Processo per magia

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PROCESSO PER MAGIA

Commedia in tre atti

di APULEIO DI MADAURA

Traduzione e dialoghi di Francesco della Corte

PERSONAGGI

IL CANCELLIERE

TANNONIO, accusatore

CALPURNIANO, teste

UN PESCATORE, teste

UNA DONNA EPILETTICA teste

APULEIO, filosofo

UN MEDICO

ERENNIA vedova di Poliziano

CORVINIO, intendente

PUDENTE

figliastro di Apuleio

 Processo celebrato a Sabrata(Libia) nel 158 d.C. L'azione si svolge in due tempi.

PRIMO TEMPO

Il Cancelliere                     - (sta mettendo in ordine i rotoli delle testimonianze e ha in mano una clessidra) Questa che vedete è una clessidra. Ogni av­vocato può parlare fino a quando non sia esau­rita la riserva d'acqua. La vedrete fra poco in azione, perché oggi rifacciamo il processo che fu celebrato diciotto secoli fa a Sabrata, grande città della Libia romana. Sul banco degli impu­tati si trovava Apuleio di Madaura, uomo di doti eccezionali, che il pubblico aveva già più volte applaudito per le sue brillanti conferenze: scienziato, oratore, uomo di mondo. Fece enor­me impressione trovare Apuleio impigliato nel­le maglie dalla legge, accusato di avere eser­citato su Pudentilla pratiche di magia al solo scopo di carpirle l'enorme dote; indicato come il probabile avvelenatore del figliastro Ponziano che poteva costituire un serio ostacolo ai suoi piani. Quello che rendeva ancora più grave la posizione dell'imputato, accusato di magia e di tutti gli altri reati alla magia collegati, era il fatto che a trascinarlo in tribunale era pro­prio un altro figliastro: il giovinetto Pudente, che assistito dallo zio paterno Emiliano, si le­vava a difendere l'onore della famiglia, il buon nome, ma soprattutto gli interessi della madre Pudentilla, ritenuta ormai irresponsabile per­ché caduta in potere dell'uomo dallo sguardo magico. Da tutte le parti della Libia sono ac­corsi amici e nemici dell'accusato: il foro è gremito di curiosi, di familiari. Presiede il di­battito lo stesso proconsole di Roma, dato il nome dell'imputato e la gravità dell'accusa. (Squilli di tromba annunciano l'arrivo nel foro di Claudio Massimo, proconsole di Roma in Africa) Sta entrando il proconsole di Roma, giudice supremo.

Voce                                  - Imperatore Tito Aelio Caesare, Impera-toris Traiani Hadriani Augusti filio, Antonino Augusto Pio, patre patriae, pontifice maximo, tribunicia potestate vigesimo, consule quarto, optimo maximoque principe et cum summa benignitate iustissimo, Claudio Maximo pro-consule Africae, Pudens atque Aemilianus diem dicunt Apuleio Madaurensi magiae crimine reo. Adsint testes, Tannonius patronus, Apuleius Madaurensis magiae crimine reus.

Il Cancelliere                     - Vengano su i testimoni, ven­ga il patrono dell'accusa Tannonio, venga Apu­leio di Madaura, accusato di delitto di magia. (Salgono sul palcoscenico i tre testimoni, Tannonio e Apuleio, tutti prendono posto) A te la parola Tannonio, la tua clessidra comincia a versare.

Tannonio                            - Proconsole Claudio Massimo e voi eccellentissimi giudici del consiglio, oggi sono qui, davanti a voi, patrono di Pudente, minore di età, e di Emiliano suo zio e mallevadore. Ac­cuso Apuleio di Madaura di delitto di magia. Proverò che la presenza di un simile uomo nella nostra provincia costituisce un pericolo permanente per le vite umane; proverò che, con i suoi incantesimi, con i suoi beveraggi amatori, con la sua potenza ipnotica, egli è in grado di turbare l'animo altrui, l'altrui volontà fino a piegare ai suoi nefandi arbitrii qualunque essere umano; proverò che, con veleni e con formule magiche, egli è in grado di dare anche la morte. Un giovinetto orfano di padre è co­stretto, per tutelare i diritti suoi e di sua ma­dre, a firmare un'accusa contro il suo secondo padre. Un uomo, che dico, un uomo?, un mo­stro, gli ha portato via l'affetto della madre. E' lui che, con incantesimi e pozioni, ha tolto di senno una povera vedova e in una lontana casa di campagna, dove nessuno potesse udire i pianti di quella meschina, l'ha costretta a fir­mare il contratto di nozze. Contro questo nefan­do crimine, il figlio Pudente e il cognato Emi­liano sono insorti. (Pausa) Con il fratello Pu­dente e con lo zio Emiliano, sarebbe oggi da me patrocinato anche l'altro figlio della vedova Pu­dentilla: il caro, l'onesto Ponziano, giovane di grandi speranze e di promettente avvenire, se il fato avverso, se un acerbo destino non lo avesse stroncato pochi mesi or sono. Ma sono molti, anche qui presenti in questo foro, a nu­trire fondati sospetti, che il fato di questo gio­vane non aveva previsto una fine così acerba e prematura. Lo leggo sui vostri volti. Molti pen­sano, con me, che la vita di Ponziano è stata troppo improvvisamente stroncata da forze oc­culte. La sua morte è ancora un mistero. E chi non collegherà nella sua mente i fatti, che sono avvenuti nei recessi della casa di Pudentilla, con il mistero che vela la morte di questo gio­vane? Perché, proconsole e voi giudici, qui trat­tiamo soltanto una causa di magia; ma, sia ben chiaro sin da questo momento, che quando un uomo è dotato di poteri soprannaturali, e que­sti suoi poteri volge al mal fare, non c'è alcun freno morale che lo trattenga. L'unico, forse, che avrebbe potuto fermare Apuleio, era Pon­ziano, che già in età virile appariva in grado di vedere e giudicare. Noi abbiamo la certezza che, se Ponziano fosse ancora vivo, sarebbe qui con noi ad accusare il crudele patrigno. Questo, Apuleio intuiva e, pur di sbarazzarsi di un pe­ricoloso testimone che avrebbe impedito il cammino della sua sconfinata ambizione, della sua inesauribile sete di oro, Apuleio non si fer­mò davanti a nulla, nemmeno davanti alla morte; la morte di colui che in seguito al ma­trimonio era diventato suo figlio. Ora vedi la fatalità del caso! Quando tre anni fa Apuleio giunse nella nostra contrada, fu proprio Ponziano che, nella sua ingenuità, nella sua schiet­tezza e bontà, senza pensare quale avventuriero si celasse sotto il nome di Apuleio, con la cor­tesia e l'ospitalità, che è sempre stata la caratte­ristica della sua famiglia, invitò a casa sua quel­lo che credeva un amico. Apuleio non si fa ri­petere l'invito due volte; lascia la modesta casa e si trasferisce nel lussuoso palazzo della ve­dova Pudentilla. (Ad Apuleio) Ci sei rimasto per quasi un anno, mangiando e bevendo a spese di quella donna! (Ai giudici) Vivendo sotto il medesimo tetto, non è difficile ad Apuleio rea­lizzare il suo piano; sistema il maggiore dei figli con un matrimonio e lo pone fuori casa, in modo da poter più liberamente raggirare la donna; anche con il più piccolo avrebbe certo combinato qualche altro trucco, al fine di sba­razzarsene. Ma per fortuna di questo ragazzo c'era lo zio paterno, c'era il nostro concittadino Emiliano, che, dopo la morte del fratello, aveva sempre vigilato sui nipoti, perché la donna non commettesse qualche follia e non dilapidasse il patrimonio dei figli. Emiliano, dunque, quando vide che il figlio primogenito era stato messo fuori di casa, non permise che anche il secondo subisse la stessa sorte e, vedendo che la vita del piccolo era in pericolo, che nessuna difesa avrebbe più potuto prestare alla madre, ha ac­colto in casa sua Pudente. Zio e nipote sono oggi qui rappresentati da me per reclamare i diritti che sono stati calpestati, per chiedere il giusto castigo. Certi di agire nel superiore interesse della loro famiglia, sperano di ripor­tare un po' di ordine in una casa profanata dalla presenza di uno sfruttatore ignobile. Ma, proconsole e voi giudici, voglio sin d'ora met­tervi in guardia, voglio che sappiate chi è l'uo­mo che voi dovrete giudicare: è un malvagio, che avvilisce la scienza mettendola al servizio del crimine. E fate attenzione al suo aspetto, non vi lasciate ingannare dalla sua cultura, dal­la sua eloquenza! Eloquenza e aspetto piace­vole sono le armi delle quali si serve per se­durre. Si dichiara poeta; ma che versi sono i suoi? Osceni! E ciò sarebbe ancora poco, se non usasse la poesia come un allettante espe­diente per propinare al prossimo le sue polverine che egli chiama, eufemisticamente, denti­frici. (A Calpurniano) Ma parla tu, Calpurniano, e racconta cosa era quel dentifricio e cos'era scritto nel biglietto che Apuleio ti ha inviato.

Calpurniano                       - Sono Calpurniano. Sono stato amico di Apuleio e, lo confesso, anche suo am­miratore... non perdevo mai una sua confe­renza... Un giorno mi faccio coraggio e mi av­vicino a lui; lo prendo in disparte e gli apro il mio cuore. Mi vergogno dirlo di fronte a tanta gente, ma bisogna che lo faccia.

Tannonio                            - Parla pure francamente, devi dire cosa ti è accaduto.

Calpurniano                       - Io ho un difetto fisico: ho, come si dice, una digestione difficile. Di conseguenza, voi capite, soffro purtroppo di un inconvenien­te: ho l'alito pesante. Un giorno pregai Apuleio di indicarmi un rimedio. Mi fa aprire la bocca, mi osserva i denti e poi mi dice sorridendo: « E' molto più facile di quanto tu non creda. Ti darò io un dentifricio miracoloso ». Preoc­cupato io gli chiesi se non fosse per caso orina.

Il Cancelliere                     - (al pubblico, mentre gli attori restano immobili) L'uso di lavarsi i denti con l'orina era stato divulgato da Egnazio, uo­mo non meno famoso per la bianchezza dei denti che per l'epigramma a lui dedicato da Catullo.

Calpurniano                       - Apuleio escluse che si trattasse del dentifricio di Egnazio e mi lasciò con l'im­pegno che mi avrebbe mandato a domicilio il farmaco portentoso e la ricetta.

Tannonio                            - E lo hai ricevuto?

Calpurniano                       - Sì. Era una polverina bianca, accompagnata da una poesia, che deve figurare fra gli atti del processo.

Tannonio                            - Certo è stata regolarmente esibita e ora si provvederà a leggerla. (Al cancelliere) Leggi.

Il Cancelliere                     - (leggendo) « Apuleio saluta Calpurniano con versi estemporanei; ti ho in­viato, come mi hai richiesto, una sostanza che dà pulizia ai denti, dà splendore alla bocca; è prodotta dalle aromatiche piante d'Arabia, tri­tata e pestata in modo da ridurla a sottile sbian­cante polverina, le cui doti sono quelle di sgon­fiare le gengive tumide, di asportare i residui della cena precedente. In tal modo, quando at­teggerai il tuo bel labbro al sorriso, la gente non scorgerà nessuna traccia di impurità nella tua bocca ».

Tannonio                            - Cittadini di Sabrata, avete udito? Chi ha mai usato nella nostra provincia polveri per pulire i denti? Noi non sappiamo quali malanni potrebbero arrecare quelle polverine misteriose che egli camuffa come dentifrici. E se fossero strumento di veneficio? Se produ­cessero gravi turbamenti psichici? E se queste polverine, invece di sbiancare i denti, sbiancas­sero il corpo, dessero al corpo il bianco pallore della morte? (A Calpurniano) Ma tu, Calpur-niano, ti sei ben guardato dal farne uso?

Calpurniano                       - Certo. Molte persone di ri­guardo, amici affezionati, mi hanno sconsi­gliato. E poi io stesso ero a conoscenza delle voci che correvano sul conto di Apuleio: la moglie affatturata, il figliastro misteriosamente deceduto e poi altri indizi... Lo confesso: ho avuto la tentazione di usare quella polverina, ma mi sono poi detto: chi te lo fa fare?

Tannonio                            - Bene, Calpurniano. Così ragio­nano le persone ammodo. Deposizioni come questa potremmo produrne a decine, a voce e per iscritto. E quei sacrifizi notturni, che Apu­leio compì con il suo degno compare Quinziano, cui Giunio Crasso aveva affittato la casa, non sono forse altrettanti documenti di riti sacrileghi, di riti erotici? (Al cancelliere) Leg­gimi la lettera che Giunio Crasso ha inviato come sua testimonianza.

Il Cancelliere                     - « Crasso saluta Emiliano; in questi ultimi mesi, che trascorsi ad Alessandria, ho lasciato in affitto la mia casa a Quinziano. Ritornato dall'Egitto, ho ripreso subito pos­sesso della mia casa, che nel frattempo era stata abbandonata da Quinziano. Ma la trovo in grande disordine: penne di uccelli per tutta la casa e le pareti macchiate di fuliggine. Chie­do il motivo di quel disordine al servo, che ave­vo lasciato in casa, e quello mi risponde: " Sono i segni dei sacrifici notturni compiuti da Quin­ziano e da Apuleio " ».

Tannonio                            - (al cancelliere) Basta così. (Ad Apuleio) Anche le case affittate da amici con­tamini con i tuoi riti nefandi. (Ai giudici) Clau­dio Massimo, e voi giudici, Apuleio non fa mi­stero della sua magia, non nasconde di posse­dere i segreti della natura. E noi sappiamo che tutte le sue polverine sono destinate, con il loro aroma, con gli incantesimi che sono loro in­siti, ad ottenere effetti sempre nocivi, spesso fatali. Abbiamo le prove che questo individuo, fra i tanti oggetti di cui si serve per le sue fat­ture, usa anche uno specchio. Noi non sap­piamo, non siamo in grado di dire esattamente a che serva questo specchio, quali turpi prati­che siano collegate ad esso; ma sta di fatto che ovunque vada, Apuleio porta sempre con sé questo malefico strumento; c'è chi lo ha visto aggirarsi per luoghi solitari, proiettando la luce del sole sugli oggetti più vari, facendo cadere i raggi su erbe, su pietre ed animali. E la sua impunità lo ha reso così sfacciato, che non compie più le sue imprese col favore delle te­nebre, in luoghi reconditi, ma, da quando ha messo le mani sul patrimonio della moglie, pas­seggia in lungo e in largo con arrogante sfron­tatezza. Approdato qui, come un miserabile, in compagnia di un solo servo macilento, oggi fa il grandioso, lo spendaccione, affranca tre schia­vi in un sol giorno, quasi a dimostrazione che il denaro che possiede non gli costa fatica. Ar­rivato da noi con una borsa da viaggio che non sarebbe bastata neppure per star via un giorno, ora lo vedete azzimato e con addosso costo­sissimi profumi. E questa improvvisa metamor­fosi non è forse opera essa pure di magia? Un tocco di bacchetta magica ed eccolo trasfor­mato da lurido pezzente in ricco signore. Per­ché questa è la realtà, giudici. Noi siamo da­vanti ad un mago. E se non fosse tale, come avrebbe fatto a convincere a rimaritarsi una vedova che ostinatamente per quattordici anni aveva scoraggiato i più brillanti e accaniti pre­tendenti? Apuleio è riuscito nei suoi intenti solo perché ha fatto uso del suo potere magico. Co­nosciamo il modo con cui prepara le sue po­zioni. Gli ingredienti che sono alla base di ogni sua fattura li ricava dalle erbe, dalle pietre, dalle viscere degli animali, in special modo dai pesci. Del resto il potere afrodisiaco dei pesci è noto a tutti. Ma qui, perché non ci accusiate di essere visionari, vi faremo udire dalla viva voce di un pescatore che cosa è capitato pochi giorni or sono. (Al pescatore) Vieni avanti e di' quello che sai.

Il Pescatore                        - Un giorno mi trovavo sulla spiaggia e facevo asciugare le reti, le riparavo anche, là dove erano rotte. Ero seduto a terra. Ad un tratto scorgo vicino a me un uomo che mi guardava fisso.

Tannonio                            - Chi precisamente? Lo riconosci?

Il Pescatore                        - (indicando Apuleio) E' lui. Come mi fosse giunto vicino senza che me ne accorgessi - la spiaggia era deserta - non so ancora oggi spiegarmelo. Siccome insisteva a fissarmi senza parlare, gli chiedo cosa vuole da me. « Cerco dei pesci », mi dice e aggiunge « sono disposto a pagarteli bene ». Queste pa­role mi riempiono di contentezza; noi pesca­tori abbiamo una vita grama. Denari ne vediamo pochi. Tutta la nostra ricchezza sono pochi me­tri di rete, due canne e quattro ami; e su e giù dalla spiaggia al mercato per cercare di vendere quel poco che abbiamo preso, e tutto il giorno a procurare arselle, ostriche, datteri, granchi per avere un po' d'esca: e poi a pescare con l'amo, dagli scogli o dalla barca. Ma se il mare è grosso, se viene una burrasca, ce ne torniamo a casa bagnati e inzuppati: niente pesci, niente da mangiare.

Tannonio                            - Bene, ma sii breve.

Il Pescatore                        - Ma è la verità, il mare oggi non dà più quasi nulla. Dove sono mai quelle belle retate di una volta, come ci raccontano i vecchi?

Tannonio                            - Bene, e lui che ti ha detto?

Il Pescatore                        - « Sono disposto a pagarteli a peso d'oro - mi disse - purché siano della specie che li voglio ». I signori in genere hanno capricci. Gli chiedo se gli servono per un ban­chetto, per una festa; volevo regolarmi sulla qualità e sulla scelta. « Non mi servono per mangiare » mi dice. Oh, per gli Dei, capisco che i signori i denari loro li spendono come vo­gliono; ma, se non lo lessi o non lo metti in padella, che ne fai? Gli chiedo allora che razza di pesce vorrebbe. Mi dice: « Quel pesce che voi chiamate volgarmente lepre di mare; ne ho proprio bisogno ». E io: « Ma quel pesce è ve­lenosissimo ». E lui: « Lo so » mi risponde sor­ridendo « lo so; ma devi appunto portarmelo. Te lo pago a peso d'oro. Bada però, non voglio che perda neppure una squama, che non si stacchi neanche una spina; e guai se me lo un­cini troppo forte con l'amo, perché, se me lo rovini, non ti dò più nulla ». Io che ci perdevo ad ubbidire? Mi pagava e tanto basta; e il mat­tino seguente, all'alba vado a pescare. Resto in mare finché il sole non è alto all'orizzonte e per mia fortuna prendo un lepre di mare. Corro a portarglielo. Temisone, un suo servo, mi con­duce subito da lui. E lui sapete cosa fa? Mette il lepre di mare sul tavolo, e con un coltellino affilato gli apre il ventre. Bene, penso io, gli leva le interiora, che sono le prime che vanno a male. E invece no, quelle che noi gettiamo via: le budella, il cuore, le lische, le spine, le squame, le viscere lui le tiene con cura e getta via tutto il resto. E c'era molta gente in casa sua e lui mostrava a tutti quel lepre di mare al quale aveva tolto tutta la polpa. E lui sem­brava felice. Contava gli ossicini e parlava, parlava...

