Quattro nô giapponesi

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QUATTRO NÔ GIAPPONESI

QUATTRO NÔ GIAPPONESI

IL CAVALIER MISERIA

di Anonimo del secolo XV

IL TAMBURO DI PANNO

di Kwanze Motokiyo, fine secolo XIV

LA LETTIGA DESERTA

di Anonimo del secolo XV

LA DONNA DI EGUCHI

di  Kwannami  Kiyotsugu (1334-1384)

Riduzione e adattamento di Enrico Fulchignoni

Rappresentati al Teatro del Convegno di Milano, nella Stagione 1962-

Regìa di ENRICO FULCHIGNONI

Da IL DRAMMA n. 322-323, Luglio-Agosto 1963


Rappresentazione drammatica del Nô giapponese

La letteratura drammatica del Giappone ha la rara fortuna di possedere una forma originale: il nô. Il nô è la più antica forma teatrale che i giapponesi abbiano espresso. Con essa è in­sieme nato un nuovo genere letterario. