni.

BON. Tre giorni? Dove?

ART. Alla contea d'Artur.

BON. Ma, oh cielo! Perchè mi volete condurre in villa?

ART. Deggio dare una festa ad una mia cugina, ritornata di Portogallo.

BON. Il mio malinconico umore non può che spiacere nell'allegria della villa.

ART. Voi avete a piacere a me solo.

BON. E non volete dispensarmi?

ART. No, certamente, a costo di perdere la vostra preziosa amicizia.

BON. Voi non meritate che io vi corrisponda villanamente. Per compiacervi verrò.

ART. Sollecitate il pranzo; a un'ora dopo il mezzogiorno, saranno qui i miei cavalli e ce n'andremo immediatamente.

BON. Oimè! Così presto?

ART. Due ore abbiamo di tempo.

BON. È troppo poco.

ART. Che cosa avete di maggior premura?

BON. Non volete che io dia gli ordini alla mia famiglia?

ART. La vostra famiglia è ben regolata. Tre giorni di assenza non alterano le vostre commissioni.

BON. Amico, per quel ch'io vedo, voi temete che io non mi possa staccar da Pamela.

ART. Se ricusate di venir meco, mi darete cagione di sospettarlo.

BON. Bene, verrò con voi.

ART. Me ne date parola?

BON. Sì, in parola di cavaliere.

ART. Permettetemi che vada poco lontano; or ora sono da voi.

BON. Non volete desinar meco?

ART. Sì, ma deggio dare una piccola commissione. Fra un'ora attendetemi.

BON. Accomodatevi come vi aggrada.

ART. Amico, addio.

BON. Son vostro servo.

ART. (Povero Milord! Nello stato in cui si ritrova, egli ha bisogno di un vero amico, che lo soccorra.) (parte)

BON. Ehi?

SCENA III

Isacco e detto, poi Monsieur Longman.

ISAC. Signore.

BON. Il maggiordomo. (Isacco parte)Milord Artur conosce il mio male ed il mio rimedio; ed io sono un infermo che odia la medicina, e non vorrebbe rassegnarsi al medico. Ho data la mia parola; anderò. E Pamela? E Pamela si mariterà. Si mariterà? Sì, sì; si mariterà; a tuo dispetto, mio cuore; sì, a tuo dispetto.

LON. Signore?

BON. Vi levo ogni ordine. Non vado alla contea di Lincoln.

LON. Ho inteso.

BON. Fatemi preparare per dopo pranzo un abito da viaggio.

LON. Parte oggi, signore?

BON. Sì.

LON. Dunque parte.

BON. Sì; l'ho detto.

LON. Ho da preparare il bagaglio per la contea di Lincoln?

BON. Siete sordo? V'ho detto che non vi vado.

LON. Ma se parte...

BON. (alterato) Parto sì, parto, ma non per Lincoln.

LON. (Non lo capisco.)

BON. Che ha detto Miledi in partendo da casa mia?

LON. Che vuol Pamela assolutamente.

BON. Non l'avrà. Giuro al cielo, non l'avrà.

LON. Resterà ella in casa?

BON. La mariterò.

LON. Signore, la vuol maritare?

BON. Sì, voglio assicurare la sua fortuna.

LON. Perdoni; le ha ritrovato marito?

BON. Non ancora.

LON. (da sè) (Ah foss'io il fortunato!)

BON. Avreste voi qualche buon partito da proporre a Pamela?

LON. L'avrei io, ma...

BON. Che vuol dire questa sospensione?

LON. Domando perdono... La vuol maritare davvero, davvero?

BON. Io non parlo invano.

LON. Pamela vorrà soddisfarsi.

BON. Pamela è saggia.

LON. Se è saggia, non disprezzerà un uomo avanzato.

BON. Inclinereste voi a sposarla?

LON. E perchè no? Voi sapete chi sono.

BON. (da sè) (Ah ribaldo! Costui mi è rivale.)

LON. Le farò donazione di quanto possiedo.

BON. (da sè) (Sì, sì, con questo matrimonio Pamela non si scosta dagli occhi miei.)

LON. Signore, ecco superato ogni mio rossore. Amo Pamela, ed ora che vi vedo in procinto di disporre di lei, vi supplico consolarmi.

BON. (Come? Soffirirò che un mio servitore gioisca di quella bellezza che m'innamora? Non sarà mai.)

LON. Signore, che dite?

BON. (alterato)Dico che siete un pazzo; che se ardirete mirar Pamela, vi ucciderò colle mie proprie mani.

LON. (senza parlare fa una riverenza a Milord, e parte)

BON. Ah no, non sarà possibile ch'io vegga d'altri Pamela, senza morire. Ma la parola che ne ho data all'amico? Sarò volubile a questo segno? Mi cambierò ogni momento? Orsù, cedasi alla ragione, trionfi l'orgoglio e si sagrifichi il cuore. Madama Jevre trovi a Pamela lo sposo. Io non tornerò a Londra, prima che ella non sia legata ad altrui. E allora potrò io vivere? No, morirò certamente, e la mia morte sarà trofeo delle massime rigorose del vero onore. Veggasi Pamela, ma per l'ultima volta. (va ad aprir colla chiave)

SCENA IV

Madama Jevre e detto.

JEV. Signore, vi sembra ancor tempo di liberarmi di carcere?

BON. Dov'è Pamela?

JEV. È in quella camera che piange, sospira e trema.

BON. Trema? Di che ha ella paura?

JEV. Di voi, che siete peggio di Satanasso.

BON. Le ho fatto io qualche ingiuria?

JEV. Voi non vi conoscete.

BON. Che vorreste voi dire?

JEV. Quando siete in collera, fate paura a mezzo mondo.

BON. La mia collera è figlia dell'amor mio.

JEV. Maledetto amore!

BON. Dite a Pamela che venga qui.

JEV. Ma che cosa volete da quella povera figliuola?

BON. Le voglio parlare.

JEV. E non altro?

BON. E non altro.

JEV. Posso fidarmi?

BON. L'onestà di Pamela merita ogni rispetto.

JEV. Che siate benedetto! Ora la faccio venire. (si allontana un poco, poi torna indietro)Ma ehi, signor padrone, non vorrei che mirando Pamela, la sua bellezza vi facesse scordare della sua onestà.

BON. Jevre, non mi stancate. O qui venga Pamela, o io vado da lei.

JEV. No, no; la farò venir qui. (In quella camera vi si vede poco).

BON. Ecco il terribil punto, in cui ho da imparare la gran virtù di superare me stesso.

SCENA V

Jevre conducendo Pamela per la mano, che viene col capo chino, tremando, e detto.

JEV. (piano a Pamela) (Non dubitate, ha promesso di non farvi alcun dispiacere.)

PAM. (piano a Jevre) (Ha giurato?)

BON. (Resta pensoso fra sè)

JEV. (piano a Pamela) (Sì, l'ha giurato.)

PAM. (Oh, quando giura, non manca.)

JEV. (a Milord) Signore.

BON. (si volta)Pamela.

PAM. (con gli occhi bassi non risponde)

BON. Pamela, tu dunque m'odii.

PAM. No, signore, io non vi odio.

BON. Tu mi vorresti veder morire.

PAM. Spargerei il mio sangue per voi.

BON. Mi ami?

PAM. Vi amo, come la serva deve amare il padrone.

JEV. (a Bonfil) (Poverina! È di buon cuore.)

BON. Sì, Pamela, tu sei veramente una giovine di buon costume; conosco la tua onestà; ammiro la tua virtù; meriti ch'io ricompensi la tua bontà.

PAM. Signore, io non merito nulla.

BON. La tua bellezza è stata creata dal cielo per felicitare un qualche avventurato mortale. (rimane pensoso)

PAM. (piano a Jevre) (Io non intendo bene il senso di queste parole.)

JEV. (piano a Pamela) (Povero signore! Egli si lusinga.)

PAM. (piano a Jevre) (Non vi è pericolo.)

BON. (si rivolge a Pamela) Dimmi, sei tu nemica degli uomini?

PAM. Sono anch'essi il mio prossimo.

BON. Inclineresti al legame del matrimonio?

PAM. Ci penserei.

BON. (Ah beato colui che avrà una sposa sì vaga!) (resta pensoso)

PAM. (piano a Jevre) (Madama, di chi mai parla il padrone?)

JEV. (piano a Pamela) (Chi sa che non parli di lui medesimo?)

PAM. (Ah, non mi lusingo!)

BON. (a Pamela) Tu non istai bene per cameriera con un padrone che non ha moglie.

PAM. Questo è verissimo.

BON. Miledi mia sorella m'ha posto in puntiglio. Non voglio che tu vada con lei assolutamente.

PAM. Farò sempre la vostra volontà.

BON. Ah cara Pamela, nata tu non sei per servire. (resta pensoso)

PAM. (piano a Jevre) (Sentite?)

JEV. (a Pamela) (Io spero moltissimo.)

PAM. (Ah! non merito una sì gran fortuna.)

BON. (a Pamela) Ho risolto di maritarti.

PAM. Signore, io sono una povera miserabile.

BON. Mia madre a me ti ha raccomandata.

PAM. Benedetta sia sempre la mia adorata padrona.

BON. Sì, Pamela, voglio assicurare la tua fortuna.

PAM. Oh Dio! Come?

