Pazzi sulla montagna

Stampa questo copione

PAZZI SULLA MONTAGNA

Commedia in tre atti

di ALESSANDRO DE STEFANI

Rappresentata dalla Compagnia diretta da Luigi Pirandello

PERSONAGGI

ARLECCHINO

DON GIOVANNI CODINA

IL PAPA

SCARPACCIA

IL PROFESSORE

IL MEDICO

IL RAGIONIERE

IL FIGLIO DEL RAGIONIERE

SALVATORE

VIOLETTA

IL CAVALIERE

SUOR ORSOLINA

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

In una casa di salute d'alta mon­tagna. Il gabinetto del direttore nella casa di salute det­ta ce Casa Verde ». Grande tavola. Poltrone. Carte statistiche. Libri. Telefono.

Il professore                  - (parlando al tele­fono) Sarebbe contrario ad ogni procedimento scientifico... Bisogna sempre di­stinguere tra i pazzi e quelli che non sono an­cora pazzi... Buon giorno.

Il Papa                           - I peccatori ei penitenti, figliuolo mio.

Il professore                  - Dicevate, Santo Padre?

Il Papa                           - Tu burli sempre e non t'avvedi che dici verità credendo di dire sciocchezze. E viceversa.

Il professore                  - Siamo tranquilli? Visioni?

Il Papa                           - Fede e carità, non chiedo altro: e tu che sei buon cristiano, figliuolo.

Il professore                  - Io non sono che uno stu­dioso, e credo alle mie formule. Sì... I misteri delle anime, belle cose, ma le giudicheremo quando le avremo risolte, noi. Felix qui potuit rerum cognoscere causas.

Il Papa                           - Amen. (Si fa il segno della croce) Io, quella piccola croce...

Il professore                  - Lo sapete, siete ammalato.

Il Papa                           - Se tu ci tieni...

Il professore                  - Lesione psicopatica: terza fase, sezione B.

Il Papa                           - La croce è di legno. Senza perico­lo. La porterei sul petto.

Il professore                  - Reagire: reagire. Va bene, voi siete il papa, ma non avete mai subito le tentazioni del nemico? Il diavolo può servirsi di molte armi, anche croci.

Il Papa                           - Oh, io sono al di sopra della ten­tazione.

Il professore                  - Ma la vita non vi ha mai lu­singato? Le donne... Eh, voi ne avrete certo co­nosciute... Qualche ricordo biondo...

Il Papa                           - Professore, tu ora sei uno strumento del demonio.

Il professore                  - E tu stai passando ora dalla sezione B alla sezione C. Va.

Il Papa                           - Grazie, brav'uomo. Se è buona fe­de, Iddio lassù la premierà, ed io perdono la croce negata. Pregherò egualmente per te e per la tua pace. (Esce).

Il professore                  - (solo) Inguaribile, inguari­bile: sezione C.

Il medico                       - (entrando) Le relazioni della mattinata.

Il professore                  - Niente?

Il medico                       - Una crisi, la Sutri.

Il professore                  - Ho capito. Chiamava il suo capitano.

Il medico                       - No, no, taceva.

Il professore                  - Non può essere: è un caso accertato di erotomania. Lei si è sbagliato, dot­tore.

Il medico                       - Eppure...

Il professore                  - Irrigidimento muscolare, oc­chi sbarrati...

Il medico .                     - Ma no: creda...

Il professore                  - È così: e basta. Natura non facit saltus. Aria, riposo, carni bianche. E non guarirà mai lo stesso.

Il medico                       - Sono partiti i due infermieri.

Il professore                  - Insieme? E chi li sostitui­sce?

Il medico                       - Torneranno. Per questi pochi giorni Salvatore e il cavaliere: sono docili, ca­rini, come coniglietti. E i malati non sono che otto.

Il professore                  - Va bene. Più tardi farò io la mia visita.

Il medico                       - Non dimentichi gli occhiali. E badi di non andare a destra.

Il professore                  - Perché?

Il medico                       - Perché a destra è pericoloso.

Il professore                  - A destra?

Il medico                       - Sì. Vada sempre a sinistra nella vita. È un consiglio, che le dò io. Consiglio, non coniglio. Del resto lei è professore e può fare come crede.

Il professore                            - Dottore...

Il medico                       - Niente, niente: so quel che mi dico. D'altronde il mio mestiere lo conosco e chi può dire qualcosa contro di me si faccia avanti, se ha coraggio. Arlecchino si lamenta: depressioni e fasi iperattive. Questo clima di montagna non gli deve convenire.

Il professore                  - Lei non si sente bene, dot­tore?

Il medico                       - Oh un po' di ma... ma... mal di capo...

Il professore                  - I suoi genitori hanno certo patito malattie nervose... Capisco. Vada, vada a coricarsi.

Il medico                       - Grazie. (Esce).

Il professore                  - (rimasto solo, dopo un istante, suona il campanello. Tra se) Lo supponevo. Balbuzie. Automatismo. Contagio psichico. Bi­sogna, bisogna sempre distinguere tra quelli che sono già pazzi e quelli che non sono pazzi an­cora.

Salvatore                       - (entrando) Il professore aveva chiamato?

Il professore                  - Bisognerà andare al tele­grafo. Puoi tu?

Salvatore                       - Potrei... Ma non so se...

Il professore                  - (scuotendo il capo) Il me­dico, una crisi: speriamo passeggera. Ma voglio far salire il Carli.

Salvatore                       - In fondo, però, non c'è nessu­no che stia proprio male qui.

(Durante queste battute sarà entrato il ca­valiere, con un pacchetto in mano).

Il professore                  - (al cavaliere) Posta?

Il cavaliere                    - Questi libri... (Guarda Sal­vatore come interrogando) Ma non so se...

Il professore                  - Da' qua. Benissimo... (Apre il pacchetto e sfoglia il volume, parlando quasi sottovoce) Il Despine: finalmente. Ecco: prima classe: demenze d'ispirazione passionale, fal­sa, bizzarra, perversa. Lo dicevo io. Le stesse che Esquirol ha definito monomanie e lipemanie... (Distratto) E tu, Salvatore?

Salvatore                       - Eh, io... io, come io, benissimo. E così spero di lei. Potrei anche andarmene, essendo maggiorenne.

Il professore                  - Ma non hai più nessuno al mondo...

Salvatore                       - Potrei trovare qualcuno. Qui faccio l'infermiere: vuol dire che anche fuori potrei guadagnarmi la vita.

Il professore                  - Memento, memento, homo: e l'attitudine coprofagica dell'anno scorso?

Il cavaliere                    - (che avrà spesso sbirciato dalla porta) Il signor Arlecchino...

Il professore                  - Ah! Caso interessante... in­teressante: ne sto facendo una           relazione per l'I­stituto Superiore di Fisiologia.

Salvatore                       - Oh, per quello, sì: un uomo ve­ramente superiore: sa dire quello che penso io e lei e che magari non diciamo.

Il cavaliere                    - Vorrebbe parlare con lei, pro­fessore.

Il professore ................ - Che entri. Sì: devo anche completare alcune note (Il cavaliere

 Salvatore                      - Era un grand'uomo, nella vita... un attore...

Il professore                  - Da fiera: saltimbanco. (Par­lando come a se stesso) Oh, facoltà psichiche vi­vissime. Lirismomania. Sua madre è venuta quattro mesi fa: una donnetta. Egli non l'ha riconosciuta. Lacune curiose nella sua memoria. Ha nome Pietro Batocci. Lo tengo qui per istudio: mi costa e nessuno paga per lui. (Bussa­no) Entrate.

(Entrano il cavaliere e Arlecchino).

Arlecchino                    - Servitor suo, padrone e pro­fessore, e buon giorno a tutta la compagnia.

Il professore                  - Siedi. Hai detto che volevi parlarmi?

Arlecchino                    - Signor sì: roba seria, privata e di prima qualità. Se lei vuole mandare via questi compari (strizza l'occhio ai due), io ci darò spiegazioni di ogni maniera e sentirà quello che è anche giusto che senta.

Il professore                  - Va bene. Andate, voi. Suo­nerò. Metti questo libro nello scaffale. (Salva­tore e il cavaliere escono).

Arlecchino                    - Benissimo.

Il professore                  - Avrei qualche piccola do­manda da farti anch'io.

Arlecchino                    - La parola a vostra signoria il­lustrissima, per ordine gerarchico fin che la repubblica non cambia governo.

Il professore                  - (consultando alcune sue carte, e prendendo poi appunti) Dove hai comin­ciato tu ad essere Arlecchino?

Arlecchino                    - Nel ventre di mia madre, con licenza e permissione del mio signor padre buo­nanima, che non ho mai fatto la sua riverita conoscenza.

Il professore                  - Naturale. Ma prima ti chia­mavano Piero... Pierin Batocci.

Arlecchino                    - Pierin Batoccio, detto Arlec­chino... da Bergamo e cioè bergamasco.

Il professore                  - Arlecchino, si capisce, per aver visto sul teatro, o alla fiera, qualche farsa con le maschere.

Arlecchino                    - Arlecchino, per esserlo, si­gnor professore.

Il professore                  - Bisognerebbe provarlo.

Arlecchino                    - Mi provi vostra signoria che non lo sono.

Il professore                  - Ma io so benissimo, ho la mia coscienza...

Arlecchino                    - E io ho la mia che, per me, persona prima, vale come la sua, magari anche di più, sempre per mio privato uso e consumo.

Il professore                  - Basta: non è il caso di di­scutere.

Arlecchino .................. - Sì che sarebbe il caso, perché la sfiducia è tutta dalla sua parte. È lei che non crede alla mia identità personale, che sarebbe anche offensivo, e dovrei avere ogni spiegazio­ne, sia pure con il codice cavalleresco, che non conosco ma me lo hanno recitato. Dunque non insisto... Ma, santissimo Gesù, perché, doman­do io, non mi crede? Quando la mia identità, a guardar con benevolenza e talento, è forse più garantita della sua che certo ci ha i suoi bravi documenti dello stato civile, che è uno stato che dovrebbe non offendere nessuno, se è civile. Che cosa è mai un nome? Lei, va bene, mi risponderà quello che ci danno i propri rispettabili genitori. Ma io allora ci ribatto che il nome è solamente l'etichetta della bottiglia col suo anno di vendemmia, e la bottiglia sa­rebbe poi me e lei, e il buon vino quello che abbiamo dentro. Ora, per concludere, è giusto, ed è onesto, che si chiami Barbera quello che poi dentro è Barletta? Lei per esempio ha un nome che io non so, ma il suo vino è profes­sore, dunque lei è professore, e basta.

Il professore                  - Allora il tuo Arlecchino sa­rebbe un soprannome, una specie di professione assunta.

Arlecchino                    - E chi ci assicura a lei che non sia Arlecchino vero, quello originale, l'unico, il principe di tutti gli Arlecchini?

Il professore                  - Ma tu sei vivo, mentre Ar­lecchino è morto da due secoli.

Arlecchino                    - Quando morto? Adagio con le insinuazioni. E quando nato? Ha trovato lei la fossa, la lapide, la polvere? Tutte le sere che recitano una commedia di quelle senza tante parole e con tanti salti e sgambetti e ma­gari bastonate, vostra signoria illustrissima vede Arlecchino bell'e vivo, per due o tre ore, e ci crede e ci batte qualche volta le mani, la dome­nica, se ha mangiato bene. E io solo perché tutta la vita sono il signor Arlecchino, alla luce del sole, invece di battermi le mani, mi dite matto, pazzo, o malato, quando ai matti si par­la con educazione, e bugiardo e mi serrate qua dentro, che non ci sto male, ma non posso an­dar via, allora...

Il professore                  - Scherzi, scherzi di parole.

Arlecchino                    - E va bene: saranno scherzi, ma che a me mi divertono poi mica tanto.

Il professore                  - Rimpiangi la tua vita di fuori ?

Arlecchino                    - Così, così. Il mondo è una commedia che può anche piacere per via che non si sa mai come che la furerà. E poi, una volta, al mare, su una strada con la polvere, un'automobile... roba da ridere... una Colombina: gnanca visto il muso, un velo, accidenti!... la m'ha butta dei fiori, gridando... non ho ca­pito cosa... e ci penso... ma se anche restavo al mare, non la trovavo... Eh! I automobili i va come el vento... El mare el pianze come mi... E i fiori se seca, come lù, signor professore riveritissimo.

Il professore                  - (che ha finito di prender ap­ punti e chiude il fascicolo) Ed ora di tu quello che avevi da dire. Ti ascolto.

Arlecchino                    - Sarebbe una cosa difficile da spiegarsi, ma lei capirà benissimo, per la sua non comune intelligenza. Ecco qua. Noi tutti, i malati di Casa Verde siamo contentissimi si­gnor professore, di lei...

Il professore                  - Grazie.

Arlecchino                    - Cure idiote, ma eccellenti... Bontà... Dolcezza...

Il professore                  - Grazie.

Arlecchino                    - Ma ci sarebbe il papa che vuole la sua croce. Don Giovanni che le donne stessero con noi...

Il professore                  - Ancora?

Arlecchino                    - Tutti hanno ben da avere la sua croce. E io...

Il professore                  - Cosa vorresti tu?

Arlecchino                    - Niente. Io ho detto: è giusto. E siccome la vita la vedo con la maschera, ho anche detto: domandare è balordo perché l'af­fare del grazie io, come io, non lo posso man­dar giù. Allora si prende, si toglie quello che era di nessuno, e diventa proprio.

Il professore                  - E poi?

Arlecchino                    - Ecco: forse sbagliando, non so, ma godo di una tal quale stima da parte dei colleghi, che nessuno, dico nessuno, mette in dubbio il mio nome. Stima, forse, per le fiabe che ci conto la sera. Insomma mi vogliono bene.

Il professore                  - È giusto.

Arlecchino                    - Anche lei mi vuol bene?

Il professore                  - Certamente.

Arlecchino                    - Ma le cose si rangiano subito, allora. Perché noi aspiranti alla libertà, anzi all'indipendenza, abbiamo concluso che, con mille ringraziamenti, per i suoi servizi, per ora basta. E da oggi, al posto suo, sono stato no­minato io. Arlecchin Batoccio, bergamasco.

Il professor                    - Caspita! Era tutto qui quello che avevi da dirmi?

Arlecchino                    - Sì, ma bisognava dirlo, per il pacifico passaggio dei poteri. Capirà: io ho delle idee mie, lunatiche e analfabete, circa il trattamento dei colleghi. Insomma anche lei è d'accordo?

Il professore                  - Sì, sì, va benissimo. Ora puoi andare.

