PERLA
la
Santa, la Regina, la Strega
di
Anna Ceravolo
PERLA – (È in ginocchio, si sta flagellando) …6664, 6665, 6666. Abbiate
pazienza, dovevo terminare le battiture del Signore, per compiere intera la mia
disciplina. (Dalle tasche del vestito estrae gli strumenti che usa per
autotorturarsi e li pone in terra davanti a sé: coltelli, sassi, tenaglie, una
cintura guarnita all’interno di punte, uno strumento per l’elettroshock) Una
scossa soltanto, per la conversione dei peccatori. (Prende lo strumento per
l’elettroshock, si applica gli elettrodi alle tempie e si dà la scarica. Sul
volto un dolore sereno, nessun lamento, poi si riprende) Ho sempre, da sempre,
sentito in me un tal desiderio di patire… Da quando Monsignore me lo mostrò, io
piccina, deposto dalla croce, e mi disse «Sei stata tu a farlo morire, sono
stati i tuoi peccati», io non desidero che di soffrire. Io non voglio morire,
no, io voglio vivere e soffrire. Per dargli onore e gloria, per la salvezza dei
peccatori, per il peso delle mie colpe. (Chiude gli occhi e si raccoglie) Oh,
avessi la certezza di andare in Paradiso.
(Riapre gli occhi) Io… non risano, né guasto. È il mio Signore che mi ordina a
chi dare, e a chi togliere. Non io, ma lui vuole. Io non sono che un umile
strumento nelle sue mani. «Perla, aiutami, guarda il mio dolore». Monsignore mi
ha proibito di praticare guarigioni; teme che mi scambino per strega. «Perla,
aiutami, guarda il mio dolore». (Abbassa lo sguardo, si copre le orecchie con
le mani) Io nulla vedo, nulla sento, tiro diritto, nessuno mi chiama.
Ubbidienza, ubbidienza sovrana sul mio volere. L’autorità mi piega, l’autorità
mi schiaccia, ma quanto è dolce abbandonarvisi.
Io non sapevo… Io credevo che quanto accadesse a me, accadesse a tutti. Io… non
io… una forza che non so vincere mi muove. «Perla, percorri un sentiero
incastonato di dolori». Solo dopo mi hai illuminato e ho capito che mi avevi
prescelta.
Io sono tutta tua. Tua serva, tua figlia, tua sposa. E sono tanto presa da te,
che sono fuori di me, e non saprei dire se i miei piedi calpestano la terra o
se volo per l’aria. Ma quando torno in me la mia fronte è bruciante e sudata,
anche in pieno inverno, e non so dove sia stata, ma scende in me una pace e una
calma infinite.
Monsignore non vuole più che abbia rapimenti.
Vorrei seppellirmi in un convento, il mondo non è fatto per me. «Sei solo una
donnicciola sventata e pazzerella, ci vuol ben altra fede per entrare novizia».
Monsignore, mettetemi alla prova. Monsignore è dottore di sacra teologia, e mio
padre spirituale e confessore. Monsignore mi vuole tenere umile, e ne ha
ragione. Monsignore mi vuole tenere diffidente dell’amore che porto al mio
Signore, e dell’amore che il mio Signore porta a me. Ma il mio Signore mi
rassicura. Deh, toglimi dal mondo. Ché non posso andare per le strade. Che
felicità, quattro sante pareti. La vita religiosa sarebbe per me la via sicura.
Tiemmi sottochiave! Fammi viva, morta! E tanto mi struggevo e deperivo, che
Monsignore acconsentì: «Ma resta modesta, e non far mostra delle cose
straordinarie che ti accadono». Indegna, vi ringrazio. La vita laggiù tra le
monache, mi sembrava una benedizione: una pace perfetta, una croce perfetta.
Tra lo strusciare delle vesti udivo sibili: «Superba»… «Superba»… «Superba»…
«Superba»… «Bugiarda»… «Bugiarda»… «Bugiarda»… «Bugiarda»… (Si porta una mano
alla testa) Chi mi strappa i capelli? (Si porta una mano alla guancia) Chi mi
graffia sul viso? (Si schiaffeggia sulle mani) Troppo giusto castigo. Il
Signore umilia chi più ama.
Monsignore, mi hanno cacciato di convento. «Ah, Perla, Perla… non ti sai tenere
in un convento?… Sei proprio una stupidella».
(Si flagella) Oh, quante meravigliose pene ed afflizioni merito. Comincerò con
ben più aspri digiuni. Solo di Lui mi voglio cibare. Astinenza, sacra
astinenza. «Perla, non dare a vedere, fai l’obbedienza». Io non voglio che ciò
che tu vuoi. Ma ti prego fa’ che io beva del tuo amaro calice e che tutto,
tutto il cibo che io prenda mi si impregni di quel solo amarissimo sapore, che
tutto sia da te avvelenato. Contamina quel poco di cibo che mi sforzo di
inghiottire; fa’ che io lo trovi infarcito di vermi, di ragni e di ogni
qualsivoglia sporcizia. Che mi diventi disgustoso, e io mi farò violenza, e ne mangerò.
Una penna o un cucchiaino saranno gli utensili che esercitano il vomito.
Strette dolorosissime affliggono il mio stomaco. Densi fiotti di sangue
sgorgano dalla gola. Solo te voglio gustare, nel tuo amore trasfigurare.
Monsignore mi ha privata della Santa Comunione. (Alzando gli occhi al cielo) Ce
la farò a portare questa croce? Dammi il tuo aiuto perché sola non posso, non
posso nulla. Io non ho fatto studi, solo di te mi basta nutrire il mio
intelletto. Cosa occorre sapere per riconoscerti e amarti? Ma a quattro anni
leggevo già correntemente il breviario. (Si fustiga) No, non volevo
insuperbirmi.
Monsignore dice che fantastico troppo, e le visioni che mi mandi sono frutto
dei miei digiuni. Troppo facile amare chi ci ama. Io non voglio amici, come tu
non ne avesti quando fosti condannato sulla croce. (Indica il pubblico) Tutti
contro di me. Io amerò chi non mi ama e colpirò chi mi ama affinché possa
soffrire il disprezzo dei primi e l’inimicizia dei secondi. Quando mi odieranno
e mi avranno in spregio mostrerò il mio affetto, allora lo meriteranno.
Io godo degli sputi e degli insulti, e di ogni violenza che mi sia inflitta.
Non serbo alcun rancore per gli uomini.
Quante percosse, erano in quattro. Con una sbarra di ferro mi spaccarono la
testa e spappolarono la milza. Siano benedetti, equo castigo per i miei
peccati. Era il tuo dono per quel giorno, la tua grazia, tu li ponesti sulla
mia strada. Mi hai voluto salva, non hai permesso il mio martirio. Non voglio
medicamenti ad alleviarmi il dolore. Offro questo mio patire per la salvezza
dei miei aggressori. Dà loro ogni bene e a me ogni tribolazione. Da sveglia ho
affrontato l’operazione. Ho tanto dovuto insistere perché non mi
addormentassero. Li ho fatti inalberare i dottori. (Prende due sassi e vi stringe
la lingua nel mezzo) Perdonate la mia lingua mordace. Monsignore, preso dai
suoi santi uffizi, non ebbe tempo di visitarmi. (Si tocca il ventre) Sono così
contenta della mia ferita. Mi avvicina a te, a cui i soldati piagarono il
costato. (Si flagella) Che non m’inorgoglisca. Mi sfuggì qualche gemito. (Si
flagella).
(Posa il flagello) Silenzio. (Si mette in bocca due sassolini. Resta immobile
in posa estatica per un tempo che deve sembrare abbastanza lungo. Quindi sputa
i sassi nella mano e li appoggia)
Più terribili furono gli assalti del demonio. Per attuare il suo disegno, il
Signore mi mandò la tentazione. Durante l’ora santa, proprio mentre mi
apprestavo a recitare la mia giaculatoria preferita, il diavolo si frapponeva
fra me e il mio Signore. Oh, come più lieve sopportare ogni genere di sevizie
che uscire dalla tua luce. «Sarà una delle tue fantasie, Perla, o ti ci vorrà
veramente un esorcista?». Se da Maria Maddalena cacciasti sette demoni, questo
solo non me lo vorrai levare? No, Monsignore, no, lasciate che vi baci
l’anello, se il mio Signore mi ha voluto vittima dello spirito infernale è per
la salute delle anime del purgatorio. No, non mi costringete… se il mio Signore
vuole che io sia dannata, io mi dannerò, se il mio Signore vuole che lo rinneghi,
io lo rinnegherò… Amen. Le formule di Monsignore restarono senza efficacia e il
diavolo se ne partì da me quando il mio Signore gli comandò. Non è alle regole
del mondo che dobbiamo stare. (Si copre gli occhi con le mani, dondola la
testa) Non è al mondo che dobbiamo piacere. (Afferra repentinamente le forbici)
Mi taglierò i capelli, che mai uomo possa guardarmi con lascivia. …No… No. Io
devo apprendere a vivere morta, a divenire trasparente. Io sono nulla. E chi mi
guarderà, mi trapasserà con il raggio del suo occhio, e non me vedrà, ma una
sagoma di vetro dai bordi indistinguibili. (Rivolta a persone nel pubblico) Non
stare alla finestra, e non andartene tutta dipinta, mantieniti modesta; chi si
sforza di piacere al mondo, non piace al mio Signore.
