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La fola del vino

POESIE

di BALDI Lino Liano

La fola del vino

Dedicata al vin a chi lo fà e a chi lo beja………

                         Note dell’autore : 

 SI  SOL  RE  MI

    Come tutte le favole al principio: C’era una volta…..

Un NOBILE DI MONTEPULCIANO, BAROLO BARDOLINO sposato alla marchesa DONNA MARZIA CHARDONNEY, al raggiungimento delle NOZZE D’ORO diede un maestoso festeggiamento:

Per l’occasione ricevette tanti REGALEALI, tra cui un DAMASCHINO e un ZAGAROLO.

Ufficiò le NUVIZIAL con la sua benedizione SANGIOVESE, ABATE ma col CAPPELLO DI PRETE. La vecchia governante ORNELLAIA, moglie del GRECO accudiva  in cucina, quando MALVASIA della sorte una GATTINARA con GIOIA gli sgraffignò il pesce. Tutti i gatti all’INFERNO, NIPOZZANO ammazzà urlò imprecando.

Intanto i nipoti del nobile MARINO e MELISSA figli di MARTINA e GENAZZANO s’erano di soppiatto allontanati dal banchetto per raggiungere a METAPONTO, FALANGHINA e CIRO’ i loro morosi e inFRASCATI sotto un COPERTINO, HUGEL e PASSERINA mandavano in FREISA (RIBOLLA il sangue a vent’anni).

Dall’alto del FARO la GUARDIA delle TERRE ALTE scrutava ad EST, allungava lo sguardo fino alle CINQUE TERRE, mentre nel GUARDIOLO della pORTANOVA il sergente GRATTAMACCO di LOCOROTONDO rimuginava sulla sua bella moglie ELBA: quella donna è una VERNACCIA è un BIFERNO il PECCATO è con lei a SASSICAIA finirà come SANTA MADDALENA.

Lo stalliere tutto PIGATO sotto al suo cavallo MORELLINO controllava come mai fosse così  PROSECCO e TORCOLATO.

Nel frattempo i festeggiamenti erano giunti ai BRINDISI. All’istante si udì un colpo come di CANNUNAU, CORI di gente SIZZANO a domandare che ARCADE? Il ROSSO BARLETTA col suo CORVO ROSSO al braccio, tranquillizzò : è un BOTTICINO d’uno SCHIOPPETTINO o un tappo di SPUMANTE….. ma ebbe poco credito.

Dal vicino CASTEL DEL MONTE, dato che fin dal MATINO stavano a curiosare, SAVUTO il fatto  mandarono LAMEZIA una SCHIAVA GRIGIA a vedere cosa mai fosse accaduto.

Arrivata L’ANCELLOTTA alle TORRETTE dove TREBBIANO il grano s’imbattè nel conte REFOSCO dal PEDUNCOLO ROSSO che notando il suo GRAN CUVEE gettandola a BRAMATERRA approfittossi della VERGINE DI VALDICHIANA. La malcapitata urlava dimenandosi MERLOT MERLOT ma a nulla valse dopo quello CACC’E MITTE PENTRO.  Il bruto conte VIGNANELLO e PRIMITIVO gli avea THURGAU il ROERO e di NOVELLO poco era RECIOTO.

Di lei si persero le tracce dopo che passò un anno a CHAMBAVE col nome di LESSONA in un casino di CAPRI; c’è chi dice che si sia fatta MONICA di KLAUSER, mentre una FORESTERA asserì che era lei la DONNAFUGATA trovata morta nella acque del LAGREIN SCURO.

Si seppe invece quasi subito che il colpo udito altro non era che il VESUVIO dato che una VALPOLICELLA avea SFORZATO e SCIACCHETRA’ il botto per fortuna niente di GRAVE.

La festa continuò SOAVE. MANDROLISAI e ARPI suonavano ad ARTE e le BREGANZE ballavano al suono dell’ARGHILLA musica

ORTANOVA ai tavoli fu portata da un giovane, un certo CABERNET venuto dalla FRANCia. Era quasi buio quando i dami rientrarono, sembrerà un CARSO ma nessuno si accorse della loro assenza. Arrivarono GHEMME GHEMME ,  sCHIANTI sfiniti e ancora  SQUINZANO d’amore.

Il popolo FELICINO continuava a saltare nella piazza e gli fu versato un PICOLIT calice di MARSALA con un DOLCETTO al SAUVIGNON e un MARSICANO. Gli sposi ebbri di festa e di VIN SANTO andarono nelle loro stanze. Il NOBILE farfugliò alla fu pulzella : GARDA se riNASCO ti risposo

E subito s’accasciò sul letto.

In cucina CERASUOLO il GRECO con ORNELLAIA ormai stanca da morire. Un FIORANO ROSSO s’era fatta, tanto che una LACRIMA DI MORRO gli scese in volto. Quando si LEVERANO d’intorno sbottò, BONARDA sorte spero che feste più non FIANO. FAVORITA dal silenzio s’addormentò al tavolo.

Così la trovo il figlio GRECHETTO al suo rientro dal CILENTO.

Nella strada sottostante un emulo di CALUSO intonando ERBALUCE invitò

CANDIAmo tutti insieme lode al vino,appena parlato cadde a terra strabriaco dai troppi boccali. Ora SOLOPACA gente era rimasta.

ORBELLO un ALBANA  ARBOREA stava levandosi quando ormai inatteso giunse da CASTEL SAN LORENZO il duca CARMIGNANO sudante e in ritardo a causa di un fitto NEBBIOLO che AMARONE impediva di veder la strada; GAYO chiese d’una BARBERA per radersi ,ma lì c’era solo un BARBARESCO, il vecchio PELAVERGA che in un MARZAMINO gli mise intorno al COLLIO un bel MANTONICO DI BIANCO e lo rasò in contropelo della sua BARBAROSSA lasciandogli i BANFI. Il duca si disinfettò col SALICE e si risciacquò in un BRICCO, un TIGNANELLO pieno di un liquido VERDICCHIO che il VECCHIO SAMPERI aveva usato alla bisogna ( dentro c’era anche un VERMENTINO) ma il duca abituato a ben altre AQUILEA non ALEZIO parola anche se in BOCA avvertì un ASPRINIO sapore; con un gesto un po’ LAMBRUSCO subito PAGADEBIT con un RUBINO DI CANTAVENNA e dando consiglio:_ mettete FONTANELLE e comprate una GAMAY. Uscì alla ricerca di una stalla per il suo cavallo BRACHETTO e per il suo scudiero MOSCADELLO. Lui andò alla locanda di BIANCOLELLA essendo amico dell’oste GUTTURNIO.

Si rialzò dal giaciglio solo il giorno dopo e bevuta d’acqua un RAMITELLO, senza salutare in SASSELLA  a GROPPELLO PINOT PINOT ritornotte…

Non pria d’aver comprato una ROSA GENTILE per la sua donna LIVINIA.

In piazza era rimasto il pittore BRUNELLO capace col suo tocco di ritrarre anche un GRIGNOLINO. Sempre CORTESE ma anche PIGNOLO e un po’ FUMIN fischiettava FRIULI FRIULI mentre di ROSSO CANOSA o CHIARETTO il cielo e BIANCO CAPENA i monti dipingeva seduto accanto alla FORTANA infISCHIAndosi del mondo finchè non gli TOCAI i colori, divenne prima VERDUZZO poi TEBRO, BRUSCO chiese scuse e da me MOSCATO ebbe.

In quel momento dalla paglia di una damigiana di VINO DELLA PACE

S’alzò verso il cielo una COLOMBA PLATINO  e tutto tacque…………

Il giorno successivo il NOBILE e DONNA MARZIA l’ORVIETO ordinarono che più non si DIANO feste per anni sette.- Cosi ARCADE e tutti di questa ricordonno e come sempre è PREDICATO vissero ancora felici e contenti anche oltre i sette anni e fu così che TRAMINER la fola.

 

    Si racconta che delle NOZZE D’ORO e di tutto il resto ne scrisse SAN SEVERO in quel di VELLETRI insieme a SAN COLOMBANO e che ora quegli scritti siano finiti in mano a VERDONE e magari ci FARA su un film…… Ma questa è la fantasia della leggenda…………..

L’autore nega di aver “ Bevuto “ tutti i vini elencati……….IL DI-VIN POETA

             


(Sal pioa per S. Vito el mosto igghjè fallito)

SAN VITO             

 (quindice de giugno)            

FOLA

Quante volte tutti o’arete letto sui calendari o su i lunari : - S. Vito quindice de giugno. -         Ma ch’ igghj-era S. Vito?       ***

Perché anche mò, tutti,  ighhje strolichene su de Lu ?

A’mma-recordo, dai tempi onde i fanti i’sse’ possene recordà, “ la fiera”

 ( e’cche fiera)  de quande,  a’ jora  anche me,  ero fanto.

La prima volta che me a-mma’recordo ( a quei tempi u’nne steo anche  mo sotto la via del treno, a’ steo   a’ Ejosteria da la  “Rò dai cauli fiori “ ) accendè con la nonna Marià, la Marià la mogghja de Calò, (Toncelli Carlo,  lè aera una Edifizi, ae’stea a le Capanne ne la piazza de la Gigia) lè ajà sempre  ditto ch’ammeciaea portato   anche uguanno avanti  ma me a’mma -rrecordo, solo la prima volta ch’ammè rimasta in mente, tant’è  ch’avve la conto,  più o meno come aera e come  a’j-usaua.

Aruati su al Magghjo già a-sse’sintia el puzzo dei majalin che i vari Bonotti, del Ponto Noo,  quei de Pinarejo, o i Porcon, “ pronti “, i  li vendeene a chi li volea comprà. I  cristian, i’vviniene  da Massarosa, Camaiora e anche da Lucca per accaparasse i megghjio. Quei fe fora i-vviniene organizzati con caretti o cariole per portassili a cà, mentre  per i muntignusin che u’nn-aeene mezzi de trasporto, se i ne compraeene un solo andea ben de portallo in cojo o in braccio, sonnonche aera uso, quande igghjerene più de un,  ligalli con una curdiina  a le gambine, un co-ejaltro e tutti in fila, come canin al guinzagghjo, tirati da chi l’aea comprati,  via sù per i viottuli de Rosoleto, Zamparina, La Serra o per dì giù per la Reneja, Debbia o la Marina, con quele zampittine piccinine, pianin pianin, dreto al noò padron e un dreto a-jaltro, come indianin, anzi come purchittin.

A Muntignoso a’ssè sempre usato cuncià i porchi, più o men, i lo feene tutti anche in cà, da soli. Famosi a quei tempi più de igghjaltri, igghjeren de siguro Jacopetti e Adò chi’ffeene a gara ad accaparasse la palma del più brao a cuncialli. Lori igghja-eene anche la bottega per vende, insomma i lo feene de mestiere. Anche lori  i’ggiraene tra le gente, nel mezzo de la fiera, i feene finta de mirà  i banchetti ma el loro intiresse igghjera de sintì  dai contadin  su quel che i’ddeene da magnà ai  porchi,  per podè   valutà e capì se la ciccia  po’ al sirebbe vinuta bona o meno per facce i salami. Salami… più che altro: biroldi, salcicce (el lardo u-nnera anche mò famoso come mò, e la sciungia a la pigghjaua Yu-Yu per lustracce i’gghje scarpon de chi l’aea) Contadin cervejo fin, i’ddice un proverbio-  Girando a chiede al fù cugì che Gian alla domanda:- che’ttu ghjè da te da magnare ai to porchi?  igghjà rispose:- me un-gnè daco mia da magnare, me tutte le matine agghje daco le palanche e lori i vanne al concorzio   e i’sse comprene quel che ghjè pare e quel che più agghja’-ggrada.- Eh acce-nera de burlon una volta piu  che mò.

 Cumunque aera li, durante la fiera che già igghje scelgeene onde piantà el puntarolo. E i contratti :-   ( igghj-affari )…  Una strinta de man . -

(Parlando de magnare come assepò un assaporare con la memoria le mitiche polpette de le Scarenzi o i rapin de la Virgigna, che tempi che prufumi)

La via per e’ndà alla Piazza au’ nnera come mò al fea un giro più a la tonda, al giraua sotto la villa de’igghje Sciffe  e po’  accanto al canalo, come mò a’tte portaua sù, in piazza del cumun, ma i più i prefiriene passà dareto, dai Riccioli onde la via più dritta  ma più curta a’tte fea aruà prima.

Scì perché la fiera de’ i’gnanimali aera per la via grossa ma i dolci e el mercato igghjeren sù la Piazza e i cristian o i fanti  ch’ i-vvoleene  vedè i banchetti i’gghjeren tutti lesti  per aruà  prima  in cimo a la Piazza.

 Ostia che robbe, lì tu vedea:- turron, croccanti o zucchero filato, tu li vedea e basta, perché  la nonna Marià, che se aesse poduto att’arebbe dato anche el core, u’nna-ea le palanche per comprà quel ben did’Dio, me come i più a quei tempi a’ssa’ccontentaene de vedelli liccando ne’ejaria i prufumi, sperando ch’ almeno un “sigarin” o dò lupin la Marià o la nonna de qualchidun altro assi-li-potesse alla fin comprà.  ( a’cambio discorso)

 A’mmè sempre rimasta impressa una donnetta piccinina ch’al vendea le cò drento a un cesta; a’mmarecordo ch’a la vedeo per s. Vito e po’ sempre co la so cesta a  la revedeo a vende nei giorni dei Santi e  per i morti, al camposanto .