Arlecchino                    - Come, andare? Io bisogna che resti qua. Non è qui il gabinetto del direttore?

Il professore                  - Certo. Ma per il momento... (Suona il campanello).

Arlecchino                    - Io entro subito in funzione. (Entra Salvatore).

Il professore                  - Insomma la commedia è du­rata abbastanza. Salvatore, conduci via Arlec­chino.

Arlecchino                    - Come? Ma allora lei faceva per ischerzo? Mi dispiace, signor professore, ma io avevo più stima di lei.

Il professore                  - Salvatore, via.

 Arlecchino                   - Adagio: Salvatore, conduci via il professore.

Il professore                  - Salvatore, che cosa aspetti?

Arlecchino                    - Giusto: che cosa aspetti?

(Salvatore si dirige verso il professore).

Il professore                  - Cosa fai?

Salvatore                       - Obbedisco.

Il professore                  - A chi?

Salvatore                       - Eh, ad Arlecchino che è il no­stro nuovo direttore a unanimità di voti.

Il professore                  - Una crisi! Anche tu...

Arlecchino                    - No... No... Non facciamo sce­ne commoventi, perché io sono sensibile... E...

Il professore                  - (afferrando il ricevitore del te-telefono) Il telefono...

Arlecchino                    - No, no... Siamo soli: per via della cura ho tagliato i fili. La quiete ha da es­sere senza fili e completa.

Il professore                  - Il medico... Gli infer...

Arlecchino                    - Inutile insistere. Non vorrei usare la forza e...

Il professore                  - Il cavaliere dov'è?

Arlecchino                    - Sta preparandovi il letto.

Il professore                  - Insomma... No: e il medi­co... il medico...

Arlecchino                    - Sì: è guarito. Nessun timore.

Il professore                  - Ma che! È diventato...

Arlecchino                    - Amico mio, non aver paura: guarirai anche tu. Le mie cure... Ma ora, via.

Salvatore                       - Andiamo.

(Il professore si dibatte: entra il cavaliere).

Il cavaliere                    - Buono... Buono... Che dia­mine! Nessuno vi vuol far male.

Salvatore                       - Chi di noi faceva tanto chiasso, prima, per andare a letto?

Il professore                  - Canaglie! (Vien trascinato via: esce con Salvatore e il cavaliere).

Arlecchino                    - (solo) Ecco l'esempio! Chi mai più matto di lui? Matto furioso, da far paura! E solo per aver dovuto abbandonare questa poltrona, che... sicuro, ci si sta proprio comodi! Forse me piase de più far el direttore che el malato. Intanto se taca a suonare i cam­panelli... Tutti i campanelli... poiché scominzia il regno de Arlecchin Batoccio. (Entra don Giovanni Codina).

Don Giovanni               - Ecco, ecco: benissimo. Già al suo posto! Faccio un inchino.

Arlecchino                    - Prego, che si accomodi, mio ex-collega.

Don Giovanni               - Grazie. Dunque, tra amici, come trova la nuova professione?

Arlecchino                    - Eh... Le responsabilità: son uomo de coscienza e de giustizia. Capisco che tutto è da rifare, da cambiar de sana pianta, ma l'importante è de averlo capito. Poi dopo, avendo la vostra compagnia...

Don Giovanni               - Io son qua: signor direttore, disponga della mia collaborazione. Solo non diminuisca la mia dignità, ma è inutile parlar di questo a un Arlecchino come lei.

(Il Papa fa capolino).

Il Papa                           - Posso?

Arlecchino                    - (alzandosi con grande reverenza) Bacio le mani, santità!

Il Papa                           - La pace sia con voi. (Entra Scarpaccia, lo scemo, con una chitarra senza corde, appesa a tracolla; si sdraia in terra).

Arlecchino                    - Mi pare che le personalità de più eminenza sono tutte presenti e io allora me leverei per comunicazioni.

Il Papa                           - Ti ascoltiamo, figliuolo.

Arlecchino                    - Premetto che non bisogna vo­lere da me delle esagerazioni, perché, se anche con tutta quanta la mia buona volontà, io non sarò capace che de fare quello che un uomo, sano de mente e de corpo, può fare. Certo io che non ho mai imbrogliato nessuno, e che voi mi avete dato la vostra fiducia, di cui vi rin­grazio, avete diritto di sapere il programma del­lo spettacolo: ed eccomi qua per questo, dalla testa fino alla coda, il mio programma, tutto vi spiego. Che sarebbe soltanto de trovar la maniera, dentro el nostro piccolo mondo in famiglia, che el mondo grande, ci guardi e dica: Cristo...

Il Papa                           - Non bestemmiare, figliuolo.

Arlecchino                    - Vero: un segno di croce. E dica:... To', to'... Parevano tanti matti, e inve­ce... eh? Matti noi se non si fa come loro.

Don Giovanni               - Approvato. Ma ci vorreb­bero i sistemi. Io domando i sistemi.

Arlecchino                    - I miei sistemi? O bravo! Quand'è che avete domandato al fumo il siste­ma per il quale, venendo fuori dal camino, va in su invece de venire in giù? O il sistema al cielo che oggi è bello e sereno, e combini una passeggiata per domani, ed ecco che si mette a piover la disperada? Il sistema è o di essere amici, o di non essere amici un accidente: se siamo amici, che mi sento onoratissimo, allora io faccio quello che capita, e buona notte. Ba­sta non desmentegarse questo, che chi sona vai davanti a chi bastona, el zovane va davanti al vecio, e i morosi davanti a tutti.

Don Giovanni               - Bravo!

Arlecchino                    - Qua, per esempio, ci sono una montagna di libri. Credete magari che mi li vada a leggere per saper quel che ghè dentro? Gnanca per sogno. E sapete perché non li leggo?

Don Giovanni               - Perché non bisogna doman­dar niente neanche ai libri.

Il Papa                           - Perché in ogni libro c'è un pe­ricolo.

Arlecchino .................. - Ma che! Perché io non so leg­gere. Né leggere né scrivere. E allora dei libri faremo fogo, avendo freddo. E i nostri libri li faremo con le nostre parole, che poi rilegati in una cassa da morto, se va tutti a finir nella bi­blioteca del cimitero.

Don Giovanni               - Lasciamo stare le malinco­nie: che c'è tempo.

Arlecchino                    - Mangiare, dormire, e far, se possibile, dei sogni de gusto. Non pensar a quel che ieri se ghe pensava. E nemmeno de doma­ni, che sarà quel che sarà. Farsi bona compa­gnia, come tanti nemici che se trovano in mare sulla stessa barca, e vien la tempesta, e i gà paura e allor magari i se voi ben.

Don Giovanni               - Ecco la tempesta!

Arlecchino                    - Storie. E adesso voialtri non potete capir gnente, perché non capisco gnan­ca io.

Don Giovanni               - Siamo tutti d'accordo. Ma le donne?

Scarpaccia                     - CuCÙ... CuCÙ... CucÙ..

Arlecchino                    - Eh, le donne, naturalmente, basarghe dove le mete i pie, perché, e mi son omo, ma digo che sarebbe ora de dir anche questa verità, le donne sono la nostra gran con­solazione.

Don Giovanni               - Giusto!

Arlecchino                    - Perché si poderà, mi no so, ma forse diventar onesti e guarir dall'invidia, e far la carità con i soldi della tua scarsella, ma viver senza la donna, no, Cristo, che no se po­derà. Perché se, per accidente, il sole non se le­vasse più qualche mattina, si avrebbe freddo, ma ci si scalderebbe un poco vicino a Colom­bina.

Don Giovanni               - Parole d'oro!

Arlecchino                    - Che se invece manca la Co­lombina, cessa importa più el sole, el mare, le feste, i confetti?

Il Papa                           - Accoglieremo allora in terra con­sacrata i suicidi per amore.

Don Giovanni               - Ma che suicidio: vivere. Vi­vere per l'amore.

Il Papa                           - Figliuoli, non divaghiamo.

Don Giovanni               - No, no: è religione anche questa. E io che sono don Giovanni voglio sia subito chiarito che ogni donna è un tesoro, ogni tesoro un desiderio. E io che mi son visto pas­sare tra le braccia tutto il mondo bruno e bion­do, io che sono don Giovanni, dovrò forse ri­nunciare, imparare la castità? Che cosa hanno fatto le donne di male per castigarle così? Per privarle del loro don Giovanni? A me le divine susine incantate della terra.

Il Papa                           - Grazia! Le mie orecchie! Queste parole! ...

Arlecchino                    - (dando la croce di legno al papa) A voi, la croce, Santo Padre.

Il Papa                           - (baciandola) Iddio sia sempre lo­dato!

Arlecchino                    - E a te, don Giovanni, le Co­lombine. Io curo così i miei malati. Malati di cosa? Di non aver quache cosa. Io ce la do: e guariscono. (Fa per andarsene).

Don Giovanni               - Aspetto qui. È l'ora della mia ricompensa.

Arlecchino                    - (sulla porta) Prima Sua San­tità.

Scarpaccia                     - Cucù... Cucù... Cucù...

(Arlecchino, il Papa e Scarpaccia escono).

Don Giovanni si arriccia i baffi, assume un atteggiamento spavaldo e conquistatore, quan­do entra, timida, esitando, suor Orsolina.

Suor Orsolina -              - Posso?

Don Giovanni               - (tra se) Una suora?

Suor Orsolina                - Non capisco... Questa in­solita libertà...

Don Giovanni               - (tra se) Una suora?

Suor Orsolina                - Mi hanno detto che ci so­no grandi novità e che lei aveva da parlarmi.

Don Giovanni               - Sì... Sieda pure... (Tra se) Dopo tutto, è donna anche lei. Ha diritto ad un po' della mia considerazione. Bisogna esser generosi.

Suor Orsolina                - (sedendo) Grazie.

Don Giovanni               - (dopo una pausa) Lei, forse non sa chi sono io...

Suor Orsolina                - Infatti...

Don Giovanni               - Eppure le donne dovrebbe­ro tutte, dico tutte, conoscere bene il mio no­me: il nome di un benefattore... Mi chiamo... don Giovanni.

Suor Orsolina                - Ah! È prete anche lei?

Don Giovanni               - Prete?... Io? No. Io sono don Giovanni!

Suor Orsolina                - Il mio povero papà si chia­mava Giovanni..,

Don Giovanni               - Non si commuova, signo­rina... Io le posso giurare che non sono suo padre.

Suor Orsolina                - Oh lo so... Non gli asso­miglia. E poi, papà è morto.

Don Giovanni               - Anche il mio. Pazienza!

Suor Orsolina                - Allora siamo orfani, en­trambi!

Don Giovanni               - Già... Entrambi: che com­binazione! E... ha fatto i suoi voti, lei?

Suor Orsolina                - Sicuro.

Don Giovanni               - Tutti?... Al completo?

Suor Orsolina                - Tutti, tutti.

Don Giovanni               - Peccato... Perché invece...

Suor Orsolina                - Che cosa?

Don Giovanni               - No, no. Non ci pensiamo. (Una pausa) Non ci pensare, don Giovanni, non ci pensare.

Suor Orsolina                - Non ci pensiamo... (incrocia le braccia, chinando il capo).

Don Giovanni               - Eppure mi ha veduto... Ed oramai...

Suor Orsolina                - Ma lei si arriccia i baffi, signore!

Don Giovanni               - Sono così, di natura.

Suor Orsolina                - Venga pure più vicino.

Don Giovanni               - Sa... non vorrei... Lei ha fatto i suoi voti.

Suor Orsolina                - Appunto: non ci sono pe­ricoli.

Don Giovanni               - Oh, con me, ci sono sem­pre... Perché, a lei lo confesso, perché lei è invulnerabile, io sono, vede, io sono... irresi­stibile. Non so come faccio... Forse non faccio niente, ed allora le donne piegano il capo, ca­dono fra le mie braccia... Ma questi discorsi... lei, suora...

Suor Orsolina                - Non mi possono turbare. Dica, dica... Si confessi pure.

Don Giovanni               - A Barcellona... oh... l'anno scorso... due sorelle... Ed a Calcutta... una bajadera... due mesi fa...

Suor Orsolina                - Ma lei da quanto è qui, sulla montagna?

Don Giovanni               - Da sei anni, signorina.

Suor Orsolina                - Ah... E che parole adope­rava, signor Giovanni?

Don Giovanni               - Parole? Don Giovanni non adopera parole. È uomo tutto d'azione.

Suor Orsolina                - Dica, dica... Che azione?

Don Giovanni               - Ah no. Rispetto troppo le sue idee.

Suor Orsolina                - (sorridendo) Le mie idee sono al disopra...

Don Giovanni               - Non si fidi... Sono don Gio­vanni... Non c'è niente al disopra della tenta­zione.

Suor Orsolina                - Ma se nessuno mi tenta, perdo il merito di resistere.

Don Giovanni               - E... se poi non resistesse?

Suor Orsolina                - Perché?... Per i suoi baf­fi? Non sono brutti. Ed anche i denti: belli; bianchi...

Don Giovanni               - Non mi guardi così... con quegli occhi...

Suor Orsolina                - - Belli. Non sono belli an­che i miei occhi?

Don Giovanni               - Sì, sì. Ma ci sono i voti...

Suor Orsolina                - E che ne dice, lei che se n'intende, di questa mano?... Della mia ma­no?

Don Giovanni               - Io non dico niente. Non dico niente.

Suor Orsolina                - Ne ha trovate molte di meglio, per il mondo?

Don Giovanni               - Oh... un'infinità.

Suor Orsolina                - No... A una donna biso­gna sempre dire che la sua mano è la più bella, anche se non è vero.

Don Giovanni               - Certamente, madre.

Suor Orsolina                - Io madre?... No: non ho mai avuto figli.

Don Giovanni               - Ma la sua mano è vera­mente la più bella...

Suor Orsolina                - Sì?... E perché non la ba­ciate?

Don Giovanni               - Un bacio?

Suor Orsolina                - Un piccolo bacio... non sulle labbra, sulla mano!

Don Giovanni               - Ecco, non mi resiste nem­meno! E come si fa?

Suor Orsolina                - Mio Dio, si fa!

Don Giovanni               - Ma è orribile tutto questo... Pensi a quel che facciamo... Rifletta... Lei si perde... mi perde...

Suor Orsolina                - Già, già. Basta.

Don Giovanni               - Basta? Completamente... basta?

Suor Orsolina                - Eh sì, Giovanni: ci sono i voti.

Don Giovanni               - Mi avevate fatto sperare... non avete rifiutato le mie premure... il mio affetto... mi pareva... non vogliate ora... io, magari, vi avrei anche sposata...

Suor Orsolina                - Son sposa di Dio.

Don Giovanni               - È vero. Volete che mi uc­cida allora, per voi?

Suor Orsolina                - Grazie. Perché?

Don Giovanni               - (dopo una pausa, impetuosa­mente) Ma... vostro marito, lassù... vi offre una tenerezza come la mia?... Si ammazzerebbe lui, per voi?... Vi bacia le mani, le labbra... come farei io, continuamente?...

Suor Orsolina                - Non so più... non ricordo bene...

Don Giovanni               - Pensate... il giardino... la fontana... il chiaro di luna... e, soli... insie­me...

Suor Orsolina                - Ci penso... Ma vorrei... vorrei...

Don Giovanni               - Vorreste?

Suor Orsolina                - Champagne... musica... ubriacarmi...

Don Giovanni               - No... sono già ubriaco...

Suor Orsolina                - E allora chiamami Lulù!

Don Giovanni               - Lulù?

Suor Orsolina                - Sì, Lulù... Mi piace... Lu­lù... Lulù...

Don Giovanni               - (abbracciandola) Lulù... Oh Dio... Siamo perduti... Viene qualcuno! (Rientra Arlecchino seguito da Salvatore).

Arlecchino                    - Tutto va benissimo. Disor­dine completo. E qui? Il termometro col mer­curio all'ìnsù! Sempre in alto il mercurio. E la polvere? Dove xe la polvere?

Salvatore                       - Polvere?

Arlecchino                    - Piglia la cenere del cami­netto e mettila un po' dappertutto... E rispet­to, per la polvere: è un'idea del Papa che noi polvere siamo... e polvere ritorneremo... Quin­di rispetta i tuoi simili... E se hai le mani spor­che di polvere, non lavarle: offenderesti ma­gari quella polvere che può essere chi sa chi!

Don Giovanni               - (piano ad Arlecchino) Ar­lecchino! Sono il demonio...

Arlecchino                    - Benissimo... Basterà aver un po' de riguardo col Papa...

Don Giovanni               - Sono gentiluomo: demonio, ma gentiluomo. È caduta, là, subito!... Pove­retta!... Spasima d'amore...

Arlecchino                    - Eh... capisco: le donne!

Don Giovanni               - Una suora! E... subito!

Suor Orsolina                - (piano ad Arlecchino) Ar­lecchino... signor Arlecchino: l'ho convertito... vuol entrare in un convento...

Arlecchino                    - Eh... capisco: gli nomini!

Suor Orsolina                - La grazia divina lo ha toc­cato...

Arlecchino                    - Va bene... Il convento è per di là.

Suor Orsolina                - (a don Giovanni) Psst... Pssst...

Don Giovanni               -: Spasima... spasima! Pove­retta! (Escono don Giovanni ed Orsolina).

Arlecchino                    - Lavorare. Ora bisogna lavo­rare.

Salvatore                       - Allora, eccellenza... vuole gli occhiali... la pipa?

Arlecchino                    - No, no... il mio lavoro è un altro: il mio lavoro è de star seduto e de guar­dare...

Salvatore                       - Me?

Arlecchino                    - No. Guardare nessuno. Tu, quando non fai niente, neanche parli, cosa te capita?

Salvatore                       - Diamine, che... mi annoio.

Arlecchino                    - E allora?

Salvatore                       - E allora cerco di fare qualche cosa per non annoiarmi più.

Arlecchino                    - Oh bravo: appunto per ripo­sarti. Dunque la fatica più grande è proprio quella di non far niente. E io lavoro così. Ta­cere. Silenzio. Ecco: comincio a lavorare (Una pausa) Però l'uomo dev'esser fabbricato male: non è buono di non pensare. Star fermo con le gambe, con le mani, con la lingua, va bene... Ma, anche a volere, non è buono a star fermo con il cervello. Le un 'disobbediente che el va per conto suo. Dunque qualcosa non funziona bene qua dentro. Se pensa, anche a non voler pensare. Mi, per esempio, adesso, pensavo che se ti fossi un asino, e mi un cavallo, si avrebbe potuto tirare una carrozza insieme... ed in­vece...

Il cavaliere                    - (entrando) Due signori desi­derano parlare col signor direttore.

Arlecchino                    - Chi sono?

Il cavaliere                    - Non lo so.

Arlecchino .................. - Allora che entrino. (Il cava­liere esce. A Salvatore) Naturalmente li faccio entrare per sapere chi possono essere. (Entra­ no, preceduti dal cavaliere, il ragioniere e suo figlio).

Il ragioniere                   - lo sono il ragionier Carri.

Arlecchino                    - E questo?

Il ragioniere                   - Questo sarebbe... mio figlio.

Arlecchino                    - Ne è sicuro?

Il ragioniere                   - Come sarebbe a dire?

Arlecchino                    - Niente, niente... Se ne è si­curo lei, io non c'entro. Ma la sua visita, sti­matissima sa, stimatissima... a che cosa?

Il ragioniere                   - (guardando Salvatore e il ca­valiere) Ma... ci sono qui degli estranei... Cose delicate, professore.

Arlecchino                    - Appunto... Dica, dica pure... e niente professore.

Il ragioniere                   - (sempre indicando Salvatore e il cavaliere) Preferirei...

Arlecchino                    - Preferisca pure...

Il ragioniere                   - (rassegnato) Posso sedere?

Arlecchino                    - Se non ha qualche infer­mità...

Il ragioniere                   - Eh... io sono sanissimo, io.

Arlecchino                    - Capisco, poveretto!

Il ragioniere                   - Una grande disgrazia.

Arlecchino                    - Già, già... Una bella disgra­zia.

Il ragioniere                   - Credo proprio... il cervel­lo... in disordine.

Arlecchino                    - Lei?

Il ragioniere                   - Per carità... mio figlio!

Arlecchino                    - Meno male.

Il ragioniere                   - Certo... Se si fosse trattato di me, era peggio... Sa, io sono una specie di celebrità... nell'albo dei ragionieri... ho curato tre fallimenti celebri...

Arlecchino                    - Li ha guariti?

Il ragioniere                   - Eh... lei scherza... Ma è un caso pietoso, creda. Questo figlio era il mio or­goglio... studiava... sempre il primo della clas­se... mangiava poco... un vero tesoro. Un gior­no ha cominciato col non ricordarsi più la sua lezione...

Arlecchino                    - Lezione? Sarà stata qualche sempiada...

Il ragioniere                   - Ah, lei è veneto? Certo per uno scienziato come lei... questi studi sembre­ranno futilità...

Arlecchino                    - Veleni. Io sono analfabeta.

Il ragioniere                   - Lei è troppo modesto... Poi ha voluto mangiare, mio figlio... Ma, sa, man­giare terribilmente... E mi ha chiamato vecchio fanale.

Arlecchino                    - A gas.

Il ragioniere                   - Come... a gas? Mi stupisco...

Arlecchino                    - Naturalmente.

Il ragioniere                   - A me, vecchio fanale?...

Arlecchino                    - A gas.

Il ragioniere                   - Io gli ho detto: Ah io sono un vecchio fanale? E giù scapaccioni...

Arlecchino                    - Vizio mentale assoluto.

Il ragioniere                   - Trova, è vero?

Arlecchino                    - Senza dubbio.

Il ragioniere                   - E voleva vestiti rossi... Io che ho sempre professato il nero per princi­pio!

Arlecchino                    - Una vera follìa.

Il ragioniere                   - Allora... posso sperare...

Arlecchino                    - Ma troverà in me più affet­tuoso curatore dei suoi fallimenti. Mio dove­re, mio dovere...

Il ragioniere                   - E il prezzo della diaria?... Sa... non siamo ricchi...

Arlecchino                    - Ma gratis... Cospetto! Alla sua età...

Il ragioniere                   - Lei è... gratis! Ma lei è un santo!

Arlecchino                    - Qualche volta... Ma siamo tutti uomini... Quando se poi giutarse... vo­lentieri... (A Salvatore) Salvatore, conduci il vecchio fanale al n. 18. (Forte) Vada, vada a vedere se la stanza non ci dispiace.

Il ragioniere                   - Troppo gentile... troppo gentile... (Salvatore e il ragioniere escono).

Arlecchino                    - E cosa facciamo di questo giovinetto? È simpatico. Noi parla mai. Ghe xè bisogno de omini cussi nel mondo... cavaliere, accompagnalo...

Il cavaliere                    - Alla porta?

Arlecchino                    - Eh già. Con noialtri tegnemo so padre e credo che basta. E pò, sto qua no gà bisogno de cure. Solo daghe un vestito rosso. Almanco un mantello. Che deve essere una ten­da... da basso.

Il cavaliere                    - Vado. (Il cavaliere esce col figlio del ragioniere).

Arlecchino                    - Ecco... Vorrei savèr se quel zovinotto che non parla mai, el riesse anca a non pensar. Oh; credo che farà carriera tra la gente: il silenzio è d'oro.

Salvatore                       - (rientrando) Il vecchio fanale smania...

Arlecchino                    - E pretendeva di essere sanis­simo!

Salvatore                       - Dice che siamo tutti matti, noi... E che lui, invece...

Arlecchino                    - È savio. Tutti così, i vecchi fanali! Si montano la testa... Spegnilo.

Salvatore                       - È robusto.

Arlecchino                    - Sfido mi: de ferro. Ecco il cavaliere. Ti aiuterà.

Il cavaliere                    - (che è rientrato) C'è una...

Arlecchino                    - Una?...

Il cavaliere                    - Una signorina, sembrerebbe. Violetta...

Arlecchino                    - Violetta? Tutta violetta?

Il cavaliere                    - Oh, giovane...

Arlecchino                    - Allora della nostra famiglia, che venga. E dopo, va' con Salvatore al nume­ro 18. (Salvatore e il cavaliere escono).

(Dopo un pausa entra, elegante, Violetta).

Violetta                         - Si può? Buon giorno! Oh... È lei il professore? Io sono Violetta.

Arlecchino                    - Fortunatissimo...

Violetta                         - Come, fortunatissimo?... Niente altro? Ma è un viaggio che io ho fatto per lei. Per conoscerla personalmente... Io credevo al­meno di trovare il suo entusiasmo...

Arlecchino                    - È venuta a piedi?

Violetta                         - Ci mancherebbe altro... C'è di fuori la mia automobile.

Arlecchino                    - L'automobile?... Ah! lei sa­rebbe quella dell'automobile?... Grazie... Co­lombina, grazie.

Violetta                         - Che curioso modo di parlare ha lei! Io mi chiamo Violetta...

Arlecchino                    - Certo. E creda che... vera­mente...

Violetta                         - No, no. Lei è un po' imbaraz­zato... mortificato. Mi dica la verità. Lei imma­ginava forse che io fossi diversa... Più alta? Più bella? Confessi la sua delusione!

Arlecchino                    - Non capisco bene: ma più alta no, più bella no... Certo le delusioni sono tante.

Violetta                         - Un complimento ed un'imperti­nenza. Avrebbe giurato di pungermi, ora?

Arlecchino                    - Ma io non ho giurato niente, cara Violetta.

Violetta                         - Adagio, adagio... Mi chiami si­gnorina Violetta, la prego. E poi, se lo vuol sapere, anche lei è una delusione. Io mi figu­ravo, non so, che lei dovesse avere negli occhi la scintilla del genio... che il suo aspetto fosse grave, serio... insomma un uomo che non sa­pesse sorridere... altro che per me. Ed invece... Le sue lettere erano lunghe, assai lunghe... ma scritte con una solidità manzoniana e con una calligrafia regolare...

Arlecchino                    - Le mie lettere?

Violetta                         - Se lei permette, le dirò anche che sono state troppe, le sue lettere. Va bene che io sono libera, sola... ma sono sempre una signorina. E le avevo dato l'autorizzazione di scrivermi, ma non con tanta frequenza e con quel tono... sì, compassato, ma chiaro... quasi chiedendo, con eleganza, la mia mano. È vero?

Arlecchino                    - Ecco, signorina, a me mi pa­re che la sua mano non l'ho proprio chiesta... e solo quei fiori in riva al mare...

Violetta                         - Ci siamo capiti. Ma non siamo d'accordo.

Arlecchino                    - Questo me dispiase moltis­simo...

Violetta                         - Lei mi aveva scritto di essere bolognese, e sento invece... Anche bugie, al­lora?

Arlecchino                    - Bolognese? Io sono di Ber­gamo.

Violetta                         - Ma il suo accento è veneto.

Arlecchino                    - L'accento è una cosa, e io so­no un'altra: ecco tutto.

Violetta                         - Qui sono venuta per curiosità... Voglio visitare la casa, vedere i pazzi... e insie­me volevo vedere lei. Fare la sua conoscenza personale.

Arlecchino                    - Io non ho nulla in contrario. Anzi...

Violetta                         - Intanto mi offra un bicchiere di aranciata... Pregandomi di venire a farle visita, lei mi ha scritto che aveva aranciata e cherry-brandy. Dunque vediamo.

Arlecchino                    - Sono proprio dolente. Ma oramai qui siamo privi di tutto... È la cura che vuole così.

Violetta                         - La cura! Lei antepone la scienza alla cortesia. Ma io non sono pazza...

Arlecchino                    - (tra se) Ecco un'altra che si è montata la testa.

Violetta                         - (dopo una pausa) Io, vede, vor­rei essere franca con lei, Il continuare in quest'equivoco mi parrebbe crudele.

Arlecchino                    - Infatti...

Violetta                         - Io sono stata molto colpevole, quando ho ideato quello scherzo l'anno scorso!

Arlecchino                    - Quale? Al mare?

Violetta                         - No, no... Ma va bene: non par­liamo più. La nostra amicizia si è fatta così, per lettera, ed io ho avuto la debolezza di es­sere un po' civetta...

Arlecchino                    - Ma tutte le donne... Ha fatto benissimo...

Violetta                         - Le ho risposto, così, per capric­cio... Ho fatto male, perché lei ha creduto...

Arlecchino                    - Qui la se sbaglia...

Violetta                         - Insomma ha sperato...

Arlecchino                    - Neanche per idea. Mai spe­rato niente...

Violetta                         - Le sue idee di matrimonio? Il focolare domestico ?

Arlecchino                    - Io? Ma io sono contrario ad ogni legame... Il matrimonio? Per carità!

Violetta                         -Cambiata opinione, di già? Ma lei è una banderuola, scusi, sa, professore.