Tannonio                            - Cosa diceva?

Il Pescatore                        - Ma! Parlava in una lingua che io non capivo.

Tannonio                            - Certo non potevi capirla: era per­siano, la lingua dei maghi. Quindi tu confermi che questo Apuleio ha acquistato da te un pesce velenoso e lo ha sezionato prelevandone il cuore e le altre interiora?

Il Pescatore                        - Sì, lo dico e lo ripeto. Lo ha fatto a pezzi e lo ha tagliuzzato che era ancora vivo, lo ha frugato come se cercasse qualcosa, un anello, una moneta d'oro, o che so io. (Ride).

Tannonio                            - Lascia andare le tue considerazioni. Apuleio non cerca un tesoro; il tesoro ce l'ha già in casa: è sua moglie. Tu, piuttosto, ripeti bene cosa ha fatto del lepre marino.

Il Pescatore                        - L'ho detto: lo ha fatto a pezzi, gli ha tolto le interiora e le ha riposte in un vasetto.

Tannonio                            - Basta così. Non ho più bisogno di te. (Ai giudici) Avete udito tutti la deposi­zione di questo bravo giovine, che non ha certo alcun interesse a mentire. Dietro mercede è stato costretto a procurare gli elementi con cui il mago impasterà i suoi afrodisiaci. Perché, pro­console e voi giudici, cosa credete mai che fac­cia con questi pesci? (Ad Apuleio) Tu non lo rivelerai mai; perché questa è la legge che vige fra voi maghi. E guai a chi rivela i segreti che apprendete nelle conventicole. E li traman­date attraverso volumi indecifrabili, irti di se­gni misteriosi e di cifre incomprensibili. Ma con questi pesci tu prepari gli afrodisiaci che usi per sfogare impunemente la tua libidine. Sei incapace di amori normali; nella tua impu­denza hai fatto sfoggio di magia, un giorno che hai preso uno dei tuoi quindici servi, Tallo, an­cora un ragazzo, lo hai condotto in un luogo appartato e al lume di una fioca lucerna, alla presenza di alcuni compagni della tua risma, hai operato l'incantesimo. Tallo stramazzò a terra come morto e, tornato in vita, nulla ricor­dava di quanto era accaduto. Proconsole, ci sono quattordici servi «compagni di Tallo, li puoi interrogare, se lo vuoi. Ma non basta, c'è oggi qui una donna: non è una serva, è una donna di onesta condizione. (Alla donna) Cono­sci Apuleio di Madaura?

La Donna                           - Lo conosco.

Tannonio                            - Sei mai andata a casa sua?

La Donna                           - Sì, una volta.

Tannonio                            - E perché?

La Donna                           - Volevo consultarlo per certi miei disturbi.

Tannonio                            - Cosa accadde?

La Donna                           - Ma... E' stato gentile con me. Mi guardò a lungo; poi mi chiese se avvertissi un ronzio negli orecchi; risposi di sì. Volle sapere se il ronzio fosse più forte nella parte destra o nella parte sinistra. « La parte destra » gli dissi. « Bene, bene » fece « proprio la destra ».

Tannonio                            - E poi?

La Donna                           - Ma... seguitava a fissarmi negli oc­chi. « Mi impegno di guarirti » mi disse.

Tannonio                            - E poi?

La Donna                           - Io... non so, non ricordo altro. Mi fissava negli occhi. Poi... si è fatto buio... non so altro.

Tannonio                            - Non puoi sapere altro. Sei caduta a terra, come morta. Hai vergogna a dirlo in pubblico? A questo punto, il nostro proconsole in sede di istruttoria ha chiesto che cosa sia avvenuto dopo. Certo la donna che qui vedete non ha subito danni... visibili. Ma, chiedo io, non vi basta che un uomo sia capace di imporre il sonno ad una persona libera e sana - il sonno, che, come dice il poeta, è fratello della morte -perché sia provato che egli è in grado di ope­rare qualsiasi maleficio? (Alla donna) E' vero che sei caduta in terra?

La Donna                           - Sì. Almeno io penso di sì. Quando mi ridestai, ero a terra. Dunque...

Tannonio                            - Non occorre altro. (Ai giudici) Un uomo che ha questo potere, un uomo che può far cadere una donna come morta, quando ab­bia un suo tornaconto, può benissimo fare in­namorare di sé una vedova indifesa, farla im­pazzire d'amore, inculcarle nel cuore l'odio per i figli. Pudentilla, che ostinatamente era rima­sta nello stato vedovile per ben quattordici anni, che viveva sola e tutta dedita alla fami­glia ed ai figli, improvvisamente si butta nelle braccia di uno straniero, scaccia di casa le sue creature e consegna corpo e sostanze ad uno sconosciuto! In un momento di lucido in­tervallo, prima di sposarsi, Pudentilla scrisse una lettera al figlio Ponziano, chiedendo il suo aiuto, informandolo che Apuleio l'aveva stre­gata: « Vieni, prima che sia troppo tardi, figlio mio ». Queste parole disperate sono di una ma­dre a suo figlio. Una dichiarazione così sincera, così insospettabile, firma la condanna di quest'uomo. Ecco le fondate ragioni per cui Pudente, minore di età, cui si fa mallevadore lo zio Emiliano, ha deciso di costituirsi, qui in questo tribunale, accusatore di suo padre Apu­leio, uomo reo di molti e nefasti malefìci. Se tu, proconsole, non provvedi al più presto a libe­rare la città e la nostra provincia da questa peste di stregone, il danno, che ha già subito la famiglia di Pudentilla, si abbatterà anche su altre, e, laddove un interesse lo attirerà, Apuleio impasterà i suoi veleni, filtrerà i suoi intrugli, farà impazzire qualche altra vecchia danarosa. Abbiamo provato la nefasta magia di quest'uo­mo; abbiamo provato che egli pone il suo misterioso e fatale potere al servizio del male. Con questi precedenti prende sempre più forma e sostanza il sospetto che da più parti è stato avanzato: la morte di Ponziano non essere acci­dentale. Noi, profani di scienze magiche, difficil­mente potremo stabilire le modalità secondo cui si svolgono i fenomeni di magia; ma, anche con le nostre limitazioni, dovute alla sfera uma­na in cui operiamo, ci accorgiamo, dagli effetti, che qualche cosa di sovrumano, velato di mi­stero, guidato da una forza imprecisabile, opera nel raggio d'azione in cui si muove Apuleio. Per esplicita dichiarazione dei miei patrocinati, noi non vogliamo in questa sede accusarlo di omi­cidio, ma ancora non è trascorso il tempo per cui il crimine, che presumibilmente ha pro­vocato la morte del giovane Ponziano, si sia estinto e sia rimasto ingiudicato. Noi oggi ci limitiamo a produrvi le prove di un preciso rea­to: quello di magia. Trarremo poi, e le potrà trarre ciascuno, le debite conseguenze. Pertanto, pur limitandoci al solo reato di magia, chiara­mente provato dall'ampia documentazione sino­ra prodotta, e da quella che il nostro procon­sole vorrà ancora chiederci, noi oggi, in questa sede, chiediamo che il colpevole sia esemplar­mente punito. Io non ti chiedo, Claudio Mas­simo, che tu applichi la vetusta legge delle dodici tavole che, come dice Tito Livio, pur nell'immenso cumulo delle leggi romane, suc­cessivamente sovrappostesi l'una all'altra, è pur sempre la fonte di ogni diritto così pub­blico che privato. Eppure, se vivessimo in tempi in cui la giustizia fosse più rapida e non consen­tisse al reo infinite scappatoie, come volentieri chiederei di applicare questa legge che un giorno, incisa nel bronzo, comminava la pena capitale eseguita per impiccagione a chiunque ricorresse ad incantesimi. Lo so, sono vecchie leggi che la nostra corrotta mollezza ha ormai rese inoperanti. Ma vige, per gli Dei, vige sem­pre la legge di Cornelio, che non teme di porre sul medesimo piano dei sicari, che uccidono con il ferro, gli avvelenatori che ricorrono a filtri ed incantesimi. (Al cancelliere) Dai lettura del­la legge di Cornelio.

Il Cancelliere                     - « Tutti gli omicidi debbono essere puniti con la pena capitale, eseguita me­diante spada ».

Tannonio                            - Che dice degli avvelenatori?

Il Cancelliere                     - « Con la pena capitale sa­ranno colpiti coloro che con arti subdole hanno fatto perdere la vita ad esseri umani o con po­zioni venefiche o con parole magiche, anche soltanto mormorate o sussurrate ».

 

Tannonio                            - Apuleio non ricorre al mormorio; le sue formule magiche sono state intese da tutti; gli effetti sono stati visti da tutti. Per lui non la legge di Cornelio ci vuole, ma la legge di Pompeo, perché i suoi incantesimi egli li ha compiuti nell'ambito familiare e questo rende ancora più odioso il delitto. (Al cancel­liere) Leggimi la legge di Pompeo.

Il Cancelliere                     - « L'omicida che ha procurato la morte del padre, della madre, di un figlio o di qualunque altro parente, congiunto o affine; se ne abbia attentato alla vita o anche soltanto all'incolumità o abbia osato compiere questo misfatto o palesemente o nascostamente, sia pu­nito con la pena di morte. Tale pena non sarà eseguita né con il ferro né con il fuoco né con impiccagione né con altro mezzo contemplato nella normale giustizia. Il reo sarà cucito in un sacco di cuoio, insieme a un cane, a un gallo, a una vipera, a una scimmia, e sarà gettato nel mare o nel più vicino fiume, a seconda delle possibilità della regione, in modo che il reo fino a che viva, non potrà più vedere il cielo, né la terra dovrà più sopportare l'odioso peso ».

Tannonio                            - Ecco, o giudici, le leggi di Cor­nelio e di Pompeo. Ecco la pena che occorre fin d'ora preparare a questo mostro che i molti delitti hanno additato alla pubblica esecrazione. Io ho terminato. (Si siede).

Il Cancelliere                     - Apuleio, a te la parola.

Apuleio                              - Proconsole, giudici. Tannonio, av­vocato di mio figlio Pudente e di suo zio Emi­liano, Tannonio che ha fatto risuonare queste volte di una prezzolata loquacità, scagliando ca­lunniose invenzioni contro la mia persona, ha colpito in me tutti gli uomini di cultura, ha of­feso la scienza e l'arte. Comprendo: le sue ca­lunnie saranno lautamente pagate dal nostro Emiliano, e quanto più esse saranno false, tanto più alto sarà l'onorario che l'avvocato chiederà al suo cliente. Ma nel nostro caso Tannonio, prestando al rancore di Emiliano il veleno della sua lingua, sfoga anche e soprattutto vecchi livori di insuccessi forensi. Tannonio non ha di­menticato ancora che proprio in questo foro, difendendo io una causa patrimoniale di mia moglie, ebbe a subire da me uno smacco che ancora gli brucia. Solo così spiego le meschine accuse, alle quali, per la mia dignità di filosofo, mi vergogno perfino di rispondere. Tuttavia debbo farlo: se le lasciassi passare, parrebbe che la parte avversa, almeno su qualche punto di minima importanza, abbia ragione. Non sia data dunque colpa a me, se dovrò prendere un po' del vostro prezioso tempo per esaminare questa calunnia. Voi avete udito l'accusa pronunciare queste parole: « Fate attenzione ad Apuleio, at­tenzione al suo aspetto! Non vi lasciate ingan­nare dalla cultura e dalla eloquenza e aspetto piacevole: sono le armi di cui si serve per se­durre ». Evitiamo di parlare. del mio aspetto, l'argomento è troppo ridicolo. Vi parlo invece volentieri dei miei studi. L'accusa, che mi si muove, mi lusinga. La mia vita è stata spesa, fin dalla prima giovinezza, nello studio e nell'e­sercizio della declamazione. Con tutte le mie forze ho sempre cercato di migliorare il mio stile, di perfezionare la mia pronuncia. Ho sdegnato ogni piacere, ho studiato giorno e notte fino al limite delle mie energie, per conseguire la dote dell'eloquenza; e per essa ho compro­messo la mia salute, logorato i miei polmoni. Ma purtroppo per me, anche in questo caso, l'accusa mente; l'eloquenza, per quanto io ab­bia faticato, non è divenuta mai una conquista. Ma se «eloquente è l'innocente », come dice il proverbio, io mi riconosco e mi proclamo pub­blicamente eloquente. Infatti, che cos'è que­sta eloquenza, cos'è l'eloquenza se non la forza stessa di persuasione che emana dalla verità? Ebbene, sono eloquente; perché non c'è alcuna parola o azione di cui non possa parlare ad alta voce ed a viso aperto. Perché, secondo loro, dovrei vergognarmi di tutto, anche di usare e consigliare un dentifricio, la cui formula ho appreso in Arabia? Claudio, non sorridere; lo hai visto anche tu che, pur di nuocermi, hanno prodotto fra gli altri documenti, anche un mio biglietto, con cui accompagnavo il dono di una polverina tratta da aromatiche piante d'Ara­bia, a un sedicente mio amico. E per chi altro, se non per uno sciocco come Calpurniano, se non per un sudicione come il mio accusatore, il lavarsi i denti diviene opera di magia? Vorrei chiedere al mio moralissimo censore di rispon­dermi, in tutta sincerità, se si lava lui qualche volte le estremità e, se mi risponderà di sì, mi dimostri poi che differenza ci sia a tener pulite le varie parti del corpo: i piedi come i denti. E non voglio spendere troppe parole per quel Giunio Crasso che, mentre in Alessandria goz­zovigliava, ebbe il sospetto che in casa sua si sgozzassero uccelli, si spennassero, e si accen­dessero fuochi sacrileghi, si celebrassero riti erotici! Giunio Crasso non ha la faccia di un uomo intelligente. Senza barba né capelli, gli occhi lacrimosi, le ciglia gonfie, la bocca semi­aperta, le labbra bavose, la voce stonata, le mani tremanti: una taverna di rutti. La sua testimonianza, come la sua casa l'ha affittata. Vuoi sapere il prezzo? (A Tannonio) Per tremila sesterzi.

Tannonio                            - Non è vero!

Apuleio                              - Sì, ha venduto la sua testimonianza ieri l'altro ad Emiliano in casa di Rufino, con la mediazione di Calpurniano. L'affare fu concluso per tremila sesterzi. A Tripoli tutti lo sanno. E allora lasciamo alle sue bettole Giunio Cras­so, e passiamo a qualcosa di più ameno: l'ac­cusa, per esempio, di scrivere versi d'amore.

Tannonio                            - I tuoi sono versi pornografici, non versi d'amore!

Apuleio                              - Tannonio, non posso discutere con te su problemi estetici, mi dispiace. I miei sono versi d'amore. Volete farmi passare per stre­gone, e poi mi onorate includendomi nella schie­ra dei poeti d'amore, insieme ad Anacreonte, a Simonide, a Saffo, donna così sensibile alla vo­luttà, la cui passione amorosa ha tanta grazia, da fare accettare anche l'arditezza del linguag­gio. Ebbene, incriminate la Poesia, e incrimi­nerete anche me che ho cantato l'amore. « I tuoi versi sono immorali » urlano. Ai suoi mali­gni censori, Catullo replicava: « Casto deve es­sere il poeta e pio; non occorre che lo siano i suoi versi ». Il divino imperatore Adriano fece incidere sulla tomba del suo amico, il poeta Voconio, queste parole: « Lascivo era il tuo verso, ma l'anima avevi verginale ». (A Tannonio) Vorresti oggi infamare anche la memoria di un imperatore romano? E credi tu che il procon­sole di Roma te lo permetterà? Come puoi pen­sare che Claudio Massimo riterrà colpevole me, che un imperatore ha già in precedenza assolto da tali ipotetiche colpe? Ti ringrazio, Claudio Massimo, per l'attenzione con cui stai seguendo anche queste... chiamiamole appendici alla mia difesa, cui sono costretto per far da contrap­peso alle accuse. E ti chiedo di ascoltare con pazienza, così come hai fatto finora, quello che mi resta da dire, prima che io venga all'accusa principale: il mio matrimonio con Pudentilla. L'accusa dello specchio è più buffa e più incre­dibile delle altre. Mi si incolpa di usare uno specchio.

Tannonio                            - Puoi negarlo?