(chissà perché? forse perché anche el camposanto igghjè didicato a S.Vito? mah!?!)  al pare ch-a’sse chiamasse “ Clutildina” . ( Po’ darsi ? )

Un v’e dico come ogni volta andea a finì. Avv’e dico solo che ogni anno da quande doppo nati, al ven memoria,  aspettauo sempre la festa de S. Vito e sempre a’mme-la-recordao un sò se per el sighirin o forse perchè el giorno dopo, a cà igghjeren tordej, visto ch’era nato un de i’mme fratei. (anche la rima) Ma, scì a’ lo conoscete  “El Trilly “ (Franco Baldi) . Que’jaltra che già un c’è più, aera la Lina . -El me bà igghjera Mario, (Mario de ‘Betto ) la me mà  la Ada, ch’al campa anche mò.  /// O aete capito da-onda’ vegno e di chi a’sson ??? ///

Che festa che diurtimento, quattro pezzi de turon per cento franchi, un i gridaua e a fianco un i’vvendea paracqua, accanto - aceto forte,  -aceto forte, paracqua –(un’nanne fatto affari nisciun dei dò ) e i lupin, le nucijne, le simintine, le carrube, i sigurizi, i licca licca , tutto un ben did’Dio roba da Pasqua o da Natalo.

Un c’era bisogno de magnalli bastaua la vogghja de miralli che bajocchi, come a’vvò già ditto ass’accontentaene de sentire el gusto  e a volte de miralli in bocca, come sempre al succedea (e al succeda anche mò), a qualche fanto, coi bà più ricchi, figghjioli de dottori,  de maestri, o puliticanti.

Un de quest’ultimi tra l’altro a’mme-ven in mente che per le Palme, con la scusa de dà un bagio al bimbin Gisù ( complice dela me inginuità) i’mme magnò l’immagine de Gisù fatta de zucchero ch’aera drento la palma da binidire e appena biniditta, ( crescendo i’mman sempre ditto come ho fatto a-esse diventato de sinistra, lascian perdere la pulitica quel fanto lì, igghjera un ladro chigghjà avuto el coraggio de rubbà in chiesa  e non per fame ma per gola. Infatti come el sò bà anche lu issè buttato, più in là, in pulitica). A l’arebbe pistato volentera ma lù igghjera più grando. Un ce la podeo fà. Quant’immè mancato quel zucchirin almeno almeno fin a-la Pasqua doppo ma aiora o lo tinio rempiattato tra le man e guai a chi s’avvicinaua. “ E mozza tà” una volta scì ma dò no. Fichi fioron !!!

Da grando un’no ‘mparato de più de quel ch’a feo da fanto , in bricicretta arruao  utimo, a pajon  aero debolo… imm’am mandato a fa el barbiere.

I barbieri igghjen tutti famosi per scherza a fa barzellette.

Me un podeo  esse da meno…  e qualcò a doeo fà anche me, e qualcò arò anche fatto , mah chi lo po dì….. de certo un posso metteme  a parlà de me e aiora…

E aiora ….

A rendian a S. Vito, anche perché sonnonche chi leggia i pensa o i potrebbe  pensà ch’assio ‘ndato o partito (specie si fusse un forestiero, sempre ch’icce la fesse a legge e capì ) ma siccome a’sson anche mò qui…  eccheme.

Quande un igghjè  fanto i’ssenta sempre parlà i grandi e un-gne par millanni de aruà ad esse grando anche lù per podè fà quel che igghjià sintuto dì.   (al pare che i vent’anni u’nna-riune mae)

Mò per chi i leggia e un sà le tradizion de Muntignoso visognerebbe fagghje una spiegazion, “  agghje-la-fian  “

Per la vigiglia de S. Vito a’sse usaua, a Muntignoso,  de portà a la fanta che un i volea, de le cirege e mettegghjele su la porta, i più coraggiosi i le portaeene  fin in cà, ma aera rischioso per la reazion dei bà, che quagi mae igghieren contenti, de vedesse arua in cà un giuinotto, se el giorno dopo a la fiera la fanta aea agghj’orecchi a mò de pendento dò cirege al significaua che le ajaea gradito e ch’ aera contenta, dopo da cò al podea nasce cò. E qualche volta anche dei bimbin, (spesso). Questo a lo fea i più grandi, quand’aiè  toccato a me, i tempi igghjeren già cambiati.

Ma a ditta de la Giusippina, ch’ajà più memoria de me, aera tutta una finta, una manfrina, che forse al podea ae un significato per igghjaltri giuinotti, quei scartati, per fagghje intende che ormae lè “ un “  a-l’aea  scelto, de certo con questo qui,  i’sseren già cunusciuti, magari acce stà che lù igghja-esse tempo prima attaccato un maggio, ( altra tradizion del paeso) insomma de sicuro i’sseren  già misi d’accordio. El maggio i’gghjera una spece de invito, una pirgamena o simplicimente un fogghjo de carta ch’i-vvinia appiccicato a le porte o dato a le fante, nel piriodo  ch’icchanteene el maggio. Un invito per la prossima festa da bajo. A’sse bajaa da  Damì, da Giusè el zoppo, da la Pancetta, d’estata a la grotta verda e ne le feste come carnoalo  o per el vegghjon de ej-utimo de ej-anno anche al cine da Rosi. Col tempo bejo a’sse bajaa  anche fora, bastaua una cà  ch’aesse davanti  un po’ de piazza  para, megghjo s’accera un po’ de pergola.

Per quele fante (che ogge asse direbbe ch’a-sse la tirene, mentre a quel tempo ajerene ditte simplicemente “strons/e”) che un deene nisciuna relazion refiutando el maggio e quindi el corteggiamento, o a qualchi-d’una ch’al fea  rebrezzo, ibbola, al posto de le ciregie, agghje se portaua dei bijchiri d’agghjo ligati a ciuffo, o  anche pistati,  chi’vvineene po’ striminati sù la sogghja de la porta (un puzzo) qualchi-d’un i’cce buttaua anche una bèla pippa  de buttin. ( magari prima assaggiato,  per sintì  che un fusse de quel bon per le bragette de-jorto ) .

E’ppò, per la vigiglia a’sse usaua e anche mò asse usa (sebben meno) ‘ndà a’rruba’ i vasi a cà de le gente e portalli in piazza tutti ben misi, in modo che ugnun i podea retroà i sò, mescolati fra tanti. A’ssa-ippaeene su per muri, un c’era reta ch-a’sse  podea fermà a’entraene e a pigghjaeene tutti i vasi c’accera.

Dai vasi a’ssian po’ passati a cancelli e ogni ben did’Dio tantè vero che una sera coi soliti compagni de congrega , i’ssan fermato come ladri, aerene me, e quigghjaltri, che un mentuo solo perche magari un vogghjene esse mentuati e anche perchè qualchidun igghjè ormai  passato bonanima,  grazie a Lu.

Insomma aeene un caretto carico che de più un sé po’. Lungo el vialo de Marina andeene per accappare el tutto con tutto quel che già aeene “ accappato“ a’sse ‘ncrocia una pattuglia de carrabigneri a’sse intima l’alt e  un i’ddice   :- donde aete preso  tutta questa roba ?- chi o’ssete?  donda-’ndate???

Una fifa addosso una scurecetta de paura a’spiegan la tradizion ma igghjeren de fora, un sapeene gnente de la festa de S. Vito  e un san criduto, tutti in caserma per  igghjà-ccertamenti. –El maresciallo bravi cumplimenti- Nojà un sapeene più che dì  ne-mmen che mae  che fà. Per furtuna ajè aruato un graduato che de Muntignoso i’ssapea ogni cò, dato che ajera da un po’ chicc-e-stea, e spiegato el tutto, subito i’ssanne rilasciato, noià abbian ditto: - grazie appuntato, - ma appena isciti dalla caserma agghjà-bbiam arrubato el vaso chigghj-era sul pilastro del cancello.

Le tradizion, un  deene ne al possene finì… A qualchidun a-l’aeene ditto, a qualchidun abbian   cercato de fagghjelo capì,  Muntignoso i’ddè  vive, un pò murì cugì, cugì come si fusse Milan, Milan  per dire, una città granda, Muntignoso a’ssian noià,  e come nojaltri … Acce-nè,   veramente poghi.

   ***  Dopo varie ricerche e domande ad alcuni prelati e studiosi locali non sono riuscito a capire quale legame ci sia stato fra il Santo in menzione e la comunità di Montignoso, fino al punto di farlo Santo Patrono. Ringrazio Corrado Giunti, che mi ha recapitato il libro “ La Pieve di S. Vito “ Non ho potuto attingere  le notizie che mi servivano. Un grazie anche a Narciso el giometra, ch’imme la letta per primo.

Vado a testimoniare quel  che sul santo ho trovato nelle mie ricerche  varie e sulla  “ LA LODE “ (sussidio per la celebrazione domenicale per sacerdoti religiosi e cristiani impegnati )

Vito è stato uno dei santi più popolari del medio evo. Ne è testimonianza anche il suo inserimento nel ristretto gruppo dei SS. Ausiliatori, (i  14 o 15 secondo i luoghi) santi, la cui intercessione era ritenuta particolarmente efficace, in occasione di malattie o necessità caratteristiche. San Vito era invocato soprattutto per scongiurare la corea, o ballo di S. Vito, ( malattia del sistema nervoso caratterizzata da contrazioni muscolari, con movimenti involontari)  la letargia ( stato  abnorme di sonno profondo) e il morso di bestie velenose e idrofobe.

La figura di S. Vito è stata avvolta dalla leggenda che si è concretizzata nella fantasiosa Passione redatta nel VII secolo ed è ora impossibile distinguere ciò che è realmente accaduto. Anche se è possibile mettere in guardia da grossolane invenzioni. E’ in questo spirito che gli esperti che hanno redatto il calendario riformato hanno stilato a proposito del 15 giugno la seguente nota :- La memoria di S. Vito, martire in Lucania, benché antica, viene riservata ai calendari particolari . Modesto e Crescenzia invece sembra siano persone fittizie, i cui nomi sono stati inserite nel calendario romano nel sec. XI

La leggenda nota: Vito, siciliano di nascita ad appena sette anni è cristiano convinto  e comincia ad operare vari prodigi. Il preside Valeriano ne ordina l’arresto e tenta di farlo apostare ma non riesce nel suo intento nemmeno con l’aiuto del di lui padre. Il piccolo Vito  ha ormai preso coraggio e forza dagli insegnamenti del suo pedagogo Modesto e la nutrice Crescenzia. I tre prodigiosamente liberati da un Angelo, possono ritirarsi in Lucania, dove continuano a rendere testimonianza della loro fede. La fama di S. Vito guaritore giunge fino a Dioclesiano che lo fa arrivare a Roma per porre rimedio all’epilessia, allora malattia impressionante, del proprio figlio. Vito guarisce il coetaneo ma per ricompensa viene di nuovo gettato in carcere. Toccherà ancora all’Angelo liberarlo Vito torna in Lucania dove ritrova Modesto e Crescenzia e lì troverà il martirio. Nonostante la leggenda Vito forse non era taumaturgo e forse neanche bambino ma continua a stimolare l’impegno cristiano dei tanti Vito italiani, Vite o Guy francesi e Veit tedeschi.

2004 a cavajo del 2005                                                                                    Lino Liano BALDI 

da Montignoso


AMICI MIEI,

El punto de partenza, onde al vinia sviluppato ogni idea, igghjera el bar del Tacchino, diventato  doppo el bar de la Piè.  Ma noialtri aerene sempre i soliti.

I soliti chi’ffeene disperà sia un che e’jaltra. Disperà è vero ma con rispetto a’sse garbaa forse anche troppo scherzà come nel cine de “ amici miei “ a’ne’nventaene de tutti i colori.

A de-ddì che el gruppo igghjera veramente forte e me sa podeo a’deo volentera una man, anche dò. Se le segate al fussene state palanche mò a’ssirebbe ricco. Aerene proprio una bela ghenga…

Al fù lì che in una de quele giornate calde d’estate, a’sse dicise de’ndà al Forte a pigghjà un-aperitio.

Cunci come aerene, a’sse parta per ‘ndà al Forte a’ffà i signori, cugì aeene ditto e cugì a fenne.

Aruati al Forte a pigghjan pusizion al Principe el bar più  de lusso del Forte. Subito con fare da signori, anche se a lo vedea anche un porco che un’neren,  asse fian unì dò  taulin e’ppò a’urdinian come  ricchi  signori quel che a’sse garbaa.

Mò un vorrebbe sbagghjà ma erene in sette, forse otto?  Partiti  con dò machine, accerene:- me de siguro, un de Firenze un de Parma e i soliti de sempre. I soliti de sempre igghjerene de volta in volta tutti quej che j frequentane el bar che al momento igghjerene lì e i viniene coinvolti o i coinvolgeene. (quel giorno amme pare de recordà accera chiamandoli con nomi finti  , LILLO ,  FRANCO, VASCO  el LELLO  e altri  che a chiaman  TIZIO  CAJO e SEMPROGNO. Tanto igghjenne tutti nomi de fantasia, chi sà i sa  chi aerene e ch’ igghjerene.