BON. (Mi sento staccar l'alma dal seno.) (resta pensieroso)

PAM. (Madama, che cosa mai sarà di me?) (piano a Jevre)

JEV. (piano a Pamela) (Io spero che abbiate a divenire la mia padrona.)

PAM. (piano a Jevre) (Ah, non mi tormentate.)

BON. Dimmi, vuoi tu prender marito?

PAM. Signore...

JEV. (piano a Pamela) (Ditegli di sì.)

BON. Rispondimi con libertà.

PAM. Son vostra serva; disponete di me.

BON. (Ah crudele! Ella non sente pena in lasciarmi.) (resta pensieroso)

PAM. (piano a Jevre) (Vedete com'è confuso?)

JEV. (piano a Pamela) (Lo compatisco. È un passo grande.)

BON. (alterato) Sposati, ingrata, e vattene dagli occhi miei.

PAM. (Oimè!)

JEV. (Non lo capisco.)

BON. Dimmi. Lo hai preparato lo sposo?

PAM. Se mai ho pensato a ciò, mi fulmini il cielo.

JEV. Pamela è stata sempre sotto la mia custodia.

BON. E con tanta prontezza accetti l'offerta che io ti fo di uno sposo?

PAM. Ho detto che voi potete disporre di me.

BON. Posso disporre di te per farti d'altrui, e non potrò disporre per farti mia?

PAM. Di me potete disporre, ma non della mia onestà.

BON. (Ah, costei sempre più m'innamora!) (resta pensieroso)

PAM. (piano a Jevre) (Che dite, madama Jevre? Belle speranze!)

JEV. (piano a Pamela) (Sono mortificata.)

BON. Orsù, per mettere in sicuro la tua onestà, mi converrà maritarti. Jevre, voi che l'amate, provvedetele voi lo sposo.

JEV. E la dote?

BON. Io le darò duemila ghinee.

JEV. (a Pamela) Non dubitate, farete un ottimo matrimonio.

PAM. Signore, per carità, vi prego, non mi sacrificate.

BON. Che! Hai tu il cuor prevenuto?

PAM. Se mi concedeste l'arbitrio di poter dispor di me stessa, vi direi quali sono le inclinazioni del mio cuore.

BON. Parla, io non sono un tiranno.

PAM. Bramo di vivere nella cara mia libertà.

BON. (con dolcezza) Cara Pamela, vuoi tu restar meco?

PAM. Ciò non conviene nè a voi, nè a me.

BON. Ma dimmi il vero, peneresti a lasciarmi?

JEV. (da sè) (L'amico si va riscaldando.)

PAM. A fare il mio dovere non peno mai.

BON. (da sè) (È un prodigio, se io non muoio.)

JEV. (piano a Pamela) (Pamela, badate bene.)

PAM. Signore, volete voi stabilire la mia fortuna, mettere in sicuro la mia onestà, e fare ch'io v'abbia a benedire per sempre?

BON. Che non farei per vederti consolata?

PAM. Mandatemi ai miei genitori.

BON. A vivere fra le selve?

PAM. A vivere quieta; a morire onorata. (Bonfil pensa)

JEV. (piano a Pamela) (Deh! non fate questa risoluzione. Non mi lasciate, per amor del cielo.)

PAM. (piano a Jevre) (Lasciatemi andare, madama. Di già sento che poco ancora posso vivere.)

BON. Pamela.

PAM. Signore.

BON. Sarai contenta. Anderai a vivere con i tuoi genitori.

PAM. Ah! il cielo ve ne renda il merito. (sospirando)

JEV. Deh! signor padrone, non sagrificate questa povera giovine. Ella non sa cosa chieda, e voi non l'avete a permettere.

BON. Tacete. Non sapete ciò che vi dite. Voi donne fate più mal che bene, col vostro amore. Pamela fa un'eroica risoluzione. Ella provvede alla sua onestà, al mio decoro ed alla pace comune.

JEV. Povera la mia Pamela!

BON. (a Pamela) Le duemila ghinee che doveva avere il tuo sposo, le avrà tuo padre.

PAM. Oh quanto mi saranno più care!

BON. (appassionato) Domani... Sì... Domani te n'andrai.

JEV. Così presto?

BON. Sì, domani. Voi non c'entrate; andrà domani.

JEV. Ma come? Con chi?

BON. Accompagnatela voi.

JEV. Io?

BON. Sì, voi, nel carrozzin da campagna.

JEV. Ma così subito...

BON. Giuro al cielo, non replicate.

JEV. (da sè) (Furia, furia!)

PAM. I miei poveri genitori giubileranno di contento.

BON. (a Jevre) Oggi devo partire. Preparatemi della biancheria per tre giorni.

JEV. Oggi andate via?

BON. Sì, ho detto.

JEV. Benissimo.

PAM. Signore, voi partite oggi, ed io partirò domani. Non avrò più la fortuna di rivedervi.

BON. Ingrata! Sarai contenta.

PAM. Permettetemi che io vi baci la mano.

BON. Tieni; per l'ultima volta.

PAM. Il cielo vi renda merito di tutto il bene che fatto mi avete. Vi chieggo perdono, se qualche dispiacere vi ho dato; ricordatevi qualche volta di me. (gli bacia la mano piangendo, e la bagna colle lagrime)

BON. (mostra la sua confusione, poi si sente bagnata la mano)Ah! Pamela! Tu mi hai bagnata la mano.

PAM. Oimè! Vi dimando perdono; sarà stata qualche lagrima caduta senz'avvedermene.

BON. Asciugami questa mano.

PAM. Signore...

JEV. (a Pamela) Via, vi vuol tanto? Asciugatelo.

PAM. (col suo grembiale asciuga la mano a Milord)

BON. Ah ingrata!

PAM. Perchè, signore, mi dite questo?

BON. Tu confessi che ti ho fatto del bene.

PAM. Conosco l'esser mio dalla vostra casa.

BON. Ed hai cuor di lasciarmi?

PAM. Siete voi che mi licenziate.

BON. (con dolcezza) Vuoi restare?

PAM. Ah no, permettetemi ch'io me ne vada.

BON. Lo vedi, crudele! Tu sei, tu sei che vuoi partire; non son io che ti manda.

JEV. (Oh che bei pazzi!)

SCENA VI

Isacco e detti.

ISAC. Signore.

BON. Maledetto! Che cosa vuoi?

ISAC. Milord Artur.

BON. Vada... No, fermati. (pensa un poco)Digli che venga.

JEV. Noi, signore, ce n'andremo.

BON. Bene.

JEV. Pamela, andiamo.

PAM. (fa riverenza a Milord, e vuol partire)

BON. Te ne vai senza dirmi nulla? (a Pamela)

PAM. Non so che dire: siate benedetto.

BON. Non mi vedrai più.

PAM. Pazienza.

BON. Non mi baci la mano?

PAM. Ve l'ho bagnata di lagrime.

BON. Ecco Milord.

PAM. Signore...

BON. Vattene per pietà.

PAM. Povera sventurata Pamela! (sospirando parte)

JEV. (Io credo che tutti due sieno cotti spolpati.) (parte)

BON. (Quanto volentieri mi darei la morte!)

SCENA VII

Milord Artur e detto, poi Isacco.

ART. Amico, eccomi a voi...

BON. (chiama) Ehi.

ART. (Milord è turbato. Pena tuttavia nel risolvere.)

ISAC. Signore.

BON. In tavola.

ART. (ad Isacco)Fermatevi. – Caro amico, fate che sia compita la finezza che siete disposto usarmi. Mia cugina è già passata dalla sua villeggiatura alla mia; ella mi ha prevenuto, e mi ha spedito un lacchè, facendomi avvertito ch'ella non vuol pranzare senza di me. Sono in impegno di partir subito, e spero che non mi lascerete andar solo.

BON. Questa non parmi ora a proposito di partirci da Londra per andare a desinare in campagna.

ART. Due leghe si fanno presto. Caro amico, non mi dite di no.

BON. Voi mi angustiate.

ART. Io non mi posso trattenere un momento.

BON. Andate.

ART. Avete promesso di venir meco.

BON. Non ho promesso di venir subito.

ART. Qual premura vi rende difficile l'anticipazione di un'ora?

BON. Lasciatemi cambiar di vestito.

ART. (Se vede Pamela, non parte più).Milord, credetemi, non disconviene in villa un abito da città, quando si va a visitare una dama.

BON. Sì, non lo nego, ma io... (Partirò senza rivedere Pamela?)

ISAC. Signore, mi comandi.

ART. Andate, andate, Milord viene a pranzo con me.

ISAC. (Prego il cielo che vada, e non torni, se non ha scacciato quel demonio che lo rende così furioso.) (parte)

ART. La carrozza ci aspetta.

BON. Ma giuro al cielo, lasciatemi pensare un momento.

ART. Pensate, e risolvete da vostro pari.

BON. (sta pensieroso alquanto)

ART. (Gran confusione ha nel cuore!)

BON. (chiama) Jevre.

ART. Ma se tornate dopo tre giorni...

BON. (chiama più forte) Jevre.

SCENA VIII

Madama Jevre e detti.

JEV. Signore.

BON. Sentite. (la tira in disparte)Io parto: da qui a tre giorni ritorno. Vi raccomando Pamela.

JEV. Non deve andar da suo padre?

BON. No, vi anderà quando torno.

JEV. Ma ella vuol andare assolutamente.

BON. Giuro, che se voi la lasciate partire, la vostra vita la pagherà.

JEV. Dunque...

BON. M'avete inteso.

JEV. Le dirò...

BON. (adirato) Andate via.

JEV. (Oh che diavolo di uomo!) (parte)

ART. Milord, voi siete molto adirato.

BON. Andiamo.

ART. Siete risoluto di venir ora?

BON. Sì.

ART. Mi obbligate infinitamente. (Spero più facilmente illuminarlo, lontano dalla causa del suo accecamento.) (parte)

BON. (chiama) Jevre.

JEV. (sulla porta) Eccomi qui.

BON. Se Pamela parte, povera voi. (parte)

JEV. Vivano i pazzi. Pamela, uscite. Uscite, vi dico, che se n'è andato.

SCENA IX

Pamela sulla porta, e Madama Jevre.

PAM. È partito il padrone?

JEV. Sì, è partito.

PAM. (s'avanza) Dov'è egli andato, madama Jevre?

JEV. Io non lo so, ma non tornerà che dopo tre giorni.

PAM. (sospira) Ah! Io non lo vedrò più.

JEV. Oh lo vedrete, sì, lo vedrete.

PAM. Quando? se domattina io parto?

JEV. Domattina non partirete più.

PAM. (sospirando) Il padrone lo ha comandato.

JEV. Il padrone ha comandato a me ch'io non vi lasci partire, s'egli non torna.

PAM. (con tenerezza) S'egli non torna?

JEV. Sì, che ne dite? Non è volubile?

PAM. È padrone, può comandare.

JEV. Ci restate poi volentieri?

PAM. Io son rassegnata ai voleri del mio padrone.

JEV. Eh! Pamela, Pamela, io dubito che questo vostro padrone vi stia troppo fitto nel cuore.

PAM. Oh Dio! Non mi dite queste parole, che mi farete piangere amaramente.

SCENA X

Isacco, e dette.

ISAC. Madama Jevre.

JEV. Che c'è?

ISAC. È venuta miledi Daure.

JEV. Il padrone è partito?

ISAC. Sì, è montato in un legno a quattro cavalli, ed ora sarà vicino alla porta della città.

JEV. Dite a Miledi, che non vi è suo fratello.

ISAC. L'ho detto, ed ella tanto e tanto ha voluto scendere dalla carrozza.

JEV. È sola?

ISAC. Vi è il cavaliere suo nipote.

PAM. Andiamoci a serrar nella nostra camera.

JEV. Di che avete paura?

PAM. Miledi mi ha fatta una cattiva relazione di suo nipote.

ISAC. Ecco Miledi. (Isacco parte)

PAM. Me n'andrò io. (si avvia verso la camera)

SCENA XI

Miledi Daure e dette.

MIL. Pamela, dove si va? (Pamela si volta, e fa una riverenza)

JEV. Signora, il vostro fratello non è in città.

MIL. Lo so, io resterò qui a pranzo in vece sua col cavalier mio nipote.

JEV. Se non vi è il padrone...

MIL. Ebbene, se non vi è, ardirete voi di scacciarmi?

JEV. Compatite, siete padrona d'accomodarvi; ma il signor cavaliere...

MIL. Il cavaliere non vi porrà in soggezione.

JEV. Permettetemi che io vada a dar qualche ordine.

MIL. Sì, andate.

JEV. (Vi mancava l'impiccio di costei). (parte)

MIL. (da sè) (Non temere, chè non son venuta qui per pranzare.)

PAM. (da sè) (Me n'andrei pur volentieri).

MIL. Ebbene, Pamela, hai tu risoluto? Vuoi venire a star con me?

PAM. Io dipendo dal mio padrone.

MIL. Il tuo padrone è un pazzo.

PAM. Perdonatemi, una sorella non dovrebbe dire così.

MIL. Prosuntuosa! M'insegnerai tu a parlare?

PAM. Vi domando perdono.

MIL. Orsù, preparati a venir meco.

PAM. Ci verrò volentieri, se il padrone lo accorderà.

MIL. Egli me l'ha promesso.

PAM. Egli mi ha comandato di non venirvi.

MIL. E tu vorrai secondare la sua volubilità?

PAM. Son obbligata a obbedirlo.

MIL. Fraschetta! Lo vedo, lo vedo, ti compiaci in obbedirlo.

PAM. Fo il mio dovere.

MIL. Il tuo dovere sarebbe di vivere da figlia onorata.

PAM. Tale mi vanto di essere.

MIL. Non lo sei. Sei una sfacciatella.

PAM. Con qual fondamento potete dirlo?

MIL. Tu vuoi restar col tuo padrone, perchè ne sei innamorata.

PAM. Ah! signora, voi giudicate contro giustizia.

MIL. Sei innocente?

PAM. Lo sono, per grazia del cielo.

MIL. Dunque vieni meco.

PAM. Non posso farlo.

MIL. Perchè?

PAM. Perchè il padrone lo vieta.

MIL. A me tocca a pensarci. Vieni con me.

PAM. Non mi farete commettere una mala azione.

MIL. Parli da temeraria.

PAM. Compatitemi per carità.

SCENA XII

Il Cavaliere Ernold e dette.

ERN. Che fate qui con questa bella ragazza?

MIL. Cavaliere, vi piace?

ERN. Se mi piace? E come! È questa forse quella Pamela, di cui mi avete più di tre ore parlato?

MIL. È questa per l'appunto.

ERN. È ancora più bella di quello me l'avete dipinta. Ha due occhi che incantano.

PAM. Miledi, con vostra permissione. (vuol partire)

MIL. Dove vuoi andare?

ERN. (a Pamela) No, gioja mia, non partite; non mi private del bel contento di vagheggiarvi anche un poco.

PAM. Signore, queste frasi non fanno per me.

MIL. Eh, cavaliere, lasciatela stare. Ella è caccia riservata di Milord mio fratello.

ERN. Non si potrebbe fare un piccolo contrabbando?

PAM. (Che parlare scorretto!)

MIL. Voi mi fareste ridere, se costei non mi desse motivo di essere accesa di collera.

ERN. Che cosa vi ha fatto?

MIL. Mio fratello mi ha data parola ch'ella sarebbe venuta a servirmi, ed ella venir non vuole; e Milord mi manca per sua cagione.

ERN. Eh! ragazza mia, bisogna mantener la parola; senz'altro bisogna venir a servire miledi Daure.

PAM. Ma io dipendo...

ERN. Non vi è ragione in contrario, voi avete da venire a servirla.

PAM. Ma se il padrone...

ERN. Il padrone è fratello della padrona; fra loro s'intenderanno, e la cosa sarà aggiustata.

PAM. Vi dico, signore...

ERN. Via, via, meno ciarle; datemi la mano, e andiamo.

PAM. Non soffrirò una violenza. (va verso la porta per fuggire)

ERN. (si mette alla porta) Giuro al cielo, fuor di qui non si va.

PAM. Come, signore? In casa di milord Bonfil?

MIL. Chi sei tu, che difendi la ragion di Milord? Sei qualche cosa del suo? Giuro al cielo, se immaginar mi potessi ch'egli ti avesse sposata, o ti volesse sposare, ti caccerei uno stiletto nel cuore.

ERN. Eh figuratevi, se Milord è così pazzo di volerla sposare! La tiene in casa per un piccolo divertimento.

PAM. Mi maraviglio di voi. Sono una fanciulla onorata.

ERN. Brava! Me ne rallegro. E viva la signora Onorata. Ehi, se siete tanto onorata, avrete dell'onore da svendere.

PAM. Che volete dire perciò?

ERN. Ne volete vendere ancora a me?

PAM. Credo che dell'onore ne abbiate veramente bisogno.

MIL. Ah impertinente! Così rispondi al cavalier mio nipote?

PAM. Tratti come deve, io parlerò come si conviene.

ERN. Eh, non mi offendo delle ingiurie che vengono da un bel labbro. Tutte queste belle sono stizzosette. Sapete perchè fa la ritrosa? Perchè siete qui voi. Andate via, e m'impegno che fa a mio modo.

MIL. Voglio che costei venga a stare con me.

ERN. Verrà, verrà. Volete che vi faccia vedere come si fa a farla venire? Osservate. (cava una borsa)Pamela, queste sono ghinee; se vieni con Miledi, da cavaliere te ne dono mezza dozzina.

PAM. Datele a chi sarete solito di trattare.

ERN. Oh capperi! Sei una qualche principessa? Che ti venga la rabbia! Ricusi sei ghinee? Ti pajono poche?

PAM. Eh, signore, non conoscete il prezzo dell'onestà, e per questo parlate così.

ERN. Tieni, vuoi tutta la borsa?

PAM. (Oh cielo! Liberami da questo importuno.)

ERN. Sarei ben pazzo, se te la dèssi. Fraschetta!

PAM. Come parlate? Lo saprà il mio padrone.

ERN. Certo, il tuo padrone si prenderà una gran cura.

PAM. Lasciatemi andare.

ERN. Orsù, vieni qui. Facciamo la pace. (vuol prenderla per la mano)

PAM. (vuol fuggire) Finitela d'importunarmi.

ERN. Senti una parola sola.

PAM. (vuol fuggire) Madama Jevre!