Arlecchino                    - Voleva esser un'offesa? Chia­marmi professore, sì, può essere una mancanza de rispetto. Ma banderuola! Le idee? Ma le xè vagabonde per natura, e pensar sempre allo stesso modo l'è ipocrisia, signorina, o essere 'mummia. Domani forse vorrei le pantofole e gli occhiali. E martedì una barca a vela.

Violetta                         - Anch'io sono mutevole nei gu­sti e nelle simpatie.

Arlecchino                    - Bravissima. Così chi ve amas­se, avrebbe sempre la paura che cambiaste gu­sto, starebbe attento e questo magari farebbe durar l'amore per tutta la vita.

Violetta                         - Ma lei ha sempre dimostrato orrore per...

Arlecchino                    - Io?

Violetta                         - Sì... A lei piace la donna seria, casalinga, operosa...

Arlecchino                    - Mai. Mai. O magari ieri. Oggi non posso miga esser quello di ieri. La don-na oggi deve esser capricciosa e misteriosa. Can­tare. E ridere. Mettere un po' de rossetto in viso, e un po' de nero sui oci.

Violetta                         - Davvero? Mi sembrate più gio­vane delle vostre idee: anzi delle vostre lettere. Non so se vi preferisco così.

Arlecchino                    - Non importa. E mi preferi­reste se vi dicessi che sono pazzo?

Violetta                         - Allegro siete, e scherzoso.

Arlecchino                    - Ghè tanti che dise che son pazzo, il più pazzo di tutti.

Violetta                         - Pazzo d'amore! O volete spa­ventarmi ?

Arlecchino                    - Sarei cattivo allora.

Violetta                         - E poi non ho avuto paura nean­che quando si è spento il motore ed il pilota stava raccomandandosi l'anima a Dio.

Arlecchino                    - Perché io li curo questa gen­te: voglio dire i pazzi. Ma se si misura la sa­lute col termometro del buon senso... io sono più pazzo di loro, de tutti. Ma il buon senso!

Violetta                         - Dicono che sia raro, il buon senso!

Arlecchino                    - Ma se c'è n'è dappertutto! Tra le scoazze, e in tutti i caffè! E, scusate, si­gnorina, conoscete voi una bestia più stupida e cattiva del buon senso?

Violetta                         - Veramente mia madre mi diceva che era uno dei sensi che mi mancava. Ma perché cattiva, se fa andar avanti il mondo?

Arlecchino                    - Avanti? Da che parte? Tocca tutto, e rompe tutto, il buon senso. Ecco, fa come i bambini che vogliono guardar dentro nei giocattoli come sono fatti. E dopo, come se fa a giustarli? Noi, signorina, senio giocattoli che se fa presto a romper, e dopo addio tor­nar come prima. A me, per esempio mi piace un vestito a quadrettini rossi, verdi, gialli, co­me questo gilè, e allora il buon senso mi chia­ma da parte, me fa montar dentro una carroz­za, e via, quassù, ce Ma come, signor buon senso, io non faccio che cose innocenti... vado a messa anch'io... Piango anch'io se mi muore un figlio... batto le mani anch'io ai discorsi politici... tuto come gli altri... E allora? ». Il buon senso mi guarda al di sopra degli oc­chiali... Eh, ha gli occhiali, lui! E mi mostra un pezzetto di carta scritta. «Cos'è questo? Versi, eh? Tuoi? Via, su al manicomio! ». E notate, Colombina, che quei versi non erano miei, non so scrivere, erano del farmacista, che, poveretto, li scriveva di nascosto... e poi, per salvarsi, aveva detto che il colpevole ero io... Siamo amici, col farmacista, non ho mai preso una medicina, ed allora non l'ho tradito. Ho lasciato credere così... E voi, Colombina, è ve­ro?, sposerete quel buon senso... che fa andar avanti il mondo? Avete ragione: capace di essere un marito perfetto. Il solo marito perfet­to, signorina!

Violetta                         - Decisamente preferisco voi alle vostre lettere!

Arlecchino                    - Male, male a dirmelo: è co­me regalare un soldo mato a un povero orbo.

Violetta                         - Perché?

Arlecchino                    - Mai, mai domandare i perché... Bisogna restare così, un poco in ombra... E allora...

Violetta                         - E... voi mi preferite al sogno?...

Arlecchino                    - lo non vi conosco... E vi pre­ferisco a tutto. E quando vi domandassi del vo­stro passato e delle frutta che vi piacciono di più e dei paesi che vi piacciono di meno... rispondeteimi sempre vagamente...

Violetta                         - Non volete la verità?

Arlecchino                    - Non tutta la verità. Guai a volerla conoscere!

Violetta                         - Ecco: mi piacerebbe essere cu­rata da un prò... da un signore, come voi... E chissà... ne avrei bisogno. Credo d'essere anch'io un po' maniaca... Aspetto dalla vita qual­che emozione nuova... e mi par sempre di es­serne alla vigilia...

Arlecchino                    - Ma è la vigilia, tutto! L'emo­zione è dentro. Io per esempio vi guardo... vi ascolto... e... (Di colpo, bruscamente) Perché, signorina, siete venuta quassù?

Violetta                         - Per farvi un piacere...

Arlecchino                    - Avete avuto torto. Io avevo aperto tutte le finestre di Casa Verde al sole. Avevo cominciato a lavorare... a volermi be­ne... ad essere contento... Da cinque minuti, da un quarto d'ora, io sento che la mia pace non tornerà più... Siete venuta voi, signorina... e mi avete fatto ragionare, il che non è bello, signorina... Perché il ragionare, per me, è una malattia, signorina... ed ora io, ecco, sono ma­lato... e la mia malattia siete voi signorina... Andate... Andatevene... Anzi: è inutile: ora­mai siete venuta, restate. È finita. E pazienza.

Violetta                         - Siete come un ragazzo.

Arlecchino                    - Oh lo so.

Violetta                         - Oh, professore! E magari ca­pace di qualunque sciocchezza...

Arlecchino                    - Oh lo so...

Violetta                         - (dopo una lunga pausa) Mi pare che siamo tutti e due contrari al matrimonio, è vero?

Arlecchino                    - Assolutamente.

Violetta                         - Va bene: e allora... io credo che ci possiamo sposare.

Arlecchino                    - Logico. Dove? Qui? Qui ab­biamo il Papa, signorina...

Violetta                         - Io vorrei...

Arlecchino                    - Niente, niente... Usciamo in­sieme di qui. Camminiamo... Troveremo qual­ che monte... Non lo saliremo... Qualche fiu­me... Non lo passeremo... Qualche mare... Ci fermeremo... Una chiesetta... Non domandere­mo neanche il nome del paese... E là, eh?

Violetta                         - Siete un po' poeta...

Arlecchino                    - Per carità! Certe cose non si dicono... Una signorina, specialmente... Ma vor­rei la chiesetta, vicina a un burrone... Per buttarmici dentro... se voi... sapete, ci son tante donne che fanno aspettar i poveri Arlecchini... e io vi aspetterei...

Violetta                         - Mi volete bene?

Arlecchino                    - Anche queste sono cose da non dirsi... Ma come siete bella... Perché poi scegliere me? Ma no, no. Se no, ve lo doman­date anche voi e... no... no... Meglio andare senza sapere... E siccome non so scrivere... vi dispiace che firmo con una croce?

Violetta                         - Non vantatevi.

Arlecchino                    - Non so baciare...

Violetta                         - A questo ci penseremo... Ma qui, la vostra casa... Quando potreste venir via?

Arlecchino                    - Ora, ora... I pazzi non han­no bisogno né di professori, ne di Arlecchini...

Violetta                         - Ma la gente dirà...

Arlecchino -                  - Avremo tempo di ascoltare quello che dirà?...

Violetta                         - Allora... c'è la mia automobile che aspetta...

Arlecchino                    - (dolorosamente) Allora... è tempo di svegliarci, Colombina... Il sogno è du­rato abbastanza... (Dopo un istante) No, per­dio... Se l'è sogno, che '1 duri ancora... Mi no voglio svegliarme un corno! Avanti, avanti... e in punta di piedi per sognare sempre...

Violetta                         - Come vuoi che ti chiami?

Arlecchino                    - Eh... Arlecchino...

Violetta                         - Sei... quasi... per lasciarti un po' di paura, quasi un uomo che mi piace...

Arlecchino                    - Sì? Son quasi un omo che te crede, Colombina.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Don Giovanni è solo, seduto nella patrona del direttore. Entra Salvatore con una cesta: si avvicina a don Giovanni.

Salvatore                       - La provvista: il signore vuole verificare ?

Don Giovanni               - Mai, mai... Sempre fidu­cia.

Salvatore                       - I fornitori mi hanno ricordato che la fine del mese è prossima...

Don Giovanni               - E con questo?

Salvatore                       - Per i pagamenti...

Don Giovanni               - Ah, va bene... Dove te­neva il denaro, il professore?

Salvatore                       - Non saprei... Notizie del si­gnor Arlecchino?

Don Giovanni               - Non ancora. Ma intanto provvedo io. Quantunque abbia tante altre oc­cupazioni... devo prodigarmi, devo prodigar­mi... (Entra suor Orsolina).

Suor Orsolina                - Disturbo?

Don Giovanni               - Mai, mai... C'è della cor­rispondenza... Vuoi occupartene tu?

Suor Orsolina                - Grazie: ti farò da segre­taria.

Don Giovanni               - Benissimo: segretaria! Ti nomino mia segretaria personale. (Salvatore esce con la cesta).

Suor Orsolina                - Davvero dovrei leggere que­ste lettere?

Don Giovanni               - Per carità: butta via tutto: io so già che sono lettere inutili.

Suor Orsolina                - Lo so anch'io.

Don Giovanni               - Lettere d'amore, per me... d'amore, ma non ho tempo. Poverette!

Suor Orsolina                - Io sola, vero?

Don Giovanni               - Non ti illudere, non ti il­ludere: ricorda chi sono io, il mio nome, il mio dovere. Son nato in Ispagna e devo finire pen­tito, in un convento... Ma prima!

Suor Orsolina                - Un convento? Questo: ci sei già.

Don Giovanni               - Ma non sono pentito: non sono ancora pentito per niente. Troppe avven­ture mi aspettano, nel mondo. Troppi amori che non posso tradire...

Suor Orsolina                - Pensi ad altre donne? Non mi ami più?

Don Giovanni               - Devo, devo preparare l'av­venire.

Suor Orsolina                - E il mio sacrificio?

Don Giovanni               - La tua pazzia: pazza sei, pazza di me...

Suor Orsolina                - Ero forse pazza, chi sa!... Sacrifica anche tu la tua pazzia: ho cambiato il mio nome per essere Lulù. Dimentica anche tu il tuo nome...

Don Giovanni               - Mi chiedi l'impossibile.

Suor Orsolina                - Ma sono io che ti ho in­segnato l'amore... Io sola. Prova a ragionare. Ricorda che eri...

Don Giovanni               - Taci. Ragiona tu. Non be­stemmiare. Io ti ho insegnato tutto. Io ti ho corrotta, suora. Eri pura come un altare. Ti ho profanata. Non hai saputo resistermi. È giu­sto. Non potevi. Io ho tutte le colpe, tutti i vizi...

Suor Orsolina                - Iddio vede e ode. Iddio giudica. E io pagherò per te. (Si fa il segno della croce) E così sia. L'inferno io, pur di salvare te.

Don Giovanni               - Non mi sfuggire: non ti pen­tire... Pensa alle delizie della nostra carne... All'estasi notturna... Alle parole che non han­no significato. Ai sospiri... Un'ora, un attimo, insieme, vale più dell'eternità.

Suor Orsolina                - Come sai, ora, parlare d'a­ more!...

Don Giovanni               - È il mio mestiere, l’amore.

Suor Orsolina                - Ma chi ti guarda bene... i miei occhi no: ti vedono sì, ma io dico ai miei occhi che sono bugiardi, e sei bello, forte...

Don Giovanni               - Infatti!

Suor Orsolina                - Ma le altre donne crede­ranno alle bugie degli occhi loro: crederanno che il tuo naso sia... lungo...

Don Giovanni               - No.

Suor Orsolina                - ...i tuoi baffi fuori di moda...

Don Giovanni               - Calunnie!

Suor Orsolina                - ...il tuo parlare pieno di vanità.

Don Giovanni               - Orsolina!

Suor Orsolina                - No... tutto questo io non lo so... non lo capisco, non lo vedo, ma chia­mami Lulù!

Don Giovanni               - Io ti chiamo Lulù, ma... non è gentile quello che tu mi hai detto. Va bene, sei gelosa delle altre donne, hai paura... ma non è gentile... soprattutto... perché   (esi­tando) da quando tu mi trovi tanto bello... io mi guardo nello specchio... e...

Suor Orsolina                - E?...

Don Giovanni               - No: Don Giovanni, non dire queste cose!

Suor Orsolina                - A me? Ti amo, dunque non le capirò...

Don Giovanni               - Mi trovo... nello specchio s'intende, un po' meno bello...

Suor Orsolina                - Sono anche i tuoi occhi che dicono le bugie!

Don Giovanni               - Naturalmente! Illusione! Ma mi pare che... davvero, il mio naso... i miei baffi... Insomma, una volta, mi piacevo molto di più.

Suor Orsolina                - Una volta piacevi a te... Ora piaci a me.

Don Giovanni               - Ed anche i ricordi... le mie glorie... faccio fatica a ricordarle... Mi ricordo odiasi solo di te!

Suor Orsolina                - E mi vorresti lasciare?

Don Giovanni               - Non oggi, non subito... Ma il mio dovere!

Suor Orsolina                - Ma se io... io ti ho sedot­to, povero don Giovanni, per convertirti, per ricondurti a Dio. Io ho usato le sole armi che potessero con te. E tu non puoi lasciarmi, né corrompermi. Mi seguirai davanti alla croce... Volerai tu, per merito mio, per il mio sacri­ficio, davanti a Dio, tu, tu solo...

Don Giovanni               - (tra sé) Una crisi di misti­cismo. Non ho vinto ancora la sua fede. An­cora, ancora il mio fascino... (Forte) Ma da­vanti a Dio, ci ameremo ancora?

Suor Orsolina                - Sì... sì... (Tra sé) Ancora la manìa dell'amore. Lo salverò, lo salverò... anche se io mi debba perdere.

Il cavaliere                    - (entrando) Arlecchino... il signor Arlecchino!

Don Giovanni               - Arlecchino! Gli sposi...

Salvatore                       - (entrando) Evviva il nostro di­rettore! Evviva gli sposi! (Entrano Arlecchino e Violetta).

Don Giovanni               - I miei omaggi... Benve­nuti!

Arlecchino                    - Amici miei, commosso, sono commosso... e ve presento la mia dilettissima sposa...

Don Giovanni -             - Riverita, riverita... (Suor Orsolina fa una riverenza).

Violetta                         - Grazie. (Ad Arlecchino) Chi sono?

Arlecchino                    - Amici, amici, amicissimi... E qua tutto bene?

Don Giovanni               - Non mancava che lei, si­gnor direttore.

Arlecchino                    - Allora, megio de cussi no la podaria andar... Salvatore, via, a prepararme l'appartamento! Primo piano. Tu, cavaliere, porta su la roba che xe resta nella macchina: e il numero 11 per il nostro chauffeur. (Sal­vatore e il cavaliere escono).

Don Giovanni               - Felicità assoluta?

Arlecchino                    - Assoluta, assolutissima, arciassolutissima... Almeno... signora moglie, di­ca leil

Violetta                         - Felicità.

Don Giovanni               - Vede, signor direttore, a che punto arriva la mia amicizia! Sua moglie è donna... ed è carina. Eppure io non le farò la corte. (Tra sé) Cose che si dicono... Poi, all'occasione...

Violetta                         - Oh potrebbe anche farmi la cor­te: tempo perduto, ma forse perduto bene, si­gnor... signor...

Arlecchino                    - È uno dei miei pazzi.

Violetta                         - Ah... ma allora...

Arlecchino -                  - Nessuna paura, Colombina: siamo tutti inoffensivi, e in telle nuvole. (Pia­no a Violetta) È don Giovanni. Dice di essere irresistibile... non pare: a vederlo. Ma ci si da­rebbe un dispiacere a non crederci, e allora basta crederghe! È felice!

Don Giovanni               - (a Violetta) Vi presento la mia ultima conquista: una suora.

Arlecchino                    - (piano a Violetta) Ora ha tro­vato una donna che ghe voi ben, sul serio... e, scommetto, el sarà un poco manco felice: el scominzierà a dubitare di essere don Giovanni!

Don Giovanni               - (ad Arlecchino) E dove sei stato, eccellenza?

Arlecchino                    - Viaggio di nozze. Ma sedete anche voialtri.

Violetta                         - (piano ad Arlecchino) Sono ma­lati... e...

Arlecchino                    - Appunto: io li tratto così... come fratelli. Oh, vedrai, simpaticissimi.

Violetta                         - Tutti liberi?

Arlecchino                    - Meno uno.

Violetta                         - Furioso?

Arlecchino                    - (a don Giovanni) Ancora fu­rioso, el mato?

Don Giovanni               - Idrofobo!

Arlecchino                    - Ma gli altri, tutta brava gen­te. In fondo, perché pazzi? Perché laggiù da­vano fastidio.

Violetta                         - Ingiustizie? Ma tu dovresti ri­mandarli...

Arlecchino                    - Dove? Laggiù sarebbero dis­graziati. I saria differenti: e tutta la storia' con­siste in questo: esser differenti. Sassi contro de loro, e sberleffi. Qua siamo in famiglia. Perché mandarli via?

Violetta                         - Ma... e noi?

Arlecchino                    - Bisognerebbe esser come lo­ro... per viver bene. Ma siamo... siamo.

Violetta                         - Pazzi?... (Piano) D'amore?

Arlecchino                    - De tutto. Non ci siamo perfin sposati ?

Violetta                         - Allora al mondo non saremmo noi soli...

Arlecchino                    - Sì: ma i altri, de solito, sono pazzi un giorno solo, quel giorno. Pò i se pente. E i fà pace col buon senso. E allora possono re­star laggiù, sposati, ma in penitenza. Noi in­vece...

Violetta                         - Tutta la vita...

Arlecchino                    - Chissà! Magari anche... e al­lora su, a casa nostra, in manicomio!

Violetta                         - Quasi, mi fai paura...

Arlecchino                    - Perché ci pensi: non pensarghe, e ridi.

Suor Orsolina                - (a don Giovanni) Vedi, come si amano, quei due...

Don Giovanni               - S'illudono di amarsi: inve­ce noi... noi soli...

Suor Orsolina                - Io sì... Tu no...

Don Giovanni               - Cioè io, io solo.

Arlecchino                    - (a Violetta, indicando Suor Or­solina che esce con don Giovanni) Vedi quella suora?

Violetta                         - Quella suora?

Arlecchino                    - Dicono che fosse una donna... da marciapiede...

Violetta                         - Oh: non pare...

Arlecchino                    - E a forza de far pecai che ma­gari non la gaveva l'anima cativa, ma nessun ghe ne importava un corno, la1 finio in con­vento...

Violetta                         - Dove? Quale convento l'ha rice­vuta ?

Arlecchino                    - Quello della sua testa, e del suo cuore. Non basta? E allora, qua, anca eia, con noialtri... E noi se ghe crede, e tutto va' benon, ed io scommetterei che la va a finir in Paradiso, quella tosa. Perché lassù, almeno si spera, ghe sarà qualcuno in bona fede.

Voiletta                         - Strano! Strano... (Una pausa) C'è un pianoforte, qui?

Arlecchino                    - Ghè xe tutto. Naturalmente no l'è un pianoforte come quello che gera in quella camera dorata, laggiù... El nostro l'è un poco diverso e più grande. L'è verde... fatto de alberi, e lo sona el vento...

Violetta                         - Un bosco?

Arlecchino                    - El nome conta poco: e ghe ze l'usignolo che '1 fa da tenore. E qualche vol­ta la marcia funebre del cuculo. Tutto: qua ghe xè tutto.

Violetta                         - Ci sei tu.

Arlecchino                    - Per passar el tempo, ghè da contar le nuvole che passano con tanti visi che le par bestie o angeli del paradiso... ghè da far la carità ai passeri...

Violetta                         - Ma non credi che saremo un po' troppo soli?

Arlecchino                    - Colombina mia, in do, no se xe mai soli. E poi gabbiamo anche la nostra corte, tutta di pazzi, ma sopraffini: e ai tuoi or­dini. Ti podarà farme engelosir con chi te voi... E scampar quanto te piase, se un bel giorno... no brutto, se un brutto giorno ti sarà stufa.

Violetta                         - Fuggiremo insieme, allora.

Arlecchino                    - No. Mi, de quassù, non me movo più. Ho rivisto la zente, che tutto el dì la cammina, la cammina, la parla, la mangia, la dorme, e la more. E con tanto da far, m'è parso che tutti lazo, i se stufa, anzi che i fa tanta fa-diga solo per non incorgerse quanto che i se stufa. E anca mi, una sera, ho sbadigliato. No, no, guai: credo che lazo me vegneria el mal che hanno tutti, de aver paura de morir. E ma­gari gavaria invidia de quei più ricchi, o de quei vestidi megio. E voleria saver leggere e scrivere. Tutte le robe più pericolose. Qua invece gnente: qua se sta bene. E nessun proibisse de esser tranquillamente, beatamente pazzo.

Violetta                         - Mi pare che tu, con me reciti una commedia che mi piace, ma...

Arlecchino                    - Anca ti, te voi conosser l'au­tore della commedia? Saver se el sente quelo che el dise? Ma basta che le lo senti ti che te ascolta.

Violetta                         - Ma... e se tu... lo dico per scher­zo, ma se tu fossi pazzo davvero?

Arlecchino                    - Non te lo direi. E tu non lo sapresti. Ti ga sentio nessun, Ìsl zò, che dizesse de esser matto? Nessun: perché i xe mati sul serio.

Violetta                         - Da qualche tempo, da quando siamo fuggiti, insieme, vivo non so, come ub­briaca... tu parli, e io mi lascio persuadere alle cose più assuride... senza eserne persuasa... ma così, perché mi piace, mi piace tutto. Perfino tu che dici di non saper leggere e scrivere... e quel­la croce sul registro del matrimonio...

Arlecchino                    - E quelle dei cimiteri? Forse che tutti i morti no i saveva ne lezer ne scrivere? '

Violetta                         - Mi hai stregato... E credo che tu non guarirai mai un pazzo, con le tue idee...

Arlecchino                    - Lo spero bene.

Violetta                         - Ma farai impazzire qualche sa­vio... o savia...

Arlecchino                    - Non son Dominedio... Son sol­tanto Arlecchino.

Violetta                         - E questo chi è? (Entra il papa, seguito dal ragioniere e da Salvatore).

Arlecchino                    - È Sua Santità... Baciagli la mano...

Violetta                         - Ma... scusa...

Arlecchino                    - È Sua Santità, ti dico... Ba­ciagli la mano... Piano, a Violetta). Uno della famiglia. (Violetta, dopo un attimo di esitazio­ne, bacia la marno al papa).

Il Papa                           - Figliuola, sei venuta quassù per trovarmi?

Violetta                         - Veramente, sono con mio ma­rito...

Il Papa                           - Brava, brava... Segui sempre il consorte. Ubbidiscilo. E ringrazia Dio di averti dato un compagno di anima nobile e di cuore pio...

Violetta                         - (quasi suo malgrado) Sì, Santo Padre... Ma no! Che cosa dico?

Arlecchino                    - (a Violetta) Perché se ti ghe credi senza voler? Perché non credere? (Forte:) E il ragioniere come va?

Il ragioniere                   - lo? Benissimo, grazie. Ho fatto fallimento: e sto adesso curando il mio caso, con l'aiuto del medico, s'intende, che è una degna persona.

Arlecchino                    - (a Salvatore) Come sta il me­dico ?

Salvatore                       - Sempre in salute, ed amico no­stro, e suo, eccellenza.

Il ragioniere                   - Si figuri, eccellenza, che sono proprio guarito: non ho più lo stomaco... ne i polmoni... né il cuore: niente. Sono vuoto. Ho fatto un inventario completo di quello che mi disturbava. Se lei lo vuol vedere?

Arlecchino                    - Grazie, grazie.

Il ragioniere                   - Posso proprio dire di essere trasparente. E due più due... vostra eccellenza sa quanto fa?

Arlecchino                    - Ma!

Il ragioniere                   - (con un sorriso di malizia) Zero.

Arlecchino                    - Benissimo! E tre più due?

Il ragioniere                   - Zero.

Arlecchino                    - Guarigione, guarigione com­pleta! Dormi bene, la notte?

Il ragioniere                   - Oh! Una volta mi svegliavo di soprassalto: avevo paura dei ladri, del tem­porale, dì tutto. Ma adesso no. Sono tranquillo. Do metà del mio pane a quei pesciolini rossi che ci sono nella vasca...

Arlecchino                    - (tra se) Perfino un ragioniere! (A Salvatore): E il professore?

Salvatore                       - Sempre grave.

Arlecchino                    - Puoi condurlo qui?

Salvatore                       - Siamo in tre: col medico e il cavaliere. Proveremo. (Salvatore esce).

Arlecchino                    - (a Violetta che, nel frattempo, ha parlato piano col papa) Ora vedrai il paz­zo... Che, ti confessi?

Il Papa                           - (od Arlecchino) Anche tu, figliuolo mio ringrazia la divina Provvidenza: hai tro­vato una sposa degna. Sarà il sorriso della no­stra montagna.

Violetta                         - No... Sono una povera creatura, io... non so...

Arlecchino                    - Ti xè forte e straordinaria... Ti gà letto tanti libri... e ti gà savuo dismentegarli... Ti gà visto molta gente... E ti xè re-stada...

Violetta                         - lo. Son rimasta io, no?

Arlecchino                    - E noi xè un miracolo? Guar­da, ecco el mato furioso. (Entra il professore, con la camicia di forza, tenuto da Salvatore, il cavaliere ed il medico. Violetta, spaventata si stringe vicino ad Arlecchino).

Violetta                         - Oh Dio!

Il professore                  - Non è ancora finita questa farsa?... Questa farsa atroce?

Violetta                         - È davvero spaventoso.

Il professore                  - La gente non s'è accorta an­cora di questa infamia?

Arlecchino                    - Beneditelo, Santo Padre!

Il Papa                           - (benedicendo il professore) In no­me del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!

Il professore                  - Ah... me la pagherete... Redde rationem! Sei mesi di camicia di forza a tutti... a tutti... Anche il medico! Lei, dot­tore?

Arlecchino                    - (a Violetta) Si crede il diret­tore...

Il professore                  - Ma lo sono! Lo sono, disgra­ziato! E appena libero...

Arlecchino                    - Se tu fossi più calmo, saresti già libero. Vedi che noi semo tutti liberi!

Il professore                  - Pazzi! Pazzi! E mi vorreste pazzo come voi?

Violetta                         - Sì... tranquillo, come noi...

Il professore                  - Tu chi sei? Non ti conosco. Ne prendono anche dei nuovi, questi miserabili!

Violetta                         - No. Io sono la moglie del pro­fessor De Santi...

Il professore                  - Eh? Mia moglie?

Violetta                         - No. Non sono tua moglie: sono Violetta...

Il professore                  - Violetta? Eh?... Ma'.

Violetta                         - Non aver paura: aiuterò mio ma­rito a curarti... curare tutti voi. Saremo amici, se non farai più tante smanie!

Il professore                  - Violetta? Ah... Ma' anche la fidanzata mi hanno preso...! La mia moglie!

Violetta                         - (con un sospiro) Poveretto! Que­sto è proprio pazzo... E credo che sia difficile guarirlo!

Arlecchino                    - È il solo così.

Violetta                         - Che peccato!

Il professore                  - Ma che pazzo! Sono il solo savio... il solo... Io! Mi hanno fatto prigio­niero...

Violetta                         - Sì, sì, ma noi rimedieremo...

Il professore                  - Tu... Lei... Ma lei... Vio­letta! Anche lei impazzita?

Violetta                         - Tutti così: credono pazzi gli altri. (Ad Arlecchino): E che cura gli fai?

Arlecchino                    - Pazienza. Aspetto.

Il professore                  - (minacciosamente) Anch'io aspetto.

Arlecchino                    - Il ragioniere era lo stesso: furibondo. Ora, hai visto, è guarito. Lo secondo nella sua manìa. E anche a questo ghe lasso creder che '1 sia el professor De Santi.

Il professore                  - Ma lo sono, furfante!

Violetta                         - Sì, professore...

Il professore                  - La vedremo, Arlecchino... E tutti, la vedrete... E allora, vae vietisi Verrà il giorno...

Violetta                         - Verrà, verrà... ma sta buono, professore...

Il professore                  - Ma non vi ricordate quando vi scrivevo che il sole si levava alle cinque e quaranta...?