Ricchi come mae a’ffian dò cunsumazion, grandi, con fare da grandi riccon. Dreto a noià  a un taulin a’ccera dò signore sole, come un lampo in accordo con quejo chi guidaua quejaltra machina a fian in modo che in dò igghjarimanene a’ppè, mentre quigghjaltri iffan finta de ‘ndà via.

Accordo fatto a pensiero prima anche mò che tutti i’sse alzene  me e quejo de Firenze a scommettian con tutti che assirebbene ‘ndati da le signore sole e agganciate a’la-rebbene portate la sera al bar. Accettata la scummisa doppo un minuto noialtri aerene già assettati con lore e con lore già a divideene  vecchi ricordi,  aerene vistiti ben eppò a recitaene la parta dei ricchi signori, lore aeene abboccato, aran pensato:- ecco dò polli ch’isse paghen le vaganse.-

Igghj’amici in accordo i’sse ne vanne e soli a’rimana quej dò che soli i’ doeene rimanè e col conto da pagà. Li per lì ippaghene el conto e i’sse lascen campo libero raggiungendo quej che già isserene allontanati:

Un trovando più ne lori ne la machina… igghje ‘ncumincene… a appuzzazze de qualcò e igghje ‘ncumincene a girà intorno al bar  e fare cenni.

Noià a feene finta de gnente e lori i’sse-ncazzaeene sempre de più, alla fin Lillo i’ssavicina al tualin. Mò immaginatelo coi calzon curti, zocculi, una camigia da mercato, ligata sopre el bijchero, un cappejaccio in capo, insomma apparenza zero,  aspetto da rozzo sceso dai monti, i’vven al taulin e in dialetto, da ‘ncazzato igghjè sborbottola qualcò, per le forestiere arabo,  ma noià dreto a quele parole sparate a raffica aeene ben capito che lu i’vvolea ‘ndà a cà ch’igghjera stufo e via moccoli.

A’mme giro verso l’ingresso e a chiamo el cameriere, lù i pensa meno malo i pagà cugì andiam via, arriva el cameriere e me subito con distacco:- cameriere questo individuo stà molestando noi e le nostre amiche, vuol provvedere a farlo allontanare…. A’un faccio in tempo a finì la frase, che lu i’ddà in escandescenza con urli, parolacce  e giù  moccoli. In  tre camerieri, tre camerieri per fallo allontanà con la minaccia dei carabinieri. El muso, el sò  i’parea un vulcano quande igghj-erutta, l’altro amico con le bone i lo cunvincia a reentra in corriera e cugì i fanne fin al Cinquale, donde per la via, a’ppè, passo passo,  su sù igghiendeene e lì a-l’abbiam  raggiunti. Dopo dò spinton sett’otto parolacce dò scuse e una prumisa  el nervoso i’pparea  passato.

La prumisa aera che siccome ej’affare con le dò donne i’sse podea anche fà ma la sera alle 10 quel ch’isserà fermato con me un podea vinì e el Lillo  i-l’arebbe puduto rempiazzà. Appuntamento a le dieci al caffé Milano del Forte.

Caffè Milano, scelto perché i’sse troa in una pusizion che tu po’ vedè da rempiattato tutti quei ch’igghjarivene.

Alle 9 e quaranta aerene già tutti piazzati  rempiattati dreto scepe e piante a spettà ch’igghjà-rivasse. Alle dieci meno cinque ecchelo… liccato e prufumato tutto in tira .Giro de ronda intorno al bar, i cercaa con occhiate lunghe de vedè  s’accero. Tra l’altro  dò donne  eren proprio sole a un taulin e al pareene  in attesa. (non le stesse ma lù  queje del giorno, preso da la rabbia, gnanche i l’aea viste) Igghje-ncumincia a pensà ch’ajè vero sul serio quindi i’sse fà coraggio igghjentra un và  al taulin  ma al banco interno in attesa.

Dopo tre quarti d’ora un de noialtri igghientra, e i racconta che me aero stato a la pension onde a steene quelre do  e che l’appuntamento igghjera stato rimandato a la sera doppo.  nel frattampo a’mmero intrattunito un po-pò con lore, mandando lù ad avvirtì che l’appuntamento igghjera remandato a dimanda-sera stesso posto stessa ora.

Me un sò se lu i’cce-ndato noialtri nisciun e me per una sittimana niente BAR.De certo a’sò che al primo reentro in cumitiva a’mmè aruata addosso una sciacquata d’acqua, mandata dal celo, ma tirata dalle man de Lillo vindicatore. Al voleà dì che aerene pronti per cumincià a pensà a una nova segata.

A’naeene tante:

Era de moda lasciasse a’ppè. Fà scummise su chi ce la fea a fa ogni cò. Rubà cunigghj e gagghjne e invità a cena el derubato. Sciacquate d’acqua e non solo… Fare i mannej a carte, col solo scopo de vince per fa la cojoneja. Svegghjà a tarda notta chi marcaa visita. Scherzi al telefono, Truccasse a donna per ‘ndà a batte su la via. A’sse-né fatte tante appena a posso a’vvè le racconto tutte….

Almeno queje ch’a-ò  anche mò in mente.

BECCAMORTO

Quante volte a leggian, e un sappian el significato de le parole. A me a’mme succeda spesso e spesso a vaco a cercare per quanta-a-posso  per podè capì. O’vve sete mae dimandati quel ch’al vò dì per  esempio  la parola   “BECCAMORTO”

Da i cenni storici ch’assè nel tempo retroato a Muntignoso, come in tante altre parte d’Itaglia, a’jesistea la figura del  beccamorto.

Al vinia cugì chiamato un omo del paeso che igghjaea el compito di podè capì se un cristian che i-pparea morto i lo fusse veramente o se oppure aera solo ‘na morta ch’al parea . Mò a doete pensà che a’sse parla de tempi lontan intorno al 1350 e un c’era anche mò conoscenza de la scienza medica come acce po’ esse ogge. A’sse ‘ndea un po’ a occhjo e per  ‘sperienza. Un c’era nè machinari nè altro, per podè fà de-jaccertamenti e avè de le certezze, a’sse-ndea a taston.

Questa persona, el beccamorto, ighghjaea el compito de vedè se el presunto morto ighhjera proprio morto o se i’ffea finta de essello o altro. Queio de Muntignoso, de’ j-anno 1350 appunto,  i’sse chiamava   Felice  DESOTTERA’.

Come a’sse leggia  nei libri  de-igghj archiui  de prima de l’unità  d’Itaglia,          (  quande aerene  chi sotto un, chi sotto un altro e   accerà  già chi  volea stà sotto un anzi che sotto un altro o  chi voleà stà sotto tutti e dò,  famosa a quej tempi  aera donna  Mastella VELADO’)    tutti  più o meno igghjaeene el BECCAMORTO.

Lu,   el nostro beccamorto, come tutti quej del resto del mondo i doea ‘ndà a cà del prisunto morto ed effettuà questa operazion:-

Lù igghjaruaa i lo miraua,  i lo girua, i lo remiraua, i lo regiraua  e’ppò a capo del letto igghje scupria i’ppè, dopo-de-chè con un fare da esperto i’sse chinaa  e i’ddea una boccata sul dito grosso del pè.  ECCO  PERCHÉ  BECCAMORTO . Se el morto un dea nisciuna reazion al volea dì ch’ìgghjera proprio morto e quindi a’sse podea fà el trasfirimento fin al camposanto, in caso contrario… gnanche a dillo tutti contenti, compreso el beccamorto che per fa questa operazion,  sia ch’al finisse in un modo che in quejaltro, i’sse pigghjaua 3 scudi.

El beccamorto igghjera un bel mestiere.

Tutto ‘nde ben fin al 1400 quande al morse un senza gambe…

Da lì innà a’ssen chiamate……pompe funerbri.

Lino Liano Baldi


BECCAMORTO

Quante volte a leggian, e un sappian el significato de le parole. A me a’mme succeda spesso e spesso a vaco a cercare per quanta-a-posso  per podè capì. O’vve sete mae dimandati quel ch’al vò dì per  esempio  la parola   “BECCAMORTO”

Da i cenni storici ch’assè nel tempo retroato a Muntignoso, come in tante altre parte d’Itaglia, a’jesistea la figura del  beccamorto.

Al vinia cugì chiamato un omo del paeso che igghjaea el compito di podè capì se un cristian che i-pparea morto i lo fusse veramente o se oppure aera solo ‘na morta ch’al parea . Mò a doete pensà che a’sse parla de tempi lontan intorno al 1350 e un c’era anche mò conoscenza de la scienza medica come acce po’ esse ogge. A’sse ‘ndea un po’ a occhjo e per  ‘sperienza. Un c’era nè machinari nè altro, per podè fà de-jaccertamenti e avè de le certezze, a’sse-ndea a taston.

Questa persona, el beccamorto, ighghjaea el compito de vedè se el presunto morto ighhjera proprio morto o se i’ffea finta de essello o altro. Queio de Muntignoso, de’ j-anno 1350 appunto,  i’sse chiamava   Felice  DESOTTERA’.

Come a’sse leggia  nei libri  de-igghj archiui  de prima de l’unità  d’Itaglia,          (  quande aerene  chi sotto un, chi sotto un altro e   accerà  già chi  volea stà sotto un anzi che sotto un altro o  chi voleà stà sotto tutti e dò,  famosa a quej tempi  aera donna  Mastella VELADO’)    tutti  più o meno igghjaeene el BECCAMORTO.

Lu,   el nostro beccamorto, come tutti quej del resto del mondo i doea ‘ndà a cà del prisunto morto ed effettuà questa operazion:-

Lù igghjaruaa i lo miraua,  i lo girua, i lo remiraua, i lo regiraua  e’ppò a capo del letto igghje scupria i’ppè, dopo-de-chè con un fare da esperto i’sse chinaa  e i’ddea una boccata sul dito grosso del pè.  ECCO  PERCHÉ  BECCAMORTO . Se el morto un dea nisciuna reazion al volea dì ch’ìgghjera proprio morto e quindi a’sse podea fà el trasfirimento fin al camposanto, in caso contrario… gnanche a dillo tutti contenti, compreso el beccamorto che per fa questa operazion,  sia ch’al finisse in un modo che in quejaltro, i’sse pigghjaua 3 scudi.

El beccamorto igghjera un bel mestiere.

Tutto ‘nde ben fin al 1400 quande al morse un senza gambe…

Da lì innà a’ssen chiamate……pompe funerbri.


COME BIMBIN GISU’

Me à dorebbe esse un fanto furtunato. A’ sson nato ne la “   bambagia   ” O’ te  oà-esse mae saputo che cazzo aera questa bambagia. Ma al pare che me, assio nato lì.

 Per pricision  a’sson nato dopo guera, e  ajè vero già aera  ‘na furtuna. Un’nò sintuto i colpi de le bombe, che tutti per anni i’mman  contato. Me gnanche  à voleo sapè , tutti i’ssen prudigati per contamme:- la guera, la risistenza,  el fascio lo sfascio de lo sfascio, i cumunisti, quigghjaltri e’vvia e’vvia.  Aero fanto è vero ma già i’mmaeene fatto do’  paje a brendalon come  queje  de Noè.

El me bà igghjera un ferroviere, petta, cioè: a voleo dì,  i laoraa  su la via del treno, i’ffea el manoalo, pala e piccon, à sposta le travirsine e remòe i sassi.  laoro  onesto,  pagato pogo  e de fadiga .     (proate)

La me mà invece  per sò furtuna  aera  un artista, al  laoraa nel cine, come anche el mè  fratejo.

Lè al fea la maschera al cine da  Giusè el zoppo.  El me fratejo igghjè strappaa i bigghjetti.

Me aò avuto el culo de podè  nasce doppo guera, in più de  vedemme gratisse tutti i cine ch’iddeene in que’janni …! Ercole contro Ulisse, Manitù contro Gisù  Maciste, Ursusse  e  tante altre fole… Però d’altronde,  Da Rosi,  magari i’iddea un megghjio cine ma  à doeò pagà …  e chi l’ae le palanche per ‘ndà al cine  e pagà ?

El cineasta del tempo, quejo de Giusé el zoppo (ormae bonanima tutt-e-do) i lò chiamaene Fellini tanto igghjjera brao nel sò mestiere. El cineasta igghjera-quejo chi feà gira la pillicula, che normalmente i là fea partì e’ppo i dormia fin-a-cchè un sintia i fischjj ch’i’vvineneene da la sala ogni volta  che la pillicula a’ssà rumpia. (sempre e spesso, a  dà noia al sonno de’joperatore).

El sò garzon  che po’, diventato più brao anche de lù, igghjera Pino. Me a’mmarecordo ch’issapea ogni cò dogni cine. A memoria, lù  i conoscea vita, morta e miraculi  dogni artista sia ‘tallian che ‘merican. Doppo i’sse perso nel pajon… De cine comunque à penso i’ssen’entenda anche mò più de tanti che i’ddicene de intendesse e un cé capiscine ‘na sega.

