La polvere di palcoscenico racconta…
C’è un portale magico collocato nel piccolo quadrato a ridosso della quinta dove si ripete puntuale la magia della trasformazione: quella che rende le persone personaggi, traghettandole dalla realtà alla finzione.
Identità varie e confuse accomunate dal passaggio in quell’altrove dove tutto può essere, e che si dissolve al chiudersi del sipario, lasciando solo granelli di malinconia, leggera come polvere.
(Ester Annetta
Via del Casale Giuliani n. 46
00141 Roma
Cell. 339 3034840
Posizione SIAE n. 212341- Sez. D.O.R. Autori)
POLVERE DI PALCOSCENICO
C’è una puntina da disegno rossa, che brilla come un rubino sulla moquette nera del palcoscenico ormai spoglio.
Rotola piano, sospinta dal vento fantasma di passi che poco prima l’hanno sfiorata.
Le quinte, barriere germogliate in terra a tagliare lo spazio, sembra che ora riposino, smontate dalla guardia, godendo di un appoggio contro il muro.
Un via vai di cellophane, sacchetti, borse, stampelle; rumori sordi, tonfi, brusii elettrici; ordini e richieste evasi in silenzio, volutamente pacati, a sottolineare la lentezza dei gesti che li accompagnano, come fossero l’ultimo pretesto per opporre un rifiuto ad un tempo finito.
Mi sollevo al vento di quei passi.
Ma la mia, ora, è una danza lieve, un leggero levitare per ri-posarmi subito dopo, quasi nello stesso punto, senza più spostarmi implacabilmente come nelle sere scorse.
Non è vento quello che mi sostiene; non è aria mulinante in vortici di corrente generata dai corpi in movimento; è un alito; forse il sospiro lieve che sfugge clandestino da labbra ormai silenziose, sigillate su battute già vecchie e ormai consumate, come i lembi di chiusura degli scatoli che custodiranno gli abiti e gli oggetti dismessi.
Domani, e per qualche domani ancora, sfilacci di copione si ripeteranno in corridoi, in stanze o lungo i marciapiedi: incompresi, bizzarri, intercalari in discorsi quotidiani; lingue perdute di una strana Babele; sequenze senza regia e senza platea…
Abito su queste tavole da quando erano grezze e ruvide di schegge pungenti: allora ero pesante, impastata a terra e fango trascinati da gomma e cuoio.
Poi uno strato di vernice nera mi ha incollato al suolo e mutata in porosità del legno; ribelle al lucido in controluce, manciata di bozzoli incastonati di respiro e vento.
Infine intrecciata alle maglie di un tappeto buio, pelo raso e soffice che assorbe l’eco di passi, per solo mutarne il timbro, senza annullarne peso e rumore.
Ho appreso il gergo dei tecnici e la lingua degli artisti; ho preso luce dai piazzati ed ombra dai velati; sono scesa in botole e salita su praticabili; ho riposato su drappi, cuscini e foglie.
Ho imparato le voci, a distinguere quelle vere dalle alterate, e i toni noti del tempo non recitato da quelli finti del tempo non autentico.
Ho ascoltato audaci mescolanze, poi divenute amalgama raffinata; finché non mi ha più ingannato il manto del talento, abile ormai a distinguere oltre l’artifizio se la voce che mi giungeva fosse di persona o personaggio, eco del mondo reale o del suo contrario, se abbigliasse la vita o il suo travestimento.
Ho assistito ogni sera alla magia della trasformazione, in quello spazio finito che è soglia del possibile: quel riquadro deforme dietro le quinte che cela il portale incantato attraverso cui dall’essere si passa al fingere di essere, e dalla realtà si balza in quell’altrove che consente di essere altri, spogliati della propria immagine, lontani da se stessi, lavagne cancellate su cui scrivere formule nuove con polvere di gesso.
Quante esistenze ho visto passare; quanti involucri; quante essenze.
Facce e sorrisi a tempo; maschere a scadenza indossate su giorni vuoti, senza calendario.