ERN. Senti!

PAM. Isacco!

ERN. Sei una bricconcella.

PAM. Siete un cavaliere sfacciato.

ERN. Ah indegna! A me sfacciato?

MIL. Ah disgraziata! Sfacciato a mio nipote?

PAM. Se è cavaliere, stia nel suo grado.

MIL. Ti darò degli schiaffi.

ERN. Ti prenderò per le mani, e non fuggirai. (la insegue)

PAM. Ajuto, gente, ajuto.

SCENA XIII

Madama Jevre e detti.

JEV. Oimè! Che è stato? Che ha Pamela, che grida?

PAM. Ah, Madama, ajutatemi. Difendetemi voi dagl'insulti di un dissoluto.

JEV. Come, signor cavaliere? In casa di milord Bonfil?

ERN. Che cosa credete ch'io le abbia fatto?

JEV. Le sue strida quasi quasi me lo fanno supporre.

ERN. Le voleva far due carezze, e non altro.

JEV. E non altro?

ERN. Che dite? Non è ella una sciocca a strillare così?

MIL. È una temeraria. Ha perduto il rispetto a mio nipote ed a me stessa.

JEV. Mi maraviglio che il signor cavaliere si prenda una simile libertà.

ERN. Oh poffar il mondo! Con una serva non si potrà scherzare?

JEV. Dove avete imparato questo bel costume?

ERN. Dove? Dappertutto. Voi non sapete niente. Io ho viaggiato. Ho ritrovato per tutto delle cameriere vezzose, delle cameriere di spirito, capaci di trattenere una brillante anticamera, fintanto che la padrona si mette in istato di ricevere la conversazione. Colle cameriere si scherza, si ride, si dicono delle barzellette, e tuttochè abbia qualcuna di esse l'abilità d'innamorare il padrone, non sono co' forestieri fastidiose come costei.

JEV. In verità, signor cavaliere, a viaggiare avete imparato qualche cosa di buono.

MIL. Orsù, tronchiamo questo importuno ragionamento. Pamela ha da venire con me.

PAM. (piano a Jevre) (Madama Jevre, mi raccomando a voi.)

JEV. Signora, aspettate che venga il padrone.

MIL. Appunto perchè non c'è, ella deve meco venire.

JEV. Oh! perdonatemi, non ci verrà assolutamente.

MIL. Non ci verrà? La farò strascinare per forza.

ERN. Io non ho vedute femmine più impertinenti di voi.

JEV. Signore, non mi perdete il rispetto; sono la governatrice di milord Bonfil.

ERN. Io credeva che foste la governatrice dell'Indie.

JEV. Saprà Milord gl'insulti che fatti avete alla di lui casa.

MIL. Sappiali pure. Egli mi ha provocato.

ERN. Milord non si riscalderà per due sciocche di donne.

JEV. Mi maraviglio di voi.

MIL. Impertinente! (chiama alla porta) Ehi, dove siete?

JEV. Chi chiamate, signora?

MIL. Chiamo i miei servitori.

JEV. Usereste qualche violenza?

MIL. (chiama come sopra) Ehi, dico.

SCENA XIV

Isacco e detti.

ISAC. Che comandate, signora?

MIL. Ove sono i miei servitori?

ISAC. Sono tutti discesi. È ritornato il padrone.

JEV. Il padrone?

ISAC. Sì, il nostro padrone è ritornato indietro.

PAM. (Oh ringraziato sia il cielo!)

JEV. Si sa per qual causa?

ISAC. È stato assalito da un orribile svenimento. (parte)

PAM. (Oh Dio!)

JEV. Povero padrone! Non vo' mancare di prestargli soccorso.

PAM. Presto, madama Jevre, andatelo ad ajutare.

JEV. Eh! Pamela, egli avrebbe più bisogno di voi che di me. (parte)

PAM. (Ah, che non mi conviene d'andare!)

ERN. Pamela, perchè non vai ancor tu a soccorrere il tuo padrone? Fai forse la ritrosa, perchè siamo qui noi?

PAM. Signore, ora ch'è ritornato il mio padrone, mi fate meno timore, e vi parlerò con maggior libertà. Chi credete voi che io sia? Son povera, ma onorata. Mi nutrisco del pane altrui, ma lo guadagno con onestà. Venni in questa casa a servir la madre, non il figliuolo. La madre è morta, ed il figliuolo non mi dovea cacciar sulla strada. Se Miledi mi voleva, doveva sapermi chiedere a suo fratello; e se egli ad essa mi niega, avrà ragione di farlo. Informatevi con tutti i domestici di questa casa; chiedete di me a quanti hanno qui praticato, e meglio rileverete quale sia il mio costume. Voi mi avete detto fraschetta e bricconcella (ahi che arrossisco in rammentarlo!). Se avete ritrovate pel mondo delle donne di tal carattere, non vuol già dire che sieno o tutte, o per la maggior parte così; ma si rileva piuttosto, che il vostro mal costume si fermava unicamente con queste, senza far conto delle saggie, delle oneste che abbondano in ogni luogo. Come volete voi sapere se più sieno le donne buone o le cattive, se solamente delle pessime andate in traccia? Come può discernere che cosa sia la virtù, chi unicamente coltiva le sue passioni? Ebbi l'onor di conoscervi prima che partiste da Londra, ed eravate allora un buon cavaliere, un saggio inglese, un giovine di ottima aspettativa. Avete viaggiato, e avete apprese delle massime così cattive? Ah, permettetemi ch'io rifletta in vostro vantaggio, che avrete avuto nei vostri viaggi delle pessime compagnie, delle pessime direzioni. Il cuore dell'uomo, tenero come la cera, facilmente riceve le buone e le cattive impressioni. Se i mali esempj di quel cattivo mondo, che avete avuta la disgrazia di praticare, vi hanno guastato il cuore, siete a tempo di riformarlo. La vostra gran patria vi darà degli stimoli a farlo. E se per disingannarvi del mal concetto che avete voi delle donne, può valere l'esempio di una che non teme irritarvi per dimostrare la propria onestà, ammirate in me la franchezza con cui ho il coraggio di dirvi, che se ardirete più d'insultarmi, saprò chiedere e saprò trovare giustizia. (parte)

SCENA XV

Miledi ed il Cavaliere Ernold.

ERN. Costei mi ha fatto rimanere incantato.

MIL. Io rimango attonita, non per cagione di lei, ma per cagione di voi.

ERN. E perchè?

MIL. Perchè abbiate avuta la sofferenza di udirla, senza darle una mano nel viso.

ERN. In casa d'altri, per dirla, mi sono avanzato anche troppo.

MIL. Lo svenimento di mio fratello sarà provenuto dall'amor di Pamela.

ERN. Io per le donne non mi son mai sentito svenire.

MIL. Egli l'ama con troppa passione.

ERN. Se l'ama, che si consoli.

MIL. Ah, temo ch'egli la sposi.

ERN. E se la sposa, che importa a voi?

MIL. Come! Io dovrei tollerare questo sfregio al mio sangue?

ERN. Che sfregio? Che sangue? Che debolezze son queste? Pazzie, pazzie. Io che ho viaggiato, di questi matrimonj ne ho veduti frequentemente. Il mondo ride. I parenti strillano; ma dicesi per proverbio: una maraviglia dura tre giorni. Voglio andare a vedere che fa Milord. (parte)

SCENA XVI

Miledi sola.

Per quel che sento, il cavalier mio nipote non avrebbe riguardo a far peggio di mio fratello. Se una donna pensasse così, sarebbe il ludibrio del mondo; si ecciterebbe contro l'ira, la maledizione e la vendetta. Misere donne! Ma se tant'altre hanno la viltà di soffrire, io insegnerò alle più timide come si vendicano i nostri torti. Se mio fratello persiste, farò morire Pamela.

Fine dell'Atto secondo.


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Milord Bonfil, Madama Jevre e Isacco. Isacco colla spada e bastone di Milord,

cui ripone sul tavolino.

BON. Come! Il cavaliere Ernold ha maltrattata Pamela?

JEV. Ha perduto il rispetto a lei, l'ha perduto a me, e l'ha perduto alla vostra casa.

BON. Temerario!

JEV. Signore, come vi sentite?

BON. Dov'è Pamela?

JEV. Ella sarà nella mia camera.

BON. Lo sa ch'io sono ritornato in città?

JEV. Lo sa, ed ha preso il vostro ritorno per una provvidenza del cielo.

BON. Per qual ragione?

JEV. Perchè si è liberata dalle persecuzioni del cavaliere.

BON. Ah cavaliere indegno! Morirà, giuro al cielo, sì, morirà.

ISAC. Signore.

BON. Che vuoi?

ISAC. Il cavaliere Ernold vorrebbe riverirvi.

BON. (corre furioso a prendere la spada, e denudandola corre verso la porta, Jevre ed Isacco intimoriti fuggono, e Milord va per uscire di camera)

SCENA II

Milord Artur e detto.

ART. Dove, Milord, colla spada alla mano?

BON. A trafiggere un temerario.

ART. E chi è questi?

BON. Il cavaliere Ernold.

ART. Che cosa vi ha egli fatto?

BON. Lo saprete, quando l'avrò ucciso.

ART. Riflettete qual delitto sia in Londra il metter mano alla spada.

BON. Non mi trattenete.

