Panfila
Di Antonio Cammelli (detto il Pistoia)
ARGUMENTO
Sotto silenzio un peregrino audito meglio el parlar comprende e quanto vale: la ragion dice e tace lo apetito. Silenzio adunque. Io son di quel Morale el spirto, a cui el corpo fe' Nerone morire inanzi il corso naturale; venuto qui, mandato da Plutone, per lucidarvi un amoroso caso, da me descritto quando fui garzone, de dui spiriti amanti: il re suaso che per render di loro al mondo exempio desser la vita a questo rotto vaso. Pluto, lassato ogni atto crudo et empio, per lor pietoso, e per più lume vostro, m'ha fatto dipartir dal cieco tempio; ma con patto perciò, che a voi dimostro quel che seguì, non stia in questo ozio vano, tosto tornando al tartarico chiostro. L'argumento è d'un re qual fu tebano, omo benigno e de somma prudezza, detto Demetrio, sopra gli altri umano: e più stato serìa che in giovenezza, se la sua man non avesse imbrattata nel proprio sangue, in l'ultima vecchiezza. Giamai non puòte in la sua età passata, altro costui che una figlia acquistare, che 'l meglio era per lei non esser nata. Venuto il tempo poi del maritare, dèlla ad un figlio del duca de Atene, con cui morte el lassò poco durare. Vidua essendo poi del primo bene, tornossi al padre non senza dolore, sicome a molte per tal caso adviene. Tanto era cara apresso il genitore, che non curava dargli compagnia vinto per ciò da uno paterno amore. E benché il senso avessi in lei bailìa, non facea al padre, per vergogna, segno; né mai lui ne pensò modo né via. Ma chi tra l'ozio e la pigrizia ha il regno, tosto se accende un amoroso foco, atto a brugiare un giovanetto legno. Avendo lei di quel gustato un poco, gli insegnò Amore, il Fato e la sua sorte, secreto amante, modo, tempo e loco, ché riguardata del padre la corte, vir Filostrato saggio vide e bello, che gli fu nonzio de futura morte. El vecchio padre un dì trovato quello con la propria figliola insieme occulti, morir lo fece come suo ribello. Mandò a la figlia el cor; lei con singulti sopra quel di venen morì doppoi, e in un tumul medesmo fur sepulti. O spettator, perché agli regni soi Pluto mi chiama, e l'obedir mi preme, valete: io lasso Demetrio tra voi che vien di qua con la figliola insieme.
ATTO PRIMO
Scena I
DEMETRIO re, PANFILA figliola.
DEMETRIO
Questi alti gradi de la signoria
fan molte fiate ai prìncipi parere
la morte assai più aspra, figlia mia;
e quei che in povertà sono a giacere
non la gustan così, ma a lor par leve;
ché morte è fin d'ogni gran dispiacere:
e per questa cagione al mondo deve
esser prudente quel che ha oro o regno,
e cognoscer la vita, al sol, di neve:
e tanto più quanto l'omo è più degno,
dovria pensare a questo ultimo assalto;
ché morte rompe ogni mondan dissegno.
Non è sì gran montagna o duro smalto
che col tempo non gionga al suo finire,
e quanto ascende un più, più casca d'alto.
El sol rinascer può doppo il morire;
questo a noi non è dato, ché alfin poi
troppo gran sonno ci convien dormire.
Sai, figlia, come gli è il venir de noi?
Come quel d'un che per la vita è preso,
e ne lo uscir finisce i giorni soi.
Non è, figlia, da tutti il mondo inteso:
chi cognoscesse il ben suo tra gli affanni
ne torrìa su le spalle manco peso.
Io so che l'ho provato septanta anni,
e so con quanto dubio al mondo stanno
li re, li duci, prìncipi e tiranni:
perché tal volta agli sudditi fanno
cose non iuste, e come gli offensori
sospettan sempre qualche ascoso inganno:
talvolta han tema de' soi servitori,
o per non dar lor premio o per suspetto,
che corupti non sian da traditori.
E per la mia corona io te prometto
de dirti il vero, ch'io non stetti mai
un'ora al mondo senza questo obietto.
Extimo manco affanno essere assai
de un bon mercante o privo ciptadino;
perché dove è più roba, son più guai:
credo che a un artigiano o contadino
liber, meglior gli paia un pane asciutto
che a noi col grasso e col suave vino.
E perch'io vedo il viver nostro un lutto,
un giorno questo scettro lassarei
se non fusse l'onor che excede il tutto.
Non più del mio bisogno pigliarei:
con pochi servi in questo antico pelo
darìa la vita in servire agli dèi;
perché ogni cosa è vana sotto il cielo,
e non ci è un'ora de riposso data:
tu el pòi cognoscer ver di sotto il velo.
E creder dèi che una maritata
stia molto peggio, figliola, di te,
la quale è serva e tu sei liberata.
O quante già ne furno e quante ne è
che vivon serve, e 'l marito hanno seco
qual non gli observan né patto né fé!
Figliola, io parlo queste cose teco
per passar tempo e dare al pensier loco:
or ti dono licenzia, essendo meco,
che alla proposta mia rispondi un poco.
PANFILA.
La poca experienzia e 'l manco indizio
e la mia verde età non voglion che io
sappia ancor di tal cose dar iudizio;
pur se facesti per consiglio mio,
bisognandoti a forza stare in stato,
tanti pensier manderesti ad oblio.
Essendo dai molti anni circondato,
naturalmente, padre, hai per dovere
rendere el spirto a Quel che te l'ha dato.
Per quanto ancor del mondo hai a vedere
mentre che 'l fil delle tre Parche è forte,
ti exorto al viver tuo sempre in piacere:
e che continuamente ti conforte
in canti suoni balli feste e giochi
in fin che vien la inexorabil morte:
ché ad ogni modo questi regii lochi
lassar convienti et ogni tua potenzia.
Fa', mentre pòi, che fra' piacer ti lochi:
ché questa morte non fa differenzia
da un uom grande o de bassa condizione
ché per ciascun fu scritta la sentenzia.
Noi sian vittime tutti de Plutone
mandati insieme a le tartaree sede
dove del mondo si rende ragione.
Restan gli possessor, resta lo erede,
riman la tua substanzia a molti ingrati
che non ti pagherian d'un gran mercede.
Vivi, e fa' che gli servi siano amati
da te, padre, e gli sudditi a te chiama
che son con poco dai signor placati;
e così come el rico el pover ama,
non sol gli aiuta, aiutali e consiglia,
perché questa serà tua eterna fama.
DEMETRIO re.
Ottimo è el tuo parlar, cara mia figlia,
in questa verde etade, e quel che hai detto
me genera non poca maraviglia;
né so qual lingua o qual alto intelletto
possa nel mondo aver tanta dotrina
qual venuta è del tuo femminil petto.
Mentre che l'età mia dunque declina,
piacendo a me, farò quel che detto hai
sì come d'un che 'l futuro indivina;
e per quanto sto vivo el vederai.
Scena II
Lauda FILOSTRATO servo:
FILOSTRATO
Se i servi fussen, figlia, qual costui,
non serebbe bisogno aver paura
de le violenzie o de insidie d'altrui:
e già non credo che più la natura
ne faccia un sì fedele e obediente,
qual de non mi spiacer pone ogni cura:
ad un cenno comprende da prudente
ciò che mi gusta, et è d'ognora inanti
de tutti a far quel che mi nasce in mente.
Così come io me cangio nei sembianti
si cangia lui, ed ha pena s'io peno,
mei risi gli son risi, i pianti pianti.
Qual io, sa i mei secreti, più né meno;
né puòti mai per una volta sola
sentir che un se'n traesse fuor del seno.
e mai non gli uddi' dire una parola
che men che onesta fusse, o un tristo atto
gli vidi far per lascivia o per gola.
Sempre da tutti gli altri el vedi abstratto,
non parla se non quando gli bisogna,
ma io, come tu vedi, me l'ho fatto.
Forsi che lui, s'io gli comando, sogna?
anzi el vedi volar come un ucello;
d'ogni poco falluzo ha gran vergogna.
La virtù, figlia, nobilita quello,
la sua umanità lo fa gentile,
l'onestà lo fa bel, ben ch'el sia bello;
d'un re par figlio tanto è signorile,
tutto bontà, tutto discrezione,
la qual fa generoso un nato vile:
e se non che costui troppo è garzone
e che pur temo biasmo, io l'arìa
già fatto, come ancor farò, barone.
Or non faciam più longa diceria;
mai non fu tale in terra, e de' soi pari
chi ne potesse aver la signoria,
se costassero un mondo non son cari.
Fior frondi arbor frutti e tener erba
Zefir rinova e la sua bella Flora,
e canta el rusignol l'ingiuria accerba.
Nanzi a Titone la candida Aurora
venir si vede; e più viva d'aspetto
Cinzia lustrar più che l'usato ancora.
Da ramo in ramo canta ogni uccelletto;
li pesci a schiera per le ripe vanno;
Progne pel parto suo muta ricetto.
Le peccorelle nove se rifanno,
empiono el petto; e le capretto sono
doppie per donar cibo al novel anno.
Pomona e Cere apparecchiano el dono
e Bacco dismembrato acqua destilla
per donar vin doppoi soave e buono.
Alegro vive el cultor de la villa
che vede al seme suo crescer la forza:
Febo ha la spiera più dolce e tranquilla.
La biscia cangia la sua vecchia scorza,
la lucerta nel sole è più vivace,
la neve in liquefarsi i fiumi inforza.
Ciascun vento nel mare aspira in pace;
Scilla volando per l'aer si vede;
Arïete va in corso e Libra giace.
Nova vien la stagion; dal capo al piede
quasi ogni cosa il suo valor riprende,
grazia che a' vecchi mai non si concede.
A contar gli anni la mia vita attende.
El tempo conto che indarno è fugito:
tristo chi mal vivendo quello spende!
Or non replichiam più el tempo transìto.
Vattene, fia, a cibarte, perch'io
conosco, essendo l'ora, el tuo appetito
che tanto cresce quanto manca el mio.
Scena III
PANFILA.
Ogni cosa rinova, io me disfaccio
in ardenti suspir, qual cera al foco,
o la schiuma ne l'acqua, o al sole il giaccio.
Oh quanto è il veder tuo, padre mio, poco,
a non cognoscer come l'età mia
mal può regnare in sì frigido loco!
Né pensi tu quanta è la signoria
del caldo natural che in questo petto
cum periculo ognor cresce m bailìa?
Né pensasti, laudando il giovinetto
di bellezza e virtù, che nel mio core
già per amante, me l'avesse elletto?
Ma gli è de'vecchi un lor commune errore:
crescendo el tempo, el cervel tanto scema
che per loro il tacer serìa migliore.
Che bisognava ch'el mi desse tema
de la bontà, del viver di costui?
Ché Amor me n'avea già fatto un poema.
Più che sé stesso, un om conosce altrui.
Io el cognosceva, e la sua fama expressa,
molto più chiara che 'l non facea lui.
E quando 'l parla meco, mi confessa
che di me poco cura; e a quel che debbe
proveder lui, convien far per me stessa:
e non mai tanta forza Amor mi crebbe
da poi che amante elessi Filostrato:
mio padre più che Amor la forza n'ebbe.
Essendo questa man da lui laudato,
più fiso lo guardai, e più mi gusta.
Basta, mio padre, che tu m'ha' insignato.
Ma a chi ben pensa parrà cosa iusta
ch'io ne adempia secreta el desidero,
qual così verde invecchiando mi frusta.
Casta de viver, serìa mio pensiero;
ma aspro è il punto di spegner la voglia:
potess'io 'l far, che 'l cor serìa sincero!
El troppo amor de libertà mi spoglia.
Voler e non poter son duo contrari.
El ben che far vorrei mi tol la doglia.
De star senza marito siamo chiari;
al parlar l'ho del padre conosciuto
che pon felicità ne le mie pari.
Amor me l'ha insegnato, io l'ho veduto;
l'affanno manda ad un tosto partito;
doppo il consiglio cercarò lo aiuto
ché un bono amante val più d'un marito.
Scena IV
El CORO e AMORE.
CORO.
Ogni cosa vinci, Amore;
del tutto hai la signoria.
AMORE.
Quel che vuol la grazia mia
non ne spende altro che 'l core.
CORO.
Nullo uom po' contra tue prove,
perde ognun che ha teco guerra.
AMORE.
Io cavai fuor del ciel Giove,
fecil poi venire in terra.
CORO.
Non sì tosto se disserra
quel che lega el tuo furore.
AMORE.
El mio foco non se amorza
né per acqua erbe o parole.
CORO.
Nulla val contra tua forza.
Chi sen lauda e chi sen dole.
AMORE.
Per me venne in terra il Sole
e per me si fé pastore.
CORO.
Tu vincesti Ercule greco
che domava ogni gran mostro.
AMORE.
Lassò Pluto il regno cieco,
lassù Pluto el tartar chiostro:
come el fu in arbitrio nostro,
d'una ninfa el fei raptore.
Perdonar non volsi a patre,
Come quel che non ha parte.
CORO.
Irretir festi tua matre;
e compagno a lei fu Marte.
AMORE.
Le mie forze sono sparte,
qual del sole il suo splendore.
CORO.
Quel che crede esser sicuro,
da te prima è saettato.
AMORE.
Non pensava nel futuro
benché giunto ho Filostrato,
ma conosca questo stato
finché l'ha frutto dal fiore.
State pur secreti, amanti;
e tu, Panfila, ti guarda;
ché mei risi tornar pianti
contra chi imprudente tarda.
Dolcemente ciascuno arda,
che 'l mezzo è la via megliore.
ATTO SECONDO
Scena I
FILOSTRATO giovene innamorato.
FILOSTRATO
Non guardai tanto mai Panfila in viso
quanto questa mattina, e per ventura
scontrai dui occhi in compagnia d'un riso.
Vergogna me assalì, desìo e paura:
vergogna, perché lei mi è pur patrona;
desìo, per non so che crudel puntura;
paura, sol temendo che persona
non mi vedesse, ché la invidia poi
me arebbe mostro a dito alla Corona.
Ma vidi tanto lume in gli occhi soi
ch'io arsi tutto e tutto tornai vivo.
Amor, dica chi vòl, tu il tutto pòi!
Vidi un aspetto tanto grato e divo,
che benché liber fosse, in un momento
fui a tanto splendor fatto captivo.
El re mi fece poi comandamento
ch'io gli fessi un presente de due rose:
questo agiunse più doglia al mio tormento,
ché date ch'io gli l'ebbi, me rispose:
El presente è gentil, bello è chi el porta,
discreto è il padre mio che te lo impose.
Tanto in responder fu prudente e acorta
ch'io non gli puòti mai formar parola
che da lei fusse a viva voce scorta.
Ben la guardai nel viso, ahimè che sola,
che sol mi parse sotto un bianco velo,
sol che la viva vista non invola!
Venere non credo io più bella in cielo,
ne la più bella nel castallio coro,
né in più tenera età, né in più bel pelo.
Per manco bella Iove si fe' toro;
per manco bella in cigno ancor fu visto;
per manco bella si transmutò in oro!
Troppo alto l'occhio mio vòl fare aquisto.
Mal equar puosi ad aquila farfalla;
ben se ne avvede Filostrato tristo.
Troppo gran soma ho tolto su la spalla;
ma la prudenzia non lassa perire
se non colui che, fugendola, falla.
Dunque bono è guardarse de fugire
la crudeltà dei patron che son vecchi,
ché s'io fallasse me farìa morire.
Io n'ho dinanci più de mille specchi;
se 'l re mi ritrovasse in questo insulto,
mi farebbe lo exempio de parecchi.
Dunque io terrò tanto foco sepulto;
perché ai servi non lice dove stanno
de inamorarsi in palese o in occulto:
perché gli è tradimento onta et inganno;
fidandose di te, tu lo tradisci,
e peggio è poi la vergogna che 'l danno.
Guardati, Filostrato, sta', patisci
el foco che tu senti e di': sun vile
trama la tela che tu, Amore, ordisci.
Ma eccola di qua tutta gentile.
Sta' forte, core; e tu, man mia, ritienti
allo altiero suo aspetto e signorile.
Fa' che al fren, desiderio, te argumenti;
occhi, fugete el suo amoroso sguardo;
lingua, ritien le parole tra i denti.
Ahimè, ch'io sento già el secondo dardo!
Exalate, suspir, secreto il foco
dove è Panfila mia per la cui ardo.
Scena II
PANFILA.
Filostrato che fai ? dégnate un poco.
Mio padre il re tanto ti fa superbo
che tu non cederesti a Iove il loco.
Io te ricordo ch'el si secca ogni erbo.
Ecco il presente bel che tu m'hai fatto,
e tal qual com'egli è te lo riserbo.
L'odor tutto da me fuori n'è tratto.
Guarda, come le sono impalidite!
Così fa l'uom che è da' pensier disfatto.
Io te l'ho a piedi de fil d'or vestite:
se tu le sciogli, relegale poi,
e portane due altre incolorite.
FILOSTRATO.
O Amore, duri sono i colpi toi!
Ma come serà mai ch'io me ritegna
a' toi strali crudeli, agli occhi soi?
El foco è grande e tu pur giongi legna.
Vorrìane uscire, ed io sempre più vi entro:
ch'el sia la verità questa è l'insegna.
O rose aventurate, o rose, mentro
che in man vi tegno, so ben che sol parvi
dai campi elisi aver cangiato il centro.
A me conviene ai piedi dislegarvi
seguendo il desider, senza paura;
e come vi avrò sciolte, rilegarvi.
Forsi fia mia disgrazia o mia ventura.
Scena II
TINDARO vecchio,FILOSTRATO.
TINDARO.
Ben ti so dir che m'ha servito il re
di quanto adimandava, qual se mai
io non l'avesse servito con fe'.
O vecchio disgraziato, che farai?
Per te non è fortuna fato o sorte,
ché nulla vale agli anni che tu hai!
La ventura de' vecchi solo è morte.
Va'; di' ch'io vecchio trovasse patrone!
Pazzo è colui che se invecchia alla corte.
Tra' grandi è morta la discrezione:
non cognosce un signore amore o fede;
Demetrio me 'l dimostra al parangone.
O tristo quel che, libero, si vede
a vender così rico e bel tesoro!
Ma sempre pensa male un che mal sède.
El favor del re nostro hanno coloro
che ben san simular mal del compagno:
oggi agli adulator si dona l'oro.
L'amor dei servi bon non ha guadagno:
la virtù va stracciata e vilipesa
tal che le tele sue restan di ragno.
Agli ignoranti si dona l'impresa
del gubernare; e così la iustizia
dà in man le sue bilance a chi mal pesa.
Nela corte del re vive nequizia,
un odio extremo, una certa perfidia,
che i più tristi alcia, e i meglior precipizia:
ascosta pei canton veggio la invidia;
la adulazione a mensa, al foco, al letto,
tra molti regna incognita la accidia,
la ambizïon, nemica del diletto,
superbia, che d'ognora el ciel la sfida;
le sale sono ornate del dispetto.
L'un cortegian de l'altro non si fida;
l'un scaccia ognora l'altro a poco a poco;
di quel che un piange, par che un altro rida.
Picoli solfanelli accendon foco:
vien un che fa come fe' il riccio a l'angue
che scaccia quel che gli apparecchia il loco.
Non cura el re s'un per miseria langue,
pur ch'el contenti el suo ingordo apetito,
scaccia gli amici e chi gli atien per sangue.
Io posso dir che 'l re m'abbia tradito
a tormi il tempo. O re aspro e crudele,
postù patir quel che ho teco patito.
FILOSTRATO.
O ninfa, a me bisogna esser fidele
secondo che ho qui letto per l'adviso,
dove più trovo l'assenzio che il mèle.
O quanto vale un don giuncto improvviso!
Più d'uno el qual se aspetta; or ne son certo
poiché m'è giunto sopra el pianto il riso.
Quanto Panfila me ami, io vedo aperto.
E che fede maggior ne poss'io avere
da lei, che 'l mio amore abbi il suo merto?
Dica chi vòl, non è maggior piacere
che udir l'amante che l'amata l'ami.
Chi se potrebbe mai de amar tenere?
Tu me mostri la via, tu a te me chiami.
Panfila, io veggio el tuo discreto aiuto;
benché indegno ne sia, so che me brami.
Cercar voglio del loco scognosciuto
quanto più posso, e vadane che vole,
s'el fosse ben la spelonca de Pluto.
De due sol cose me rincresce e dole:
che d'un mio bene ad un perfetto amico
conferir non ne possa due parole;
l'altra è, ch'io non conosco il foro antico,
e vorrei pur trovar qualche mio fido
che mi mostrasse quel che ognor mendìco.
Non tanto volentier vola al suo nido
la rondinella ai figli, quanto io vado
da lei. Adunque aiutami, Cupido.
TINDARO.
Chi me biasimarebbe in questo grado
s'io lo tradise? Veramente alcuno
non me dirìa se non: - Ten persuado. -
Fusse pur tempo comodo e opportuno
ch'io gli farìa cognoscer quanto e quale
l'obligo che è del pascere un digiuno.
Chi tien l'altrui fatica è om micidiale.
Con questi ingrati gran mercede accatta
uno che gli è nemico e disleale.
Pur me venisse in qualche modo fatta!
Ch'io ne farei sì magnanime prove,
che ogni signor temerìa la mia tratta.
E così un iusto sdegno al fin ci move
a divenir crudeli; e chi 'l fa, credo
che molto piaccia il sacrifizio a Iove.
Ma mi par Filostrato quel ch'io vedo
andar pensoso che da lui favella;
per ascoltarlo il parlar non procedo.
FILOSTRATO.
Come faremo, o mia Panfila bella,
ch'io venga a te? chi me darà lo specchio
de trovar questa grotta? ove fia quella?
Ma io veggio in qua venir Tindaro vecchio.
Mi fusse sicurtà, ch'io gli direi
tutto el mio desider dentro allo orecchio!
Che serìa contra il voler di costei,
secondo che ho qui letto. Or ecco il duolo,
per non poterli dir quel ch'io vorrei.
TINDARO.
Questo è pur Filostrato che vien solo.
Egli è? Non è? Sì, è. Lassami gire:
Ercul ti guardi, caro el mio figliolo.
Tu sei palido fatto, che vuol dire?
Hai tu nulla egritudine o dolore?
Dìl, che agli amici è buon di conferire.
Avrebbeti il re mai nostro signore
fatto qualche atto che non fusse iusto,
come tal volta fa a un bon servitore ?
FILOSTRATO.
Tindaro, el mal mio regna nel gusto;
né a te lo posso dir, né a uom che viva.
Dir, per me ben serìa, ma non è iusto.
Ma dime tu, se vòi, donde deriva
tanto lamento che far t'ho sentito?
La causa non so dir, se ben te odiva.
TINDARO.
Questo serà un ottimo partito
a dir affanni insieme tra noi du'
secreti nostri; comencia, io te invito.
FILOSTRATO.
Per fare al tempo onor comencia tu,
et io te giuro per el dio Poluce,
che alcun nol saperà. Di' adunque, or su!
TINDARO.
Or guarda a quel che un giovene me adduce
con giuramento a questo punto extremo!
pur lo dirò se del tuo averò luce.
FILOSTRATO.
Tu temi a dirlo et io, Tindaro, tremo
a discoprirti i mei secreti occulti:
ma giura ora non dir quanto diremo.
TINDARO.
Per lo dio Ercul, de tenirli sculti
secreti i toi pensier, quanto più grandi;
come se fusser sotterra sepulti.
Comenciarò, doppoi che me dimandi,
ad esser primo; e così esser voglio.
Porgi l'orecchie e a me l'audito spandi.
Del re nostro Demetrio mi doglio,
che domandando a lui del servir mio
me rispose: - Tu imbratti troppo il foglio. -
Assai più cose taccer ti voglio io;
ma in ultimo il secreto ch'io vo' darte:
ogni mal gli faria quanto è più rio.
Non ti dirò del mio voler la parte,
ma danno gli farei male e vergogna,
né lassarei per vendicarmi ogn'arte.
FILOSTRATO.
Or questo è quel che a me proprio bisogna.
Tindaro, troppo sei vecchio e maturo;
gli anni ti fan parlar come chi sogna.
TINDARO.
Filostrato, per Jupiter ti giuro
che s'io mai vedo el bel, tu el vederai;
ché ad ogni modo più viver non curo.
Ora tu, adunque, a me discoprirai
qual causa sì te tien mesto et afflitto:
forsi da me qualche rimedio arai.
FILOSTRATO.
Non dunque replichiam quel che abbian ditto
d'esser secreto. Togli, legi il frutto
che amor mi mostra e quanto gli è qui scritto:
letta che l'hai mi consiglia del tutto.
Scena III
Epistola de PANFILA a FILOSTRATO.
Tindaro
Tu forsi , Filostrato, admirerai
di quel che soneranno le parole
che in questa a te, secrete, leggerai.
Sappi che sempre nel mondo si vole
cercar di viver senza infamia alcuna,
ché l'onor lustra al parangon del sole.
Se pur te dà de' calci la Fortuna,
solicito si vòl cercar di scampo:
e 'l simil far se l'amor te importuna.
Io non te scrivo per te quanto avampo:
consideralo tu, se per amore
gli secreti di me ti sono in campo.
Tu sei de noi antico servitore,
alevo de mio padre, e d'umil sangue;
e non mi sdegno averti dato il core.
Io dico el cor, che senza il corpo langue
per te; per altri, non; ché da te in fora
ciascun m'è in odio qual pestifero angue.
Ma se savio serai, puoi ad un'ora
far te e me sì parimenti lieti
che assai felici viveremo ancora.
Se gli amori con te fierno secreti,
stimo che tanto durerà il diletto
quanto nel conseguir seren discreti.
E se al fin mai me ne venisse detto
mi scusarìa, e tu verresti al segno
de chi per Fedra a morir fu costretto.
Come io t'ho detto, el mi è ogn'altro a sdegno;
per te non più marito pigliarei:
tu me sei caro più che altro uom del regno.
Or hai tu intesi tutti i pensier mei:
resta a trovar la via comoda adesso
per dare effetto a quanto ch'io vorrei.
Drieto al palazzo nostro è un certo fesso
fatto nel monte d'una grotta antica,
d'onde il venir da me te fia concesso,
coperto da le spine e da l'urtica
le qual levar potrai, purché a Amor piaccia
che pericul non stima né fatica.
Togli una corda e quella in loco allaccia
che ti sostegna, e se ti par diserto
l'entrarvi, non sperar se non bonaccia.
Io terrò l'uscio al tuo venire aperto,
vien pur secreto e cautamente via
tanto che inanzi a me te sii offerto.
Mettite quanto pòi più presto in via.
Vogli exequir la mia littera scritta.
Altro non resta a dire, anima mia,
alla tua più che sua Panfila afflitta.
Scena IV
Letta la epistola TINDARO dice:
TINDARO.