Il mio Signore si diverte con le anime che più ha a cuore: le lascia venerare o
dileggiare, le innalza al cielo o le rende lo zimbello degli uomini, a suo
gusto.
«Perla, io sono tuo direttore spirituale e ti devo guidare. Suvvia, lascia da
parte queste fantasticherie». In confessione ho confidato a Monsignore che il
mio Signore si mostra a me in guisa di giovane stupendo o di fanciullo. «Perla,
non prenderti certe libertà con il Signore o scatenerai la sua ira. Perla, la
menzogna è un peccato grave. O vorrai ardere per sempre nel fuoco
dell’inferno?». (Spaventata) Chi io mi sia ingannata? Che io sia in peccato
mortale? Monsignore, vi supplico, proferite su me il perdono. Non giustizia
chiedo, ma misericordia. Che devo fare? «Sospendi i tuoi incontri con il Signore.
Allontanati». (Grida) No, io non posso vivere, non posso vivere… Comandatemi
piuttosto di morire. «Su cosa t’intrattieni con il Signore?». Non so dire, ma è
una gioia, una gioia Monsignore, che non si può raccontare a chi non l’ha
provata. «Nessuno crede alle tue stimmate, sei tu a procurartele con uno
spillo». No… tutti dubitano di me. Suo è il dono delle cinque frecce e di
librarmi senza peso nell’aria. Monsignore, comprendo che mi vogliate prudente.
«Ipocrita»… «Ipocrita»… «Ipocrita»… «Mentitrice»… «Ipocrita»… «Ipocrita»…
«Ipocrita»… «Mentitrice»… «Mentitrice»… Vedi, mio Signore, ognuno dubita di me,
ma tu perdonami se per un momento ho dubitato di te. «Ipocrita»… «Mentitrice»…
«Ipocrita»… «Ipocrita»… «Mentitrice»… (Si alza curva, come sotto un pesantissimo
carico) Signore, di che croce pesante mi hai fatto carico. (Si tende come su
una croce) Meglio che io sia crocifissa, che ti abbandoni. «Ipocrita»…
«Mentitrice»… «Ipocrita»… «Mentitrice»… «Mentitrice»… «Mentitrice»… Oh, come le
amo queste staffilate, come ti rendono gloria. «Ipocrita»… «Ipocrita»…
Sbeffeggiatemi, schiaffeggiatemi. Sono l’essere più immeritevole del mondo. Né
stima, né affetti. Nulla più mi appartiene. (Dalla posizione della croce porta
una mano alla bocca) Oh, sì, la santa reliquia. (Prende dal vestito un pezzo di
stoffa ripiegato con cura. Mostrando molta sofferenza) La santa veste. Oh,
certo che me ne posso separare. (Si inginocchia, prende le forbici e taglia la
stoffa in piccolissimi pezzi, poi con le mani li sfilaccia) È con gioia che mi
appresto a questo sacrificio. Separerò la trama dall’ordito. (Sparpaglia i
brandelli di stoffa) Che tutto si disperda. Ecco, non ho più nulla.
Che gelo intorno a me. Ma quanto mi è gradito poiché tu ne sei l’artefice.
«Ipocrita»… «Ipocrita»… «Mentitrice»… «Visionaria»… (Molto scandito)
«Isterica». Che mi credano pazza, sì, che mi rinchiudano, che mi rinchiudano,
che mi rinchiudano. Che importa? poiché dove io sono, tu sei. Non mi abbandoni.
Io resto senza volontà. «Ipocrita»… «Mentitrice»… «Ipocrita»… Io pregherò,
pregherò per loro, per chi mi dileggia, io pregherò, per chi mi insulta, io
pregherò, per chi rovescia disprezzo sopra di me, io pregherò, per i miei e i
tuoi avversari, io pregherò. Nulla v’è miglior vendetta.