Apuleio                              - No, certo. Ma ti pare che, ammet­tendo di avere con me uno specchio e di usarlo, la tua accusa sia una cosa seria? C'è forse una legge che vieta ai cittadini romani di specchiar­si? Lo so, non è questo che intendete dire voi. Voi affermate che io uso uno specchio per scopi malefici. E' ridicolo. Il nostro accusatore forse non sa che lo specchio ha nel campo dello studio della fisica ben altri impieghi che non sono quelli comuni di mirare le proprie fattezze. Sul comportamento della luce riflessa negli spec­chi si sono pronunciati studiosi di ogni tempo. Epicuro, Platone, Archita, per citare i più gran­di. Perché non ti leggi il trattato sugli specchi ustori di Archimede di Siracusa; mente supe­riore, che ha fatto nel campo della fisica inven­zioni mirabili, proprio perché usava sperimen­tare fenomeni ottici con lo specchio. Apprende­resti molte cose, che gli specchi concavi, per esempio, se opportunamente collocati davanti al sole, bruciano gli oggetti messi al loro giu­sto punto focale. E se non vogliamo parlare dell'utilità dello specchio per uno studioso di fi­sica o di ottica, lo specchio è indispensabile al­l'artista e all'oratore perché esso rende fedele l'immagine dell'uomo, non traviata da deforma­zioni, come spesso invece accade nella scultura e nella pittura. Vedi gli artisti a quale fatica si sottopongono, quanto studio, quanto lavoro, perché l'immagine che riproducono risulti viva, somigliante, colta in movimento; tutto ciò av­viene invece nello specchio naturalmente, istan­taneamente. L'immagine vi appare mirabilmen­te presentata, immagine che rassomiglia perfet­tamente e si muove e obbedisce ad ogni cenno della persona. Ciò che è dipinto e scolpito dopo poco tempo non rassomiglia più: è rimasta una sola immobile faccia senza vita. Ben superiore alle arti figurative è lo specchio che coglie l'uo­mo nella sua dinamica. E il maggiore degli ora­tori dell'Attica, Demostene, non ripeteva i suoi discorsi davanti a uno specchio con l'attenzione di un discepolo davanti al proprio maestro? Così, dopo aver appreso dalle varie scuole tutto ciò che poteva servire alla sua cultura ed alla sua eloquenza, chiedeva infine allo specchio il tocco dell'ultima perfezione. Ma c'è un'altra ac­cusa, con cui tu, Tannonio, hai creduto di in­famarmi, sicuro che io ne arrossissi: quella di essere giunto in questa contrada con un solo servo macilento e con una borsa da viaggio suf­ficiente per vivere un solo giorno fuori di casa. Anche della mia povertà mi incolpavi. Ma que­sto delitto noi uomini di lettere e di scienze lo commettiamo giornalmente e apertamente, lo professiamo: la povertà è sempre stata compa­gna della filosofia, per contro sono compagni del lusso la tirannide, la superbia, la gola, la voluttà. Dice il poeta: « in mezzo al tempestoso mare dell'orgoglio umano, c'è una città, la mia bisaccia ». La vita è come il mare: nuota me­glio chi è più leggero; nella tempesta della nostra esistenza chi pesa poco sta a galla, chi ha troppi bagagli va a fondo. Ma se proprio vuoi saperlo, Tannonio, dato che tu non vuoi igno­rare nulla della mia vita, ti informo che mio padre, morendo, lasciò a me ed a mio fratello circa due milioni di sesterzi. Ma la mia parte di eredità, a causa dei lunghi viaggi di istruzione e della mia congenita liberalità, si è nel giro di pochi anni consumata. A tutti i miei compagni di studio, a chi si trovava in difficoltà, ho sem­pre prestato e non sempre richiesto; a tutti i miei maestri ho dato un concreto segno della mia riconoscenza per le lezioni impartitemi; non ho esitato a sacrificare l'intero mio patri­monio per aiutare chi avesse bisogno, per pro­curarmi quella conoscenza delle cose che è il bene maggiore che un uomo possa vantare. Ma vergognatevi di portare davanti a un magistrato di Roma, con la faccia seria, con il sussiego di accusatori, capi di imputazione così frivoli. Tannonio, ricordati che parli davanti al procon­sole di Roma, uomo colto e giustamente severo, che non ha tempo da perdere, che deve badare agli interessi di tutta una provincia. Neppure voi credete a ciò che dite, ma insistete, e vo­lete che questo tribunale mi condanni reo di magia, perché, quando avrete ottenuto questo primo successo, tornerete all'attacco a dire come già avete fatto in passato, che io, di lon­tano, senza che neppure sapessi dov'era, ho fol­gorato con i miei incantesimi mio figlio che osta­colava i miei piani. (A Claudio Massimo) Non hai mai visto, Massimo, uno di quei fuochi di paglia che, scoppiettando, divampano con cre­pitìo di fiamme e vocìo di comari? Immenso si eleva con una nuvola di scintille e di fumo e poi, d'un tratto, cade nel silenzio. Così è l'ac­cusa. Cominciò con le ingiurie, si nutrì di chiac­chiere, mancò di prove, e, dopo la tua sentenza, non resterà che un mucchietto di sporca ce­nere. Ma vedo, Claudio, che il tempo segnato dalla clessidra sta per scadere e che nella con­futazione delle ridicole accuse si è smarrito tutto il mio discorso. So di chiedere molto alla tua benevolenza, ma concedimi, ti prego, una altra clessidra, perché, liberatomi dalle accuse minori, io venga a trattare il nocciolo della causa, e smascherare per sempre gli esseri odiosi che hanno tramato alle mie spalle la più infame delle accuse.

Il Cancelliere                     - Claudio Massimo sospese il processo. I giudici accordarono ad Apuleio una altra clessidra.

SECONDO TEMPO

Apuleio                              - Se ben considerate, l'accusa è tutta qui, racchiusa in questa sola imputazione: io sarei un mago. Ma io vorrei sapere dai miei eruditissimi accusatori che cosa sia, per essi, un mago. Mago, in lingua persiana, vuol dire sacerdote degli astri. La magia, di cui voi, scri­teriati, m'accusate, è l'arte di Zaratustra. Ed è riservata ai principi e ai sacerdoti e cioè alle due caste più elevate di grado in Persia. Ci sono anche dei re magi. Ma, nella loro igno­ranza, i miei avversari credono che mago sia colui che, in comunicazione con misteriose for­ze soprannaturali, in virtù di certi suoi incan­tesimi, può operare tutti i prodigi che vuole, può fare tutto il male che vuole. E allora io mi stupisco, e mi chiedo come mai i miei ac­cusatori non abbiano avuto e non abbiano ora un sacro terrore di me, cui riconoscono questo potere. Perché se realmente avessi questa po­tenza di far loro del male, vi giuro per gli Dei che ne avrei già fatto uso, ne farei in questo momento, Tannonio. E se tu e i tuoi patroci­nati non siete corsi ai ripari, è segno che a questo mio potere, almeno personalmente voi non credete. Per questo non avete arrossito di venir fuori con i più ridicoli argomenti, di gri­dare, di offendere, di comperare testimoni, pur di insinuare il sospetto che i miei esperimenti scientifici fossero pratiche magiche. E non vi siete vergognati di parlare di dentifrici, di poe­sia d'amore, dì specchi, di pesci. Per l'accusa, ad esempio, è argomento capitale che io abbia pagato alcuni pescatori, perché mi procuras­sero specie rare di pesci. E aggiungete pure che ho speso molti denari per far cercare sulle spiagge di questa e di altre remote regioni, pe­sci rari. E non solo pesci, ma la conchiglia stria­ta, la conchiglia liscia, quella smussata, le pinze dei granchi, le spine dei ricci, gli ossi di seppia, le pietruzze colorate, le ostriche vermicolate, il muschio, le alghe, le meduse, i polipi, e altri residui marini gettati dai venti e dalle onde sulle spiagge, sbattuti dalla risacca, sballottati dalla tempesta, abbandonati nella bonaccia. I vostri sospetti nascono dalle cose più consuete e comuni. Ma certo, Claudio Massimo, tu sei uomo di una infinita bontà se hai così a lungo sopportato le ciancie di questi ignoranti. Quan­do l'accusa portava la testimonianza di un po­vero pescatore e sulla base del discorso di un illetterato costruiva il suo fragile castello. L'ac­cusa parlava di un pesce sezionato, come di una prova definitiva. Io ridevo della sua igno­ranza e ammiravo la tua sopportazione, Claudio Massimo. Tu sai che io non sono il primo che si inoltri nel difficile campo della speculazione storico-naturale, ma già da tempo hanno atteso a questi problemi e a queste ricerche uomini come Aristotele, Teofrasto e tanti altri disce­poli di Platone, i quali scrissero voluminosi li­bri sulla generazione degli animali e sui loro costumi. Ora, se fu loro vanto scrivere di que­sti problemi, perché dovrebbe essere oggi per me disonorevole e addirittura pericoloso? Io mi sforzo di dare maggiore ordine e chiarezza alle trattazioni dei miei maestri ed espongo in greco e in latino le conclusioni cui ritengo di essere giunto; cerco di aggiungere ai vecchi ri­sultati nuovi risultati, m'industrio nel colmare le lacune delle precedenti ricerche. Permettete, se ne avete voglia e tempo, che io legga qualche pagina dei miei libri, perché anche i miei deni­gratori, i miei nemici, sappiano quale sia la mia vera attività e quale lo scopo di questo mio affannarmi alla conquista di una porzione di verità. (Al Cancelliere) Cercami uno dei miei libri di scienze naturali: trova, se puoi, il mio De piscibus.

Il Cancelliere                     - E dove posso trovarlo?

Apuleio                              - Recati alla Biblioteca pubblica o in casa di qualche mio amico che sai cultore di scienze naturali.

Il Cancelliere                     - Vado. (Esce).

Apuleio                              - (ai giudici) Intanto vi riferirò un aneddoto che si adatta alle circostanze. Sofocle, giunto all'estrema vecchiaia, fu accusato di de­menza dal proprio figlio, con lo specioso pre­testo che era ormai, con gli anni, svanito di mente. Ed allora si racconta che, per sua di­fesa, il grande tragico abbia letto alcune scene dell'Edipo a Colono, che, appunto in quei gior­ni, stava componendo. Dopo la lettura aggiunse queste sole parole a sua difesa: « Se davvero, giudici, trovate indegni di me i versi della mia vecchiaia, potete in piena coscienza condan­narmi come pazzo ». Trovo scritto nelle bio­grafie di Sofocle che i giudici tutti si levarono in piedi davanti a così grande poeta, applau­dendolo, e poco mancò che non condannassero piuttosto come demente suo figlio che l'ac­cusava.

Il Cancelliere                     - (rientrando) Ecco il libro.

Apuleio                              - Mi hai reso un grande favore. Ve­diamo un po', se anche a me come un giorno a Sofocle, i miei scritti potranno giovare. Leggi l'introduzione del De piscibus.

Il Cancelliere                     - (al pubblico) A questo punto il cancelliere lesse l'introduzione del De pisci-bus, che è andato perduto.