Violetta                         - (tra se) Alle cinque e quaranta?

Arlecchino                    - (a Salvatore) Conducetelo in camera.

Violetta                         - (ad Arlecchino) Ma era la tua manìa di comunicarmi sempre ogni giorno quan­to durava il sole...

Arlecchino                    - L'ho perduta.

Il professore                  - ... e quando vi scrivevo che il termometro segnava quattordici centigradi...?

Salvatore                       - Via, via... Con noi... (Salva­tore, il medico e il cavaliere conducono via il professore).

Il Papa                           - Poveretto! Bisogna pregare per lui!

Violetta                         - (tra se) Ma come può sapere quel pazzo? Cinque e quaranta... Quattordici centi­gradi...

Arlecchino                    - Te gà sconturba la vista de quell'omo?

Violetta                         - Un poco.

Arlecchino                    - Lo so: le doloroso veder tanti infelici! Ma forse le magari necessario.

Il Papa                           - Sia fatta la volontà di Dio!

Arlecchino                    - Ringraziemolo noialtri de non esser cussi disgraziai... (Rientra il medico).

Il medico                       - (ad Arlecchino) C'è la vecchia Saresti che sta morendo... La fine.

Arlecchino                    - Oh, so contento, poveretta!

Violetta                         - Come?

Arlecchino                    - La pativa tanto. La sua gera una pazzia fora de posto. Mi lo savevo da tanto tempo... Se sentiva i so lamenti...

Il medico                       - Dolori immaginari: spasimi atro­ci per piaghe che non aveva.

Arlecchino                    - Ma la se immaginava de aver­le: e allora la credeva de patir, e la pativa... Che la xè la stessa roba.

Violetta                         - Ed ora?

Arlecchino                    - Ho tanto prega, a so tempo... e anche il papa, che el Signore la clamasse a sé, la liberasse... Ed ora finalmente! Vegno, ve­glio, dottore. Un momento, Colombina... (Ar­lecchino e il medico escono).

Il Papa                           - (dopo una pausa). Che hai fi­gliuola?... A che pensi?

Violetta                         - Ho dei dubbi... dei dubbi as­surdi...

Il Papa                           - Armi del demonio, i dubbi: sono le armi del demonio. (Entra don Giovanni).

Don Giovanni               - (un po' agitato) Arlecchino? Dov'è Arlecchino?

Violetta                         - Ora verrà... Ma insomma... Que­sto Arlecchino...

Don Giovanni               - Vostro marito, signora... vo­stro marito... Ci sarebbe da comunicargli...

Violetta                         - È... è troppo stravagante for­se... e...

Don Giovanni               - Uomo eccellente... Natural­mente non ha il mio fascino... Ma voi non do­vete fare confronti; lui è vostro marito. Lo avete scelto. Siategli fedele. Non sarò certo io che vi dirò...

Violetta                         - (al papa) Santità... No... Cioè insomma...

Il Papa                           - Confidati, figliuola, aprimi il tuo cuore!

Violetta                         - Non so, non so neanch'io... (En­tra Salvatore affannato).

Salvatore                       - Il direttore... il direttore dov'è?

Violetta                         - Quale direttore?

Salvatore                       - Arlecchino!

Don Giovanni               - (a Salvatore) Venivano pro­prio qui?

Salvatore                       - Qui, qui...

Don Giovanni               - Allora: bisogna chiamarlo: Arlecchino!

Arlecchino                    - (rientrando) Eccome qua. La povera vecia ghe n'avarà per un poco ancora, dise el dottor... Ma cosa ghe xè?

Salvatore                       - Signor direttore! Ho paura... Anzi... La guerra!

Arlecchino                    - I mati ?

Don Giovanni               - No, no: qua. Noi.

Arlecchino                    - Come? Chi?

Salvatore                       - Quando sua eccellenza aveva or­dinato, sa bene, abbiamo tagliato i fili del te­lefono... E certo preoccupati di questo silenzio... dalla città...

Don Giovanni               - Io poi ho buttato via tutte le lettere senza aprirle...

Arlecchino                    - Ma chi?

Salvatore                       - Eh... gli uomini: gli altri...

Arlecchino                    - Dove sono?

Salvatore                       - Giù.

Arlecchino                    - Quanti?

Salvatore                       - Una dozzina...

Don Giovanni               - Oh di più, di più... Li ho visti!

Salvatore                       - Due carabinieri...

Arlecchino                    - Che hai fatto?

Salvatore                       - Ho sprangato il portone grande.

Violetta                         - (tra se) Ma allora... (E rimane taciturna, livida, spettatrice di quanto accade).

Arlecchino                    - (convulsamente, cominciando a smarrirsi) Eh sì... eh, sì sì... aggressione, aggressione, i xe qua... sono venuti... sono ve­nuti... e noi...

Don Giovanni               - Pensate alle conseguenze di una guerra e...

Arlecchino                    - (a Violetta) Siamo aggrediti... semo serai dentro che no sarebbe gnente, se noialtri se potesse star dentro, e lori restar fora, ma lori i voi vegnir dentro: dentro anca lori... (Entrano Scarpaccia, suor Orsolina, il medico e il cavaliere).

Il cavaliere                    - Sarebbe vero?

Suor Orsolina                - Arlecchino, come mai?

Il medico                       - Dunque è vero?

Arlecchino                    - Eh come... come...? Cussi: vero, vero, verissimo, fin troppo vero... Che avesse pò duo mi, no saria vero un accidente, ma i xe lori... lori... eccoli... (Battono alla porta internamente) I xe qua, qua, in persona... in sostanza... Eccoli! Dio benedeto, cossa go fato per sto castigo?

Violetta                         - (lentamente, quasi a se stessa, in­terrogando) Un inganno...?

Arlecchino                    - No, cara... no... ti adesso ma­gari ti credi...? Eh, sì; ti ga rason... ma mi no te go imbroiada... no, veh! no... (Agli altri) Sì... sì... bisogna difendersi con tutte le armi... in ogni modo...

Don Giovanni               - Non abbiamo armi.

Arlecchino                    - (che continua a parlare durante le battute degli altri: a Violetta) Le per ti, Colombina... per mi no me importa gnente, e forse anca i altri... in fondo, semo abituai... e allora... ecco, i bate... Mi tornerò a far el mato, se i ghe tien che sia mato... per mi no... per mi no go paura...

Suor Orsolina                - Non bisogna arrendersi...

Don Giovanni               - Tu fai presto a parlare... sei donna e non hai obblighi militari.

Arlecchino                    - (a Violetta) Ma ti, Colombi­na... Colombina.,, ecco, adesso, cosa te penserà mai de mi? Le pezo de sti colpi... le quel che me fa mal, mal, quel che te pensa de mi... Co­lombina... (Agli altri) Difesa... difesa... Non bisogna lassarli entrar! (A Violetta) No... no, mi no te go mai dito busie... te xè stada ti a creder... Ti, a quelle lettere, no ti ghe volevi ben... e mi invece sì... mi no ghe somejavo a quele lettere... e allora... mi, Arlecchin, te go sempre dito de esser mato... mato... balordo... più mato de tuti, ecco, e l'è vero, mato, mattis­simo... che ho poduo creder che la podesse du­rar... matto, stupido, ignorante, nato d'un can... Ma lori, lori... che i vien quassù a desfarme tutta la vita... e la tua, la tua... perché xe la tua che i rovina, Colombina... lori... E ti te ga paura, lo vedo... ti no te me voi più ben... oh... ma... (Agli altri) No, eh? I sentirà chi che xe Arlecchin... (A Salvatore) Ti e il cavaliere, zo... tutti mobili della portineria... contro al porton... a far le barricate... Noialtri qua... (Sal­vatore e il cavaliere escono).

Arlecchino                    - (continuando, ansimante, a Vio­letta) No, sastu, no: non l'ho fato per mali­zia... ma cussi, me pareva che anca ti te fossi contenta, e mi lo giero tanto... mi ghe somejavo al to Arlecchin che te gavevi in tei cor... ti te ghe some java alla mia Colombina... e allora... semo andai... Ti no te ghe voleva ben al nome, vero?... Ti te me voleva ben a mi, in persona?... E allora... (Al medico) Dottor, dottor... Noi ga dei veleni... veleni fulminanti, disperai... de strage? Dei veleni.

Il medico                       - Ma non li vorranno mica bere...

Arlecchino                    - (o Violetta) Colombina, vardeme, vàrdeme... Dime quel che se ga da far... Senti come che i bate, i bate... i bate su noialtri do, Colombina... I ne voi copar... Go paura, Colombina: paura, paura, paura per ti... per ti... e perché no posso...

Don Giovanni               - ... decida Arlecchino!

Arlecchino                    - Sì... ho capio... vegno mi, re-spondo mi, me incarico mi. (A Violetta) Colom­bina i xe tanti, no ti ga sentio? Ghe xe anca do carabinieri... I xe i de più, nel mondo... per questo serimo scondui quassù... ma i xe vegnu-di anca qua... i xe in de più... noi semo in pochi...

Il medico                       - Arlecchino! Arlecchino!

Arlecchino                    - (ai compagni) Vegno... Ho dito che vegno, sacripante! (A Violetta) Dime ti, fasso quel che te voi ti... Ma, credime, Co­lombina te vogio ben... tanto! E no creder che abia fato anca mi, come lori, come i omeni che i se mete in maschera per parer diferenti... per meterse le pene del pavon... Mi no, mi no, te giuro... (Agli altri) Sì, eccome... eccome... cor­po de Diana, Arlecchin l'è qua... Lori i bate! E va ben! E che i bata... Noi se batarà anca de più, ecco... I mobili, i mobili zo dalle finestre... Tutto... Demoghe in testa co i mobili...

Il Papa                           - Figlioli miei, non fate cose che dispiacciano...

Arlecchino                    - (a Violetta) Vutu che me buta anca mi? (Sentendo una parola del papa, a tutti) Dispiacciano?... Che dispiacciano? E a mi no i me dispiaze, lori? I ze vegnudi qua, che nessun li gaveva ciamadi... che nessun li vo­leva... qua, che se stava benon, in pace, tra de noi, e, sior no, lori bisogna che i ghe meta el naso... che i se ficca in tele fassende nostre... che i batta in tele nostre porte...

Il Papa                           - (continuando la sua allocuzione) ... il martirio è santo, ma il suicidio è colpa..

Arlecchino                    - No me importa, no me impor­ta gnente de gnente. Zo i mobili, go dito, zo i mobili!

Scarpaccia                     - Cucù... Cucù... Cucù...

Il Papa                           - ... non dobbiamo volere il sangue...

Arlecchino                    - Volere?... Volere?... Ma noi no se voi gnente. E sangue, acqua piovana... tutta na stessa roba oramai per mi... Zo i mo­bili! (A Violetta) L'è ti, l'è ti che te importa, Colombina, ti sola... E cessa posso far? No go forze... no basto... No per tegnerte con mi, eh no, no pretendo sto paradiso, ma perché dentro, qua, dentro de ti, mi sia ancora quel de prima, quel che giero... cioè tutto... Perché i parla tutti, benedetta madonna, tutti qua i matti, e quei altri i bate, e mi no so dove butarme, e ti sola te tase... Perché Colombina? Dimmi, perché...?

Il Papa                           - ... vengono per essere padroni... per credere di essere padroni...

Arlecchino                    - (a tutti) Vengono per rider de noialtri... per poter rider e dirghe a tutti... a tutte le Colombine del mondo... che no bi­ sogna mai crederghe a quei vigliacchi de Arlechini... che i xe tuti canaie e busiari e da butarli zo par le finestre...

Il Papa                           - ... i veri padroni saremo noi, dopo, come prima... la sovranità è nell'anima...

Arlecchino                    - (al papa) No, che la senta, santità... invece de far tante ciacere... eia la do varia... eia che l'è in confidenza, la ghe diga quattro parolete giuste al so compare là, de lassù, al nostro paron de tuti... che el mela lu la so man in te sta fassenda... lu el ga cor e oci che vede ciaro, dunque... che '1 ne salva, lu... (A Violetta) Anca ti, anca ti, prega anca ti... dighe al papa che el se meta de mezo... che el persuada el padre eterno... perché non ghe xe che lu... lu solo che '1 possa far che quei là no i batta... no i abia mai battù... che tutto torni come che giera... el padre eterno santissimo e benedeto, lu solo...

Il Papa                           - ... lasciamo loro questa illusione, se ci tengono, poveretti...

Arlecchino                    - Poveretti? Poveretti un cor­no! Zo i mobili par le finestre... Poveretti! Noi poveretti, perché senio in pochi... e in trap­pola...

Il Papa                           - ... non faremo questo sacrificio? Noi, che abbiamo tutto? Pensate che essi non hanno nulla!

Arlecchino                    - I ga la loro rason, i dise. Dun­que che i se la teglia... Cossa vienli a seccarne a noi che no ghe l'avemo e che gnanca la voiemo? Lori i ragiona... dunque che i resti con i so simili, con quei che ragiona...

Il Papa                           - (ad Arlecchino) Hanno da soppor­tare la loro ragione. Dunque saranno disgraziati, sempre. Diamo esempio di generosità. Apriamo loro le porte.

Arlecchino                    - No, per carità... No... senio rovinai... I ne castiga... i ne tortura... i ne copa tuti... (A Violetta) Non me importarla gnente... e no i ne co para gnanca... Tutti vigliacchi fin in fondo... Ecco, i batte sule porte, lori! Ma ti, ti Colombina... (Agli altri) Compagni... com­pagni, su... su... coraggio... chi sa! No se sa mai! Forse no i xe pò tanti...

Don Giovanni               - Una folla. Sono una folla!

Arlecchino                    - Una folla? Dio! Una folla... xe qualcossa... Una folla xe un pochetin tropo... Una folla? Proprio una folla? Bè, insomma... folla più o meno... compagni, niente paura... Su su... Arlecchin no se arrende... Forza... Zo i mobili... i mobili sulla folla! (A Violetta) Co­lombina, no se poi far gnente: i xe na folla! Colombina, Colombina, me vustu in zenoccio? Per tera? Morto? Sparlo? Parla: ghe dago fogo a tuto... me buto in te la vasca del giardin... quel che te voi... qualunque roba... ma per ti, ma per ti... perché ti dopo non ti me disprezzi... Ma cossa, cosa per carità...?

Violetta                         - (lentamente) Aprite le porte.

Arlecchino                    - (dopo esser rimasto inebetito, balbettando) Aprite...? A...pri...te...? Apri­te... allora... Apri... te... le porte... Eh, aprite... le porte! (E cade a sedere, nascondendo il viso tra le mani, in una poltrona. Il medico, inchinandosi come per andar ad eseguire gli or­dini, esce).