«Perla, il medico che ti ha esaminata ti ha giudicata isterica». Monsignore…
«La diocesi è unita: sei una miscredente, come ti porti getta fango su tutta la
Chiesa». (Mentre afferra il coltello) Non alla giustizia di quaggiù dobbiamo
rendere conto. (Volge gli occhi al cielo) Se mi reggi la mano. Monsignore…
(Fendendo colpi col coltello) 6664, 6665, 6666. (Resta chinata, sfinita)
«Questa corte dichiara l’imputata colpevole di omicidio volontario e la
condanna al carcere a vita».
(Si rialza, leva le braccia in alto. Gridando) In barba a questo mondo, io sarò
santa.
BUIO
PERLA – Un levriero, un destriero, un guerriero nel mio araldo, e il guerriero
eri tu. Nobile non di nascita, ma di aspetto e di temperamento. Questa fu
l’impressione che mi avvolse. Ero giovane, con una profezia sopra la testa:
diventare regina. Non sono mai stata spensierata. Egli è asceso alla mia
altezza per mio volere, per mio capriccio. Indomita di oppormi a pretendenti di
maggior lignaggio e maggiori pretese sul mio trono. Mi hanno lasciato fare. Era
la prima, ufficiale manifestazione della mia volontà. Messomelo al fianco, mi
avrebbe allontanato tutti gli altri sciacalli che agitavan la coda davanti a me
e mi ringhiavan dietro. Dovevo sposarne uno, ho preso questo. Alieno dagli
affari del regno, speravo mi avrebbe fatto governare in pace. E così è stato,
fino ad oggi.
Di oscure origini, dunque, il consorte sovrano: ma ben visto, tutto qui. Il
popolo avrebbe gradito offrendomi la stima, inebriato di libertà e uguaglianza.
Parole che galleggiano fasulle in ogni idioma. Nei puri partoriscono ingenuità
ridicole. Ma in chi della gente fa macello, si volgono in appuntiti
grimaldelli. Le ragioni di stato sono sempre state più forti delle mie ragioni.
Il mio potere cresceva, commisurato alla perdita della mia libertà. Perché per
governare, occorre imporsi un autogoverno più rigido di quello che si esercita.
Mio marito, intanto, si crogiolava nei fasti della reggia, dormendo sogni
d’oro. Un uomo buono per le cerimonie, dal portamento eretto. Ha incominciato
tradendomi nel letto un numero più grande delle notti trascorse dal nostro
matrimonio. Gli nascondevo la reputazione, e stringevo i cordoni della borsa.
Le finanze del mio regno sono una cosa sola con le mie. E non ammetto sprechi.
Nei pettegolezzi mi chiamavano avara. Mi sembra un complimento.
La riconoscenza del popolo è un’idea. Non l’assaporavo mai davvero. Come un
granello di zucchero disciolto in un’oncia di sole. L’esultanza per la mia
incoronazione sancì la fine del lutto per chi è morto lasciandomi il trono.
Portando la corona sulla testa, sono passata tra ali infinite di sudditi
inginocchiati, sapendo già che gli inchini a un sovrano sono segno di
obbedienza, di ribellione tenuta a freno dal giudizio, non di ammirazione.
L’organo non aveva smesso di suonare che i più immodesti, come cani rognosi,
s’azzuffavano per leccarmi lo strascico, sperando in chissà quale ricompensa.
Gli adulatori, ricchi o poveri che siano, mal celano lo stesso grado di
avidità. Tuttavia il risentimento è arma più debole della diplomazia; così…
quanti ne tollerai intorno a me.
Il mio potere era il boccone velenoso di tutti gli invidiosi. Subito dismisi la
mia malizia, il mio profilo doveva incutere autorità, non invogliare i sensi.
Troppo potere in una donna, fa inviperire gli uomini, e le donne non sono da
meno. Entrambi i sessi sono più inclini a genuflettersi a un signore. Più
inclini, infine, che alla libertà.
L’anarchia mi ripugna, perché l’uomo non è degno di meritarsela. Il popolo
reclama chi lo guidi, chi gli fornisca regole e sanzioni. Aspira silenzioso a
una mediocre tranquillità; turbatela, e inizierà a rumoreggiare.