Apuleio                              - Molte di queste cose che ora hai udito, Claudio Massimo, tu già conoscevi. Avrai notato lo studio che ho condotto su questi ani­mali, sul loro accoppiamento, la loro parteno­genesi, la loro procreazione sul fondo del mare e quante volte e in quale epoca dell'anno i pesci vanno in calore, e quali siano le loro strutture anatomiche, quale la durata della loro vita. Tutte questioni scientifiche, non di un processo giudiziario. La natura ha infuso in ogni pietra, in ogni pianta, in ogni animale, principi salu­tari; e alcuni anche nei pesci. Conoscere questi rimedi e ricercarli, voi ritenete sia opera di stre­gone o non piuttosto di un naturalista e me­dico, che questi misteri indaga non per lucro, ma per portare soccorso all'umanità? Voglio soltanto, per concludere questo argomento, ag­giungere: ho esaminato accuratamente le opere di anatomia di famosi naturalisti; opere che ho trovato talvolta lacunose, spesso errate. Io, lo dico con orgoglio, con i miei scritti ho ap­profondito l'indagine, accrescendo di nuove os­servazioni le opere scientifiche di Aristotele. Ma anche i miei accusatori sapevano che quello dei pesci era un argomento futile; e allora hanno pensato che bisognava inventare qualcosa di più credibile, di più impressionante; un più ca­ratteristico fenomeno di magia. Per confor­marsi alle comuni credenze che si hanno sulla magia, immaginarono che un ragazzo di nome Tallo, un mio servo, da me ipnotizzato in un luogo segregato, al lume di una lucerna ed alla presenza di miei fidati compari, sia stramaz­zato a terra e poi si sia risvegliato senza più ricordare nulla di quanto era accaduto. Io cre­do, con Platone, in un'anima immortale e di­vina; e non escludo che esistano creature che per la loro purezza ed innocenza possano avere visione, come in sogno, delle cose a venire. Ma, perché questo prodigio avvenga, occorre che la bellezza, la perfezione, la innocenza della creatura, invoglino la divinità a infondersi nel corpo umano. Forse questo prodigio può com­piersi con un fanciullo bello, intatto di corpo, ingegnoso, intelligente. Scriteriati! Quel Tallo è epilettico e tre o quattro volte al giorno cade stecchito a terra senza incantesimi: il corpo in preda alle convulsioni, gli occhi inebetiti, le na­rici dilatate, la bava alla bocca. Se potessi im­pedire in quel giovane il rinnovarsi periodico di questi attacchi, di queste cadute, allora sì che sarei veramente un mago. Questo ragazzo una volta cadde disteso in mia presenza. Ma tutti quelli che lo conoscono possono dire che, prima ancora che io venissi in questa città, soffriva di attacchi epilettici. (Mostrando la donna epilettica) Mi si accusa di aver fatto stramaz­zare questa donna. Ma ho l'impressione che voi stiate facendo un processo ad un pugna­tore, non ad un mago: tutti quelli che avvicino, voi dite, li metto al tappeto. (Pausa) Una ben comprensibile riservatezza mi vieta di rivelare in pubblico il male di questa donna. Se vi è indispensabile saperlo, chiedetelo a Temisone, il suo medico curante. E' venuta da me dietro suo consiglio. Tutti i fatti che mi sono stati imputati io non li nego; voglio essere gene­roso: li concedo come acquisiti e dimostrati. Voglio che tutti quelli che sono accorsi da ogni parte della Libia a questo spettacolo forense, si convincano una volta per sempre che qua­lunque accusa si voglia muovere a un uomo di cultura e di scienza, un intellettuale come me non deve eluderla, ma accettarla e dimostrare la propria innocenza. Affermo che i fatti che mi vengono imputati hanno rapporti con la scienza e non con la magia. Se almeno i miei accusatori si fossero resi conto, che, per condannare un uomo, occorre produrre prove: non basta dif­famarlo. Per essere condannato, un imputato deve essere veramente colpevole. In questa alta massima della giurisprudenza romana io ho piena fiducia. Tu hai capito, Claudio Massimo, il loro giuoco: quando tu mi condannassi per delitto di magia, mi troveresti poi nuovamente accusato per la misteriosa, « magica » morte di mio figlio Ponziano. Tuttavia è soltanto l'i­gnoranza di questi uomini che ha potuto solle­vare un simile processo, e le testimonianze stes­se, che essi hanno creduto di portare, si sono risolte in una ridicola sfilata di inutili testi. Ti prego, proconsole, liberami dalla presenza di questi testimoni; io non intendo confutare i fatti da loro attestati e neppure contraddirli e se mi sono intrattenuto su un dentifricio, su un pesce, su uno specchio e su un ragazzo epilettico, l'ho fatto non per rispondere ai testimoni d'accusa, ma perché vedevo che qui si tentava di irridere i miei studi e le mie ri­cerche. Io non sto difendendo solo la mia cau­sa, ma quella di tutti coloro, che, come me, rappresentano la cultura e la scienza.

Il Cancelliere                     - Il proconsole ordina che i te­stimoni d'accusa lascino il foro.

Apuleio                              - E' giunto invece il momento di af­frontare l'argomento del mio matrimonio con Pudentilla. Matrimonio, di cui si è parlato con sorrisi e sottintesi; matrimonio, per cui siete accorsi qui, pigiandovi, per conoscere i segreti più intimi di una famiglia. Tutti volete sapere, leggo nei vostri volti la curiosità, a quali arti­fici magici io sia ricorso per far crollare, dopo quattordici anni di casta vedovanza, una donna ancora desiderabile, ricchissima, che aveva osti­natamente respinto i più accaniti pretendenti. Si è parlato di magia, di miracoli, ma qui, se c'è un miracolo, il miracolo consiste non nel fatto che una donna dopo quattordici anni si sia risposata, ma che abbia potuto resistere tanti anni senza un uomo. E non le erano man­cate le occasioni, era stata chiesta in sposa dalle più ragguardevoli persone della città. Ed ag­giungo che questo la lusingava. Ma forse nep­pure per queste insistenze avrebbe ceduto, se ad un determinato momento, proprio la salute del corpo non l'avesse indotta a questa deci­sione. Ma vedo qui nel foro il suo medico, che fin da bambina l'ha seguita e curata. Dimmi tu, non è forse vero che sono state le condizioni di salute che hanno convinto Pudentilla a rima­ritarsi?

Il Medico                           - Certo, da tempo io ed altri col­leghi l'avevamo consigliata a tale passo, per­ché se anche l'animo poteva sopportare la pena della solitudine, il cuore aveva bisogno di affetto. Donna di sani principi, in tanti anni di vedovanza, senza colpe, senza che una di­ceria l'avesse minimamente sfiorata, languiva per non avere accanto a sé un uomo. Era af­flitta dalla lunga astinenza, deperiva di giorno in giorno, si riduceva in fin di vita. I medici, che la visitavano, gli ostetrici, erano tutti dello stesso parere: i suoi malesseri erano prodotti dalla mancanza di un marito, e tutti le consi­gliavano di provvedere urgentemente, per non aggravare il male. Fino a che l'età lo avesse concesso, il matrimonio sarebbe stato per lei la più salutare delle medicine.

Apuleio                              - Il consiglio di prendere marito le fu dato da tutti, e soprattutto da suo cognato, dal nostro accusatore Emiliano. Emiliano non ricorda che, prima ancora che io venissi in questa città, proprio lui fece pressioni perché Pudentilla sposasse suo fratello Sicinio Claro, uno zoticone incartapecorito; sperava in tal modo che il patrimonio di mia moglie restasse in famiglia. Pudentilla, da quella madre esem­plare che è sempre stata, scrisse a Ponziano che era a Roma e lo mise al corrente dei ma­neggi interessati dello zio. Ma quella lettera di Pudentilla deve essere agli atti.

Il Cancelliere                     - Certo che è qui.

Apuleio                              - Leggila, ti prego.

Il Cancelliere                     - « Pudentilla saluta il suo caro Ponziano. Tuo zio Emiliano si interessa e fa pressioni perché io scelga come marito chi vuole lui. E' proprio questo ciò che voglio evitare. Quindi, ti prego, torna al più presto a casa; ho bisogno di averti vicino; ho bisogno di consigliarmi con te ».