ART. In vostra casa ucciderete un nemico?

BON. Egli alla mia casa ha perduto il rispetto.

ART. Voi non potete giudicar dell'offesa.

BON. Perchè?

ART. Perchè vi accieca lo sdegno.

BON. Eh, lasciatemi castigar quell'audace.

ART. Non lo permetterò certamente.

BON. Come! Voi in difesa del mio nemico?

ART. Difendo il vostro decoro.

BON. Giuro al cielo, colui ha da morire per le mie mani.

ART. Ma poss'io sapere che cosa vi ha fatto?

BON. In casa mia ha strapazzata madama Jevre; ha fatte delle impertinenze a Pamela; ha perduto il rispetto a me, che sono il loro padrone.

ART. Milord, un momento di quiete. Trattenete per un solo momento lo sdegno. Il cavaliere vi ha offeso; avete ragione di vendicarvi. Ma prima ditemi da cavaliere, da uomo d'onore, da vero leale inglese, ditemi se in questo vostro furore vi ha alcuna parte la gelosia.

BON. Non ho luogo a discernere quale delle mie passioni mi spinga. Vi dico solo che il perfido ha da morire.

ART. Non vi riuscirà di farlo, prima che non abbiate calmata la vostra ira.

BON. Chi può vietarlo?

ART. Io.

BON. Voi?

ART. Sì, io che son vostro amico; io, che avendo il cuore non occupato, so distinguere il valor dell'offesa.

BON. La temerità di colui non merita di esser punita?

ART. Sì, lo merita.

BON. A chi tocca vendicare i miei torti?

ART. Tocca a milord Bonfil.

BON. Ed io chi sono?

ART. Voi siete in questo punto un amante, che freme di gelosia. Non avete a confondere l'amor di Pamela coll'onor della vostra casa.

BON. L'onore e l'amore, tutto mi sprona, tutto mi sollecita. Quel perfido ha da morire.

ART. Ah! Milord, acquietatevi.

BON. Son fuor di me stesso.

SCENA III

Madama Jevre e detti.

JEV. Signore.

BON. Dov'è il cavaliere?

JEV. Sa che siete sdegnato, ed è partito.

BON. Lo raggiungerò. (in atto di voler partire)

JEV. Signore, sentite.

BON. Che ho da sentire?

JEV. È arrivato in questo punto il padre di Pamela.

BON. Il padre di Pamela? Che vuole?

JEV. Vuole condur seco sua figlia.

BON. Dove?

JEV. Al di lui paese.

BON. Ha da parlare con me.

JEV. Voi non l'avete accordato?

BON. Dove trovasi questo vecchio?

JEV. In una camera con sua figlia.

BON. Or ora mi sentirà. (parte)

ART. Ecco come una passione cede il luogo ad un'altra. L'amore ha superato lo sdegno.

JEV. Signore, che cosa ha da essere di questo mio povero padrone?

ART. Egli è in uno stato che merita compassione.

JEV. Com'è accaduto il suo svenimento? Dalla sua bocca non ho potuto ricavare un accento.

ART. Egli non faceva che sospirare; e appena usciti di Londra, mi cadde fra le braccia svenuto.

JEV. Avete fatto bene a tornare indietro.

ART. Lo soccorsi con qualche spirito, ma solo alla vista di questa casa riprese fiato.

JEV. Qui, qui vi è la medicina per il suo male.

ART. Ama egli Pamela?

JEV. Poverino! L'adora.

ART. Pamela è savia?

JEV. È onestissima.

ART. È necessario che da lui si divida.

JEV. Ma non potrebbe...

ART. Che cosa?

JEV. Sposarla?

ART. Madama Jevre, questi sentimenti non sono degni di voi. Se amate il vostro padrone, non fate sì poco conto dell'onor suo.

JEV. Ma ha da morir dal dolore?

ART. Sì, piuttosto morire, che sagrificare il proprio decoro. (parte)

JEV. Che si abbia a morire per salvar l'onore, l'intendo; ma che sia disonore sposare una povera ragazza onesta, non la capisco. Io ho sentito dir tante volte che il mondo sarebbe più bello, se non l'avessero guastato gli uomini, i quali per cagione della superbia hanno sconcertato il bellissimo ordine della natura. Questa madre comune ci considera tutti eguali, e l'alterigia dei grandi non si degna dei piccoli. Ma verrà un giorno, che dei piccoli e dei grandi si farà nuovamente tutta una pasta. (parte)

SCENA IV

Pamela e Andreuve suo padre.

PAM. Oh, caro padre, quanta consolazione voi mi recate!

AND. Ah Pamela, sento ringiovenirmi nel rivederti.

PAM. Che fa la mia cara madre?

AND. Soffre con ammirabile costanza i disagi della povertà e quelli della vecchiezza.

PAM. È ella assai vecchia?

AND. Guardami. Son io vecchio? Siamo d'età conformi, se non che prevale in me un non so che di virile, che manca in lei. Io ho fatto venti miglia in due giorni, ella non le farebbe in un mese.

PAM. Oh Dio! Siete venuto a piedi?

AND. E come poteva io venire altrimenti? Calessi lassù non si usano: montar a cavallo non posso più. Son venuto a mio bell'agio, e certo il desio di rivederti m'ha fatto fare prodigi.

PAM. Ma voi sarete assai stanco; andate per pietà a riposare.

AND. No, figlia, non sono stanco. Ho riposato due ore prima d'entrare in Londra.

PAM. Perchè differirmi due ore il piacer d'abbracciarvi?

AND. Per reggere con più lena alla forza di quella gioia, che prevedeva dover provare nel rivederti.

PAM. Quanti anni sono, che vivo da voi lontana?

AND. Ingrata! Tu me lo chiedi? Segno che poca pena ti è costata la lontananza de' tuoi genitori. Sono dieci anni, due mesi, dieci giorni e tre ore dal fatal punto che da noi ti partisti. Se far tu sapessi il conto quanti sono i minuti che compongono un sì gran tempo, sapresti allora quanti sieno stati gli spasimi di questo cuore per la tua lontananza.

PAM. Deh! caro padre, permettetemi ch'io vi dica non aver io desiderato lasciarvi; non aver io ambito di cambiare la selva in una gran città; e che carissimo mi saria stato il vivere accanto a voi, col dolce impiego di soccorrere ai bisogni della vostra vecchiezza.

AND. Sì, egli è vero. Io sono stato, che non soffrendo vederti a parte delle nostre miserie, ti ho procurata una miglior fortuna.

PAM. Se il cielo mi ha fatta nascer povera, io poteva in pace soffrire la povertà.

AND. Ah figlia, figlia, tutto a te non è noto. Quando da noi partisti, non eri ancor in età da confidarti un arcano.

PAM. Oh cieli! Non sono io vostra figlia?

AND. Sì, lo sei, per grazia del cielo.

PAM. Vi sembra ora ch'io sia in età di essere a parte di sì grande arcano?

AND. La tua età, la tua saviezza, di cui sono a mia consolazione informato, esigono ch'io te lo sveli.

PAM. Deh, fatelo subitamente; fatelo per pietà; non mi tenete più in pena.

AND. Ah, ah, Pamela! Tu sei una virtuosa fanciulla, ma circa la curiosità, sei donna come le altre.

PAM. Perdonatemi; non ve lo chiedo mai più.

AND. Povera figlia! Sei pur buona! Sì, cara, te lo dirò. Quante volte mi ha stimolato a farlo il mio rimorso, e la tua cara madre! Ma ogni giorno la povera vecchierella, il famiglio, la mandra, il gregge avean bisogno di me. Ora ch'è morta la tua padrona; che qui non devi restare con un padrone che non ha moglie; che deggio ricondurti al mio rustico albergo, voglio, prima di farlo, svelarti chi son io, chi tu sei: acciò nella vita misera ch'io ti propongo di eleggere per sicurezza della tua onestà, abbia merito ancora la tua virtù.

PAM. Oimè! voi mi preparate l'animo a cose strane.

AND. Sì, strane cose udirai, la mia adorata Pamela.

SCENA V

Milord Bonfil e detti.

PAM. Ecco il padrone.

AND. Signore...

BON. Siete voi il genitor di Pamela?

AND. Sì, signore, sono il vostro servo Andreuve.

BON. Siete venuto per rivedere la figlia?

AND. Per rivederla pria di morire.

BON. Per rivederla, e non altro?

AND. E meco ricondurla a consolar sua madre.

BON. Questo non si può fare senza di me.

AND. Appunto per questo io sospirava l'onore d'essere a' vostri piedi.

BON. Qual ragione vi spinge a volervi ripigliare la figlia?

AND. Siamo assai vecchi; abbiamo necessità del suo ajuto.

BON. Pamela, ritírati.

PAM. Obbedisco. (Io parto, e questi due che restano, hanno il mio cuore metà per uno.) (parte)

SCENA VI

Lord Bonfil, Andreuve, poi Isacco.

BON. Ehi. (chiama Isacco, il quale subito comparisce)Da sedere. (Isacco porta una sedia)Un'altra sedia. (ne porta un'altra, poi parte)Voi siete assai vecchio; sarete stanco. Sedete.

AND. Il cielo vi rimuneri della vostra pietà. (siedono)

BON. Siete voi un uomo sincero?

AND. Perchè son sincero, son povero.

BON. Ditemi, qual è la vera ragione, che vi sprona a domandarmi Pamela?

AND. Signore, ve lo dirò francamente. Il zelo della di lei onestà.

BON. Non è ella sicura nelle mie mani?

AND. Tutto il mondo non sarà persuaso della vostra virtù.

BON. Che pretendete ch'ella abbia a fare presso di voi?

AND. Assistere alla vecchierella sua madre; preparare il cibo alla piccola famigliuola; tessere, lavorare, e vivere in pace, e consolarci negli ultimi periodi di nostra vita.

BON. Sventurata Pamela! Avrà ella imparato tante belle virtù per tutte nell'obblio seppellirle? Per confinarsi in un bosco?

AND. Signore, la vera virtù si contenta di sè medesima.

BON. Pamela non è nata per tessere, non è nata per il vile esercizio della cucina.

AND. Tutti quegli esercizi che non offendono l'onestà sono adattabili alle persone onorate.

BON. Ella ha una mano di neve.

AND. Il fumo della città può renderla nera più del sol di campagna.

BON. È debole, è delicata.

AND. Coi cibi innocenti farà miglior digestione.

BON. Buon vecchio, venite voi colla vostra moglie ad abitare in città.

AND. L'entrate mie non mi basterebbero per quattro giorni.

BON. Avrete il vostro bisogno.

AND. Con qual merito?

BON. Con quello di vostra figlia.

AND. Tristo quel padre che vive sul merito della figlia.

BON. Mia madre mi ha raccomandata Pamela.

AND. Era una dama piena di carità.

BON. Io non la deggio abbandonare.

AND. Siete un cavalier generoso.

BON. Dunque resterà meco.

AND. Signore, potete dare a me quello che avete intenzione di dare a lei.

BON. Sì, lo farò. Ma voi me la volete far sparire dagli occhi.

AND. Perchè farla sparire? Io intendo condurla meco con tutta la possibile convenienza.

BON. Trattenetevi qualche giorno.

AND. La mia vecchierella mi aspetta.

BON. Andrete, quando ve lo dirò.

AND. Son due giorni, ch'io manco; se due ne impiego al ritorno, sarà anche troppo per me.

BON. Io non merito che mi trattiate sì male.

AND. Signore...

BON. Non replicate. Partirete quando vorrò.

AND. Questi peli canuti possono da voi ottenere la grazia di potervi liberamente parlare?

BON. Sì, io amo la sincerità.

AND. Ah Milord! Temo sia vero quello che per la via mi fu detto, e che il mio cuore anche di lontano mi presagiva.

BON. Spiegatevi.

AND. Che voi siate invaghito della mia povera figlia.

BON. Pamela ha negli occhi due stelle.

AND. Se queste stelle minacciano tristi influssi alla di lei onestà, sono pronto a strappargliele colle mie mani.

BON. Ella è una virtuosa fanciulla.

AND. Se così è, voi non potrete lusingarvi di nulla.

BON. Son certo che morirebbe, pria di macchiare la sua innocenza.

AND. Cara Pamela! Unica consolazione di questo misero antico padre! Deh! signore, levatevi dagli occhi un pericolo; ponete in sicuro la di lei onestà, datemi la mia figlia, come l'ebbe da noi la vostra defunta madre.

BON. Ah! troppo ingrata è la sorte col merito di Pamela.

AND. S'ella merita qualche cosa, il cielo non la lascerà in abbandono.

BON. Quanto cambierei volentieri questo gran palazzo con una delle vostre capanne!

AND. Per qual ragione?

BON. Unicamente per isposare Pamela.

AND. Siete innamorato a tal segno?

BON. Sì, non posso vivere senza di lei.

AND. Il cielo mi ha mandato in tempo per riparare ai disordini della vostra passione.

BON. Ma se non mi lice sposar Pamela, giuro al cielo, altra donna non prenderò.

AND. Lascerete estinguer la vostra casa?

BON. Sì, per accrescere a mio dispetto il trionfo degl'indiscreti congiunti.

AND. E se fosse nobile Pamela non esitereste a sposarla?

BON. Lo farei prima della notte vicina.

AND. Eh Milord! ve ne pentireste. Una povera, ancorchè fosse nobile, non la riputereste degna di voi.

BON. La mia famiglia non ha bisogno di dote.

AND. Siete ricco, ma chi più ha, più desidera.

BON. Voi non mi conoscete.

AND. Dunque la povertà in Pamela non vi dispiace?

BON. Anzi le accresce il merito dell'umiltà.

AND. (Cielo, che mi consigli di fare?)

BON. Che dite fra di voi?

AND. Per carità, lasciatemi pensare un momento.

BON. Sì, pensate.

AND. (Se la sovrana pietà del cielo offre a Pamela una gran fortuna, sarò io così barbaro per impedirla?)

BON. (Combatte in lui la pietà, come in me combatte l'amore.)

AND. (Orsù, si parli, e sia di me e sia di Pamela ciò che destinano i numi.) (si alza da sedere, e con istento s'inginocchia) Signore, eccomi a' vostri piedi.

BON. Che fate voi?

AND. Mi prostro per domandarvi soccorso.

BON. Sedete.

AND. (si alza, e torna a sedere) Vorrei svelarvi un arcano, ma può costarmi la vita.

BON. Fidatevi della mia parola.

AND. A voi mi abbandono, a voi mi affido. Andreuve non è il nome della mia casa. Io sono un ribelle della corona Britanna; sono il conte d'Auspingh, non ultimo fra le famiglie di Scozia.

BON. Come! Voi il conte d'Auspingh?

AND. Sì, Milord, trent'anni or sono che nell'ultime rivoluzioni d'Inghilterra sono stato uno de' primi sollevatori del regno. Altri de' miei compagni furono presi e decapitati; altri fuggirono in paesi stranieri. Io mi rifugiai nelle più deserte montagne, ove, con quell'oro che potei portar meco, vissi sconosciuto e sicuro. Sedati dopo dieci anni i tumulti, e cessate le persecuzioni, calai dall'altezza de' monti, e scesi al colle men aspro e men disastroso, ove, cogli avanzi di alcune poche monete, comprai un pezzo di terra da cui coll'aiuto delle mie braccia raccolgo il vitto per la mia famiglia. Mandai sino in Iscozia ad offerire alla mia cara moglie la metà del mio pane, ed ella ha preferito un marito povero a' suoi doviziosi parenti ed è venuta a farmi sembrare assai bella la pace del mio ritiro. Ella dopo due anni diede alla luce una figlia, e questa è la mia adorata Pamela. Miledi vostra madre, che villeggiava sovente co' suoi congiunti poco lungi da noi, me la chiese in età di dieci anni. Figuratevi con qual ripugnanza mi lasciai staccare dal seno l'unica cosa che di prezioso abbia al mondo; ma il rimorso di dover allevare una figlia nobile, villanamente nel bosco, m'indusse a farlo; ed ora lo stesso amore che ho per essa, e le belle speranze suggeritemi dalla vostra pietà, m'obbligano a svelare un arcano sinora con tanta gelosia custodito, e che se penetrato fosse anche in oggi dal partito del Re, non mi costerebbe nulla men della vita. Un unico amico io aveva in Londra, il quale tre mesi sono morì. Ora in voi unicamente confido; in voi, Milord, che siete cavaliere, e che spero avrete quella pietà per il padre, che mostrate aver per la figlia.

BON. (chiama)Ehi! (viene Isacco)Di' a Pamela, che venga subito. Va poscia da miledi Daure, e dille che, se può, mi favorisca di venir qui. (Isacco parte)

AND. Signore, voi non mi dite nulla?

BON. Vi risponderò brevemente. Il vostro ragionamento mi ha consolato. Prendo l'impegno di rimettervi in grazia del Re; e la vostra Pamela, e la mia cara Pamela, sarà mia sposa.

AND. Ah! signore. Voi mi fate piangere dall'allegrezza.

BON. Ma quali prove mi darete dell'esser vostro?

AND. Questa canuta barba dovrebbe meritar qualche fede. L'esser io vicino a terminare la vita, non dovrebbe far dubitare ch'io volessi morir da impostore. Ma grazie al cielo ho conservato meco un tesoro, la cui vista mi consolava sovente nella mia povertà. Ecco in questi fogli di pergamena registrati i miei veri titoli, i miei perduti feudi, le parentele della mia casa, che sempre è stata una delle temute di Scozia; e pur troppo per mia sventura, mentre l'uomo superbo si val talvolta della nobiltà e della fortuna per rovinar se medesimo. Eccovi oltre ciò due lettere del mio defunto amico Guglielmo Artur, le quali mi lusingavano del perdono, se morte intempestiva non troncava con la sua vita le mie speranze.

BON. Conoscete voi milord Artur, figlio del fu Guglielmo?

AND. Lo vidi in età giovanile; bramerei con esso lui favellare. Chi sa che il di lui padre non m'abbia ad esso raccomandato?

BON. Milord è cavalier virtuoso; è il mio più fedele amico. Ma oh Dio! quanto tarda Pamela! Andiamola a ritrovare. (si alzano)

AND. Signore, vi raccomando a non espor la mia vita. Son vecchio, è vero, poco ancor posso vivere, ma non vorrei morire sotto la spada d'un manigoldo.

BON. In casa mia potete vivere in quiete. Qui niuno vi conosce, e niuno saprà chi voi siate.

AND. Ma dovrò vivere sempre rinchiuso? Son avvezzo a godere l'aria spaziosa della campagna.

BON. Giuro sull'onor mio, tutto farò perchè siate rimesso nella primiera libertà.

AND. Avete voi tanta forza presso di Sua Maestà?

BON. So quanto comprometter mi possa della clemenza del Re e dell'amore de' ministri. Milord Artur s'unirà meco a proteggere la vostra causa.

AND. Voglia il cielo ch'egli abbia per me quell'amore, con cui il padre suo mi trattava.

BON. Ma tarda molto Pamela. Corriamo ad incontrarla.

AND. Io non posso correre.

BON. Datemi la mano.

AND. Oh benedetta la provvidenza del cielo!

BON. Cara Pamela, ora non fuggirai vergognosetta dalle mie mani. (parte con Andreuve)

SCENA VII

Pamela da viaggio col cappellino all'inglese, e Jevre.

JEV. Presto, Pamela, che il padrone vi domanda.

PAM. Sarà meglio ch'io parta senza vederlo.

JEV. Avete paura degli occhi suoi?

PAM. Quando si adira, mi fa tremare.

JEV. Dunque siete risoluta d'andare?

PAM. È venuto a posta mio padre.

JEV. Cara Pamela, non ci vedremo mai più?

PAM. Per carità, non mi fate piangere.

SCENA VIII

Monsieur Longman e dette.

LON. (esce guardando se vi è Milord)Pamela.

PAM. Signore.

LON. Partite?

PAM. Parto.

LON. Quando?

PAM. Questa sera.

LON. (sospira) Ah!

PAM. Pregate il cielo per me.

LON. Povera Pamela!

PAM. Vi ricorderete di me?

LON. Non me ne scorderò mai.

JEV. Monsieur Longman, le volete bene a Pamela?

LON. Madama, io l'amo teneramente.

JEV. Poverina! Prendetela voi per moglie.

PAM. Ah!

JEV. Che dite, Pamela? Lo prendereste?

PAM. Madama, perdonatemi, voi mi dite cose, alle quali non vi posso rispondere.

JEV. Eppure monsieur Longman...

LON. Zitto, madama, che se viene il padrone povero me.

JEV. Mi dispiace non averci pensato prima, ma siamo ancora a tempo. Pamela, ne parlerò a vostro padre. Che ne dite, monsieur Longman?

LON. Ah! madama Jevre, non so che dire.

JEV. Se Pamela parte, mi porta via il cuore.

LON. Ed io resto senz'anima.

SCENA IX

Milord Bonfil e detti.

BON. Pamela?

PAM. Signore?

LON.(vuol partire senza dir nulla)

BON. (a Longman) Dove andate?

LON. Signore...

BON. Buon vecchio. (dolcemente) Pamela vi sta sul cuore?...

LON. Perdonate. (parte)

JEV. (piano a Pamela) (Il padrone mi sembra gioviale.)

PAM. (piano a Jevre) (Sarà lieto, perchè io parto. Pazienza.)

BON. Pamela, io vi ho mandata a chiamare, e voi non siete venuta.

PAM. Perdonatemi questa nuova colpa.

BON. Perchè quell'abito così succinto?

PAM. Adattato al luogo dove io vado.

BON. Perchè quel cappellino così grazioso?

PAM. Per ripararmi dal sole.

BON. Quando si parte?

PAM. Stasera.

BON. Non sarebbe meglio partir adesso?

PAM. (piano a Jevre) (Non mi può più vedere.)

JEV. (piano a Pamela) (Questa è una gran mutazione.)

BON. Jevre, preparate l'appartamento per la mia sposa.

JEV. Per quando, signore?

BON. Per questa sera.

PAM. (piano a Jevre) (Ora intendo, perchè ei sollecita la mia partenza.)

JEV. Un matrimonio fatto sì presto?

BON. Sì, fate che le stanze siano magnificamente addobbate. Unite tutte le gioje che sono in casa; e per domani fate che vengano de' mercanti e de' sarti, per dar loro delle commissioni.

PAM. (da sè) (Io mi sento morire.)

JEV. Signore, perdonate l'ardire. Posso io sapere chi sia la sposa?

BON. Sì, ve lo dirò. È la contessa d'Auspingh, figlia di un cavaliere scozzese.

PAM. (da sè, sospirando) (Fortunatissima dama!)

BON. Che avete, Pamela, che piangete?

PAM. Piango per l'allegrezza di vedervi contento.

BON. Ah Jevre, quant'è mai bella la mia contessa!

JEV. Prego il cielo, che sia altrettanto buona.

BON. Ella è la stessa bontà.

JEV. (Povera Pamela! Or ora mi muore qui.)

BON. Sapete voi com'ella ha nome?

JEV. Certamente io non lo so.

BON. Non è ancor tempo che lo sappiate. (a Jevre) Partite.

JEV. Signore...

BON. Partite, vi dico.

PAM. Madama, aspettatemi.

BON. Ella parta, e voi restate.

PAM. Perchè, signore?...

BON. Non più; (a Jevre) obbeditemi.

JEV. (da sé) (Pamela mia, il cielo te la mandi buona.) (parte)

SCENA X

Milord Bonfil e Pamela.

PAM. (Oh Dio!)

BON. Volete voi sapere il nome della mia sposa?

PAM. Per obbedirvi, l'ascolterò.

BON. Ella ha nome... Pamela.

PAM. Signore, voi vi prendete spasso crudelmente di me.

BON. Porgetemi la vostra mano... (a Pamela)

PAM. Mi maraviglio di voi.

BON. Voi siete la mia cara sposa...

PAM. V'ingannate, se vi lusingate sedurmi.

BON. Voi siete la contessa d'Auspingh.

PAM. Ah, troppo lungo è lo scherno. (va per uscir di camera)

SCENA XI

Andreuve e detti.

AND. Figlia, dove ten vai?

PAM. Ah! padre, andiamo subito per carità.

AND. Dove?

PAM. Lungi da questa casa.

AND. Per qual cagione?

PAM. Il padrone m'insidia.

AND. Milord?

PAM. Sì, egli stesso.

AND. Sai tu chi sia Milord?

PAM. Sì, lo so, è il mio padrone. Ma oramai...

AND. No, Milord è il tuo sposo.

PAM. Oh Dio! Padre, che dite mai?

AND. Sì, figlia, ecco l'arcano che svelar ti dovea. Io sono il conte d'Auspingh, tu sei mia figlia. Le mie disavventure mi hanno confinato in un bosco, ma non hanno cambiato nelle mie vene quel sangue che a te diede la vita.

PAM. Oimè! Lo posso credere?

AND. Credilo all'età mia cadente, credilo a queste lagrime di tenerezza, che m'inondano il petto.

BON. Pamela, rivolgetevi una volta anche a me.

PAM. Oh Dio! Che è mai questo nuovo tremore, che mi assale le membra? Ah, che vuol dir questo gelo, che mi circonda le vene? Oimè, come dal gelo si passa al fuoco! Io mi sento ardere, io mi sento morire.

BON. Via, cara, accomodate l'animo vostro ad una fortuna che per tanti titoli meritate.

PAM. Signore, vi prego per carità, lasciatemi ritirare per un momento. Non mi assalite tutt'ad un tratto con tante gioje, ognuna delle quali avrebbe forza di farmi morire.

BON. Sì, bell'idolo mio, prendete fiato. Ritiratevi pure nel mio appartamento.

PAM. Padre, non mi abbandonate. (parte)

AND. Eccomi, cara figlia, sono con te. Signore, permettetemi…

BON. Sì, consolatela, disponetela a non mirarmi più con timore.

AND. Eh Milord, farete più voi con due parole, di quello possa far io con cento. (parte)

BON. Ah, che la virtù di Pamela dovea farmi avvertito che abietto il di lei sangue non fosse!

SCENA XII

Isacco, poi Milord Artur, e detto.

ISAC. Signore. Milord Artur. (Isacco parte)

BON. Venga. Che belle massime! Che nobili sentimenti! Oh me felice! Oh fortunato amor mio! Deh, caro amico, venite a parte delle mie contentezze. (ad Artur)

ART. Fate che io le sappia, per potermene rallegrare.

BON. Fra poco voi mi vedrete sposar Pamela.

ART. Vi riverisco. (vuol partire)

BON. Fermatevi.

ART. Voi vi prendete spasso di me.

BON. Ah, caro amico, ascoltatemi. Io son l'uomo più felice di questa terra. Ho scoperto un arcano, che m'ha data la vita. Pamela è figlia d'un cavaliere di Scozia.

ART. Non vi lasciate adulare dalla passione.

BON. Non è possibile. Il padre suo a me si scoprì, ed eccone gli attestati autenticati da due lettere di vostro padre. (gli fa vedere le carte)

ART. Come! il conte d'Auspingh?

BON. Sì, un amico del vostro buon genitore. Siete forse dei di lui casi informato?

ART. Tutto mi è noto. Mio padre faticò tre anni per ottenergli il perdono, e pochi giorni prima della sua morte uscir doveva il favorevol rescritto.

BON. Oh cieli! Il conte ha ottenuta la grazia?