Questa è bona novella, o Filostrato;
Amor te aiuta ben, Amor ti chiama;
tu sei fra gli altri amanti el più beato.
Lassa ora a me ordinar questa trama.
Io so dove è quel loco che ti mostra
perché a lei vedi, la tua cara dama.
Questa grotta non fu già a l'età nostra;
ma già fu quello un soccorso di gente
quando faceasse qualche mortal giostra.
El re più volte m'ha detto: - Pon mente
quanto è da terra ad alto; alza la testa. -
Con una torcia la vedeo presente.
Facca tòrre ad un uom la lancia in resta,
correndo ivi a caval, qual per la strada:
gran maraviglia mi pareva questa.
De qui veniva gente, e de qui biada:
el loco sol si sapeva da soi,
né altri lo sapean d'altra contrada.
La intrata si serrò, intesi doppoi;
ma gli è rimasta un poco d'apritura
per la qual lì secreto tu andar pòi.
Vattene in casa, oggi è la tua ventura;
fate un vestito de corio di cervo
perché gli è tutta spine l'apertura.
Va', non temer quel che celato servo;
sii pur secreto, e fa' quanto t'ho imposto;
et io vado a veder qual tuo conservo.
A te serò con l'ordine qui tosto,
veduto il loco che te fia desio;
fa' pur animo bon, sii ben disposto.
Or vedi che è venuto il tempo mio;
se 'l re la mia fatica pur me invola,
de far vendetta spero ancor per Dio,
e mezzo mi serà la sua figliola.
Scena V
Quatro SIRENE.
Porta ognun del nascimento
quagiù in terra vita e morte;
varia in terra nostra sorte
come el mar varia per vento.
Muta ognor Fortuna stato,
come ha il ciel moto diverso;
se talor fa un uom beato,
opra il ciel presto il converso:
ché qualunque ha il cielo adverso
mai Fortuna el fa contento.
Come el mar varia pel vento.
Se da venti o da tempesta
è agitato e mosso il mare,
la Fortuna aspra e molesta
suol ciascun sempre incolpare:
ma dal cielo ha l'operare
la Fortuna e 'l movimento.
Come el mar varia pel vento.
Forza ha ben Fortuna in noi,
talor un dannando a morte,
ma l'arbitrio liber poi
vetar pò l'empia e rea sorte,
ché se 'l ciel nel moto è forte
non è il bene alora lento.
Come el mar varia pel vento.
Ecco che or l'arbitrio se opra
nei dui mesti e infausti amanti;
perché il padre incauto adopra,
sopra lor verrano i pianti.
Però alcun mai non si vanti
quaggiù in terra esser felice,
perché il ciel lieto e infelice
se dimostra in un momento.
ATTO TERZO
Scena I
TINDARO vecchio.
TINDARO.
Vedi che Amor m'ha mostro il tempo e 'l loco
e 'l modo a fare ogni vendetta mia;
cossi vedess'io el re 'n mezzo d'un foco!
Io ho pur messo Filostrato in via,
tanto ch'io credo e tengo certo adesso
che con la sua figliola alle man sia.
El s'è però a gran pericol messo,
per esser quella grotta scura e inusa,
tal che de lui suspico da me stesso.
Qual è la legge che del mal me accusa,
s'io ho fallito? Non n'è alcuna in terra;
se già da chi la fe' non fu confusa.
Perché gli è bono a far patir chi erra;
e bono è a tempo far la sua vendetta;
et a quel che vòl guerra, dargli guerra.
L'offeso che ha l'ingiuria in petto stretta,
non se la scorda mai; e lo offensore
ne porta pena el dì che non l'expetta.
Or così gli avess'io cavato il core,
come io l'ho questo giorno vergognato,
che ancor gli parerà morte l'errore!
Trionfa alle sue spese Filostrato.
Più mi val questa ingiuria, che se lui
m'avesse a doppio il mio servizio dato.
Ad ogni modo star non vo' con lui;
vada la cosa pur come andar vole,
che fatto ho la vendetta mia de lui.
Date tosto marito alle figliole,
o vedove, o donzelle, che gli è tale
la mercanzia che spesso mancar sòle:
e chi no'l fa, se gli ne incontra male,
la colpa è di chi pò e non di lei;
e il pentirsi nel fin nulla vi vale
come non valse al padre de costei.
Scena II
FILOSTRATO, TINDARO
FILOSTRATO.
Facil mi fu l'andar, ma il tornar duro;
la via più aspra, el pericul più grande,
el loco ancor più periglioso e obscuro.
Come colui che le dolce vivande
mangia, e mangiando più, più n'ha apetito,
poi gli convien tornare a pascer giande:
Vener non fece mai meglior convito,
né el più melifluo Iove alla sua mensa:
or più mi gusta ch'io mi son partito.
Ma un conforto ho, che la mia donna pensa
al tornar de doman; pur fusse adesso!
Perché l'ha d'un più bel fatto dispensa;
e così gli ho giurato e gli ho promesso.
O dio Cupido, quanta grazia e dono
mi concedesti quando gli fu' appresso!
Del modo che lei tenne, e' non ragiono,
quando giunsi da essa. O alato idio,
de ringraziarti insufficiente sono.
El merito di te fia el tempo mio,
e le laude che fieno a Citarea,
e 'l te servir che mi serà in desio.
O Panfila, di certo io non credea
che 'l ciel di te mai mi fèsse presente.
Fortuna più non mi puote esser rea.
Fusse Tindaro or qui, e non absente,
ch'io gli potesse almanco conferire
quanto el cor mio del piacer gaudio sente.
Ma pàrmello di qua veder venire.
Egli è pur desso. - Tindaro, salute:
el ci è novelle infinite da dire.
TINDARO.
Io non vi sono stato, e gli ho vedute
careze: ché con bocca e mani e tatto
quanto se inganna questa gioventute!
A lui par or tutto il mondo aver fatto
per conseguire un poco de piacere
e non sa forsi che l'arà mal tratto.
Del ben che goduto hai mi par godere
come debbon gli amici con gli amici
che han ben del bene, e del mal despiacere.
FILOSTRATO.
Questi tempi son, Tindaro, felici:
diletti senza guai, una suave
fatica da non darla a' soi nemici.
Lei di vedermi tanto conforto have;
non altrimenti impalidì il suo viso
che quel che la fortuna vede in nave.
Ma poi ch'io gli ebbi discoperto un riso
ritornò viva, tal ch'al suo splendore
conobbi tutto il bel che è in paradiso.
Quivi assaltomi un'altra volta Amore
quando per man mi prese e disse: - Vieni
dove meco farai cambio del core. -
In loco aprico fra gli odori ameni
fu la stanzia de noi, e lì me diede
un don che passa tutti gli altri beni.
Ma poi che Apollo a l'occidente riede
convennemi partir, non senza doglia,
data ch'io gli ebbi del tornar la fede.
S'io te dicessi quel che dirti ho voglia,
in questa età so che parte del foco
se attaccherebbe alla tua vecchia spoglia.
TINDARO.
Filostrato, prudente in parlar poco:
io so apunto quel che esser pò stato,
ché giovane n'ho fatto più d'un gioco.
Guarda de non ne dire in alcun lato!
L'invidia cortegiana è sempre pronta:
se 'l re il sapesse, saresti spaciato,
perché in un'ora ogni piacer si sconta.
Sii pur constante e fa' i consigli mei:
va' cautamente, e la preda raffronta.
FILOSTRATO.
Tindaro, io tornarò dunque da lei.
Come notte serà, dentro mi trovo;
se tanta grazia mi faranno i dei
che al piacer bel me ritornin di novo.
Scena III
TINDARO solo.
TINDARO.
Inamorato giovene gagliardo
costui si vede, e temo ch'el non faccia
un dì come suol far la gatta al lardo,
ch'el non vi lassi la vita e le braccia.
E dubito qualcheun gli gionga sopra
in su el più bel del cominciar la caccia,
ché in bene e in mal la Fortuna se adopra.
Extimo, s'egli è giunto, ch'al tormento
insieme col suo fallo el mio non scopra.
Questo serìa lo errore e il mancamento,
ché vecchio sono; e se 'l re mai l'udisse
un dì me farìa dar de' calci al vento.
- Ben gli sta; - se dirìa se me avvenisse:
né se dirìa per che causa l'ho fatto;
ognun dirìa ribel, chi lo sentisse.
Chi me dirìa: - Guarda, vecchio matto,
quasi in decrepità d'anni maturo
a consentire a tal turpissimo atto!
Ribaldo, omo mendace, iniusto e furo,
alla vera ragion fatto ribello.-
De la mia pelle si farìa un tamburo.
Godi pur, Filostrato, el tuo gioiello;
oggi è quel dì che abandono la corte
lassando al re per vendetta un capello;
ché fuggendo da lui fuggo la morte. .
Scena IV
DEMETRIO re, PANDERO secretario.
DEMETRIO.
Quanto più crede l'om esser contento,
usanza è de Fortuna che gli invola
el vecchio ben con un novo tormento.
Chi averìa detto che la mia figliola
fatta m'avesse così gran vergogna
per macular la sua castità sola?
Fra' grandi più parer non me bisogna.
Io l'ho trovata; io me ne maraviglio;
tal ch'io son come quel che veggia e sogna.
Figlia sfasciata, chi te diè consiglio
di far tal cosa? che strano apetito?
e con cui, trista te? con un famiglio!
Che quando simil caso fia sentito,
so che gli detrattor tutti diranno:
- El padre gli dovea pur dar marito! -
Pigro, indiscreto mi reputeranno.
Gli mei nemici ne fìer tutti in festa;
chi dirà: - Ben gli sta; - e chi: - Suo danno. -
Per vederti, figliola, troppo onesta,
sempre restato son di maritarti
né altra causa ne fu mai che questa,
et ancor la cagion del troppo amarti
da figlia. Ah, figlia già bona, or sei ria,
perché dal viver pudico te parti.
O giornata crudel, chi crederìa
ch'io non ti fusse stato ommicidiale
quando vedevo la vergogna mia?
Figliola iniqua, figlia disleale,
tu gli insegnasti il loco e 'l cangiar panni
per exequire el tuo voler bestiale.
La grotta asserrata già tanti anni,
l'uscio che dalla rugine era stretto,
aperto l'hai senza tèma o affanni.
El dì ch'io te acquistai, sia maladetto,
e la imprudenzia mia, che adesso veggio!
Ma doppo il fatto non val lo intelletto.
De far la mia vendetta ognor vaneggio
e non so s'io mi faccia morir quella;
e s'io fo morir lui, fia ancora peggio:
per tutto serà sparta la novella.
E s'io mi sto così, senza alcun dubio
veggio el mal fecondar fra lui et ella.
Quanto più lasso avolger teda al subio
tanto più vergognosa fia la tela:
macchia che mal la lavaria el Danubio.
Ma perché amor filial l'occhio mi vela?
Sta notte a lo uscir fuor farò che lui
preso serà, quando il giorno si cela.
Lei morirà se intende che costui
sia morto: e viva, qui viverà morta.
Una vendetta ne punirà dui.
PANDERO.
O quante volte a l'occhio il sonno porta
sogni, che ben che quei siano bugie,
la cosa parti vera essere iscorta.
Io ho visto questa notte due arpie
stercorigiar tutto questo palazzo,
e mille altre diverse fantasie;
tutto qui intorno far di sangue un guazzo:
per questo son venuto e ancor mi pare,
s'io lo dicesse al re, mi terrìa pazzo.
DEMETRIO.
El non è tempo da tempo aspettare.
Taglian la causa, ché lo effetto cesse;
ché tosto un mal se vorìa medicare.
PANDERO.
Io credo ben che se 'l re lo sapesse
di questo sogno, ch'el n'averìa spavento;
ma non pensi nissun ch'io gliel dicesse.
Io el soglio confortar 'n ogni tormento
e consigliarlo in tutti i casi adversi;
sì che poco arìa a dirlo sentimento.
El tempo che ho con epso mai no' l persi.
El m'ha donato, el m'ha pur fatto grande,
lui mi è reffugio ne' mei controversi.
Son onorato d'altri in le sue bande,
el mi fa viceré per le sue terre;
la voce mia doppo la sua si spande.
Ogni secreto suo dal A al R
mi è noto a punto, e ogni fatto so io
del gubernar del stato in pace e in guerre.
Adunque se 'l mio sogno è stato rio,
niente voglio dir ma stare ocioso:
questo da me serà il consiglio mio.
Ma eccolo di qua solo e pensoso.
Lassami andarli incontro. - Iddio te observi
a noi, sacro re invitto e glorïoso.
DEMETRIO.
Ben vada un servo tra gli altri mei servi
più iusto, più fidel, più obediente.
Pur longo tempo el ciel me ti conservi.
Sa' ch'io te dico ogni caso occurrente:
una mala novella serà questa.
Vien dentro, ch'io la dica ascosamente.
PANDARO.
Vedi che 'l sogno mio gli cade in testa.
Scena V
TINDARO.
Valete, amici, e tu, corte, rimanti;
io fuggo la mia morte e la tua insidia;
lasso l'onor del re tra doi amanti.
Réstati tra costor, perfida invidia;
resta, impeto del re; resta, nequizia;
sta' tra lo odio e 'l dispetto, cruda accidia.
Tu, fra' tiranni te riman, giustizia;
fede, dai detrattor rimanti presa;
virtù, trionfa pur fra la avarizia.
Servitù, resta tra gli ingrati offesa;
speranza, va' te impica per la gola;
tu, carità, rimanti vilipesa.
Rimanti tra costor, lascivia, sola;
sta' tra' crapulator, re, Mida e Bacco:
nelle braccie a Cupido è tua figliola.
So ben che Filostrato non è stracco;
adesso vien el bel de la sua etade;
adesso ha 'l bel d'amor empirsi el sacco.
A Dio, ti lasso, iniqua mia citade,
nido dove già nacqui e son vivuto.
Or, vecchio, peregrino altrui contrade!
Adesso e non inanzi ho cognosciuto
quanto della sua patria l'amor vale.
Basta che in sino ad ora son canuto
teco, mio dolce albergo. - Bene vale.
Scena VI
Le tre PARCHE.
PARCHE.
Ciascun nasce per morire;
nasca pur chi nascer vole:
se rinasce e vive il sole,
nui andiam per non venire.
Assai vive chi ben more;
poco vive chi mal vive;
morte a' ciechi è gran dolore
de chi son l'alme captive;
le palude stigie e rive
ci convien tutti transire.
Ciascun nasce per morire.
Tosto vien la morte a quello
che non crede morir mai;
spesse fiate muor lo agnello
prima che la madre assai:
son per tutto i beni e ' guai;
sia chi vuol, non pò fuggire.
Ciascun nasce per morire.
La virtù vince la morte,
e la morte vince el vizio.
Bello sagio ricco e forte
non riguarda al crudo offizio;
bon per chi sta in exercizio
agli dei sempre servire.
Ciascun nasce per morire.
El piacere al mondo è caro
a quel che è figliol del mondo;
dolce inanci, doppo amaro,
leve qua, di là gran pondo;
non al gusto va secondo,
ché non vien per obedire.
Ciascun nasce per morire.
Se i piacer tornano in pianti,
tosto fia la experienzia:
questi dui gioveni amanti
ne darano la sentenzia;
dura fia la penitenzia.
Siavi exempio el suo fallire.
Ciascun nasce per morire.
Cruda parca, vien pur via.
O Amor fallace e rio!
Non ho più rocca in balìa;
vòto resta l'aspo mio.
Segui, parca, el tuo desio;
tu, Atropos, l'impeto e l'ire.
Ciascun nasce per morire.
ATTO QUARTO
Scena I
PANDERO,TINOEO servo.
PANDERO.
El re m'ha detto, tutto d'ira acceso,
ch'io informi dui più fidi, e che da loro
sia Filostrato questa sera preso.
O Fortuna crudel, che mal lavoro
ordisti a questo el primo dì ch'el nacque!
Poi facesti ch'Amor lo piagò d'oro.
Tanto el comandamento me dispiacque
che inanzi in questo giorno arei voluto
esser submerso in le più frigide acque.
Almanco ti potess'io dare aiuto,
giovene Filostrato, ma non posso,
ché in troppo stran delitto sei caduto.
La carne è stata troppo apresso l'osso;
benché tua colpa non la dichi in tutto
perché so che da lei fusti andar mosso.
Io non lo nego, l'atto è stato brutto;
ma perché Amor doma ogni cor silvestro
con teco puote assai, sendo ancor putto.
Pur non di manco sta male al pedestro
a cui doce l'artefice, s'el vole
lavorar poi coi ferri del maestro.
Per la tenera età di te mi duole,
e della infamia ch'al nostro re nasce:
pensil quel padre c'ha le sue figliole.
Or non più, non: che così il mondo pasce
sempre l'uom de fatiche, e ben si pò
chiamar felice quel che more in fasce.
Fate quel che denanti ditto vi ho,
dimoràtive tanto alla apertura
ch'el sia pigliato; io qui vi aspettarò
da poi che così vòl la sua sventura.
Scena II
DEMETRIO re, PANDERO.
DEMETRIO.
Pandero, che di' tu del caso rio?
Va' te poi fida e di servo e di figlia!
A molti exempio fia l'exempio mio.
PANDERO.
El male è grande e mi fo maraviglia
de lo error che ha Filostrato comesso,
che parea el più fidel de tua famiglia.
DEMETRIO.
Et io non mai pensato arìa lo excesso,
né de la mia figliola el grave errore,
se non che con questi occhi el vidi expresso.
PANDERO.
Pensa che per costor mi creppa il core,
sendo gioveni e belli, e tanto oltraggio
farti, condutti dal foco d'amore.
DEMETRIO.
'Nanzi che 'l sole asconda il chiaro raggio
ne farò tal vendetta che 'l mal loro
farà più d'un amante venir saggio.
El mi è pena crudele e gran martoro,
perché gli amava, e sì per mia vergogna
qual mi toglie l'onor, sì gran tesoro.