Apuleio                              - Proprio in quei giorni, sarà stato il caso, sarà stato il destino, io mi metto in viaggio da Cartagine per l'Egitto; come meta avevo Alessandria. Durante il tragitto, mi fermo a Tripoli. Sarebbe il caso di dire « non lo avessi mai fatto », se l'affetto, il rispetto che nutro per mia moglie, non mi trattenessero, non dico dal profferire, ma dal pensare simile allusione irriguardosa. Era inverno; il viaggio mi aveva stancato; mi fermo, in casa degli Appii, amici miei carissimi, per riposarmi qual­che giorno. Una sera mi viene a trovare Ponziano che, tornato da Roma, aveva saputo del mio arrivo in città. Ci conoscevamo da anni, da quando cioè avevamo studiato insieme ad Atene, e da allora una stretta intimità ci te­neva legati. Più giovane di me, pieno di defe­renza per l'amico più anziano, per il compagno più avanti negli studi, aveva a cuore la mia salute, sollecitudine per la mia persona. Nella sua mente pensò di aver trovato in me il com­pagno ideale per sua madre, un amico al quale poteva, senza rischio né sospetto, affidare il patrimonio familiare. Cominciò dapprima a saggiarmi con giri di parole, a chiedermi quali fossero le mie intenzioni, se non avessi qual­che amore, se avessi intenzione di sposarmi e, dato che a tutte le domande invariabilmente io rispondevo che non vedevo l'ora di rimet­termi in cammino e che, quanto al matrimo­nio, non avevo intenzione alcuna di legarmi, ricorre ad uno stratagemma: mi prega di trat­tenermi ancora un po' durante la stagione cattiva, poi, sopraggiunta la stagione buona, mi avrebbe fatto compagnia fino ad Alessan­dria. Mi ricorda che è pericoloso avventurarsi da soli, senza un amico, in un viaggio così lungo, dovendo attraversare il deserto della Sirte, che è micidiale per il calore e per le belve. A forza di pregarmi mi strappa agli amici che mi ospitano e mi costringe a tra­sferirmi presso di lui, in casa di sua madre. Mi diceva: « la nostra casa è più confortevole; dalle nostre finestre puoi godere la vista del mare ». Conosceva i miei gusti, sapeva che io amo il mare e che l'aria marina si confà alla mia salute. A tanta cara insistenza finii col cedere. Intanto, riposato dal lungo viaggio, a richiesta degli amici, tengo una conferenza a Tripoli. La sala era gremita e tutti voi mi acclamaste a viva voce con grida di bravo, con applausi. Mi invitaste a restare in città, offrendomi la cittadinanza onoraria. Ponziano coglie l'occasione per tenermi il discorso che aveva sin dal primo giorno in animo: il con­senso di tutta la città era come un segno divino, come un monito del fato: io avrei do­vuto rimanere a Tripoli. E mi rivela il suo desiderio di vedermi unito in matrimonio con sua madre. Mi informa che l'ha convinta a scegliere me fra tutti gli altri pretendenti. Riesce ad ottenere il mio consenso. Del resto, col passare dei mesi, il mio desiderio di eva­sione si era andato spegnendo, e io incomin­ciavo a desiderare quella donna come se ne fossi innamorato. A questo punto vorrei poter tralasciare una rivelazione incresciosa a dire, ma il silenzio sarebbe dannoso alla mia causa. D'altro canto, non vorrei apparire irriverente alla memoria di Ponziano, se, dopo averlo in vita perdonato per il fallo commesso, ora ne proclamassi la colpa. Ma debbo far conoscere un fatto. Ponziano, che tanto si era dato da fare per combinare questo matrimonio, dopo che si fu egli stesso sposato, improvvisamente mutò parere, e, mentre prima ci incalzava perché accelerassimo il tempo, ora con pari ostinatezza voleva impedirci il matrimonio; si opponeva con tutte le sue forze. Ma io sapevo bene il perché di questo improvviso capovol­gimento, di questo suo imprevisto astio contro me e contro sua madre. La colpa non era sua: si era sposato, e, dal giorno delle nozze, era entrato in casa, insieme alla sposa, anche il padre della sposa, Rufino. Un uomo di cui non c'è simile sulla terra: il più lercio, il più vile, il più immorale. Bisogna bene che ve lo de­scriva quest'uomo, perché non voglio che in questa galleria di farabutti, accanto ad Emi­liano, accanto a Tannonio e - mi addolora dirlo - accanto a mio figlio Pudente, manchi il suo ritratto. E' l'unico modo che ho per ripagarlo di questo processo. Rufino è l'istiga­tore dei miei due figliastri, è lui che ha imbec­cato, pagato gli avvocati; è lui che ha corrotto i testimoni, è lui che ha architettato tutta la calunnia. Il vecchio Emiliano è nulla a para­gone di questa furia infernale scatenata; Ru­fino si vanta a destra e a manca di avermi sistemato con questo processo. Spudorato! In città lo si può considerare impresario di tutte le liti, ideatore di tutti i falsi, architetto di tutte le frodi, dispensatore di tutti i vizi, ricet­tacolo di tutte le libidini: crapulone, bordel­liere, puttaniere.

Tannonio                            - Apuleio, neppure tu vai esente da simili accuse!

Apuleio                              - Tannonio, non vorrai confondere le mie delicate poesie d'amore con i turpi con­giungimenti carnali di questo sporco individuo. Non aveva ancora la peluria sulle gote, e già era noto per le sue raffinate libidini: giovi­netto, prima che fosse sfigurato dalla calvizie, si era sfregato con tutti i pederasti infoiati della città. Ora, alla sua età, non potendo fare il protagonista nella oscena commedia del­l'amore, ha trasformato la sua casa in un bor­dello, la moglie in una prostituta, i figli ma­schi in tanti invertiti. Di notte e di giorno chi passa in quella via vede la gioventù tirare calci alla porta, ode canzoni oscene cantate sotto le finestre, scorge la sfilata degli amanti nella camera da letto della moglie: perché, quando si è versato l'obolo al marito, l'in­gresso su per le scale è libero a tutti. Le corna sono la sua rendita. Un tempo era lui che con il suo corpo procurava da vivere alla famiglia, poi venne la moglie a provvedere agli introiti.

Tannonio                            - Proconsole, fallo tacere: sta diffa­mando una famiglia di onesti cittadini.

Apuleio                              - Taci tu, piuttosto. Io non ti ho mai interrotto e tu sì che mi diffamavi. Sì, col marito si contrattano le nottate della moglie; ma c'è di peggio. Chi è generoso entra ed esce liberamente; chi invece tira sul prezzo, ad un dato momento della notte viene sorpreso con un paio di testimoni, accusato di adulterio, e non viene rilasciato, se prima non si impegna a versare forti somme. (Pausa) Uscita da que­sta esemplare famiglia, Erennia fu condotta in giro dalla madre per adescare i giovani della città; i più ricchi, naturalmente, e fu persino abbandonata fra le braccia di qualche ricco giovane, perché si esercitasse nelle sue prime esperienze sessuali. Di questa Erennia si in­namorò mio figlio Ponziano; e le nostre insi­stenze, i consigli, le preghiere, non valsero a distoglierlo dai suoi proponimenti. Volle spo­sarla. Entrò dunque in casa questa fanciulla che si era ricostruita per l'occasione una ver­ginità. Ma voi l'avete vista percorrere la città in lettiga scoperta, condotta da otto portatori, ostentare le sue forme, la bocca dipinta, le guance imbellettate, gli occhi adescatori, resi più sfrontati dal trucco.

Tannonio                            - Basta. Non ti permetto di trasfor­mare la tua difesa in una invettiva contro Erennia. Non l'abbiamo chiamata a testimo­niare per non affliggerla, ricordandole il marito che adorava, ma se insisti faremo salire qui Erennia, perché confuti le tue vergognose calunnie.

Apuleio                              - E' proprio quello che desidero: è Erennia che voglio qui. Claudio Massimo, ti prego, ordina che Erennia, figlia di Rufino, salga su questa tribuna come teste.

Il Cancelliere                     - Erennia, figlia di Rufino. (Erennia sale al banco dei testimoni).

Apuleio                              - Erennia, parlami della famosa let­tera di mia moglie, lettera che è alla base di tutta la vostra accusa. Cosa scriveva Pudetilla in una lettera indirizzata a tuo marito Ponziano?

Erennia                              - Pudentilla scriveva che tu le avevi tolta la ragione.

Apuleio                              - La lettera diceva anche altre cose che tu non riferisci. Ma continua. Parlami di quella lettera.

Erennia                              - Certo. Ti ha definito mago. Avrebbe voluto ribellarsi a te; avrebbe voluto sottrarsi al perfido dominio, che tu eserciti su di lei. La lettera era un appello al figlio perché l'aiu­tasse a sottrarsi all'incubo in cui viveva. E' tua moglie, Apuleio, che ti definisce mago...

Tannonio                            - (intervenendo) Pudentilla appa­riva divisa fra l'amore per il figlio e la pas­sione morbosa che, dopo quattordici anni di astinenza, sentiva nella sua carne. E questo scrisse a suo figlio, al povero Ponziano. La lettera diceva: « Apuleio è un mago e mi ha stregata. Vieni subito da me, finché conservo un briciolo di ragione ».

Erennia                              - Ponziano ed io rimanemmo senza parole a quella lettura; ci consultammo con mio padre e con amici. Tutti fummo d'accordo che mio marito dovesse correre da sua madre.

Apuleio                              - E tu l'accompagnasti?

Erennia                              - Certo. Io lo accompagnai, spe­rando che l'affetto di un figlio e le cure di una nuora potessero ridarle la pace; ma dopo circa due mesi che vivevamo insieme, un giorno Pudentilla, a nostra insaputa, segretamente, firmò il contratto di nozze con Apuleio.

Tannonio                            - Dove avvenne il matrimonio?

Erennia                              - In una remota casa di campagna. Fu un matrimonio senza invitati, senza pranzo di nozze: sapevano bene che nessuno appro­vava la loro unione. Apuleio cercò di rabbo­nire me e mio marito con doni insignificanti; ma, se fingeva di assecondarci, tramava con­tro di noi. Il mio povero Ponziano sperava farsi un nome esercitando la professione fo­rense. Ebbene Apuleio riuscì infine a farlo inimicare con il proconsole Loliano Avito, con il tuo predecessore, Claudio Massimo. Poi un giorno, misteriosamente - voi tutti sapete -Ponziano morì. Nessuno mi toglierà mai dalla mente che questa morte così repentina, sol­tanto un sortilegio può averla causata. (Fis­sando Apuleio) Una persona sola, un uomo solo aveva interesse a liberarsi di lui. Ora ec­comi qui, giovane ancora, vedova, senza l'af­fetto dell'uomo che mi era vicino e mi pro­teggeva, defraudata di quanto avrebbe dovuto toccarmi come erede del mio defunto marito, accusata ingiustamente di immoralità in pieno foro, dall'uomo che è causa di tutti i miei dolori.