Ho percorso in lungo e in largo il mio regno chiedendomi quale fosse il miglior
bene del popolo. Sapendo che l’interesse dell’uno sottrae all’interesse
dell’altro, tiravo somme totali, senza ingannar nessuno. Il miglior bene,
pretendevo per il mio popolo, il più duraturo. Affrontando le folle, pensavo a
questo. La mia ambizione arrivava seconda. E sto parlando sotto giuramento. Le
generazioni che ha cresciuto il mio regno non lo sanno.
Non ho in mente il consenso, quando parlo. Sono figlia di re. Lo scettro mi è
saltato nelle mani. Le promesse, per me, sono obbligazioni a scadere, i
giuramenti costano la vita: misuro le mie parole con chiunque. Le parole non
son merce di scambio, né spiccioli di stagno, sono patti.
Si dice che una regina senza eredi, non possa star sicura. Che debba
attendersi, presto o tardi, attentati al suo regno.
Pure, una barriera di spie non mette in guardia dall’apparecchiarsi di
congiure. Ragione per la quale non ho allevato di proposito nella mia corte una
genia di malfattori pronti a inventare un sospetto per nutrire la loro gloria o
togliere di mezzo i loro odi. Altri lo ha fatto, in vece mia e contro di me. Ho
malnutrito la diffidenza.
Mio marito era ad insidiarmi il trono. (Pausa) Ci tocca dover prendere
decisioni terribili. (Pausa) Geloso… non della mia persona, in quanto tale.
Ansioso, invece, di non restare in controluce. Sedeva sul trono accanto a me,
ma lo scettro ce l’avevo io. Pesante come un giogo. Questo non lo sapeva. Non
gli bastava la sua bella vita. Un tempo mi dannavo, ma ora sono fiera di non
avergli dato seguito. Nessun figlio di traditore è uscito dal mio grembo.
Quando mi specchiavo nel suo sguardo, appassionato da qualche cortigiana,
credetemi, l’ho amato. “Mia regina”, mi chiamava, “mia Perla”. Servile, più di
un servo. Provo troppo disprezzo, quanta ne è degna la mia regalità.
Ho studiato mappe e cifre, accanto i miei zelanti consiglieri. Strisciavan come
bisce sui documenti regi. Li ascoltavo tutti, in ordine di stima decrescente.
Ma i retti non abitano a corte, né da nessuna parte che io sappia. I saggi sono
saggi in quel che sanno, che siano anche leali nessuno ci scommette. Mercenari
tutti, come l’ultimo pezzente. Comprata un tanto al chilo, la loro onestà. Col
suo splendore, una puttana li acceca.
Perché ho escluso il mio regal consorte dagli affari reali? Io non l’ho
escluso, era lui un incapace. Passate in rassegna i reami del mondo, e vedrete
che è solo uno che comanda. Nel mio regno era io. Sono figlia di re. Ma non
solo per nascita ho condotto: perché dovevo.
Il popolo è malleabile e non sa che un frammento della sua storia. Lo si
conduce dove si vuole, una volta provveduto al suo benessere. Pasciuto quanto
basta per rendergli a noia le cose dello stato, soggiogato quanto serve a
incontrare sollievo nei suoi svaghi. Le casse dello stato traboccano. Oggi il
popolo attende senza stupore il domani, e ieri se lo è già dimenticato.
Ho inasprito le imposte? Questa non è una colpa. Quanto ho restituito in
cambio? Un regno riformato, completamente, dentro i suoi confini. Come ho preso
il mio regno, e ora, come me l’hanno preso? Una potenza, dal sottosuolo al
cielo. Non si è patito stenti: né fame, avete avuto, né conflitti hanno
sconvolto il territorio che è anche vostro, giudice. Il popolo, cosa dice? Non
vi rende sapienza mescolare le carte. Attenetevi al capo della mia accusa: ho
ucciso. Un traditore.
Qualche testa traballa per minaccia; soltanto in senso metaforico, sia chiaro,
mio marito era troppo codardo per sporcarsi di sangue; e la corte intera
s’addossa nella sua ombra. Quei pidocchi asserragliati adesso tra il muro e la
tappezzeria aspettando da voi la buona nuova. Qualche promessa gonfia di bugie
li ha guadagnati in fretta alla sua parte. Nessuno ci sta bene nei suoi panni.
Allora, io no, la testa la tronco per davvero al capo dei vigliacchi.
Perfino i più fedeli mi hanno lasciato sola. Si vede che non ho inculcato il
culto del mio mito, io inseguivo altre mete. Perfino i più fedeli chiedono
suggestioni. Io sono la regina. Anime sfacciate, han fatto commercio della
parola data. Se il loro giuramento più solenne non vale niente, che sorte avrà
il mio regno?
La verità sia oscura al popolo. Così è la legge di chi guida. (Pausa)
(Guarda lontano) Questa larga pianura schiacciata di nebbia era mia.
Ho armato molte braccia, interi eserciti, legioni, non ho badato a spese per
proteggere il popolo e trionfare. Ma lui, l’ho ucciso io, con le mie mani. Non
si delega ad altri il proprio dovere. Quando è così gravoso, soprattutto, non
si deve. Non per difesa, no: era troppo tardi. Sono qui: il suo partito mi
aveva già sopraffatto. Non per vendetta: la forza del mio carattere preferisce
subire torti, se riguardan me sola, che caricarsi di colpe. Ma per la dignità
che devo al mio popolo l’ho ucciso.
Potere e giustizia affrontano la medesima sorte, salgono e scendono tenendosi a
braccetto, e voi che amministrate il diritto lo sapete quanto me che ho
regnato. (Pausa) Attendo il verdetto, pronunciatevi. (Pausa)
Non rintracciate in me la minima commiserazione, e questo vi indispone.
Compiete il vostro ufficio, e smettetela di tremare. Non avrete né lacrime, né
scongiuri da me. Non indugiate ancora. Non ho rimorsi. Assolvete il vostro
dovere di servo di un nuovo padrone e mandatemi a morte. A morte, ho detto, non
in un carcere, non voglio sopravvivere al mio regno. Signor giudice, vi ordino:
pietà. (Pausa)
Durerà il mio nome?
BUIO
PERLA – (È voltata di schiena, mostra le spalle scoperte) Me han sbiottà tuta e
gh’ha frugà anca nele parti libidinosamente. No c’è secreti la Perla, nanca un
ve’ de camamela de snasare. Me han crupà in tute le parti pudicose, con un
zuicc de fì, e de la pagura, sor comisari, le budele s’in slegà e l’è stucà tüt
in sciolta lo che avì magnà e bevù: un cuk, un spet, un pomm. Nugot, vertà, che
simo poverisimisimisimisimisimi.
(Sempre girata indica con un dito un punto della spalla) Quiqui? No marco, no
sig-no de Satanasso, ecelenza, l’è un veruchin, (Gratta) ahi, ahi, ahi, me
piga, me piga, me piga. Mercuriale e oli de sgiaff e dumà gh’è pü.
(Si gira e si inchina) Mi voltalesso sua ecelenza. Bonsur. Me cuati (Si tira su
il vestito). …Sé, Perla, su ecelenza. (Allibisce) Che nomm de troia?… Gh’ha
resò… Signor sì… Se lo diseva mi mamà. “Come te la ciameti la nena?” ghe cì a
mi mà, “Perla”, scia diseva. Che nomm de merda; per una contadina. Je no so’
contadina, so’ ‘stetrica e levatrice, santità, ‘stetrica e levatrice.
De la dona de cu so’, je poc de dé.
Como che ai seis ann d’età me fuì una febre tremendisima, ‘na sciampa se
stropignò. Che stregheria fuss, mi mà no sa. Donche vaio sciancà (Mostra che è
zoppa) che contadar non poto che me slombo. (Si china) Ahi. (Si rialza) Setada
den del campo sin trabac me spasavi cun mi jughetìn: (Fa finta di annusare) la
salva, el sorb, la rosa de mar, (Sembra prendere un topo per la coda) la slafa
del pantegon. As trese agn m’in venü le regole, che d’era chi mi mariterìa. Mi
no, si no, tu no. El Bernardo de la Grosa no lo vol. Me pica, me scross, me dà
i strigoss. Quanci che pasi disaz de la sua porta, ve fö e strä m’è ‘n strascée
“L’è sopa, l’è sopa, l’è sopa d’on pè”. No te marito, no te marito, no.
Formole? Mi? No save. No save sua celentissima. Sopa dei seis ann, ofesa vi
dico in una patta; gnorante del dì che vinì al mond. (È posta alla tortura) Che
fì, che dì? Meteme zö. So’ la Perla, bona come ‘l pan. Tuti me conoss. Meteme
zö. Sun nasuda de magio come un bel fior.