Don Giovanni               - (piano) Come cavaliere, non approvo questa resa... e mi ritiro...

Scarpaccia                     - Cucù... cucù... cucù... (Esce).

Suor Orsolina                - (piano a don Giovanni) Co­me ti troverei vigliacco, se non ti amassi...

Don Giovanni               - (piano) Eh... anch'io mi troverei vigliacco... se non mi amassi... (Escono).

Il Papa                           - (bacia la croce che portava al collo e la riappende dov'era al primo atto, mormo­rando) E così sia. (Esce).

Arlecchino                    - (rialzando il capo: mestamente) Compagni... amissi... I xe andai via? Tuti via... (Si alza, smarrito: vede Violetta) Colom­bina... Colombina e ti? Ti te resta qua... Oh mi, per mi, poco mal... Mi sogno anca dentro ne la camisa de forza... Ma no i me la mete, perché mi so pacifico... No ti ga visto? Invece dei mobili, le porte... go fato verzer le porte... I xe drio a verserghe le porte... Go dimostra ani­mo bon, vero? Ma ti... ti... Prima, quando che te taseva capivo tuto, adesso... non son più bon de capir altro che questo... che tuto l'è in ma­lora... Adesso se verzerà anche quela porta là, del fondo, e vegnerà dentro el signor bon senso a dirte che do e do i fa quatro. Ecco: e ti, Co­lombina, ti magari... ti dirà che l'è vero... E allora ciao, Colombina... Allora sì, tuto sarà furio... perché mi... mi no ghe darò rason... Per mi do e do i farà sempre zero... e, in tra de mi, continuerò a parlar con la Colombina de ieri. E ghe dirò: Colombina, Colombina, varda... varda che arcobaleno! Quanti colori!... Vustu che te regala diman un collier de perle rosse... de cerese? Ma certo, Arlecchino mio... e la luna stasera l'è rossa, de vergogna... Che ne abbia fatta qualcuna? Oh, e stasera, che cerchio in­torno al suo viso! Chissà dove ha passato la gior­nata!... E cussi, ti sarà vissina a mi, e no pran­zerò... per divertirte farò qualche sgambetto... te servirò in tavola: Stasera, vorla anzoli friti, o calamareti, per pietanza? 0 quatro macheroni, de quei fini?... La sua manina, mia sposina... No? Come? Cussi cativa? Perché? Quatro sgambeti, Colombina... Su via che la rida? Che, ala fin, no xe morto nessun... e se anca fussi morto mi... el primo a riderne... saria Arlecchin... Arlecchin Batoccio, servitor suo devoto... ancuo... doman... e per tutta l'eternità. (Arlec­chino esce: Violetta rimane immobile e silen­ziosa. Prima che la porta di fondo sia aperta cala la tela)

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Un giardino. In fondo un muro. Alberi di qua e di là del muro. Sera, ma diffuso chiarore lunare.

 (Il professore e Violetta sono seduti su un sedile rustico, davanti a un tavolo di legno: hanno finito di prendere il caffè. Le tazze sono ancora sul tavolo).

Il professore                  - (esaminando il termometro ap­peso al tronco d'albero vicino alla panchina) Qui c'è il termometro. Vedi: 14 gradi come ti avevo scritto. Ed è sera. Una temperatura vera­mente ideale: anche per la tua salute credo che gioverà.

Violetta                         - Io sto benissimo.

Il professore                  - Appunto: è quando si sta bene che bisogna curare la propria salute per poter continuare a star bene (Una pausa) Buono, vero, il caffè? Non era tanto carico, perché la sera ho detto io lo si faccia così, per via del dormire.

Violetta                         - Già. (Una pausa) Questo giardino appartiene alla direzione?

Il professore                  - Sì, questo è privato. Quello è il muro di divisione: di là ci sono i ricoverati. Hanno anch'essi il loro giardino. A destra le donne, a sinistra gli uomini. Naturalmente sono separati. Le donne sono poche, ora. C'è stata anche la disgrazia della Saresti che è morta.

Violetta                         - È morta?

Il professore                  - Purtroppo. Ed era di fa­miglia ricca: pagava una diaria assai alta. E allora le si prestavano tutte le cure, ma invano... Del resto anche agli altri, non manca nulla. Li lascio passeggiare la sera, nel loro giardino: più tardi devono coricarsi. Oh, li tratto con ogni pre­mura. E tu hai veduto la ricompensa!

Violetta                         - Sono stati puniti?

Il professore                  - In fondo, sono irresponsa­bili, non bisogna dimenticarlo. Ed ho voluto dar esempio di moderazione. Credo che si ot­tenga di più, se pur si può ottenere qualche cosa, usando clemenza e ragione: la ragione che manca ad essi, disgraziati. E poi devo un poco ad essi, ed a questa avventura... spiacevole, che anzi credo mi abbia leso un po' il sistema ner­voso, ma seguirò un regime rigoroso ricostituen­te... ma dicevo, devo un poco ad essi la mia, anzi la nostra attuale comunione.

Violetta                         - Comunione?

Il professore                  - Lieta comunione spirituale. Non sei contenta anche tu? Io voglio pensare che anche tu debba esser lieta della soluzione di quanto è accaduto? Non saepe... non saepe...

Violetta                         - Che?

Il professore                  - Eh sì, non era facile trovare un uomo che facesse, che sapesse fare quello che ho fatto io.

Violetta                         - Non era facile.

Il professore                  - Oserei dire che era difficile. Ma io ho compreso il tuo stato, povera figliuola, l'errore in cui eri caduta, per storditezza, un poco leggermente forse, ma te ne ho fatto una colpa io?

Violetta                         - No, no.

Il professore                  - La scienza insegna ad essere indulgenti: e noi sappiamo bene come la donna sia debole, e sotto un certo aspetto quasi irre­sponsabile anch'essa delle azioni, in ispecie di carattere sentimentale. Ricorderai, per esempio, che il codice le unisce ai minorenni ed ai pazzi, le donne.

Violetta                         - Non sapevo.

Il professore                  - Non dico questo per offen­derti: no. Ti rispetto troppo, e la stima che ti devo per il grado stesso al quale ti ho elevata, mi impedirebbe di farlo: offenderei la mia stessa dignità.

Violetta                         - Comprendo, comprendo.

Il professore                                     - Ma certamente, ragionando sul caso, un altro in tal frangente, un uomo che non avesse ragionato come me, ma si fosse la­sciato comandare dall'impulso immediato e qua­si sempre fallace, avrebbe agito diversamente, sacrificando il tuo nome e consegnandolo allo scandalo mondano, ed insieme avrebbe sdegna­to, ciecamente, la tua giovane bellezza, la tua sostanza patrimoniale, così senza l'ombra di riflessione. Questo avrebbe fatto un uomo dei soliti, che ahimè meritano ben poco l'appella­tivo di Linneo, homo sapiens. E poi se ne sa­rebbe pentito, ma quando il pentimento non poteva più giovare né a sé, né a te: troppo tar­di. Di qui puoi giudicare di quanto l'uomo lo­gico e previdente agisce sempre in modo da non dover mai essere pentito, dopo, del proprio agire.

Violetta                         - Infatti: l'uomo logico e previ­dente.

Il professore ................ - Me. Dico questo non per mancanza di modestia. Conosco bene anche i miei difetti, cioè li conoscerei, se ne avessi. Ma, in verità, oserei dire di non averne. Difetti, no: forse manchevolezze, ma tutte d'indole esteriore ed inevitabile. Quindi, per te, oserei dire che non ero l'uomo ideale: gli anni... ecco: ma gli altri non li confessano, si ringiovaniscono a spe­se della verità. Etiamsi omnes, ego non: io no, io li dico. E so, so anche, che forse tu avresti sognato qualche principe azzurro... che forse eri venuta a trovarmi, quassù, per troncare verbalmente le mie proposte epistolari. Oserei dire che è così. Vedi che so osservare e dedurre. Ma il caso ha disposto non secondo il tuo volere, ma secondo il suo capriccio. Ma oserei dire che un giorno tu ringrazierai questo caso che ti ha salvata da qualche avventata scelta che poi avre­sti scontata duramente, e che ti ha invece posta al fianco di un uomo serio, ponderato, quale son io, e che non ti lascerà mai incerta od in­quieta del domani, ma provvederà a formare il tuo spirito, ti insegnerà a giudicare le cose e le persone con esatto criterio, ti persuaderà in­somma a deridere le chimere infantili, ed ir­reali, per apprezzare il vero, l'umano, e sco­prirne i benefizi e valutarne le virtù: ecco.

Violetta                         - Sì, sì. Ne valuterò le virtù.

Il professore                  - Accontentarsi del proprio stato è la prima legge del saggio. E il matrimo­nio, vedrai, è un legame di amicizia e di fiducia. L'amore è una parola più che una cosa, ed una grave parola che fa infinite vittime, se­minando il veleno dell'illusione, che trova ter­reno propizio per svilupparsi nell'anima fem­minile, come dicevo, incline al sentimento. L'a­micizia invece è una schietta ed onesta disposi­zione dello spirito. Ed è l'amicizia, Violetta che alimenta la convivenza: è l'amicizia che rende più saldo e più grato il modus vivendi. Ed ose­rei dire che benedirai un giorno il caso... poiché immagino che tu non sia credente, e voglia chia­marlo Dio, questa sorte che regola le nostre esistenze...

Violetta                         - No, no: non sono religiosa.

Il professore                  - Ecco: la religione è un fre­no necessario per la gente ancora semplice, una autorità apparente per disciplinare le menti an­cor rozze e che non possono subire la disciplina faticosa del ragionamento. Ma noi... noi sap­piamo considerare il tutto con serenità, e pos­siamo affermare che tutto consiste e dipende dalla materia. Dunque benedirai un giorno il caso di averti legata ad un uomo, oserei dire, superiore, come me: e, sapiens nih il adfirmat quod non probet, ti persuaderai, per le mie di­mostrazioni, di tanta verità che ancora tu non sospetti nemmeno.

Violetta                         - Di tutto, di tutto mi persuado: ma... questo mio passato...

Il professore                  - Io ti do l'esempio che devi seguire, di non ricordarlo. La mia persona, col suo consenso, ha reso legittimo e reale quel nodo basato su un inganno che sarebbe stato crimi­nale se non fosse stato incosciente. Tutto questo perché la tua fragile femminilità non venisse per sempre spezzata dalla divulgazione dell'ac­caduto. Ti ho offerto questa ratifica salvatrice, ed ho inteso così cancellare il passato. Quel mio nome ero io: ecco. Laonde tu, riconoscendo in quale baratro eri caduta, devi del pari cancel­lare il ricordo, e non sapere altro se non che io ti ho salvato, che io sono tuo marito, per cui la tua riconoscenza si accompagnerà nel tuo cuore, alla stima che certo nutri per me. Tua ries agitur. È nel tuo stesso interesse.

Violetta                         - Sì. Comprendo tutto: tutto ciò è esatto. Ma... Arlecchino...

Il professore                  - Ah, ti spiacerebbe riveder­lo, sia pure incidentalmente? Ho capito: ed ap­provo, sì approvo questa tua delicatezza, questo pudore. Sì... sì... Ma provvedere perché sia ri­mandato: qui era tenuto solo per grazia, in con­siderazione del suo caso scientificamente inte­ressante. Ne ho redatto una relazione per l'Isti­tuto Superiore di Fisiologia. Te la farò leggere. Ma qui viveva a mie spese. Quindi, tanto più che la relazione è ultimata, lo rimanderò.

Violetta                         - Dove?

Il professore                  - Dove vorrà. Lo prenderanno in qualche ospizio, o resterà tra la gente, libero, a far l'Arlecchino.

Violetta                         - No, fra la gente, no!

Il professore                  - No? E perché no?

Violetta                         - Non vorrei...

Il professore                  - Ah, sì... sì... ho capito, ho capito. Tu giustamente hai timore ch'egli non divulghi quanto sa, poi che la sua alienazione gli permette di parlare con apparenza di logica, come ha fatto con te... Comprendo, comprendo, ed oserei dire che hai ragione. Sì, credo anch'io che la prudenza consigli di tenerlo qui, malgra­do tutto.

Violetta                         - Mi par meglio.

Il professore                  - Potrai benissimo evitare di vederlo e di farti vedere da lui.

Violetta                         - Ed io debbo... rimaner sempre quassù, io?

Il professore                  - No: il luglio ti manderò al mare: luglio e agosto. Così ti svagherai, e se ne gioverà la tua salute.

Violetta                         - E poi?

Il professore                  - Il settembre tornerai a rag­giungermi qui. D'inverno fa freddo, qui: ma c'è un caminetto ed il nostro appartamento ne è riscaldato a sufficienza. Poi ci sono molti libri che leggerai con diletto e con profitto. Oh... guarda la luna. (Dal muro è sorta la luna).

Violetta                         - La luna...

Il professore                  - (consultando il proprio oro­logio) Che ora è? Le otto e ventisette. Bi­sogna notarlo. Ecco fatto.

Violetta                         - Perché?

Il professore ................ - Sono registrazioni e con­ trolli. Poi, quando sarò certo che tu non mi commetta errori o distrazioni, affiderò volentieri a te questo compito delicato: di registrare le varie temperature al sole e all'ombra, tre volte al giorno. Il guardiano notturno pensa poi a completar le note. Ah, c'è anche, quando è pio­vuto da osservare i millimetri d'acqua caduta, nel pluviometro. È facilissimo. Ma son tutte oc­cupazioni che ti faranno sempre meglio partecipare della mia vita di studio e che daranno una ragione quotidiana alla tua vita.

Violetta                         - La luna è un po' annebbiata, stasera...

Il professore                  - Questo non è necessario no­tarlo. Non ha importanza.

Violetta                         - Ed è bianca, bianchissima... mentre alle volte sorge rossa...

Il professore                  - Anche questo non occorre notarlo.

Violetta                         - Alle volte... rossa, e sembra di vergogna che sia così rossa... (È comparso, sul muro, il viso di Arlecchino).

Il professore                  - Che dici? Non divagare, con­sorte mia: non lasciarti mai sedurre dalle im­magini, che deviano ogni esattezza di osserva­zione, come sempre nella vita. Ed io ti racco­mando vitam impendere vero. Essere oggettivi, freddi, lucidi... Non cadrai allora nell'errore.

Violetta                         - (estatica, fissa nel viso di Arlecchi­no, parlando come tra se) Due e due, eh... che fanno?