ART. Sì, non manca che farne spedire il decreto dal segretario di Stato. Ciò rilevai da una lettera di mio padre non terminata, ma non potei avvisar il Conte, essendomi ignoto il luogo di sua dimora.

BON. Ah! questo solo mancava per rendermi pienamente felice.

ART. Or sì, che giustamente sono eccitato a rallegrarmi con voi.

BON. Ecco felicitato il mio cuore.

ART. Ecco premiata la vostra virtù.

BON. La virtù di Pamela, che ha saputo resistere alle mie tentazioni.

ART. La virtù vostra, che ha saputo superare le vostre interne passioni; ma ora che siete vicino ad esser contento, calmerete lo sdegno vostro contro il cavaliere Ernold che vi ha offeso?

BON. Non mi parlate di lui.

ART. Egli è pentito d'avervi pazzamente irritato.

BON. Ha insultato me, ha insultato Pamela.

SCENA XIII

Isacco, poi Miledi Daure, e detti.

ISAC. Signore! Miledi Daure.

BON. Venga. (Isacco parte)

ART. Ella verrà a parlarvi per suo nipote.

BON. Viene, perchè io l'ho invitata a venire.

MIL. Milord, so che sarete acceso di collera contro di me, ma se voi mi mandaste a chiamare, non credo che l'abbiate fatto per insultarmi.

BON. V'invitai per darvi un segno d'affetto.

MIL. Mi adulate?

BON. No, dico davvero. Vi partecipo le mie nozze vicine.

MIL. Con chi?

BON. Con una dama di Scozia.

MIL. Di qual famiglia?

BON. De' Conti d'Auspingh.

MIL. Voi mi consolate. Quando avete concluso?

BON. Oggi.

MIL. Quando verrà la sposa?

BON. La sposa non è lontana.

MIL. Desidero di vederla.

BON. Milord, date voi questo piacere a Miledi mia sorella. Andate a prendere la contessa mia sposa; indi datevi a conoscere al di lei padre, e colmatelo di contentezza.

ART. Vi servo con straordinario piacere. (parte)

MIL. Ma come! Ella è in Londra, ella è in casa, ella è vostra sposa, ed io non so nulla di questo?

BON. Vi basti saperlo, prima ch'io le abbia data la mano.

MIL. Sì, son contentissima, purchè vi leviate d'attorno quella svenevole di Pamela.

BON. Di Pamela parlatene con rispetto.

SCENA XIV

Milord Artur, Pamela, e detti.

ART. Eccola; non vuole che io la serva di braccio.

BON. Cara Pamela, ciò disconvenire non sembra ad una onestissima sposa.

PAM. Tale ancora non sono.

MIL. Come! Che sento! La vostra sposa è Pamela?

BON. Sì, riverite in lei la contessa d'Auspingh.

MIL. Chi l'ha fatta contessa? Voi?

BON. Tal è per ragione di sangue. Milord Artur ve ne faccia fede.

ART. Miledi, credetelo sull'onor mio. Il conte suo padre ha vissuto trent'anni incognito, in uno stato povero ma onorato.

MIL. Contessa, vi chiedo scusa delle ingiurie, che, non conoscendovi, ho contro di voi proferite. Siccome il mio sdegno era prodotto dallo zelo d'onore, spero saprete ben compatirlo voi, che dell'onore avete formato il maggior idolo del vostro cuore.

PAM. Sì, Miledi, compatisco, approvo e do lode alla vostra delicatezza. Pamela rustica poteva formare un ostacolo alla purezza del vostro sangue. Pamela, che ha migliorato di condizione, può lusingarsi della vostra bontà.

MIL. Vi chiamo col vero nome d'amica, vi stringo al seno col dolce titolo di cognata.

PAM. Questo generoso titolo che voi mi accordate, a me non ancora si aspetta.

MIL. E che vi resta per istabilirlo?

PAM. Oh Dio! Che il vostro caro fratello me ne assicuri.

BON. Adorata Pamela, eccovi la mia mano.

PAM. Ah, non mi basta.

BON. Che volete di più?

PAM. Il vostro cuore.

BON. È da gran tempo, che a voi lo diedi.

PAM. Voi mi avete donato un cuore che non è il vostro; nè io mi contento di quello. Sì, voi mi avete donato un cuore che pensava di rovinarmi, se il cielo non mi assisteva. Datemi il cuore di sposo fedele, di amante onesto; bellissimo cuore, adorabile cuore, dono singolare e prezioso, dovuto da un cavalier generoso ad una povera sventurata, ma che in dote porta il tesoro d'una esperimentata onestà.

BON. Sì, adorata mia sposa, quest'è il cuore ch'io vi dono. L'altro me l'ho strappato dal seno, dopo che l'eroiche vostre ripulse mi hanno fatto arrossire di avervelo una fiata offerto. Miledi, udite i sentimenti di quest'anima singolare. Ecco la virtuosa femmina sconosciuta, che avete ardito insultare. Ecco l'onesta giovine, a cui il temerario vostro nipote ha proferite esecrabili ingiurie. Voi da questo giorno non vi lascerete più vedere da me. Il cavaliere pagherà il suo ardire altrimenti.

MIL. Deh! placate lo sdegno. Se mio nipote vi ha offeso, egli non è lontano, disposto a chiedervi scusa.

ART. Caro amico, non funestate sì lieto giorno con immagini di vendetta. Ricevete le scuse del cavaliere.

BON. No, compatitemi.

PAM. Milord.

BON. Questo non è il titolo con cui mi dovete chiamare.

PAM. Caro sposo, permettetemi che in questo giorno, in cui a pro di una femmina fortunata siete liberale di grazie, una ve ne chieda di più.

BON. Ah! voi mi volete chiedere ch'io perdoni al cavaliere.

PAM. Sì; vi chiedo forse una cosa che vi avvilisca? Il perdonare è atto magnanimo e generoso, che rende gli uomini superiori all'umanità.

BON. Il cavaliere ha offesa voi, che mi siete più cara di me medesimo.

PAM. Se riguardate l'offesa mia, con più coraggio vi pregherò di scordarvene.

BON. Generosa Pamela, in grazia vostra perdono al cavaliere le offese.

PAM. Non basta; rimettete nel vostro amore anche la vostra cara sorella.

BON. Sì, lo farò, per far conoscere quanto vi stimi e quanto vi ami. Miledi, tutto pongo in oblio per cagione di Pamela. Ammiratela, imitatela, se potete.

MIL. Caro fratello, potrei imitarla in tutto, fuorchè nel tollerare con tanta bontà gl'impeti della vostra collera.

BON. Perchè i vostri sono peggiori dei miei.

SCENA XV

Monsieur Longman, Isacco e detti.

ISAC. Signore, il cavaliere Ernold desidera di passare.

BON. Venga. Non sarebbe venuto mezz'ora prima.

LON. Gran cose ho intese, signore!

BON. Pamela è la vostra padrona.

LON. Il cielo mi dia vita, per farle conoscere il mio rispetto e la mia obbedienza.

BON. (Longman è un uomo da bene.)

SCENA XVI

Madama Jevre, e detti.

JEV. È permesso che una serva antica di casa sia a parte anch'essa di tanto giubilo?

BON. Ah Jevre! Ecco la vostra cara Pamela.

JEV. Oh Dio! Che consolazione! Che siate benedetta! Lasciate che vi baci la mano.

PAM. No, cara; tenete un bacio.

JEV. Siete la mia padrona.

PAM. Vi amerò sempre come mia madre.

JEV. L'allegrezza mi toglie il respiro.

SCENA XVII

Il Cavaliere Ernold, e detti.

ERN. Milord, io ho sentito nell'anticamera delle cose straordinarie; delle cose che m'hanno inondato il cuore di giubilo. Viva la vostra sposa, viva la contessa d'Auspingh! Deh! permettetemi, Madama, che in attestato del mio rispetto vi baci umilmente la mano.

PAM. Signore, questo complimento secondo me non si usa.

ERN. Oh perdonatemi, io che ho viaggiato, non ho ritrovato sì facilmente chi abbia negata a' miei labbri la mano.

PAM. Tutto quello che dalla gente si fa, non è sempre ben fatto.

ERN. Baciar la mano è un atto di rispetto.

PAM. È vero, lo fanno i figli coi genitori e i servi coi loro padroni.

ERN. Voi siete la mia sovrana.

BON. Cavaliere, basta così.

ERN. Eh! Milord, tanto è lontano ch'io voglia spiacervi, che anzi dei dispiaceri dativi senza pensare, vi chieggo scusa.

BON. Prima di operare, pensate, se non volete aver il rossore di chiedere scusa.

ERN. Procurerò di ritornar Inglese.

BON. Cara sposa, andiamo a consolare del tutto il vostro buon genitore. Venite a prendere il possesso, come padrona, in quella casa in cui soffriste di vivere come serva.

PAM. Nel passare che io fo dal grado di serva a quel di padrona, credetemi che non mi sento a' fianchi nè la superbia, nè l'ambizione. Ah! signore, osservate che voi solo siete quello che mi rende felice; e apprezzo l'origine de' miei natali, quanto ella vale a farmi conseguire la vostra mano, senza il rossore di vedervi per me avvilito. Apprenda il mondo, che la Virtù non perisce; ch'ella combatte, e si affanna; ma finalmente abbatte e vince, e gloriosamente trionfa.

Fine della Commedia.