Cumunque de pajon i’ccià capito come de cine - e… se un fusse che igghjè per               e-jntere …………

In ogni caso, quej tempi, igghjeren bej tempi, a’sse voleene ben, a’sse prestaene el salo o per dì  el-zucchero, un con que’jaltro. Pronti  a quistiona per gnente, a feene pace doppo un minuto, are-quistionaeene per re-fà pace, ma à-sse voleene ben.

Doppo a’sse sian ‘ricchiti

O’ a’sse  sian  sintuti  cugì  solo  perchè  aeene  el  pan  da magnà, che prima un’nà-ene.    (Visogna proalla la fame, e mò ch’asse potrebbe ùn falla più proà a nisciun ò fian i furbetti a pigghjà per el culo chi à visogno….)

A’sse sian sintiti e à sse sintian  ricchi…-

Un’abbiam capito ch’aerene e….a’ssian  rimasti e a siren forse sempre solo      dej  cojon.

Me a’ ‘orebbe rendà a quei  tempi quande a’sse puliene el culo con le fogghje de fico o col pampino de ua … e… smette de esse preso per i fondej cò la             carta-jgenica

 ( CHE PO’  AL SIRA’ PROPRIO JGENICA O…)   ////Lino liano Baldi ////Muntignusin/// scusateme…..e  voleteme ben


Come igghjeren bon, quej tagghjarin

A Muntignoso aè sempre usato alzà un popò el gomito e anche tutto el braccio.

Come in tutte le cose bisogna capinne el mutivo. Tradizion, predispusizion ???

In paeso le cantine un’enne mae mancate da queje storiche del dopoguerra: Scarenzi, Misciulin, Filì, Giusè, Miglietta, Pupporona, ecc. a queje che  mò dai monti al maro, a’jan sustituito le vecchie cantine con rinnovati bar, ma sempre in tutti tu troa la droga dei poeri      “ el vin “.

Droga dei poeri e’scì. Muntignoso unnè mae stato un paeso ricco gnanche nel passato e se tu caa igghje Sciffe e igghje Sforza de famigghje ricche un ce-n’era proprio, qualche benestante ma ricchi intesi ricchi un ce-n’era. Dopo la seconda guera mondiale el paeso igghjera distrutto in tutto e per tutto. Omi e donne i’naeene passate de tutti i colori. Anime disperate svotate de ogni dignità, campati  per miracolo anzi scampati, lì onde in tanti ì’cciaene lasciato la peja.

Le donne al cercaene de accasasse per iscì de sù le spaje de i ginitori, eppò rimanè zitella u’nnera bejo a quej tempi, igghjomi i cercaene una compagna ch’àgghjè fesse da mà e da mogghja, fatta, isse troaene e i metteene su famigghja, senza cà, senza laoro, senza senza.

E’junica manera per sognà aera quea de infilasse in gola un po’ de vin, ch’ì fea scordà la fatiga del laoro, o la forza dendallo a cercà o rempiattà i rospi in gola. Un c’era ne trevision ne giochi  se  non quejo  d’una partita a carte, con quattro moccoli, e do-ttre amici

Al fù in una de queste sere passate in cantina, che doppo ae buto qualche bicchjeretto, a Giusè agghjè-vense  in mente de’nvità a cà  soa  igghj-àmici de buta.

O fanti à volete vinì fin a cà-mmea la me mogghja aià preparato dei tagghjarin nei fagioli che igghjenne la fin del mondo, à vinite?

Mezzi ‘mbriachi igghj-àccettene e i vanne.

Per la via Giusè ì l’avverta:- ò fian pianin pianin e stian al buio, cugì la me mogghja un se svegghja, va ben?  Sonnonche asse manda tutti fora, a lo sapete come aè fatta no?

Tutti con un cenno de coppeja ìgghjà-mmicchene de scì.  Anche perché anche le sò mogghje aun eren diverse da queja de Giusè.

Le donne un eren de certo contente dei mariti che igghjendeene a bè el vin eppò a cà ì’ffeene i disastri, compreso quejo de fagghjè fà figghjoli a ripitizion.

La cà de Giusè  aera come tutte le cà del dopoguera, dò stanze una sotto una sopre separate da un bajatojo in cimo a una scala de legno ch’al portaa ne la stanzia da letto, el cesso quagi sempre fora, la cucina un taulin, de le scrane, un fornejo, un foco, un mobile, un acquajo un…pogo de niente ma tutto quel ch’accera iccera e un mancaa gnente e gnente accera in più.

Entrati drento, al buio, in silenzio, come solo i briachi un possene mae fà, a taston armati de mestolo e cucchjari, tutti inseme, quatti quatti,  issà-vicinene al pajolo ligato a la catena del camin.Sintite che robe! Igghjenne ‘nchemò tepidi. E giù mestolate e cucchjarate zeppe e piene

Un ì sentenzia:- ostia come igghjen bon, e come igghje schiocchene i fagioli.

E  Giusè  de rimando:- atte credo igghjenne quej cò jgghj-occhi. Atte-leo ditto ch’igghjen bon

E un altro:- igghjen proprio bon che’dDio. Igghjen  proprio saldi i fagioli. Senta che schiocchi

Igghjenne perfetti,- ì’ddice quejaltro:-  bon  e come igghje schiocchene in bocca.

In quel mentre ass’accenda la luce. (Tre donne al mercato al fanne un casino ma quattro briachi i fanne altro che bordejo ).

Come la lampadina ae’illumina el paiolo, tutti inseme un urlo, sul pajolo, sù la catena, drento al pajolo, tutta una sfilza  de borbolon dal lozzo, quej neri schifosi.

Atte credo che igghje schioccaene i fagioli.

Per dò sittimane tutt’e-quattro u’nàn fatto altro che vumità, ibbola, senza gnanche più passà in cantina.

Cunsigghjo del saggio

sia a dicembre come a maggio                                              LIANO 2005

seppure t’à coraggio

se sicuro tu vò magnare

ricorda el lumo d’appicciare

un’te-lo  diminticare…………………………………………………are are are are are

SCHIO’, SENTA COME IGGHJE SCHIOCCA, SCHIO’, COME IGGHJE SCHIOCCHENE


I CANARIN

 

Oaete mae fatto caso ai canarin quande i volene ne la gabbia, mirateli…Un fanne mae dei voli normali. I fanne sempre dei balzi giumetrici, a triangolo, a trapezio, a zigghe e zache,  in zina  ma mae morbidi,  sempre de furia. U-nné  vero ?

Mò al succeda ch’al ven  la guera. Ma scì o’narete sintito parlà no? la guera dei canarin i-lan ditto anche a la trevision… milioni di ugej morti … inviati aiuti sanitari ( scatolon de viagra) Va beh! Insomma ae scoppia la guera. Anche el canarin  in  gabbia i’vven chiamato. La canarina col pianto a la gola agghjè dice un-cendà sta a cà, agghje s’attacca ai ginocchj ( a voleo dì a le gambine)  ma lù devoto a la patria i dicida de partì. Isse ‘nfila ej-elmetto, igghje stivali i pigghja el tapun, ch’issirebbe eje schioppo dei canarin, sè o sette bombe a ala, coltej, insomma, armato fin ai denti (pardon fin al becco)  i parta. Aruato a-jareoporto, (lì accera anche el presidente dei canarin a salutà questi eroi… Mi si consenta di…. Insomma  do discorsi e i li manda in guera) i’ssen-vola sù e-ajroplano e i’vvà. Lù da ugejo igghjarebbe vuluto imbarcasse ma i-l-an fatto volà. Eh  oh! El distin a volte.

La canarina rimasta sola un fea più voli ne lenti ne giumetrici ae stea li tutta mogia mogia a pensa al so canarin:- che i farà, onde iìssirà ecc. E i giorni i passaeene.

‘Na matina un ugejo chi passaa de lì jgghja-docchia la canarina sola ne la gabbia, Igghje ‘ncumincia a svolazzà intorno  e a dì:- o’ canarina sola famme entrà a’sson solo anche me fianse cumpagnia.- E le va via, me un son sola el me marito igghje in guera e me a’sson seria, va via diaolo tentatore.- Ma e-jugejo un sintia discorsi, i cuntinuaa a muginalla al piro e a pinge. Pingia ogge pingia diman (asse sa che quande e-ugeio i pingia prima o dopo igghjentra )  un giorno con la scusa ch’al pioea, ch’isse torsaa come un pirin, igghjà riscitte a fasse aprì, e… igghjentrò.

A-recuminciò i voli a zigghe e zache. E-jugejo e la canarina i volaeene ogni minuto. La guera i l’aeene scordata. Ma come tutte le guere anche questa al finì. ( che i le ‘ncumincene a’ffà )  El canarin ch’issera salvato igghja-reven a cà soa, a voleo dì a la sò gabbia, i’vveda questa scena dei voli, i diventa verdo come ‘na ciorteja, lu ‘nnamorato più de quande igghjera partito,  senza dì una parola igghje-‘nforca  el tapun ( e schioppo dei canarin) i pigghja la mira e tapun, tapun, tapun, igghje spara tre colpi addosso al rivale, ch’immora.

                                                   Ajè finita….

Ma già come in tutte le storie acce de-esse una morale, sonnonche che storia ajè.

                                  La morale  state ben attenti ajè :

         QUANDE   L’AMORE   I’CCE’    EJUGEJO   I …    TIRA

Lino Liano BALDI


I fochi de:

Pietro e Paolo

Tra le tradizion muntignusine, una volta accera anche queja de fà dei fochi per le vigiglia de SS. Pietro e Paolo, vale a dì la sera del 28 giugno. Asse’ncumincia una sittimana prima add’accappà le legne in un punto ben priciso. Isse feene in piazza, po’ abbian douto falli sempre più lontan da le cà, fine a finì per falli drento al canalo.

Assa-recchataa ogni cò ch’al podesse pigghjà foco, cascette de legno, fascine, tronchi, carton,  per fà la pila più alta ch’asse podea. doppo una sittimana ariaa anche a toccà cinque o sé metri in aria e dieci, ondice de cerchio.

La sera del 28 a buio tutta una focata, ch’al duraa più o meno a segonda de quanta roba aerene risciti accatastà. Comunque sempre assà per fasse passà una serata in compagnia.

I fochi i-vviniene fatti in diversi posti, quagi in ogni frazion asse ne podea vedè un acceso. I salutaeene i Santi del diman, igghjeren un invito a la stagion, un modo per engraziazze i raccolti ne i campi, chi lo sa? De certo i portaene alligria.

Mò un sè fanne più, nonostante che de Pietri e Pauli, al sia sempre pien Muntignoso. Come tante vecchie, care tradizion, anche questa à l’abbiam persa.

Anzi mò un se po’ proprio accendè un foco da nisciuna parta, guai airua subito le guardie a fà la contravenzion, un sè po’ più fà fochi da nisciuna parta. Un cè gnanche la speranza de podelli refà.

Ma che à dico “ fochi “? Da quest’anno un se po’ gnanche accende le sigarette.

“ Sigarette” ? Ma che a dico sigarette…un se po’ gnanche più tinì le gagghjne o i cunigghj. Visogna compralli bej nudi a e’jeuromercato.

Tinilli nei grinej o ne le gabbie un sè po’ più. I puzzene. E scì !                           I puzzene,  i gaghene, quindi i puzzene…e el puzzo i-ddà noia.

Le tradizion à l’abbiam perse ma e’jodorato igghjè migliorato. Mò a sentian e’jodore de igghj’à-nimali e a dician chi puzzene. Quej de e’jeuromercato un puzzene. Tu vò mette?  Cugì nudi asse veda come igghj-enne bej puliti, un-enne mia crisciuti ne la merda. Oh signore! Aessene lasciato areto  solo che le tradizion…qui amme-sa ch’abbiam perso tanto ma tanto manche-mò tanto de più. Mah…! Acce-vò pacenza. Tiran a campà.

Visognerebbe,almeno qualche volta, recordasse che per fà cresce un  fioro acce vò el lotamo.                                                                                        ( come al cantaa De Andrè)

O come al cantaa i dò contadin ne la vigna :- che ci vuoi far, noi siamo nati per-amar


IL FORNAIO

E’ un lavoraccio tutte le notti, devo andare al forno a lavorare…lamentava.

Meglio andare al forno a lavorare che stare in un FORNO a riposare …eternamente

LA FILA

In fila tutti spingono. Alle poste come in banca, sempre un qualcuno che furbo s’infila per passare prima. Tutti hanno fretta.

Siamo tutti in fila…

In quella fila, nessuno spinge, nessuno vuol passare prima. Prego signore s’accomodi… prego vada pure prima lei. Nessuna fretta e tanta cortesia.

La morte porta rispetto. Già li vince l’ultimo della fila.

In vita no! In vita vince il primo… cretino scavalca pure, vai, vai . Mi hai fregato il posto in questa fila,  ti auguro di giungere prima di me anche nell’altra.

Io so attendere il mio turno… tu andavi di fretta…ciao vai, vai…


Fola del cuccudrllo ( QUEJO DEL NILO)

 

A’mme garberebbe, contalle tutte, ma chi me po’ capì…e soppurtà     a’  provian con-una ?

Per-esempio à lo sapete come a’sse fà  ad-agguantà un cuccudrillo???

Aiora, prima de tutto, bisogna che chi lo vò catturà, chi sappia quel ch’a-ccevò per pigghjallo.

Un i’sse de-armà come se i-gghjendesse in guera de,  recordatevelo, perchè un’ve –lo –redico..  Aiora pronti segnatevelo.  A’cce vò..

Una gagghjna, un curdjin  de spago, (  almeno tre metri ), un fogghjo de carta bianca, una svegghja, (de queje de una volta ch’al sonaeene a carica,- *** a’sse chiamene queje de una volta perché una volta al sonnaeene e tre no ).  Cumunque cuntinuja al serva anche,  un pennarejo de quej grossi  e un segacchjo. Megghjio al sirebbe tirasse dreto una grossa sporta o ‘na valigia.

 A’ddì el vero a’cce vorrebbe, Anche un bigghjetto de viaggio per arua in –Igitto.  ( Ma tanto se un’tu là  un- tu parta )

Una volta che tu sen  aruato, tu  pigghja la gagghjna tu la liga a ‘na pianta vicin al Nilo, tu carica la svegghja e tu spetta.

Quande la gagghjna al fà  e’j-ovo,  che al fà ???  al fà còcò,  cocò, coccò. Pronta la svegghja caricata a tempo, al sona: e al fà:  Drill, drill, drill. drill…..

 Un sian mia briachi …. coco-drill   COCCO DRILL… COCCODRILL  el coccodrillo che un’né né  sordo né cojon i’ssenta ch’illo chiamene e  a’ssa-vicina a la riua per vedè chigghjè chi lo chiama.

Lì visogna esse lesti,  lesti come una lepra.  Appena lu i’sse china su’ la riua a’gnè se dè mette su la testa el fogghjo de carta  portato dreto  e col pennarejo facce subito un grosso  zero  in-cimo a la coppeja. Però viloci come un fulmino.Attenti che igghjà-bocca.

Mò  la dimanda?  El cuccudrjo sotto zero che i’ffà  ? I’mmora

  sottozero el cuccudrillo,  i’mmora cungelato.  A questo punto se tu  sen un fanto svegghjo,   tu-và-là , col segacchio tu lo  sega per ben, tu lo fà s  cioncato in tanti tronchi.

A pezzi  come al porebbe fà un macejao. Dopo  cioncato tu lo  metta ne la sporta o ne la  valigia e tu  lo porta a cà ,  tu lo po’  mette  o’nde  megghjo   a’ttà-grada. Tu ce po’ fà le scarpe per te, per la to mogghja e per i to fanti, oppure  un cinturin, ‘na borsa o quel che-tte pare            ( LIANO)


LA MERENDA

Era uso el giorno doppo Pasqua ‘ndà a fa la merenda : Un c’era  posto che un vinia preso da le famigghje fin da la matina,a la recerca de la piana più valida  per lo scopo.

I più gioini igghjarivaene fin al Pin o anche al Pasquigghjo, ma el Pin igghjera più ambito, perché lì asse podea anche bajare al sono de orchestre acustiche. Fisarmoniche, chitarre, viulin   e ogni cò c’al fea rumore a’ndea ben, a’sse sintaa sona ne jara mentre con la lingua a penzolon tu t’avvicinaa.

L’ingegno de qualchedun igghjaea  fatto un paro sotto a un pin in cima al monto e lì non solo el giorno de pasquetta ma anche d’estate a’sse ce’ndea al fresco e a bajà, come scusa ma con la vogghja e la speranza de podesse, visto che  lì un mancaeene, rempiattasse con la fanta fra  le frasche, E’ sci tra le fresche frasche.

Al garbaa ‘ndà anche a la fortezza ma in quei giorni a’ccera troppo pien per rempiattasse a’endea meggghjio ne i giorni de laoro.

Al Pasquigghjo a’cce-ndea più che altro le gente de la Piazza, ch’i-llan sempre sintuto come si fusse sò. Al limite asse ce podea trova quei de le Montagne, che lori passando a cionco in un minuto igghjeren in cimo al Carchio.  Ma una volta sù igghje’ndeene più volentera verso la Crocia anzi che stà a la chiesetta coi piazzaioli. Gnanche mò i’sse veden de bon occhio. Chissa perché.

In tanti più che altro a famigghje intere coi, nipoti, nonni,  bà e mà i frequentaene zone più calme come intorno al fosso de  Balon a Montopepo, o ne la piana de Fantagia, qualchidun sù per la  Zamparina, poghj perchè aera una zona  ben tinuta e coltivata, e ai montanari-contadin aun-gne garbaa ch’assendesse a trippicare coi pè drento le piane.

Quei cun-ce-la-feene a caminà isse fermaene giù n’igghj-ulieti. Una cò aè certa chi de quì chi de là ma nisciun igghje’ ndea verso el maro. U’nnera de moda…

Normalmente ej’arrivo sul posto scelto jgghjera per le ondice, ondice e mezzo per dà tempo de stende la tovagghja e magari col foco rescaldà qualcò rimasto da la Pasqua: Più el percorso igghjera stato lungo più al vinia fame. Anchi i fanti scì iffeene do mazzaculi ma po’ isse strusciaene a la sottana de la mà:- quande a’sse magna??? Quei ch’igghjàeene la strombola igghje’ndeene a’jugei i’ssintiene meno la fame ma i più cicchi già igghjeren a cerca le brige de la fogaccia, o un crostejo de pan da sgranocchjà.

Ma a la fin e senza gnanche ch’al fusse passato tanto tempo asse magnaa. Dopo la caminata igghj-avanzi del giorno prima i’ppareene manna vinuta dal celo.

Al Pin per i più gioini accera anche la pussibilità de comprà un panin o una bibita, la scelta aera mista, gazzose o ranciate. Per un perde tempo, anche se palanche aerene poghe, aera una scelta ch’iffeene un po’ tutti   senza stà a fà o portasse dreto da magnà,  per una quistion anche de tempo, visto che  buio  specialmente le fante, prima de buio, al doene reesse a cà.

Infatti verso le 4 doppo ae pulito per ben la piana ospite tutti igghjà reentraene

Chi contento chi no, chi sgriffiato da prun, chi da ginestre, chi rossa nel muso, chi gonfia ne la pancia, tutti a cà a spettà un'altra merenda, e anche lì, come ogni anno acce-re-sirà chi partirà in dò,  per revinì  in tre . BONA PASQUETTA


LA PATENTE

Esame per la patente. L’esaminatore pone una domanda:-

E’ notte in una strada buia vede venire contro di lei due fari grossi , di cosa si tratta ?

Sarà un camion, - risponde l’allievo

Si un camion si fa presto a dire camion, potrebbe essere un fiat iveco, un mercedes, un lancia. No non ci siamo. Gliela faccio più facile vediamo un po’, sempre la stessa strada buia le vengono incontro due fari medi, di cosa si tratta ?

Sarà un automobile:-

Si un automobile, si fa presto a dire automobile, potrebbe essere una panda, un alfa, una  toyota. No non ci siamo ma oggi sono buono la voglio aiutare. Stessa strada stesso buio un solo faro che le viene incontro, di cosa si tratta ?

Sarà una moto.

Si una moto sì fa presto a dire moto, potrebbe essere una gilera, una vespa, una honda. No non ci siamo lei è bocciato torni più preparato.

L’esaminando tutto crucciato stà per uscire poi sulla porta torna indietro e rivolgendosi all’ispettore lo apostrofa:-

Senta le posso porre una domanda ? Prego - risponde l’ispettore.

Su una strada buia c’è un falò acceso intorno al falò ci sono delle donne, di che cosa si tratta?

Saranno delle puttane – risponde.

Si fa presto a dire puttane, potrebbe essere la puttana di tua madre, la puttana di tua sorella, la puttana di tua moglie…..

PATENTATEVICONNOIPIUPUNTIMENOGUAILATENTI


LA ZAMPARINA

Mò è facile arrivacce, sù a la Zamparina, da quande igghjan fatto la via da Monto de Gatto, via per modo de dì, tanto aiè strinta e brutta. Cumunque utile per la frazion de Zamparina. Al parta da Pian per finì ai pè de la Fortezza.

Me da fanto accendeo a’ppè, a’sse partia da ej’Osteria e al Prado trabaccando el canalo a’sse giraa intorno al frantojo, del Bottaccio, e’ppò sù per un viottolo, con i bacchin mai uguali, a’sse ‘ncamminaeene per aruà  da la zia Jolanda, che à stea appunto in Zamparina. A’ccendeene spesso più che altro con la stagion beja.    La sò cà amme parea un castejo tanto a la vedeo granda. Drento a una de le varie stanze a’ccera anche la scola.

Scì per un fà tribolà quei fanti ch’igghje steene li intorno, visto che appunto un c’era una via bona, al vinia sù una maestra  ch’ al fea da la prima a la quinta, tutti inseme.

D’estate aera vota e me a sognao de esse el maestro e colla bacchetta in man dreto la cattedra a feo le proe.

La zia e el zio Sabatin ( la vera era lè, soreja del me bà, lù igghjera un Ravenna) igghjaeene un pezzo de monto che da cà soa igghje scendea giù fin a la via de la Fortezza i’la-eene miso un po’ a ulieto e un po’ a vigna con qualche pezzo lasciato a selva. Lì ne la selva me accendeo a fà i marmolotti, come igghjeren bon, quanti a’nò magnati.

El zio Sabatin igghjera un ometto de quej ch’issan fa un po de tutto, nel dopoguera igghjaea  fatto anche el mobile de cucina per i  mè. De robe de falegnameria i’ffea tutto finestre, taulin, botte, igghjera un de quej come a’sse dice bon de fa le scarpe anche ai pè de  le mosche, se i’volea.  E’ppò i lavoraa nel terren.

Per evità de fà sù e giù carico de tutte le robe ch’al sirviene, dal magnare a tutto el resto, i’ssera ‘nventato anche una spece de funicolare, ch’al partia da sotto cà soa e aruaa fin giù a e’inizio de la Costa.

Coi mè, accendeene spesso, come a diceo, spece in occasion de la vendemmia o de la raccolta de ej’ulie. Al tempo de ej’ulie me  andeo  a la scola, quindi a’mme podeo gode solo la domenica, mentre per la vendemmia le scole u’nnerene anche mò ‘ncuminciate e a podeo ‘ndacce tutti i giorni da e’jnizio a la fin.

Andeo su col me bà o la me mà, sempre col solito giro, Osteria,  Capanne, Prado, Bottaccio, Sentiero, Arrivo.

Ej’ulieto igghjera nelle piane più vicine a la cà mentre la vigna aera giù fin in fondo al monto. A tutte le donne al vinia data una forbicia e un panero, lore aeene el compito de’ndà ne le piane e cogghje ej’ua mettela nel panero e una volta che el panero igghjeran pien votallo ne la bigoncia in cimo al filare.

Li igghj’omi i’sse la metteene su la schiena, col riparo de un manipolo de cucina o un ‘sciugaman misi a mò de cercine. Cugì in cojo, i la portaeene fin a la cà donde a pian-tera accera la cantina. Una fatiga immane.

Pensate che la bigoncia aera de legno e già aea el sò peso, più ej’ua, in più doppo do-ttre viaggi, la bigoncia, a’sse ‘ngozzaa de sugo d’ua chi la rendea anche mò più pesa. Eppure nonostante el peso e la difficoltà de montà sù per quej viottuli con quigghje scalin scoscesi, igghjera tutto un endare e vinire sù per quele piane.

Noialtri fanti do-ttre pigne a le cogghjeene ma po’ aera più queja cà magnaeene che queja che a metteene nej corbej.

Ad ogni arrivo de bigoncia doppo avella votata nella botta quel che i la ea portata i’ssà settaa un minuto a reposà e se i volea i podea besse un bicchiero de vin de anno, o magnasse un pezzo de cagio fatto in cà.

Appena represo fiato regonfia giù per el viottolo tra le piane, recarica e redai, a la sera igghjarivaeene a fà anche venti viaggi ma stracchi morti.

Se aera vinuta ejora de cena a’sse magnaa tutti inseme. Noialtri fanti che più che fatigà, a’sseren divirtiti u’nnaeene gnanche tanta fame, gonfi de ua e de tutto quel che dal bosco a’sse podea magnare. A steene un popo al taulin e’ppo via giù in cantina a trippicare ej’ua ne le botte, a  schiccialla, a lo feene per quanto a lo podeene fà e i’sse lo feene fà per fasse divirtì ma col nostro peso a pigiaeene ben pogo, però qualche granejo a lo sbrigiaeene.

La matina doppo bisognaa reesse lì. Aera  aruata ej’ora de rendà a cà.             Col buio, giù per el viottolo con quej bacchin mai uguali a’ rescendeene in gruppo, meno malo, perché de notta con quel buio, quel silenzio, Dio ne guarda da solo accera da cagasse addosso.

La prima luce a’ssa rencontraa al Prado doppo un'altra giù per le Capanne e ‘ppò  anche mò buio fin a cà

La trevision un c’era e un se ne sintia el bisogno, subito a letto, con la gioia de sapè che la matina doppo a’sirebbe rendato sù per le piane de la Zamparina.

Tutto el vin, famoso e bon, che igghja-risciene a fare, cavato quejo per uso de famigghja, a lo compraa Giusè el zoppo, che al tempo igghjaea, oltre che al cine, la bottega d’alimentari e una cantina per mescita de vin. Aera un esclusiva che al fea bon nomo, el vin de Zamparina igghjera famoso e tra i più bon ch’asse fea in quel de Muntignoso.  Le altre zone donde i la refeene bon aerene Palatina

Montorosso e Montopepo.

Purtroppo  per el troppo sacrificio nel tempo queste zone da vin a’ssenne perse, solo utimamente qualche appassionato igghjà remiso man a la vigna, più per passion, che per resa. Questo almeno aè sirvito a’ddae un indicazion con tanto de cartejo, “via del vin” che poggiata giù da Bonotti sù la via Noa al recordà ch’el   vin a Muntignoso i’sse fea e….. anche bon.


L’altra sera ero come mezzo Montignoso a salutare il nostro famoso concittadino Giorgio Panariello e la memoria mi è volata al tempo, al tempo dei carnevali del Cinquale.

C’è un aneddoto che merita di essere raccontato riguardo appunto il Giorgio Panariello, Zucchero  e me.

 Ve lo racconto un po in lingua e un po in italiano.Probabilmente

a quei tempi el più famoso dei tre, in quanto barbiere del paese,ero io.

Me  ammarecordo che alternandome sul palco fra i vari presenta tori

e presenta vacche al vense el turno del Giò  a lu agghje garbaa

Renato Zero e lo faceva, a mia cugina gli piaceva Dalla e cercava di fallo

Anzi più di uno. Sotto al palco accera un  che isse fea chiamà  Sugar

Pronuncia “ sciuga “ che da un emilian che i vivea a Carrara per me al sonava come acciuga termine appropriato in quanto era magrissimo

E io credevo fosse un nome legato al fisico

Questo sciuga giù da sotto el palco urlava  Giò famme fa una cantata anche a  me / Spetta un minuto prima de buio tu vedrà che a trovian el verso de fatte cantare anche te, IGGHIERA, anzi IGGHJE’ ZUCCHERO e lu  PANARIELLO. Tutte e do passati sul palco del CARNEVAL CINQUALE.

E me  me a sson rimasto qui, andè alla RAI per un provino sci xchè a quei tempi a’ccera solo la RAI che aera un po come andare in quei ristoranti de lusso  de ogge donde asse spenda tanto, massemagna pogo “ il signore desidera il primo o vuole passare al secondo. Esci xchè accera solo do canali. La vecchia rai , ma po è vinuto Berlusconi con tutte le so reti oddio anche el signore unna mai pruibito ai so discepoli pescatori de avere più di una rete  x pescare ma lu qui i le vo tutte.               A proposito del cavalier mi consenta

Berlusconi barzelletta del porco.( E se va del bagnino cionca le gambe)

Ma tornian alla rai s’accorsero subito che non sapevo le lingue ed io seppi che sugar  vuol dire zucchero ed io d’allora bevo caffè con sambuca anziche sugar.”  Ragazzi mi rivolgo a voi giovani studiate le lingua è importante nella vita non si puo vivere senza  o meglio si vive ma non se ne gustano i sapori”       .Aneddoto su CARLO SFORZA”

In Francia si in Francia è diverso, è sci una volta a’sson stato anche in Francia  a’mmarecordo come mo aero a Lione assettato e assetato in un bar

Fora al passa quattro o cinque fanti de quattro o cinque anni a li sintio parlare fra lori  PATTUA PATTUA , OUI, PATTUA, OUI, PATTUA.. otè cugi piccinin i parlaene già el Francese. ( Sulle orme de Fracè e Domè)

In Svizzera no in Svizzera i parlene come noialtri ognun a so modo

Senza fasse capì amme parea de esse a Muntignoso, durante i cunsighhj cumunali “ E’ sci Xchè  a’sson stato anche in Svizzera, eaiora? Da Lione a voleo vini a cà… alla  stazion a’ leggio GENEVE e me pronto, ecco el me treno per GENOVA … bona ammeson retroato a GINEVRA. Cumunque igghje svizzeri igghjen come a volte assian anche noialtri i parlen  i parlen i parlene ma un se capiscene… e come a feene anche noià da fanti ..iggiochene anche mò ai QUATTRO  CANTON….


LE LINGUE LATINE E GALLICHE

Ciao Piè come al và? Ben! A’sson un po’ priuccupato perché a-de’ndà in Francia martitì. Me un sò una parola de francese, aò paura de troamme malo, de una riscì a capì e famme capì, de fa brutte figure…

Oh Piè che tu vò ch’al sia… el francese igghjè come el muntignusin, basta parlà pianin con le parole scandite e i’tte capiscene tutti. Le lingue ajenne tutte uguali al vegnene tutte dal latino. Se te tu parla senza furia, tu te fa intende come gnente. Credeme, tu lo sa che me acce-son stato, un te fa preuccupazion e recordete, basta parlà pianin, pianin.

Grazie Ugè, a farò cugì.  Sperian in ben… che Dio i’tte-ne renda merito.

Piè aruato a la stazion de Parigi, appena sceso dal treno, con la valigia ben salda in man, i’ssavvia a la recerca de un taxi. Come un lampo appena un i’sse ferma i monta sù e recordando el cunsigghjo de e’jamico igghj-attacca:-

Scu-sa, tu me po’ por-tà  fin  a-j’al-ber-go  “Mai-son  de lun-go  Sen-na”. El taxista:-  la   por-to  su-bi-to,   si-gno-re,  i-gghjè  qui  vi-cin,  dò  mi-nu-ti,  a’ssian a-rua-ti.

Piè:- (tra se e se) “Aea ragion el me amico è facile parlà francese”.  Al taxista:-

Aiè la  pri-ma  vol-ta  che  a-ve-gno  a Pa-ri-gi,  fa  pu-re  un  gi-ro  lun-go  cu-gì a  ve-do  un po’  in  gi-ro.

Co-me  i’vvò  ma  a-gghje  co-ste-rà   de più…

Une’m-por-ta   al-me-no  a  ve-do  qual-cò.  Ma tu lo sa che  a-eo  pau-ra  de  una ri-scì  a  fam-me  ca-pì   in   fran-ce-se,   in-ve-ce   aè   co-me   am-ma   dit-to  Ugè  ba-sta  par-là  pia-nin.  Te tu me  ca-pi-scia  e me a  ca-pi-scio  te. Aeo una pau-ra.  Sa me  a’sson   i-ta-lia-no   de Mun-ti-gno-so.

Tu sen de   Mun-ti-gno-so a’sson  de Mun-ti-gno-so   an-che me   de la Piaz-za.

Che  cum-bina-zion  anche te de  Mun-ti-gno-so.  Ai-ora  a  pos-sian  an-che smet-te  de par-là  in  fran-ce-se,  Già  a  fac-cio  ‘na  fa-di-ga!   Mirian   se’ttu tà re-cor-da el  mun-ti-gnu-sin… Come tu te chiama?  I to ch’igghjen?


NON SCRIVO VERSI DIVINI

MA HO BEVUTO DIVERSI VINI

Liano


La Pefana  ---  L’Epifania tutte le feste a le porta via….

Come tutte le tradizion, anche la festa de la Pefana asse-perda ne la notta dei tempi. A parte la festa riligiosa ch’al vò fà aruà i re Magi proprio in questo giorno, accè la festa dei cristian (queia pagana) e ajè  questa che in quagi tutta la Toscana e in altre parte d’Itaglia ajè più o meno sintuta e festeggiata in vari modi.

Muntignoso i’vvanta da sempre un attaccamento a questa festa, con alcune situazion che un sà retroeene da altre parte.

La vigiglia de la festa asse-usaa (e anche mò asse usa) ‘ndà mascherati, come la poera vecchietta, a cà de le gente, che a-juffrieene da be’ e a volte anche da magnà,  a tutta la compagnia dei peffan, però acce-volea la “guida” cioè un senza maschera che igghjaea el compito de acconpagnà e ne lo stesso tempo de garantì che sotto la maschera un ce fusse dei dilinguenti che appruffittando de la festa pò i feene i lazzeron.

Mentre era più che mae d’uso tra le maschere, rempiattasse el damo de le fante o megghjio e’spasimante che cugì rempiattato da la maschera i’ppodea avvicinasse a la fanta vuluta senza fasse reconosce dai sò e digghje qualcò ne’jggh’jorecchi. Una volta un’nera facile come mò incontrà una fanta e podegghje parlà.

De le volte, le più,  aje ‘ndea a finì  che doppo  el lungo giro per le cà del paeso   tutti i finiene  briachi e più de tutti la  proprio  la  guida.

Tanto el giorno doppo era festa, e’ppo accera la gioia de esse risciti ne’e-intento de podè parlà con la dama.

Questa tradizion a Muntignoso a-l’abbian mantinuta anche quande igghjaeene cavato la festa de la Pefana, cugì come el gruppo fulkloristico igghjà cuntinuato a cantà la Pefana.

E scì perché oltre a la vecchia tradizion de la vigiglia a Muntignoso asse usaa già fin dai primi del novecento Cantà la Pefana”

El canto de la Pefana i sirebbe che:- gruppi de cantanti e musicanti i girene de giorno per le vie del paeso cantando e bajando per portà alligria e scaccia i pensieri. Normalmente questo i duraa e i dura  per circa una sittimana, o giù de lì.-

De’ uguanni un s’è poduta fà per mancanza dei musicanti o per le guerre o altro,..  Da igghjanni settanta  su inizitiua  de Franin dai mobili, (Francesco Guadagni) un gruppo de musici e cantanti igghjà redatto vita a questa festa portandola agghj’ onori e ne le cronache  nazionali.  ( Un dei capi-banda  igghjè el cav.Alfio Poggi )

Da questa ‘sperienza  che el “Gruppo Fulkruristico  de Muntignoso” i portà avanti da oltre trent’anni, aiè nato anche altri gruppi, un igghjera chiamato “ i Menestrelli “   ideato dal pizzino, ( Dott. Giuseppe Lenzetti ) che mò i’ssè sciolto eppo’ el gruppo  “Cervaiolo “ col sò vulcanico capo Giuglianin ( Carlo Germelli ) che i cuntinua anche mò la sò attività. Utimamente su iniziativa del  Dott. Jonny  Egrotelli  a preso el via una specie de festival-gara, reservata a tutti gruppi de peffan, non solo de Muntignoso ma anche dei paesi de fora.

El finale: una gran festa per el 6 de gennaio in piazza Bertagnini ormae per tutti  suprannuminata “ piazza de la vergogna “, a le  Capanne. Tutti a’ bajà Peffan e Pefane e a scambiasse i’gghj-à-uguri per  ej-anno noo.

Tanti e tanti i vari musicanti ch’igghjanne participato, a-cce vorrebbe un altro fogghjo per solo mintualli - a lo farò più-nnà - --------- Grazie a tutti daè  allegrato Muntignoso


MUNTIGNOSO,   tra el 2004   e el 2005

La fin d’ogne cavajo, pur bon                                       

ajè la caretta.                                                           Quande el diaolo un’ le vò più

La fin de le puttane                                                    Le donne, asse danne a Dio

ajè la piletta.                                                               

                                     Racconto vissuto al BI-PI                                          

 Al capita che a  volte nei bar tra igghj’amici a se parla del più e del meno. Un saprebbe dì, come e perché ma, a un certo punto  ne la discussion a sé và a finì de parlà, dei problemi de la prostata,  le disfunsion ch’al porta coj-e’ndà de i’gghj-anni  e via discorendo.

A’mme ven in mente de contà la mè, an’cumincio a contalla:- Per lavoro a volte a vaco anche a Lucca. Una matina, ch’aero lì, intorno a le ondice, a’mme succeda daè un bisogno a-entro in una bottega, a pigghjo un café e a chiedo se per curtisia a posso usà el bagno,  gnente da fa , igghjè rotto.  i’mme dice el fanto ch’isserva dreto al banco. Altro bar solita zolfa: guasto. Un altro un troa la chiava e cugì via. A’mme parea de scoppià.

Dopo tre quattro café, a   proo a cambià, a beo un bittere, ma  gnanche cugì un c’era verso de podè piscià.

A’un ce la feo più. A’vve sirà capitato qualche volta no?  a’ncuminciao a stringe le gambe,  aera anche peggio,  un dolore, quegghj strizzon ch’ itte pigghjen drento che solo ch’ilà proati ippo capì. Girato un muro a’mmacosto, a’mme sbottono e a proo a  liberamme, un faccio in tempo a fa un filo d’acqua, ch’amme s’avvicina un vigile ch’imme ferma nell’azion e i’mme dice che i’mme de fà la multa perchè “stavo evaquando “ , (  i’ssirebbene : atti osceni in luogo pubblico)

Me a cerco de fagghje  ‘ntende che unn’evaquao ma che a voleo solo pisciare. Lei a ditto pisciare,   bene,  altra multa per uso de parolacce.