Apuleio                              - Erennia, quando tu ti domandi con ipocrita angoscia quale sia stata la malattia che condusse alla morte tuo marito, sai benis­simo che Ponziano è morto di vergogna, di dolore, di rimorsi. Il giovane inesperto, che in un momento di smarrimento, sedotto dalla tua esperienza e dalla tua procacità, aveva com­messo il tremendo errore di sposarti, si era presto pentito. Gli era insostenibile seguitare a vivere con una moglie come te, in una fa­miglia come la tua.

Erennia                              - Basta con le offese.

Tannonio                            - Proconsole, fallo tacere.

Apuleio                              - E allora come spieghi che nel te­stamento tuo marito non ti nominò erede, ma ti fece un legato infamante perché tutta la città sapesse che non ti aveva dimenticato inavvertitamente, ma che t'aveva ricordata solo per quanto valevano sul mercato dell'amore le tue nottate? Ponziano lasciò eredi la madre e il fratello. Perché? Tu lo sai. E ora vuoi recuperare il patrimonio perduto, facendo coricare nel letto ancora caldo di tuo marito, il fratello.

Erennia                              - Non è vero.

Pudente                             - (intervenendo) Apuleio, non dire infamie. Io posso testimoniare che non è vero.

Apuleio                              - Taci, Pudente. (A Erennia) Tu, don­na più anziana di lui, ti unisci con un ragazzo che è tuo cognato.

Erennia                              - No. Non è vero.

Tannonio                            - Claudio, fallo tacere.

Apuleio                              - Tutti sappiamo, Erennia, che ti sei tirato in casa Pudente e che speri farti sposare da lui. La tua impudenza è pari soltanto alle tue menzogne. Tu dici di aver letto la lettera di Pudentilla. Esiste questa lettera di Puden­tilla. Nessuno nel foro ha chiesto ancora di leggerla. Ebbene lo chiedo io, ora. (Al can­celliere) Leggi la lettera.

Il Cancelliere                     - « Pudentilla saluta Ponziano. Ho deciso per le ragioni che ti ho sempre detto di rimaritarmi e tu stesso mi avevi persuasa a scegliere Apuleio fra tutti i pretendenti, sia per la stima che ne avevi, sia perché avevi desiderio che diventasse, in seguito al matri­monio con me, anche tuo parente. Ma ora, perché malvagi calunniatori ti hanno fatto girare la testa, ecco che ad un tratto Apuleio è un mago e mi ha stregata. E sono presa d'amore. Vieni dunque da me prima che com­metta una pazzia ».

Apuleio                              - Vi prego, tutti voi che ascoltate: ditemi se, leggendo questa lettera, non si com­prende che Pudentilla non mi ha mai accusato di magia. L'accusa non è mai stata pronun­ciata da Pudentilla. (A Erennia) Sono scoperte ormai le tue arti, Erennia. Proprio la lettera di mia moglie mi dà la vittoria; ma ascoltate anche le ultime parole che chiudono la let­tera. (Al cancelliere) Leggile.

Il Cancelliere                     - « Io non sono stregata: è il destino che ha voluto questo ».

Apuleio                              - Volete altro? Questo è il grido di Pudentilla. Dico e sostengo che non ho avuto alcun motivo di indurre Pudentilla a spo­sarmi. Dell'aspetto e dell'età di mia moglie si è parlato con disprezzo. Mi hanno accusato di aver sposato una donna non bella, non più giovane, solo per avidità di danaro; e di averle estorto, appena sposata, una grossa somma.

Tannonio                            - E non è forse vero? Come spieghi che appena sposato ti sei comperato un po­dere?

Apuleio                              - Non è un podere: è un appezza­mento di terra. Costa solo sessantamila se­sterzi e, se proprio vuoi saperlo, è intestato a mia moglie. Vedo qui Corvinio Celere, inten­dente delle finanze, uomo serio e scrupoloso. Corvinio, a chi è intestato l'appezzamento?

Corvinio                             - A tua moglie Pudentilla.

Apuleio                              - Chi paga le imposte?

Corvinio                             - Tua moglie Pudentilla.

Apuleio                              - Quanto è costato?

Corvinio                             - Sessantamila.

Apuleio                              - Di fronte a questa accusa non c'era bisogno di molti discorsi. Ma vi mostro il contratto nuziale, che parla molto più elo­quentemente di qualunque mia argomenta­zione. In esso si troveranno tutte le cose fatte e predisposte proprio in modo contrario a quello che i miei denigratori si aspettano. (Al cancelliere) Tu rompi i suggelli e leggi la clau­sola del contratto nuziale.

Il Cancelliere                     - « Se la moglie muore prima del marito, senza che siano nati figli dal loro matrimonio, l'intera dote della moglie rimane di spettanza ai due figli Ponziano e Pudente. Se invece dal matrimonio nasce uno o più figli, metà del patrimonio della moglie passa al figlio o ai figli del secondo letto e metà rimane riservata ai figli del primo letto ».

Apuleio                              - Questo documento è legalmente costituito e depositato. La ricca Pudentilla, vi piaccia o no, ha sposato un uomo che nel matrimonio ha pensato alle doti morali di sua moglie, non alla dote. E se anche Pudentilla avesse nel contratto fissato una più alta dote o una diversa dote, chi la potrebbe rimpro­verare? Una vedova, se si vuole rimaritare, cerca sempre, con una cospicua dote e con vantaggiose condizioni, di allettare un uomo. Una ragazza giovane, anche se poverissima è già dotata a sufficienza: porta al marito il profumo della giovinezza, la primizia del suo cuore, la verginità. Non a torto tutti i mariti valutano il pregio della verginità. La vedova invece, così come ti giunge in casa, se ne può uscire. Ella viene che è già stata defiorata, ha già un suo carattere formato e non è facile per lei piegarsi ai voleri del nuovo marito; entra sospettosa in una casa, in cui è già sospettata. Perché una vedova che si rimarita, pare agli occhi di tutti come una donna che ne ha già sotterrato uno e che potrà fare al­trettanto con il secondo. Per queste e per altre ragioni le vedove quando si rimaritano solleticano i pretendenti con doti più vistose. Questa sarebbe stata anche preoccupazione di Pudentilla, se avesse scelto, in vece mia, uno dei suoi tanti pretendenti. Io non ho mai amato il denaro. Io ho voluto bene a mia mo­glie: sono stato promotore, consiliatore, fau­tore della concordia in famiglia. Invece di seminare nuovi odi, ho estirpato i vecchi. Ho esortato mia moglie a rendere ai figli tutto il denaro che essi volevano; e Pudentilla ascoltò le mie parole. (A Pudente) Da una madre così generosa dovevi nascere tu, Pudente, tu, scia­gurato, che hai osato in sede di istruttoria, in un pubblico foro, rivelare i segreti più in­timi del cuore di tua madre, rimproverandola di vergognosi traviamenti. Tu, Pudente, sei il più spregevole: tu osi scrutare l'animo di tua madre, contare i suoi sospiri, esplorarne gli affetti, intercettarne gli scritti, divulgarne gli amori. E tu, figlio, hai il coraggio di spiare nell'intimità dell'alcova di tua madre. Ma ascolta il suo testamento, ed avrai la prova di quanto noi due ti odiamo. (Al cancelliere) Leggi il testamento di Pudentilla. Togli i sug­gelli e leggi.

Il Cancelliere                     - « Pudente, mio figlio, è il mio erede universale ».

Apuleio                              - Ebbene, giudici, questo testamento io lo getto ai vostri piedi e dichiaro che se il figlio ingrato vuole scongiurare sua madre, lo faccia, io non intercederò più. C'è ancora qualcosa che io non abbia confutato? e dove è andata a finire la mia accusa di stregoneria? perché avrei dovuto piegare l'animo di Pu­dentilla con incantesimi? per cavarne quali vantaggi? perché istituisse eredi i figli in vece mia? Che curiosa magia! Che cosa volevo da lei? la sua bellezza? ma se dite che non è bella. Ero innamorato soltanto delle sue ricchezze? lo nega il contratto di nozze; lo nega il testamento. Quanto alle altre vostre accuse, non vedo come non si possa rispondere con una scrollata di spalle. « Mi lavo i denti »: è pulizia; « guardo gli specchi »: studio l'ottica; « compongo versi »: non c'è una legge che lo vieti; « esamino i pesci »: faccio ricerche di zoologia; « prendo moglie »: è un diritto; « è più anziana di me »: ci sono altri casi; « l'ho fatto per denaro »: per tutti gli Dei, questo no: lo prova il testamento. Se tutte queste accuse sono state sufficientemente confutate, se ho messo la mia innocenza al riparo, non solo di ogni accusa, ma anche di ogni calunnia, se la mia dignità di uomo di scienza, cui tengo più della mia stessa vita, non ne esce meno­ matta, anzi, come spero, rinvigorita; se tutto è così come io dico, posso fiducioso attendere di uscire da questo foro con la fronte alta e la coscienza pura. Ho detto. (Pausa).

Il Cancelliere                      - (avanza verso il proscenio) Penso che a questo punto vorrete sapere se il proconsole Claudio Massimo abbia emesso verdetto di assoluzione. La storia non ce lo dice; ma tutto fa ritenere che Apuleio sia stato assolto con formula piena. Della vittoria ripor­tata, Apuleio si compiacque tanto che curò personalmente la pubblicazione del suo di­ scorso di difesa e volle che, diffondendosi lo scritto, tutti sapessero quanto maldestri e stolti erano stati i suoi accusatori. Solo la stoltezza umana, bassa e spregevole, riesce a trascinare sul banco degli accusati questi rarissimi in­gegni, non di rado fabbricando puerili processi alle streghe, riesce a condannarli e talvolta ad arderli vivi.

FINE