PANDERO.
Molte fiate, Demetrio, in più menzogna
casca chi fa di tal cose vendetta:
e per questo prudente esser bisogna.
Che l'ira via te passi, almanco aspetta,
da la qual spesso l'animo è impedito:
serà la tua sentenzia più corretta.
Ché se mai il tuo caso fia sentito,
fabula al popul sei; e la figliola
mai più, vivendo, troverà marito.
Se tu lo amante impichi per la gola,
fal morir come vòi, lei col suo pianto
descoprirà questa vergogna sola.
Adunque, sacra Corona, per quanto
el parer di me sia, lo salvaresti
per maritar la tua figliola intanto.
Gli modi che far déi poi seran questi:
dir che lui t'abbia qualche zoia tolta;
secretamente morir lo faresti.
Questo è il consiglio che l'ultima volta
un fidel servo lucida al patrone.
Fa' come vòi, la tua prudenzia è molta.
Ma ecco Filostrato tuo pregione:
fanne quel che ti par, po' che in man l'hai.
Oh che peccato d'un sì bel garzone!
DEMETRIO re.
O Filostrato, io non credetti mai
che la benignità mia meritato
avesse farmi quel che fatto m'hai.
Tu m'hai ne le mie cose vergognato,
come oggi veduto ho con gli occhi mei.
Tal guidardone observar suol lo ingrato.
Una figliola avevo e solo in lei
era locato tutto l'onor mio.
Tu, ch'io l'ho perso, causa stato sei.
Scena III
FILOSTRATO.
La mia fral voluntà, l'altrui desio
son state le cagion, né me ne pento,
ché Amor pò molto più che tu o io.
DEMETRIO re.
Secondo il fallo serà el tuo tormento.
Pandero, fal menare in parte obscura
securo sì ch'io l'abbia al mio talento
per farne una vendetta accerba e dura.
Scena IV
Sopragiongendo PANFILA, DEMETRIO dice:
DEMETRIO.
Panfila, a me cognoscer parse già
esser in te non pur sola virtù,
ma prudenzia infinita et onestà;
né stato avviso me serìa che tu
(se bene alcuno me l'avesse detto)
che l'onor posto per te fosse giù.
Né quasi ancor mi cape in lo intelletto;
ma pur del tutto ben ne son chiarito
dagli occhi mei; che n'è vist'or lo effetto.
Come così t'ha vinto lo apetito?
Come possibil è che tu abbi errato
per piacer un che non è tuo marito?
che crederei, non che fatto, pensato
mai tu l'avesti; e poi con un servente
qual per amor de Dio fin qui ho alevato.
Deh! che in questo poco rimanente
che vecchiezza mi serba, a tanto male
pensando ognora viverò dolente.
Almen volesse Idio, doppoi che a tale
disonestà giongesti, avesti preso
un ch'al tuo sangue fusse stato equale.
Ma in fra tanti qui de nobil peso,
un tolto n'hai de più vil condizione,
come n'hai sempre pel passato inteso:
alevato da noi picol garzone
in fino a questo dì, come quel angue
che riscaldato atoxicò il patrone.
Messo m'hai in tal duol che 'l cor mi langue,
né l'animo si posa nel pensare
che per te è maculato un real sangue.
Di te non so che partito pigliare;
de Filostrato ho già partito a pieno
qual feci questa notte impregionare.
Di te, che amor filial mi regna in seno,
che più t'ho amato che padre figliola,
ogni crudel desider me vien meno.
Da l'altra parte lo sdegno mi vola
denanzi agli occhi per la tua follia,
siché risponder non gli so parola.
L'altro, ch'io te perdoni pur me invia;
l'altro vòl pur ch'io incrudelisca assai,
che serìa contro la natura mia.
Ma inanzi che partito prenda mai
expetto la risposta, ingrata figlia,
la qual per excusarti mi farai;
se bona sia, mi farò maraviglia.
PANFILA.
A volerti negar, padre, non sono
disposta mai, essendo a te presente,
né a pregarti o domandar perdono;
perché il negar serìa teco perdente
e certa son che non mi valerìa,
e l'altro vo' che mi vaglia niente:
ma con vera ragion la fama mia
difender voglio, confessando il vero,
di quello che 'l negar serìa bugia.
Se la grandezza de l'animo intiero
ti serà nota, in questo accerbo stato,
pronta la troverai nel mio pensiero.
Siate noto ch'io amo Filostrato,
e lo amai sempre, e fin ch'io vedrò il sole
serà da me con tutto il core amato;
e se doppo la morte amar si suole,
amarlo intendo, e a lui mi son donata:
dil che la colpa a te donar si pòle
perché più tosto non m'hai maritata;
e se di carne sei, pensar dovevi
che una figlia di carne hai generata.
E qui pensando, da pensare avevi
quanto amor possa in la delicatezza:
ad ogni modo più studiar dovevi.
E quanto amor negli occhi abbia fortezza,
non nei gioveni sol, ma certo parmi
vederlo ardito ancor ne la vecchiezza.
Non te ammirar, s'io giunsi a inamorarmi;
et ogni studio e virtù che bisogna
puosi quanto più puoti de celarmi.
Fei come quel che per amor non sogna:
ché pur seguendo il naturale errore
né a te né a me credea fusse vergogna.
Per la qual cosa, o Fortuna o Amore
m'avean mostrata un'ottima via, tale
ch'io exalava secreto el mio ardore.
Ma chi de ciò t'abbia mostro signale,
non so, né il caso donde sia venuto;
el mal ti confesso io, se questo è male.
E con animo sagio et avveduto
costui condussi a fare ogni mio intento,
el quale in fino a qui me l'ho goduto.
Ma al dir che fai, parso ti è mancamento
a pormi con un vil, non a me pare:
come se a un pari a me, fusti contento.
Tu in questo segui la gente vulgare
la Fortuna incolpando quale abassa
gli iusti, e gli iniusti fa regnare.
D'un maestro siàn tutti e d'una massa
e con equal vertù: bon chi la prende
e nel principio andar via non la lassa.
Nobile è quel che alla virtute attende:
benché a pochi oggi tocchi questa sorte;
di lei sol conto Filostrato rende.
E se riguardi ben per la tua corte,
non è nesun de toi qual più gentile
che questo nobil peso in spalla porte.
Ciascuno appresso lui troverai vile:
e chi 'l dice villano, o invitto re,
villano è lui, e de stirpe più umile.
Ma chi me lo laudò mai quanto te,
per la sua vita glorïosa e bona?
Più che detto non m'hai, n'ha fatto fé.
Se adunque di' che con bassa persona
io me sia posta, mentirai di questo;
se con povero, di': la scusa è bona?
Con tua vergogna el di', come mal presto,
ché un valente omo così saputo ha
mal meritare il patron disonesto.
Ma un don compìto non tòl povertà
di gentilezze e de costumi ornati;
de le qual parti n'ha lui quantità.
Ché molti re son già poveri stati
e molti vili e rustici in più parti,
che richi e grandi poi si son trovati.
Non star dunque in pensier di me che farti,
come dicesti in prima, perché ciò
che fai de Filostrato a me comparti.
Se fatto l'hai morir, morire io vo';
e se noi vorrai far l'officio rio,
con queste mani io me lo exequirò.
A pregarti disposta non sono io:
fa' che la crudeltà regni ora teco,
che non fu mai in giovene desio.
Non spander più queste lacrime meco.
Vattene tra le femene a far prova;
spargile loro e piangi il caso seco;
ché a noi 'l morir sarà la vita nova
DEMETRIO re.
Al re bisogna vecchio esser pietoso
se non de tutti dai almanco d'uno.
Oh caso inopinato e doloroso!
Se da dolermi io ho, pensil ciascuno;
quantunque un più clemente o più magnanimo
non fòra mai de crudeltà digiuno.
Io penso poi quanta fortezza d'animo
ha la mia figlia in le pronte risposte
che fan che manco contra lei me inanimo.
E a tutte le ragion ch'io gli ho proposte,
tanto ben giunte v'ha le sue parole
che par che un anno fa l'abbia composte.
Pur non di manco, sia quel che esser vòle:
a Filostrato toccherà la sorte,
ché amor sempre a l'amaro finir suole
o per longa distanzia o per la morte.
Scena V
ATROPOS e 'l CORO.
Ciascun mal sempre è punito,
e ogni ben remunerato;
serìa me' non esser nato
a chi serve allo apetito.
Spesse fiate quel che piace
è cagion che un mor più tosto.
Questo mondo è sì fallace
che fra il dolce ha amaro ascosto.
Felice è chi gli sta scosto,
e refuta ogni suo invito.
Ciascun mal sempre è punito.
Pò ben dire: - Io vinco el mondo -
quel che pò vincer se stesso.
Se 'l voler cede secondo
che dal senso gli è concesso,
poco vede longi o presso
se gli è tristo o bon partito.
Ciascun mal sempre è punito.
Questo amore è come il sole,
chi ne vòl, ne pòle avere:
ma chi troppo veder vòle
alla vista el fa dolere;
el principio è de piacere,
ma el dolore è po' infinito.