Po’ i cuntinua fin’a’ dimme che igghjarebbe chiamato i carrabigneri e i’mmarebbe portato in caserma. Un ce la feo più gnanche a parlà.  Ho pagato la multa e a’mme son pisciato addosso. Un ce la feo proprio più a tinilla  e, un po’ perché un-na tinio  più  e, un po’ per la paura, tutto un lago nei calzon,  ne le scarpe, nei calzerotti,  aero dientato come un sudicion dei più leti.  A’mmero libirato de sopre, sotto aero torso  come un pirin,  scì  pirin,  però, pien de piscio.

Revinuto a cà ao chiamato Elasti el dottore, a’sson ‘ndato in ambulatorio e a’mme son fatto fa un cirtificato. con su scritto :-

 “ Liano è un mio paziente affetto da prostatrice cronica e deve pisciare dove vuole per non incorrere in inconvenienti di salute. si prega ogni autorità di consentire la menzione in ogni luogo sia Italiano che altrove,  in fede io dottore ecc. ecc.- “

Me a-l’aeo buttata giù come una burla ma doppo dò giorni el dottore i’mme chiama al talefono  e i’ mme dice:- ma tu me vò dì che tu conta in giro, igghjennne già vinuti in do a cercamme un cirtificato  come el to, per podè pisciare onde’gghje pare,     o Liano,  tu sen pien de segate,  a’sse-sà,  ma almeno,  se-a’tta-reven  in  mente  qualcò,  mandili   dal tò dottore.

O te !!!  un’maeene proprio preso sul serio    !!!    ( che ganzata, che attore) ***

******   Lino Liano BALDI  Muntignusin d’urigine contrullata *****


Quande un c’era le mirindine

A’ rimanene ne la mente le cò fatte da fanti, unnè-vero? Per esempio me amma recordo anche mò de quel che a magnaeene.

Scì bona le mirindine. A staccaene i butti dei prun e sgusciati un popò, a li ciancicaeene e a l’ingojaene come se i fusse il più bon dei frutti, quei veri per magnalli e’junica manera aera quea de‘ndalli a rubà nei campi ma aera piricoloso e assà rischiaua  de pigghjà de le frustate per le gambe, prima dai padron e doppo anche dal bà o da la mà se i lo viniene a sapè, peri, meli, a li sognaeene tuttalpiù a volte un cacco cascato reccattato per tera, sonnonche butti de cesi, in attesa chi ‘ffessene le more, o ch’al maturasse i gelsi su la guancia de la via del treno  nella zona  tra el ponto de Ghirlanda e i Sé Ponti.

Quande accerene, le more, une po’ a le magnaeene lì per lì mentre con quele più mature acce feene el vin. Asse pigghjaua un pezzo de canna d’india, da una parta asse ce lasciaa el nodo e dalla parta vota asse ce infilaa le more po’ con un’e stecco asse pigiaene e dalla canna a-jscia el vin, sugo de more, ma per la nostra fantasia igghjera vin. Un'altra pianta che a magnaeene a proposito de vin, aera un erba ch’al fea i fiori rosa-viola che a chiamaeene panevin, asse magnaa el gambo che igghjaeea un sapore dolciastro e gustoso, al crescea un po’ da’pertutto un c’era bisogno de cercalla tanto e forse per questo un fea tanto  vogghja, ulchimora a sapeene onde troalla.

A magnaeene anche e’janima del sambuco che a’svotaeene per facce le cerbottane per tirà le pajne ch’al fea de le piante ch’al cresceene lungo la passeggiata ( la passeggiata aera una via sterrata lungo el canalo “Nò”o Pannosa. Al partia da la Baccaneja e aruaa fin giù al Ponto Noo, davanti al bar La Pergola. Aera una via d’onde giuinotti e giuinotte, spece la domenica, isse’ncontraene per caminà  su e giù e parlà. Al bar sul Ponto Noo, accera anche un juboxchesse che con cento lire i fea sintì tre cantate e con cinquanta una sola. La domenica i cantaa tutto el giorno  per po’ rimanè in silenzio, già da la sera, fin a la prossima domenica. Mò al manca igghj-euri ma a quel tempo un c’era una palanca ).

Ma rendian al magnare. Con la stagion era facile trovà dò fave, dò pisei o una pannocchia de granturco non matura d’arrustì sul foco ma igghjendeene sempre rubati, con el rischio ditto sopre. Troppo casino, (le frustate mò un se usene più ma avve giuro al feene malo, specialmente queje date col torchio, un c’era tempo per fà i sermon per fà capì a la svelta, accera  solo la frusta e come asse capia  in freccia e furia.

Ajora asse deene da fà magari ‘ndando a cogghje la vitriola ch’al sirvia per pulì le bocce o i fiaschi e in scambio a podeene sperà d’ae una brancata de fave o  de pisei maturi, perché quei che a volte al capitaa de rubà, asse toccaa pigghjalli cugì come igghjerene e quagi sempre,  igghjeren cervi.  Quei maturi i li cogghjenne lesti, cunvinti che quei agresti un l’arebbene rubati. ( bona nan! )

Passata la stagion a’ncuminciaa el tempo de le castagne. De corsa via per Pittinajola e sù anche fin in cimo a Caracineso. Oltre a magnalle sul posto, le

castagne, a le portaaene anche a cà. Oddio anche lì accera da stà attenti, sia a le guardie forestali che ai padron del bosco ma asse la sbrigaene megghjo.

E’jacqua a la beene direttamente da una goretta ch’al costeggiaa el viottolo per montà su, a beene sempre sotto qualche metro da donde aeene visto una bota, perche igghj-anzian i diceene che se accè la bota e’jacqua aè bona e pura e asse po’ be. Altro che e’jacqua minerale.  (Mò unn’à berebbe più  ch’a orbo, ibbola ).

Se oltre a le castagne a troaene anche dei marmolotti aera festa granda. (Per i bacolej visognaa d’andà fin al Pasquigghjo, ma in luglio, intorno a la festa de S. Paulin). La manna po’ aera de troà anche mò attaccati sù la pianta dò fichi sittimbrin de quei selvatichi,  dò meleti o i resti de una pigna d’ua scappata aigghj’occhi e a le man  de i vignaioli. ( Cosa rara e difficile , per quej tempi,  igghjà reccattaeene de  tutto).

Al capitaa anche de troà dei fungi ma aeene fiffa chi fussene vilinosi e un li toccaene da la paura che el vilin i podesse finì sù le man, col rischio de un podè più magnare gnente, più che  pensà  d’avvilinasse, a pensaene scì ma a reimpì la buzza.

Altro che frù frù o buodì motta, la nostra “fiesta” aera de troà, ogni giorno, qualcò da ciancicà, per fà smette a’jestomico de borbottà. Anche se isse diceene de un magnà le cose cerve ch’al ven el colera, a magnaeene de tutto, tre volte tanto, come al dice la publicità.

Quande aeene cinque o dieci lire, che a lì-feene andà al ferro, a li spolpaeene tutti in carrube, lupin o simintine che a pigghjaeene da la Livia e se aera d’estata magari anche un bel piruletto, doppo ch’aerene stati a fà el bagno nei bozzi del canalo, onde prima con sassi e todiche aeene fatto la tura. I megghjo bozzi i viniene accanto al Camposolare, le sponde aerene più alte e più strinte, eppò aera una zona più rempiattata e senza cà intorno. Aioltre più sù o più giù po’ accera sempre qualche donna ch’andea a lavà i cenci  con la liscia,  con e’jacqua candida o un pezzo de sapon, mentre lì al Camposolare un ce vinia nisciun, insomma, igghjera un punto libero del  canalo.

Al ritorno  da Pittinajola cò le castagne in cojo, lungo la via, a sbroccaeene un ramo d’orbaco, cugì aeren sicuri che una volta a cà,  s’al fusse mancata la padeja coi buchi per fà le mundine,  bajotti.                A scelgeenele castagne più grosse eppò giù a bugghjre ne la chiocca  sonnonche nel pajolo sul foco, con un popò de salo e le fogghje de’jorbaco. In una manera o nejaltra la cena aera assigurata.

Finalmente asse podea ‘nadà a letto a pancia piena

E  el giorno doppo, con tutto questo ben did-Dio. . .

sane scuregge.

LIANO 2005


TRA FOLA E VIRITA’

Aerene in tre,  a’sse sintiene in trecento. Rempiattati su a Grotta de Penna, a mirà i tedeschi a sò volta rempiattati drento la Fortezza.

Aeene scavato una grossa buca sotto la “ grotta” che chi la conoscia i’ssà ch’aè una granda roccia vicin a Palatina.

Da lì a controllaene i muvimenti de tutto el fronte, sià sul lato Massa che Viareggio, oltre  chiaramente attenti a  quel ch’al succedea al castejo. Aeene tutto  sott’ occhio, a turno  me, Gugliè e Fernà à une smetteene mae de mirà oltre Pittinaiola per vedè se qualche ‘ merican i’sse fea vivo, o da quejaltra parta, per controllà i tedeschi in ogni cò ch’i’ffeene.

Aeren sempre allerti.  Sal capitaa   de distraesse  un popo, a’cce pensaa qualche fischio de bomba a reportasse svegghj come al fischiaeene, fiiiiiiiuuuushhh-BUM.

I colpi igghjeren più che altro indirizzati verso el castejo. Tra me a diceo mirà lì per manda via dò tedeschi i’mme sbrigene anche quej quattro sassi che aè rimasto sù per anni e anni per el me vecchio castejo un c’era remission.

Cumunque al primo fischio, megghjo ae paura che toccalle, andeene drento la buca ch’aeene scaato sotto la roccia, rempiattando la spelonca con de le frasche, per rendella invisibile fin ch’al tiraa l’ artiglieria. Le bombe un’nenne gnanche mò intilligenti e noialtri un’nnè cha eren proprio scemi scemi.

A turno andeene sù al Pasquigghjo o a la Crocia per incontrà i compagni ch’igghjeren  stabiliti  sù in alto e da l’ i’sse moeene secondo ordini verso Carara

o altre zone piene de tedeschi per de le incursion mirate.

Per aruà sù a passaeene  dreto Caracineso e’ppò tagghjando da Cerreta ariaene sicuri fin in cimo. Lì a’sse feene dà ordini da Pietro e ogni informazion utile per la nostra postazion, mentre a lo metteene al corente de quel ch’al succedea giù.

La paura aera la compagna de ogni minuto, per furtuna a’ccera el coraggio dei ventanni a vincela. Magnare a magnaeene de tutto, tanto ch’un c’era niente, da le radice de le piante  a quel ch’al capitaa.

Giusto quande a’ssa rivaa su al Pasquigghjo, una fetta de polenta a’ssa rimediaa.

Lassù qualcò da magnà  igghjà-riscieene a portà rempiattandolo tra i sassi e el materiale chi portaeene per fà finta de custruj la chiesetta, mentre aera una scusa per moesse e spostasse per el monto senza dà nej’occhio.

Cariole e carette al portaeene sassi e tutto quel ch’al podea sirvì, e rempiattate in mezzo, ogni cò utile per i partigian  dal magnare a le munizion o altro, questo a la luce del solo sotto igghj’occhi de i tedeschi, a rischio cuntinuo de e’sse scuperti. Forse anche lori igghjeene rispetto de Cristo oppure come a penso, anche lori igghjeren stufi de guera e se non comandati i lasciaeene perde

Per i nostri muimenti invece a’sse spostaene de notta, un c’era un anima e ogni rumore igghjera presto avvirtito a salvà la peja. Nel buio andeene a taston, siguri de la via ma mae siguri d’aruà.

A volte al capitaa de scende, sempre da Caracineso o Palatina, anche giù fin a Seravezza o Stazzema, per incontrà qualchidun del fronte alleato, per sintire se come e quande igghja-rebbene diciso de sfondà la ligna gotica.

Ogni volta i’sse diceene frà un po’, scoaati a sintiene senza podè fa gnente de più.

A reentraene a Grotta de Penna à’repatì la fame e anche el freddo de la notta, visto che un podeene gnanche accende un foco per scaldasse un popo.

E  a steene già ben, a’ccera chi stea anche peggio, chi morto e chi come tanti amici o parenti presi prigiogneri ( el me bà igghjera deportato in Germagna) o sfollati.

I mè  vecchi con la me mà,  per esempio igghjeren risciti a scappà a Solaio, onde già aera-ariato igghja’merican. Lì a lì sapeene al siguro, vicin, però un se vedeene, a’sse mandaeene nutizie tramite persone, ariaene a sapè de ogni paesan, spece se a’sse trattaa de cose brutte  e de beje a’né capitaa ben che poghe.

Non sempre a’sse podeene  spostà come a voleene. o come arebbene duoto fà. A volte al capitaa de doe stà rempiattati a giorni interi.

Doppo un po’ Pietro i’sse sposto più su verso Cerreta lì asteene un po’ più tranquilli almeno dai i colpi de le bombe, che sempre a sintiene ma più lontan.

Un cià-rimanenne tanto, solo el tempo de confonde le idee ai tedeschi che igghj-eene cuminciato a rastrejà intorno a la Fortezza. El coraggio e la paura i cuntinuaeene a litigà fra lori. A’cce fusse stato el tempo de pensà, al vinia in mente de pensà che cazzo a’sse fanne a fà le guere, ma un c’era tempo per podè pensare,  bisognaa moese e stà attenti altro che pensà.