Il professore                  - Due e due, naturalmente fanno quattro: ed è la base: precisione mate­matica, a minimis.

Violetta                         - (piano) Zero, zero...

Il professore                  - Che intendi?

Violetta                         - Di là del muro... quel muro...

Il professore                  - Non c'è da averne timore: ormai ho preso ogni precauzione. Sono sorve­gliati tutti. E sembrano anche divenuti docili. Ma quel che è accaduto mi ha reso assai pru­dente. Ogni cosa, se considerata nel suo intimo, contiene un suggerimento ed un ammaestra­mento.

Violetta                         - C'è un po' di brezza...

Il professore                  - Hai freddo? Rientriamo.

Violetta                         - No, no... Gli alberi tremano. Ec­co: gli accordi del pianoforte.

Il professore                  - Violetta!

Violetta                         - Ssst... Silenzio. Il pianoforte.

Il professore                  - Per carità. (Tra se) Contagio psichico?

Violetta                         - C'è qualche nuvola... Nuvole con visi di bestie o di angeli... Di angeli del pa­radiso.

Il professore                  - (scostandosi, tra se) Eh sì... incoscienza... automatismo... La stessa facilità con la quale ha creduto a quell'Arlecchino... Bisognerà curarla... (Forte) Violetta! (Essa non si volta, né gli risponde, intenta, magnetizzata dall' apparizione di Arlecchino. Il professore tra sé) Ormai ho imparato a diffidare e ad essere prudente... molto prudente... E forse è il caso... (Forte) Violetta!

Violetta                         - (tra sé) Misurare l'acqua... o far la carità ai passeri?

Il professore                  - (tra sé) Sarà meglio che io parli col dottore... (Forte) Scusa, sai... Ti lascio un momento... ma... ruit hora... il mio studio... Se sentissi freddo, rientra... Vieni nello studio. A fra poco.

Violetta                         - Ssst.

Il professore                  - (allontanandosi, tra sé) Bi­sogna sempre distinguere tra quelli che sono già pazzi... e quelli che non lo sono ancora. (Esce).

Violetta                         - (tra sé) Ecco i grilli... (Essa si volta solo per vedere il professore sparire. Poi china il capo, nascondendo il viso. Una pausa).

Arlecchino                    - (dal muro, piano) Colombi­na... (Violetta rialza il capo: accenna a rispon­dere, poi, come forzandosi, riabbassa il viso, ta­cendo) Colombina... (Una pausa. Lentamente, agile, silenzioso, Arlecchino scende dal muro, sì avvicina a Violetta).

Violetta                         - (avvedendosi di Arlecchino, alzan­dosi, impaurita) No... No...

Arlecchino                    - (supplichevole) Colombina...

Violetta                         - Può venire... tornare... (Frattan­to, a distanza, lentamente, l'uri dopo l'altro, don Giovanni, il ragioniere e Scarpaccia, con la sua chitarra senza corde, sono discesi dal muro).

Il ragioniere                   - (a Violetta) Signora...

Violetta                         - (vedendo i sopraggiunti, soffocata­mente) Per carità, ma...

Arlecchino                    - No senio più in famiglia? (Il ragioniere si dà a raccoglier fiori per il giardino: Scarpaccia si accoccola sotto un albero, con la sua chitarra, e don Giovanni si avvicina al muro, dove il professore ha indicato esservi le donne).

Violetta                         - Vi volete perdere... Ma perché, perché?...

Arlecchino                    - Per ti... Misurar l'acqua al­lora?...

Violetta                         - Ssst.

Arlecchino                    - Oh, mi parlo pian: no distur­bo i grilli. E semo amici da tanto tempo.

Don Giovanni               - (piano, vicino al muro) Lu-lù.. Lulù...

Arlecchino                    - È stato separato dal suo amo­re... anca lu... ma per modo de dir. Ghe voi altro che muri!

Suor Orsolina                - (di dentro, rispondendo) Amore...

Don Giovanni               - Eccola... Amore...

Arlecchino                    - (con nostalgia) Amore... È beato! (Pausa) Colombina... E allora?

Violetta                         - Cosa?... Cosa volete?

Arlecchino                    - ... volete?

Violetta                         - Cosa... sì, cosa... cosa vuoi, ecco?

Arlecchino                    - Oh amore: gnente, gnente al­tro. Me basta. Grazie.

Don Giovanni               - (parlando attraverso il muro) ... Amore... no... no... sempre te... te sola.,,

Suor Orsolina                - (di dentro) Amore., nean­che dio... te solo... amore...

Violetta                         - (dopo una pausa, soffocatamente, e con disperazione) E io?

Arlecchino                    - Cosa?

Violetta                         - Ma io... che cosa ho più io?

Arlecchino                    - Come? Davvero?... Colombi­na... Davvero... te piaceva de più

Arlecchino                    - (Essa china il capo tacendo) Colombina... Co­lombina, ma davvero... o ti me voi far la carità de una busia?... Grazie... grazie lo stesso...

Violetta                         - No, no, Arlecchino: non bugia.

Arlecchino                    - No? No? El bon senso?... No? No te me condanna più?... No, Colombina... se te lo fa apposta, l'è una cattiveria...

Violetta                         - Il buon senso... è brutto, Ar­lecchino: è tanto brutto da averne paura...

Arlecchino                    - El ragiona... el ga i ociai...

Violetta                         - È la noia, la noia...

Arlecchino                    - Dio! Dio te benedisso... Ti ga el nostro mal... ti se guarida... Colombina!

Violetta                         - Sei stato tu! È per colpa tua... che ora...

Arlecchino                    - Lassa che te basa la man... Non ti sa più razonar... Ti ga perdù la rason... Dio, te benedisso! Angelo, Colombina, para­diso... No le miga vero... che no pianzevo... Go pianto, ma adesso... oh adesso! Altro che '1 matrimonio! Adesso ti se mia, sul serio.

Violetta                         - Che dici?

Arlecchino                    - Basta che te alzi i oci... Quel che fa paura, quel che te stufa... l'è sto giardin qua. Ma quel che te faria contenta... quel che te farà la mia Colombina... ancora, sempre... le de là de quel muro...

Violetta                         - Con i pazzi? Io?

Arlecchino                    - Putela! Cossa crèditu, de no esser come noialtri, ormai?

Violetta                         - Io, pazza?

Arlecchino                    - Ssst! Lassa che i altri, che loro, i lo creda. Come de noi. Il signor profes­sore, no te ga visto, oramai ha dei dubbi... El ga le so paure, el xe scampa... E de là, Colom­bina, solo un mureto da passar...

Violetta                         - Davvero, davvero non so ragio­nar... Non so più niente!

Arlecchino                    - Cara, cara... lassa star el ra­ gionamento... no xe pan per i nostri denti... E pensa invesse... e iìgurete el giardin de là... el giardin che te spela...

Violetta                         - Un giardino come questo, di là...

Arlecchino                    - Nix... Nìcheso, signora bella... un giardino tuto diverso... El par come questo... ma '1 xe tuto diverso: come do perle, una bona e l'altra sfalsa. Questo, xe la perla mata. De là, quela bona. El pianoforte, de qua, ti lo sentivi appena: de là el sona musica grande... musica speciale... Anca la luna, de là, l'è un'altra: la xe la nostra... Le nuvole, le xe le nostre... I grilli i ne fa compagnia... De là, Colombina, no ghe xe termometri... né pluviometri... né chilometri... De là, de note, se fa sogni che i gavaria paura a passar el muro e vegnir qua dentro. E anca de giorno, i resta con noialtri. E pò ghe el silenzio... e la bona fede... tuto insoma... E, de là, Colombina, a Dio se ghe crede... e se lo prega... E quando che se tase, e se capisse tra de noialtri. E perfin quando che se parla, se se capisse. Te pàrelo un giardin com­pagno a questo?

Violetta                         - Ma le donne separate?...

Arlecchino                    - Sembra... Sembra... El bon senso el se illude: ma varda don Giovanni. Elo separato da Orsolina? Insieme... I xe insieme... Don Giovanni - (nella pausa, sempre parlando attraverso il muro) Sì... quando suona l'An­gelus... bacio il muro... Anche tu...

Violetta                         - Arlecchino, ma che mi fai pen­sare?... Io sono sana...

Arlecchino                    - Tuti, semo sani. Ma semo dif­ferenti: e anca ti te xe differente, Colombina. No ti ga visto? Lu, el professor... el te tien per moglie per via dei soldi... El sera i oci su de mi, el scancella il passato, perché ghe piase la tua sostanza patrimoniale...

Violetta                         - Ascoltavi?

Arlecchino                    - Miga tanto: ascoltavo come che ti ascoltavi ti, un fìà distrato... Te vardavo. E ti, Colombina, te la pensa in t'un'altra ma­niera de lu... No?

Violetta                         - Potrei andarmene... Chiedere io la mia libertà...

Arlecchino                    - Oramai te ga accetta: non te la daria, lu.

Violetta                         - Fuggirei... E tu potresti... al­lora...

Arlecchino                    - Cativa. Andar via? E dopo, mi diventar tuo marito? Per el legame dell'a­micizia e della fiducia ? Per rovinar che quel che xe sta? Questo che xe? Ma no ti lo senti, che el sarà sempre... ma se se resta in pase tra de noialtri? Colombina, tra la gente, mi no ghe vegno... e oramai anca ti no te ghe poderia più star. O te fìniressi col malarte de mondo e no te saresti più la mia Colombina, ma te diventeressi la soa Violetta de lori... No, tesoro, no... Se ti me voi ben... e ti me voi ben, senza bi­sogno che ti me lo disa...

Violetta                         - E allora... come... come?

Arlecchino                    - Gnente. No far niente. Di' soltanto quello che te pensa, per un giorno solo, dillo sul serio, senza gnanca una busia, e i te manda subito al de là del muro...

Violetta                         - Tu dici le tue solite pazzie, Ar­lecchino...

Arlecchino                    - Naturalmente. Se no le te piaze... resta col cominendator bon senso, con i so ociai, col so latin, con tuti i so manometri...

Violetta                         - No, no... Non posso...

Arlecchino                    - Lo so: per questo te l'avevo dito. E allora, non ghe xè altro: bisogna che te diventi de fora quela che te se de dentro... Bisogna che no te segni l'ora che se leva la luna, ma che te la vardi invesse... e che te diventi triste, a vardarla, senza perché... e che ti sia ferisse de esser triste... e che ti piansi, cussi, qualche sera... per sfogo... per gnente... e che ti ridi ale farfale che vola... e che ti ascolti an­ca le rane che le ga le so storie da contar... e che ti parli con le lucertoline che le ga paura de tuti... e le starà magari invesse a scoltarte... attente... come mi...

Violetta                         - Arlecchino! Arlecchino!

Arlecchino                    - E non badarghe a quel che par... ma solo a quel che xe, de dentro... Par esempio, vèdistu quel bon diavolo?

Violetta                         - Chi?

Scarpaccia                     - (piano) Cucù... cucù... cucù...

Il ragioniere                   - (offrendo a Violetta i fiori rac­colti) Signora, di sera hanno poco profumo... ma di giorno! Mi scusi...

Violetta                         - Grazie.

Arlecchino                    - (continuando, a Violetta) Sì... quello in tera... el cucù...

Scarpaccia                     - Cucù...

Arlecchino                    - Se ti varda, par che la sua chitarra sia sensa corde... Ma lu '1 la sona... E lu el sente la soa musica... E noi, de drento, sentimo tuti... anca noi... la nostra musica... Dunque no xe vero che la sua chitarra no la gabia corde...

Violetta                         - Illusioni, illusioni, Arlecchino... Poesia...

Arlecchino                    - No parlar latin, Colombina... Tasi, scolta... Ecco... (Pausa) Piano: siccome ghe xe la luna... la musica l'è bianca... come una ciesa... de marmo... anzi un cimitero...

Don Giovanni               - (pianissimo, tra se) È un profumo... che viene da lei, e ha l'odore delle sue parole... Ecco i baci: quanti sono, e tutti con labbra di seta... di seta di luna...

Arlecchino                    - ... anche i grilli i tase... i scolta come noialtri... anca le foje dei alberi... le scolta... anca i to cavei, Colombina...

Scarpaccia                     - (pianissimo) Cucù...

Il ragioniere                   - Il brivido è nelle vene: quan­te sono le vene? Cento? Mille? E il sangue... quant'è? Quant'è l'acqua che passa sotto i pon­ti? E le onde, le onde del mare? Come i colori: sette, sette i colori, ma tanti, oh, oh, all'infi­nito.

Arlecchino                    - (piano a Violetta) E dal ci­mitero i morti i vien su... che no i xe morti... ma i vive tuti ancora... dentro de noialtri, e in questa musica... un poco triste... come tuta la musica...

Don Giovanni               - (tra se) Come è lieta, come canta la musica... come sempre è felice la mu­sica...

Il ragioniere                   - (tra se) Che pace: che sere­nità. Vedo le note e le posso contare... no, non si può... non si può...

Arlecchino                    - (piano a Violetta) Ecco... i vien i morti, tuti bianchi, candidi... a darghe un'ociada ale soe famiglie... i tase, i se sconde, per no farghe paura... I camma, senti, come el fumo... I xe tanto contenti se i trova che noi li credemo ancor vivi... se i sente de esser vivi...

Scarpaccia                     - Cucù...

Arlecchino                    - Gnente... gnente de triste... i core, per far presto che se fa tardi... i torna a dormir nei so leti bianchi de luna, i se tira soto ai loro lenzioi... ma prima i saluda tuti la lu­na... che xe el loro sole... Ma noi, Colombina, e la luna... e il vento... tuta l'è nostro, per mi e per ti, e senio i re de tuto el mondo... Sssst. (Canta l'usignolo).

Violetta                         - (ascoltando) L'usignolo...

Arlecchino                    - (in un soffio) El me ciama... el te ciama... anca lu el sta de casa de là del muro... (Pausa) E noi se obbedisse... (Mentre l'usignolo canta, il ragioniere, Scarpaccia, don Giovanni, nell'ordine, ripassano silenziosi, il muro. Ultimo Arlecchino).

Arlecchino                    - (dal sommo del muro, ansiosa­mente) E ti Colombina?...

Violetta                         - (che è vicino al muro) Ssst... Io sono già di là, con te... amore...

Arlecchino                    - Ssst... No dirglielo a nessun: l'è '1 nostro segreto... amore... Colombina...

(Anche Arlecchino sparisce. Violetta rimane immobile, appoggiata al muro, assorta. L'usi­gnolo canta. Cala la tela).

FINE