Ciascun mal sempre è punito.
Quanti inamorati sono
giovenetti alle mie mani!
Sia chi vòl, non la perdono;
testimon siano e' troiani,
babilonci e gli romani;
chi n'è offeso e chi perito.
Ciascun mal sempre è punito.
Ecco Panfila dolente:
mal condotto è l'amatore,
per lui fia el coltel pungente
e per lei mesto licore
quando porto gli sia el core
dell'amante per convito.
Ciascun mal sempre è punito.
Giovenetti, or vi guardate:
siavi exempio l'altrui male
a voi, donne inamorate,
fia el lor caso assai mortale.
Perché tosto fia el signale,
alle exequie lor ve invito.
Ciascun mal sempre è punito.
ATTO QUINTO
Scena I
PANDERO, TINOLO servo.
PANDERO.
O crudele spectaculo empio e duro,
crudel comandamento, accerba pena,
da farne per pietà spezzare un muro!
Re, la vecchiezza e non altro ti mena
a tanta crudeltà, ché i vecchi sono
crudi a l'età che Amor tiene in catena.
Non si ramentan de lor tempo bono
che in gioventute hanno avuto d'amore,
come invidiosi avendo perso il dono.
Ma debol far morir su el più bel fiore.
Chi serà più crudel? chi serà quello
che lo suffochi? chi gli trarà il core?
Tenero màmol condutto al macello
da questo falso amor, non altramente
che dal beccato un mansüeto agnello.
O quanto son del caso tuo dolente,
giovane Filostrato, ché la corte
non avea el più fidel né più obediente!
Or tocca a te per amorosa sorte
come sforzato da la gioventute
per la vecchia ira una sùbita morte.
Ma perché pur lo obedire è virtute
agli servi i patron, mal son contento
che l'ore di costui siano compiute.
Non conviene a bon servo esser mai lento
di quanto gli è dal signor comandato,
ché altro facendo, gli serìa tormento.
Pur me ne duole e parmi gran peccato.
Vener, tu vedi che 'l timor me guida:
fa' che sia per pietà da te scusato.
Ma ecco dui de cui più il re si fida,
Tinolo e Pinzia; a lor tocchi gli assunti
di quel che l'ira del re nostro guida.
A tempo siate opportuno qui giunti;
de voi cercando andato son per tutto,
ma sempre al mal preste son l'ore e ' punti.
Filostrato è al suo extremo condutto,
mercé d'amore; al re piace che voi
de morte gli doniate l'ultim frutto.
Legate che gli arete le man soi
lo strangolate, e come el serà morto,
el cor del corpo gli traete poi.
Questo fia bon; su, che 'l tempo sia corto.
Fate pur diligente el vostro offizio
ché 'l core al re tosto de lui sia porto.
TINOLO.
Non già se aspetta a noi tal maleffizio.
Ma poi ch'el piace alla testa regale,
sia maladetto chi fece el iudizio:
a noi forza è ubedirlo al bene e al male.
Scena II
PANFILA sola.
PANFILA.
Quel che felice il mondo molto scrive
no' intende ben quel che la vita importa,
perché quel vive più che manco vive.
Io son vivendo mille fiate morta
doppoi ch'io nacqui; amore è stato il primo
che di tal gusto m'ha fatto la scorta.
Pensando a Filostrato io me delimo
che per mia causa a tanto extremo sia:
molto più questo che 'l mio padre stimo.
E però quel che assai viver desia,
non cognosce i periculi e gli inganni
che gli apparecchia la fortuna ria.
L'età di me è giunta ora a vinti anni,
e mi par esser vissa più di cento,
tanto son vinta da crudeli affanni.
Alcun non stimi adunque esser contento.
Morte dico che è fin d'ogni dolore,
un aspirar de pochissimo vento.
Ma ogn'omo sa che quel che nasce more:
et è a fuggir quel che è sì generale
come a lasar le foglie ciascun fiore?
La nostra è proprio una matteria frale,
un buffo, un fior de estate in mezzo l'erba,
che par bello alla vista e nulla vale.
Dunque la voglia del mio padre accerba
segnala quanto vòl contra l'amante,
ché morte a morir seco me riserba.
Pàrate, core, alla fine constante,
e tu, man mia: ch'io voglio gire al regno
dove è Minos et ancor Radamante.
Tu, Filostrato, fa' firmare il legno,
in mentre che il nochier ti guida in porto,
perché morirò tosto e teco vegno,
ché a questo punto sa che tu sei morto.
Scena III
TINOLO, DEMETRIO.
TINOLO.
Ecco, o re, il cor del tuo servo caldissimo,
qual da per lui con le sue mani avolsessi
el drappo al collo, placato e mitissimo;
ma prima ben tra soi panni raccolsessi,
alciò la gola, e cominciossi a stringere;
per sì, aiutando noi, la vita tolsessi.
Prima el vedemo nel viso depingere
de bianco, e non vermiglio color rendersi,
qual per vergogna un talor suolsi tingere.
Poi da sé stesso el sentimo reprendersi
dicendo: Filostrato, de che dubiti?
Perché alla morte ognun conviene arrendersi.
Et el collo se strinse a mezzo i cubiti
baciando noi e dicendo: Guardatevi
da questi casi sì violenti e sùbiti.
E quando mai d'alcuna inamoratevi,
abbiate a mente a me che a questo termine
condutto sono e per me experti fatevi.
Hai tu mai visto un giovanetto germine
da freddo vento o da pruina tangere,
o per morsura d'affamato vermine?
Tal lui vedemo ne lo aspetto frangere:
poi doppo morte tanto bel vedemolo
che a trargli el cor non femmo altro che piangere.
Io del caso dolente, ahimè!, ancor tremolo.
Fagli a tuo modo vaso o tabernacolo,
poi che sei vendicato d'un tuo emolo.
DEMETRIO re.
Andate alla mia figlia senza obstaculo,
e in questa coppa d'or gli sia portato
quel cor che sempre fu di lei l'oraculo.
Dite: Dal padre tuo el don t'è mandato
per consolarti di quel che più ami,
qual lui de che più amava hai consolato
poi la lassate nei soi pensier grami.
Scena IV
PANFILA, TINOLO.
PANFILA.
E pur non fa Filostrato ritorno!
Quanto anxia è la mia vita, sol pensando
che d'ognora el vedea che correa el giorno.
Morto è. O padre, crudel fusti quando
al fin giunto el vedesti, se un suspire
per pietà non gietasti lacrimando.
Ch'io, che non vi era, el suo aspro morire
tuttavia veggio, e le vermiglie guancie
e 'l color vago e 'l volto impalidire.
Fusse almanco lui morto tra le lancie,
o dai nemici, io con lui similmente,
ché meglio eran giustate le bilancie.
Questo dì solo, alma mia dolente,
ti do licencia a far meco dimoro
per fino a sera, e non più poi niente.
Ma che vòl dire ? el mi par che costoro,
Tinolo l'uno e l'altro Pinzia sia
con non so che in una coppa d'oro.
Serebbe questa la vision mia
ch'io mi feci 'sta notte, che dui cani
aveano un capriolo in lor balìa?
Ma un mi parse più degli altri strani
che nel mezzo lo aperse e col suo morso
gli trasse il core e mel diè ne le mani.
Che questo fesser per tema d'un orso
mi parse, che in balìa a quei lo diede,
e lui non volse pur toccarli il dorso.
Ma io che a' sogni mai non dono fede,
destata, a questa cosa pensai poco;
ma talvolta vien ver quel che un non crede.
Ma, tanto che ai suspir donerò loco
voglio aspettarli qui, pur che gli servi
mi portin cosa che mi torni in gioco.
TINOLO.
O Panfila, Diana ti conservi,
come richiedon gli desider tui.
Scusa di questo dui inocenti servi.
Demetrio rege, Panfila, de cui
figliola sei, ti manda il caro dono
per consolarti come hai fatto lui.
PANFILA.
Non men sepulcro, men ricco e men bono
si conveniva al cor de Filostrato,
per lo cui cor la mia vita abandono.
Bello è il presente che avete portato.
Tornate indrieto e dite al padre mio
ch'egli ha discretamente adoperato.
Sempre di me il mio padre è suto pio
sino a quest'ora; or molto più pietoso,
per quanto a me rechiedeva el desio.
Or de sì rico dono e prezïoso
grazie rendete a lui: el nobil pondo
el quale è fin d'un ultimo riposo,
caro me è piu che non è tutto il mondo.
Scena V
PINZIA, TINOLO.
PINZIA.
Andiam pur via, ch'a me si scoppia il core
per aver visto del rege la figlia
non curar de morirsi per amore.
In bruna vesta, candida e vermiglia:
ne l'uno ho visto, e ne l'altro occhio un sole,
e Amor con l'arco sotto le sue ciglia.
Udite ho le meliflue parole;
fra el riso e il pianto alcun caldo suspire,
come per gran pietà ciascun far suole.
TINOLO.
O mondo traditor, bello è il venire
a visitarti, e quando un molto è stato
gustando el gusto tuo, duolo è il partire.
Panfila disgraziatal O Filostrato,
questa era pur la tua meglior ventura
se da la figlia d'un re eri amato!
Ma la Fortuna che al mal fare ha cura,
sempre è invidiosa, e in questo ha fatto tanto
che a l'uno e l'altro un piacer poco dura.
Ma ecco il re che di dolor par franto.
Salve, re nostro; gli è fatto il presente
che forse ancor ti tornerà in gran pianto:
del qual, vivendo, ne serai dolente.
Scena VI
PANFILA.
Ahi dolce albergo d'ogni mio piacere,
la crudeltate maledetta sia
de chi con gli occhi mi ti fa vedere!
Assai con quelli della mente mia
mi era guardato ognora Filostrato.
Tu hai finito il corso, e corso sia
tal come la Fortuna te l'ha dato,
venuto a fin de le fatiche al mondo.
Ma sia com'esser vuol, tu se' spaciato
e dal nemico proprio, el vaso mondo
e purissimo d'or, per sepoltura
hai che richiede al tuo corpo secondo.
Altro non manca alla tua fine dura
che le lacrime calde de colei
che a l'ultime tue exequie ha sempre cura
(le qual nel'almo crudo i crudel dei
puoser del padre mio - crudore accerbo!
che ti mandasse 'nanzi agli occhi mei):
così dar te le voglio e te le serbo,
el core al desider par che consenta
di lassar questo stato aspro e superbo.
E con chi andar più ne poss'io contenta,
toltami fuor di questo mondo infetto,
che con quel che ancor morto mi tormenta?
Vanne, Filida, e porta quel vasetto
(se mai grato ti fu il farmi servizio)
che è nel coffano d'oro a piè del letto.
O molto amato core, ogni mio offizio
fatto ho, qual ho a far teco; né mi resta
se non di morte l'ultimo supplizio,
e che l'anima mia sì afflitta e mesta
con la tua si congionga; e così passo
lieta questo amplo mar pien de tempesta.
O mondo traditore, adio, ti lasso!
Scena VII
UNA DONZELLA.
DONZELLA.
Già son tre sere che l'uccel ferrale
canta di notte sopra queste mura
che mi par nonzio di venturo male.
Serebbe mai qualche nostra sventura?
ché, benché vano sia a questi dar fede,
non è l'augurio suo senza paura.
El dubio grande al pensar mi richiede;
l'occhio teme al vedere, a udir l'orecchio,
ché spesso giunge un mal che l'uom nol crede.
Io son da Atena, et ho il mio padre vecchio;
come chi el peggio sempre temer suole,
ad udir la sua morte me apparecchio.
Pur sia la volontà di chi fe' el sole;
tutti sian nati al mondo per morire;
più che di questo Panfila mi dole
che ognor, per non so che, vive in martire.
Scena VIII
FILADA.
Se tarda sono stata a te redire,
dona, Panfila, colpa a un novo caso
de qual ne temo a volertene dire
Da l'obedirti il cor sendo suaso,
nel coffano cercando vidi scorto
un scorpïon giacere in cima el vaso.
Pensa che 'l color vivo tornò morto,
e gli occhi come un vel persor la vista;
et ancor quasi il veder leso porto.
Ma io che ad obedirti sono avista,
tornatomi il veder, rimedio tolsi
a far partir de lì la bestia trista.
E tanto quello al dorso gli rivolsi
ch'io el lassai senza vita e venni via,
e del non ti spiacer troppo mi dolsi.
Et ho paura assai, madonna mia,
che questa acqua non sia già atoxicata,
tanto mostrava venenosa e ria.
Perdonami se troppo sono stata,
ché le disgrazie non le compra alcuno;
duolmi s'io non t'ho fatta cosa grata
PANFILA.
Filada cara, non in più opportuno
tempo portar potevi, o meglior sorte,
per fare un de la vita esser digiuno,
questa acqua ove si trova la mia morte.
Scena IX
DEMETRIO re, LITIGIA, PANFILA.
DEMETRIO.
Io non ho bene inteso ogni parola.
Reddi' de nuovo, che non corra fallo:
e che partito fe' la mia figliola.
LITIGIA.
Ella fe' darsi un vaso de cristallo,
penso che vi era dentro solimato,
che non è men mortal che 'l risagallo.
Da lei fu in una coppa d'or votato,
poi missesselo a bocca e in abandono
la beve, qual fa l'acqua un amalato.
DEMETRIO.
Tardo, ahimè! avveduto mi sono
de la mia crudeltà; fuss'io degiuno
d'aver mandato il cruciato dono!
Non mi bastava aver de questi l'uno
posto in captività per fin che l'ira
fusse placata a l'animo importuno?
Ma quel che nel principio ben non mira
a quel che avvenir pò, se 'l fine è poi
cativo, indarno ne piange e sospira.
Panfila ha pur compiuti i giorni soi,
sì come me n'è stato riferito.
Tardi te accorgi, re, degli error toi.
Ché se ben Filostrato avea fallito,
potevi, risalvando el suo errore,
con vera scusa a lei farlo marito,
satisfacendo intanto al tuo onore
de non averla mai rimaritata,
farlo granduca principe e signore.
Ma la mia figlia come inamorata
involta nelle forze de Cupido,
veduta l'ira mia s'è disperata.
Che viva ancora sia, poco me fido.
Ahimè, ch'io la veggio che 'l cor piglia.
Vedova stanza, abandonato nido!
O mia sopra ogni altra amata figlia,
qual pena, dime, così te importuna?
Fa' pur bon core e meco ti consiglia.
PANFILA.
O padre, a più desiata fortuna
le tue lacrime serba e 'l tuo lamento,
perché per me non ne desidero una.
Tu mostri di dolerti, e sei contento
del caso occorso, e sei tu causa stato
ch'io sia condutta a l'ultimo mio accento.
Ma se di quello amor che m'hai portato
ti resta ancor scintilla, abbi piacere
che 'l mio corpo a l'amante sia locato.
Poi che lassàti tu non ci hai godere
l'amore in vita, dovunque el se sia,
posto sia seco el mio corpo a giacere.
El fine è giunto de la morte mia:
e tu, misero cor, meco rimanti.
Adio, padre crudel, l'alma va via.
Valete, donne, e voi, gioveni amanti.
Scena X
Morta PANFILA, et dolendossene il padre, PANDERO confortandolo dice:
PANDERO.
Non esser causa, o re, che i giorni toi
si scemin per dolore, acciò che in breve
la morte non ti toglia ai servi toi.
So ben che duro impaziente e greve
ti è parso adesso el fin di tanta figlia;
tutti moriam; noi siamo al sol di neve.
Vinci te stesso e da te ti consiglia;
forsi che è per lo meglio; lauda el cielo
che non fa cosa senza maraviglia.
Lei fuor si è tolta del terrestre gielo
et ha queste miserie a noi lassate;
atendi a sepellire il morto velo.
Non ti maravigliar se la sua etate
è transcorsa qual fragile alla morte,
ché assai foron come ella inamorate:
la nobil Tisbe venne a simil sorte,
Filis così conducta, e la bell'Ero,
Dido e mille altre gli han fatte le scorte.
Non lo imputar vergogna o vitupero;
ché Amor pò molto più che non si crede;
gioveni e vecchi son sotto el suo impero.
Siane, re, certo, e damme in questo fede:
che vergogna non è un gioven fallire.
Raffrena el pianto, abbi di te mercede
e fa' la tua figliola sepelire.
DEMETRIO.
Questo caso non è da scordar mai
per esserne io im prima causa stato
e che quel che dicesti non pensai.
S'io mi fusse in principio raffrenato,
serìa senza dolor, con la figliola,
e non serebbe morto Filostrato.
O casa abandonata, o casa sola,
o ruinata prole, che fia quello
che serà re de così nobil scola?
Deh, fusse contra me stato il coltello
che allo sgraziato amante aperse il petto,
fusse pur morto il lupo e non l'agnello!
Figliola mia, la qual con tanto affetto
disse: - Per quanto amor mai mi portasti,
fa' che sepulta sia col giovanetto. -
Questo e non altro. Pandero, ti basti:
studia de tòr dove è il giovene occulto
coi membri tristi lacerati e guasti,
e con la mia figliola sia sepulto.
PANDERO.
Al servo buono el qual ama el signore
d'ogni ben suo s'alegra, e così suole
del mal participarne assai dolore.
E però a me come a lui proprio dole
lo inopinato caso e ne pò avere
pena ogni padre che ha le sue figliole.
Ma a chi non doveria el caso dolere,
vedendo dui sì intrinsichi compagni
perder la vita in sul bel del piacere?
Amor, se tu hai pietade, adesso piagni
che hai dismembrata tua nobile schiera,
del che da tutti biasmo ne guadagni.
Quel che in ogni mondan piacere spera,
resta vivendo nel fine ingannato,
ché spesso a mezzo dì trova la sera.
Panfila è morta, morto è Filostrato.
Or vado a apparecchiar la sepultura
in quel modo che 'l re m'ha comandato.
Abbiate, padri, alle figliole cura;
l'exempio avete de dui casi strani.
S'el vi è gustata la tragedia scura
fatene segno battendo le mani.
FINE