Aerene reentrati giù  a Grotta de Penna da poghi giorni quande a’sse sintì un casino de spari ch’ivviniene dal castejo, i duronne a sparà per una mezzora, po’ silenzio. Dal Pasquigghjo ariò una staffetta, un gruppo de american igghjaeene attaccato el castejo e fatto prigiogneri tutti i tedeschi che visto la mal parata i’sseren subito aresi. Al fù lì che per la prima volta a’ vide un omo col colore de la peja diverso dal nostro. per el resto igghjera identico a noialtri, solo la peja d’un altro colore ma con igghj’occhi da braa persona. I’mma regalò de le cò che   lì per lì a scuprì , un cin-gomma (che un conosceo, e gnanche a sapeo ch-i’sse doea ciancicà), sigarette e una cioccolata dura come el marmo. El tempo de scambià dò parole più che parole ammicchi, che subito a rimasene sotto un bombardamento de tiro tedesco, che saputo dae perso el castejo igghjaeene preso a bombardallo tirando coi cannon dal Monto de Pasta.

Ma al fù roba de poghe ore  ormae el fronte de la Gotica igghjera spezzato, da lì a pogo infatti a scendettene giù in paeso liberi ma completamente ruinati ne-j’anima con tutte le nostre cà distrutte e con i nostri cari anche mò da revedè, sapendo già che qualchidun un’narebbe più revisto. (Ciao zio Lino) Tutto per el potere, per  la stupidità umana ch’al creda, anche mò, che la guera al serva a portà la  demograzia, non  a mandà anime a Dio. Una volta aeerene ignoranti, mò  a’ssiam un popo più  struiti,  ma  LORI  una scusa i’sse la troeene sempre.


VEDOE SCONSOLATE

1° VEDOA

A la morta de terzo marito, la Rò sola al capezzalo del difunto, al senta igghje strizzon de la fame. Visto ch’aera sola e che in cucina aera rimasto dò pesci, al dicida de fassili fritti.

Appena pronti, arevà ne la stanzia de là,  dal marito morto. A’ssassetta sù una scrana, a’està per magnalli quande i sonene a la porta. Chi i’ssirà? Al dice frà sè e sé.

Fasse troà cugì, a magnà davanti al morto al sirebbe stata una vergogna. Lesta a’rempiatta el piatto cò i pesci sotto al letto  e al và ad aprì. Igghjeren dei parenti e qualche amico ch’ivviniene per vegghjà el morto.

Inseme a lori a’reentra ne la stanzia e tutti inseme igghjà-ttacchene con le litanie. Ave Maria, Ora Pronobis…

El gatto de cà che igghjà-ea sintito e’jodore dei pesci igghje sgajattola  sotto el letto, igghje sgraffigna un pescio e i’sse ne và per revinì subito e dè noo ‘ndà via con un altro pescio in bocca, per reesse-lì un'altra volta e rescappà con un altro pescio. La scena u’nnera scappata a la Rò, ch’aea una fame che un ce vedea ma el gatto a’laea visto, eccome. 

Tant’è ch’al terzo pescio, agghje scappa ditto:

Oh Signore,  Oh Signore,   immi-lì-vò  porta  via tutti…

Quej ch’igghjerene  lì,  a  sintì  queste  parole, tutti in coro:  poera donna…poera donna…

2° VEDOA

La Luì a’ssera misa al capezzalo del marito morto con in sacca una brancata de sicchine e de tanto in tanto asse-ne mettea una in bocca e a la biascicaa in rispettoso silenzio.

A un certo punto agghje ven da dire.- Cristo questa aè proprio grossa…!          ( al pensaa a la sicchina)

Tutti igghj-àstanti in coro:- poera donna… poera donna !!!

( i pensaene al morto )


1° VEDOVA

Alla morte del terzo marito, Rosa sola al capezzale del defunto, viene morsa dalla fame. Visto che era sola e che in cucina c’erano dei pesci, decise di farsele fritti.

Appena pronti, rientra nella camera ardente. Si accinge a mangiarli quando suonano alla porta. Chi sarà?

Farsi trovare a mangiare davanti al morto sarebbe stata una vergogna.

Lesta, nasconde il piatto con i pesci appena fritti sotto il letto funebre e và ad aprire, erano alcuni parenti e amici che venivano per vegliare il morto.

Insieme a loro rientra nella stanza e tutti insieme cominciano le litanie. Ave Maria, Ora pronobis, ecc…

Il gatto di casa che aveva sentito il profumo dei pesci sgaiattola, (il gatto sgaiattola no?) sotto il letto sgraffigna un pesce e se ne và, per tornare dopo un attimo e di nuovo uscire con un altro pesce in bocca, un secondo ed eccolo che  ritorna  araffa un altro pesce e scappa.

La scena non era sfuggita all’affamata Rosa che al terzo pesce  esclama: - Oh Signore, Oh Signore, me li stà portando via tutti…

I presenti astanti, equivocando sui defunti mariti, in coro :- povera donna, povera donna !!!

       

2° VEDOVA

La Luisa s’era messa al capezzale del marito con in tasca una manciata di castagne secche (sicchine) e ogni tanto se ne metteva una in bocca biascicandola in silenzioso rispetto

Ad un certo punto esclama: - Cristo, questa è proprio grossa…!  ( riferendosi alla castagna)

Tutti gli astanti in coro: - povera donna, povera donna !!!

( equivocando sul defunto )


VIETINA

Vietina, una località, frazione semiconosciuta o se preferite “ semiscunusciuta “ del comune di Montignoso, comune a sua volta “ scunusciuto “ pur avendo conosciuto  e partecipe “ in primis”  ad ogni attività culturale e storica, sia Etrusca che  Romana o Longobarda, senza scendere a compromessi o sottomissioni con nessuno, neanche nel 2° conflitto mondiale dove il fronte segnò su questo piccolo paese la LINEA GOTICA. ( a’ccera tutto el posto ch’ivvo-leene ma i-lan fatta qui)  ………. Vietina…….. Vietina…………..

Ma un sé chiamaene Vietina quei fanti che ne-j’anni 60 igghj-anne inventato la Versilia con la ristorazion???

Ma scì cazzo, come à faccio à un’à-recordamme, per qualche mutivo, igghjeren,  anche parenti per via dei Toncelli……Ecco… Eccheme a’cce-son,  scusate ma el tempo i’passa anche per me grazie a’Ddio…come a’spero  per tutti, anzi più à né passa megghjio ajè.

A’ndian areto nel tempo anni 60 questi dò fanti Alfio e Bruno, ma come nascita visognerebbe dì Bruno e Alfio igghja-revegnene da Milan onde igghjeren ‘ndati  a laorà come camerieri, ‘A-revinuti a Muntignoso i pigghjene la gestion de un locale in cimo a la Fortezza i lo chiamene EL FARO nomo appropriato perché igghjera in un posto chi lo podeene vedè da tutta  la costa. Un successo de la Madonna. O’ tè i’sseren tirati dreto la crema de Milan in più igghjaene preso el megghjo de Muntignoso, quel pogo c’accera. A’ lo posso dì e à lo sò perché à feo  el barbiere… barbiere… insomma…. à’ndeo  à‘mparà,  lì sotto el ponto nòo, da Bonotti.

Aero fanto ma à capio che questi qui igghjaeene una marcia in più. Dopo un-e sperienza al faro i’gghjan comprato una baracca sul maro al Forte. A ‘ntendo Forte de Marmi, capiteme.

Tutti à digghje che ò fate o’ndo-ndate, o’ssete dei matti,  ma lori avanti con la sò testa.  VAI…

Doppo una sittimana el sò poero bà Cesare una sapea più come fà con que-la giardinetta a portà giù i tagghjarin che la Tina   al fea a’ccà,  bon come solo a  Muntignoso  a’ssapian-fà.   A paioli interi i-l’ingojaene come s’al fusse manna e….. come manna…  contenti ì-li pagaeene.

Doppo un minuto igghjanne ‘nventato LE PENNE A LA MAITO’ ‘na segata c’ajà fatto el giro del mondo, un primo che anche mò doppo 40anni in  tutte le parte ì lò proponene come Lori ì-la’eene ‘nventato :- tre o quattro penne un po’ de pumidoro una spruzzata de cagio e do fogghje de basilico.- Ma nisciun ì là mae sapute fà come Lori ì le feene. ( mistero o che?)

Tutti i fanti de Muntignoso ch’i-vvoleene laorà i troaeene lì un posto de laoro e tanti e tanti igghjanne i’mparato un mestiere d’oro. ( MAITO senza gnanche scritto ristorante MAITO )

Un-c’è mae stata scola de cucina ( e a quei tempi un ce-nera) c’al potesse insegnà quel che Lori  i’ssapeene fà e u’nna-eene sigreti per nimo, anzi quel ch’issapeene i’lo diceene a tutti.

Arruaua tutte le gente ricche chi’prenotaene per avè posto anche ‘na sittimana prima. Che a’vvè posso dì: CAMPARI, AGNELLI, MUDUGNO, MINA, per dì qualchidun ma per mentualli tutti accè vorebbe un libro. Un ch-i’mme rimasto impresso igghjera PACE lù igghjaruaa quande-ghje pare cò la sò pantera e strusciando i pè (lù un caminaua igghje strusciaua i’ppè) i’volea esse sirvito ad ogni ora e ad ogni ora igghjera sirvito.  Che tempi che robbe,   mia come mò che  appena al passa e-jora un se magna più da nisciuna parta,  sia t’abbia o no le palanche per pagà.

Me  ao auto la furtuna de podè frequentà quel posto, pogo sigh!  De conosce un po’ quej-unico locale da sogno e conosce Lori e quej che con Lori igghjanne auto la furtuna de laorà, dal sardo che la parola an’cumincia per “ o “ aera “ottomobile “ a quejo ch’i’ccredea in Diabolik e tutti i me coetagni ch’i-mme contaeene  quel ch’al succedea, chi a’ccendea, chi-vvedeene, che i’ffeene, e me barbiere de Muntignoso, poero barbiere a’renventao ai clienti con la cunvinzion d’essece…ma un’cero. Un fra tanti de questi fanti c-a’mme posso vantà ch-i’mmè rimasto amico, Giuliano, igghjaea cuminciato a laora proprio lì con Lori  e mò igghjè el padron del Madeo. Ma anche  tutti i’gghjaltri  ch’igghjen passati da lì igghjan fatto furtuna… (anche se tutti un se nascia sotto la stessa luna). Però a quei tempi quande un i’voleà laorà e i’ddicea   aò laorato al Maito u’nno scartaa nisciun perché tutti i’ssapeene da donde i’vvinia… Al bastaa.

La leggenda al dice ch’issenne  perso tutto à le carte… me a’vve dico lascian perde le leggende … E qualsiasi cosa al sia successa, più che Lori, chi accià perso  a’ssian noialtri e chi vinia al maro, non solo per el maro, e se ogge in Versilia a’sse magna ben, un ve lamentate del conto: o’aete magnato,  grazie ai Vietina  “DA SIGNORI” ( gente come me, de Muntignoso “ Liano 2005 “ )

 E’ppo un ristorante ch’isse chiama Maito un po mae esse de qualchidun perche el Maito un sirà mai “ MAI-TO”

Igghjera e i’ssirà sempre solo de Lori anche se de Lori un sirà “ MAI-PIU’-SO’ “


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Lino Liano Baldi

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NOTE SULL’AUTORE

Lino Liano Baldi, nasce a Montignoso in Toscana (I)

Fin da ragazzo s’avvia alla professione di parrucchiere che tuttora esercita in quel di Massa, riuscendo uno fra i pochi in Italia a fregiarsi di regolare attestazione in CCIA, atta allo svolgimento dell’attività di Tricologo e Consulente in Tricologia applicativa, materia che tuttora studia a livello scientifico e di cui,  tiene convegni, in tutta Italia.

Da sempre attratto dall’arte in genere, si diletta a scrivere, dipingere, fotografare e recitare in teatro, in un primo tempo in dialetto Montignosino, per poi passare con la compagnia “Le luci della ribalta“ a commedie in lingua, recitando, praticamente, in tutta Italia.  Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e primi premi in concorsi di poesia e di pittura.  Scrive racconti e commedie. S’interessa, da sempre, di storia locale.

Legato a Montignoso, pragmatico ed eclettico, ha ideato diverse e molteplici iniziative. Vale la pena di ricordare l’associazione Congrega da bosco e da riviera,  sodalizio, enoculturalgastronomico. Il Premio Internazionale di Poesia dedicato ad Enrico Pea. Il concorso di poesia Erotica a Viareggio. La gara dei Castelli di Sabbia sul litorale del Cinquale, i Giochi da Spiaggia, la Gara degli Aquiloni, il Carnevale Stradavecchia. I concorsi   tra il serio e il goliardico di: Miss Castellana, Miss-Rizza e Miss Culetto D’a-mare. Ha allestito e curato, diverse mostre di pittura, incontri con i poeti e seminari sull’arte. La stampa ha spesso parlato di lui, dedicandogli negli ultimi dieci anni, circa mille articoli.

Ultimamente, rubando tempo al tempo, è tornato con sempre più frequenza alla sua prima passione che è la pittura non tralasciando le altre attività artistiche e goliardiche che ricompensano, con i giudizi positivi ottenuti, dai dissapori della quotidianità.

(Balino 05)