No fo stregasse, vastità. No ci strongperìa un pelo del cranio a nade, per
timore de Dio e de li sancti. Ostetrica e levatrice, so più quei ch’ho visto
nascer che quei ch’ho visto morir. De vero, de giust. N’ho salvì tanti ch’era
lì de crupà. I mo me vole màa, i me acusa, i me voli matà. La jen ven no plu
bona. I fioli me regarda comm fusi pestilada de la peste negra, son sopa no
stria, che tanti se no gh’era mi se sufegava nelo sgravarsi la madre. Che se no
j’era iò quanti xera già del Creatore.
De dìa, de nocc, de giur, de tute le ore me sciamava, a mi, a mo, a me, de bu,
ve giur. ‘Stetrica de tuto el peì, son mi. ‘Si ben, mi paga: de ovi, de pan, de
una gaina, pomi, vino, quel che c’han ciapo. …Todi fati vivi, no. No gh’è
sciensa de medecina che pol, sua santità, sino scampasimo de cent’ani. No xe
posibl, s’espira, i se va suta tera. Lo scriba ne l’epistula: giò de vuluntà
moriti nisuni. Che no conoxo de stregherie, de diabli u malefis. Semper vutati
tuti, i boni e i grami. De preg-nansa le femene e de maladie tucc. …Como
fassìa… (La tirano) Ahi. Speciàme, ve disi tuto, monsignori. Ve disi tuto. De
turbolenze de la crapa se spalma nogal moscat e oli de inc sobre la frontaleza.
De malevolense de intestino, de spigrese de cagamenti, smacio alpericoche
infundite en agua de aneto de be’ matina i sora. De usel che no vola, con respeto
parlando, se scula la cinara e po’ cu masturbamenti, cu sfregamenti de la mano
el so padron lo enzìta a no fanagotar davan la fica. No stregese verdì, ma
impratichimenti dela sciensa. Quante mensonge ve avino dì de la Perla. Lasseme
nà, sua santità.
De contrada en contrada marciavan fino a mi. Medicamentosa de fama m’ero fata
no pitonessa. Ca ma rìe adré nela via. Pui qui che je dol ul cu, el föö, le
tripp, ul dint, la rondell gh’avìa de picà a la mia porta, gh’avìa de vinì a la
mia ca’. Compris, la Perla sopa. E jì topìco topìco; de sul, de nievi, de fàa,
de scur, por sanì tut i cristien. Ma plü cancher di malan spagiant: la jelosì.
De ser medichesa, sua venerabilità, me scoltì? So minchiona che sce ‘nava, me
volse del mal el bon ch’ho fa.
(Pausa) L’ho ciapà de dré… sodomiticamente… (Stupita) Monsù, sì. Com’ol savì?
Chi ve l’ha dì? …Pecàa mortal? …No ‘l savìa. Vo in gesa a confesar,
subitamente. (La tirano) Ahi! Meteme zö, che gì, che vo. Piasù nagot, no faco
pu. Dasséme, (Fa un giuramento) strufin, strufot che me fo monaca… se magna, se
beve, oibò.
(La tirano) Ohi, me stropa i oss, no podi pù. (La tirano) Dassì…
…Voio dir de comerzo de verzini, e maridà tan sì, che dopi me lassa, ben? Che
de tanti sporchesi ch’ho fa, questa l’è grosa. Par ganà un dindin, me scondìa
nel campo de formenton, portà ‘na dona o ‘na ninela a fa ciavà. Giuize, pret,
mercanta, notariat, asesor: ch’en dà d’argian, dané, moné vo’ trombà tut i dé.
Jovanesse che plore a ficar nela paserassa un merlot vegiass. Ma tuca furnì lo
stomico. Ca giuize, pret, mercanta, notariat, asesor, gh’han toti la vesta
longa par cuvrì sö sti sconcess. L’ho fa, l’ho dì.
Alor, me vo? (La tirano) Ohi! Che volì savè? Vertà, l’ho dà. Me avì strazà li
brazi e le ispalde me paren stricià sota un carr.
Ahaa… el giodì… sì, monsù, l’è dì del Signor come i otri, de riverì dan la gesa
e sin mangià carn, che poca, poca, poca, poca, poca n’ho mangià en vita mia.