Sono stata tra i fili sintetici di una parrucca, cortina spessa e visibile che nascondeva pensieri sgranati e lividi invisibili, calata su occhi spenti nel loro incrociarsi ad occhi pietosi; parole mai dette, lasciate al tramite degli sguardi per penetrare sottilmente sotto strati di pelle e carne, a cercare un sostegno trasparente e muto, illusione di sostanza a contrasto dello spettro della solitudine. Un abbraccio, un incoraggiamento, e avanti! oltre il portale magico, dalla quinta alla scena; col volto ridisegnato da un sorriso, la ruga al centro della fronte finalmente spianata, la voce cinguettante allegra e divertita: eccolo lì, un altro essere, un latore di vita impropria in un corpo preso in prestito.
Sono stata sulle scarpe di chi arrivava tutte le sere trafelato, capelli scomposti, sguardo allucinato, odore di terra e fumo. Una borsa rigonfia trascinata a fatica, preziosa come il bagaglio di una intera vita. Quell’affannoso rimestarvi all’interno, come a cercare materia o risposte, fino a cavarne un copione spaginato, coi fogli ogni volta da riordinare nella giusta sequenza.
Un disordine solo apparente; anzi, metodico; smentito infatti - appena dopo - dalla precisione delle battute, dal ritmo e dai tempi sempre giusti e meditati.
Forse era proprio quel dialogo impostato - quasi fosse lo schema disegnato sul lino tirato di un cerchio da ricamo - a rimettere regola al subbuglio di una identità scomposta. Era come se l’io finto offrisse all’io vero la mappa per correggere le traiettorie di un’esistenza confusa e peregrina.
Sono stata sul colletto inamidato di marionette indossatrici di cravatte da contegno: avvocati, medici, ingegneri. Uomini prigionieri di circostanze e necessità; dominatori appiattiti e calpestati sui gradini delle loro stesse carriere; venditori di immagini e profili imbastiti con i fili di brillanti curricula.
Ma, in fondo, tutti portatori sani di semplicità, costretti in abiti d’autorità.
Ho così assistito alla metamorfosi di rigidità smollate, di austerità smontate, di etichette scucite, di canoni invertiti: la scena che diventava pulpito da cui rivendicare una diversa natura, comiziare con ogni licenza, deflagrare in un riscatto di libertà di fronte alla platea del mondo, invisibile agli occhi ma presente nelle intenzioni.
Sono stata infine sugli specchi dei camerini di attori veri, che non sono – no! - quelli nutriti da studio e lezioni d’accademia, ma gente così avvezza alla finzione da non saper più riconoscere la sua stessa identità. Esseri cui neanche lo specchio è più capace di restituire un autentico riflesso; febbricitanti di arrivismo, malati di invidia, incurabili di ipocrisia: mutanti patologici infettati da un parossismo competitivo che immola senza scrupolo lealtà e dignità.
Ma sono stata anche sulle note acute di una risata sprigionata da cuori limpidi; ebbrezza di genuina allegria, senso ritrovato di una dimensione sana e concreta in cui curare spiriti affamati di leggerezza, senza stupefacenti, senza pericolose alterazioni.
Sono polvere di palcoscenico: nube di granelli di esistenza sottratta a chi è passato; mistura di verità legate a strascichi di finzione; residuo di realtà incollata a pellicole di sogno.
Danzo sospesa tra vita e racconto; cibo degli audaci che, nell’intensità di un’emozione costruita, ricercano l’autentico trasporto di sentimenti incompiuti.
Polvere. Quanto di più tenace e persistente - pur nella sua impalpabile consistenza - si tenti di scacciare.
Ovatta sfilacciata percepita in trasparenza.
Un soffio, basta a mandarmi via. Per poi tornare.
Come quella vita altra, che non esiste; che, come la scena, si smonta al chiudersi del sipario dopo l’ultima replica.
Ma che si può scegliere di recitare ancora.
Sul rivestimento nero delle tavole dell’esistenza.