…Ahi …Lo strisamento che me dé… ohi sì che me fa màal, griti ‘m’è ‘na tordona
sbusecata, o me odì? Ahi, ahi, ahi. Lagrime no vedi perché non hai. N’ho butà
tropp en vita mia. In secà i oc. Ma mi fa màa de bo. Ah! Maszadina de ‘na Perla
che te fa… Ah! …inaridati i suchi de lo guardo, ciangi no por est, ma
misericordia istess, profesore de leze ilustri. Vardé i me occ; (Spalanca gli
occhi) me fasso basilissa: me miri, te mori. No va buscar nient de me. Ho dì,
finì. Disligàme.
De bali de note? Son sopa, che so? …(Gridando) El fogo… no… vo dir ancor.
(Pausa in cui pensa come continuare) Saréme en prison e basta: de pan, de acqua
no se mor. (La tirano) Ahi. (Mostra il seno) Vardì, ‘na teta, sua celenza,
paciona amò, ‘na farinata de culo, cavalier, ‘na pulsera marina, gepa de
namorar, ch’a li maci s’indura. Comprendì… Ahi, no me grite juize che me
spagno. No ve comoveressi ‘na pora donela? …che omi svasati. (La tirano) Ahì.
No me slonghé.
Voi basar el crocefice e sperzurà che no sapo parola de strigaze. (La tirano)
Ah.
Bengime… slassate le corde che ge conto, ma promitime santità che depuì no me
brusa como stria. Si confeso toto fino l’ultimo fià me strich’e strica en una
logia de carcel e sia finì. Prometì…
Si ben el Bernardo de la Grosa me tormentò. Lu no me credìa de medicar.
Salvatico, impunente. D’envidiosisimo zaldo, pintato nela faza, quan me vedìa
me strazäa de putiferi, de furfantese me acusava, de scambià medicamenti per
nebolanti bagianà. Ol se sciala de la mia infirmità, che mi voi gir guaritesse
e mi, so sciopa, sopéco a ogne pas. Me toli a infamità den de la strada, davan
i gent che pasa, me stasona con petre nela s-cena. Ma un bel dì alfin el
Bernardo de la Grosa cae malàa. I su famm me presa de giutarla. L’è rivàa el
momento de farghe strosar giò nel gargarosso tote le male parole che ‘l m’ha
dì. Una debilesa de pancreatica c’aveva el Bernardo, che lo faseva sderenar e
perdér el capiss. Una spenelada de menta i comin e despuì de sei dì era in pè.
Ma jì, in luogo de menta i comin, gh’ho fàa una mesciuleria de föie d’oleandrum
sminzicà, de predesemolo secato, de gandulin de perzica schisciati, sbolentà nel
susu de more mate. L’ha bütà giò in un viff. E l’è mort in un vaff. …Vertà, l’è
mort. …No me credì? L’ho mazà mi. L’è busìa malfidenta che fuì bona no de
salvicarlo. No lo volì salvar.
L’ho mazà mi: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
…No de stregonense, che stregasa non son, ve lo sperzuro, (La tirano) ahi, ma
de veneno, l’ho matato. De un brodon spurulent navigante de mortaresi che come
te lo casci i’ntela pansa te liga i nervarezi i te renferma el sang. ‘Un scola,
i manco di’ perdo’ …drizo matado. (Grida) Maledicio una gotta no conservì per
mi, che morta potìa ser de un mese lungo.
Ho confesà. Dessé de spertecarme. De sciampa so’ clociata e mo anca de brassa.
Martiriatemi più. Ah. (La tirano) Perché no faci fine a mei torturamenti? Ho
confesà.
Che stupidez, decir la verità.
Onorevolense, meteme vu alora in su le labra le palabre che devo confirmar, che
anzoli del cielo no me guarda.
(Come se le fosse suggerito) Confeso sopra i sancti vangeli de ser strega i
practicar stregoneria.
E bon, e mo me lassa ‘ndà? (Spaventata) Che tochi de campana son sti qua? Me va
a brusar? La mi carcasa fümigada? Che busìa che m’han strepà di dincc.
Giuduni d’un Giuda, in su la mia pell se crompan l’indülgenzia plenaria.
BUIO
NOTA
La pronuncia è “all’italiana”, cioè si dicono tutte le lettere con i suoni del
nostro alfabeto, rispettando però le dieresi come nel dialetto lombardo.
Inoltre: “j” si dice alla francese, “c” in fine di parola suona dura, “cc” in
fine di parola suona dolce.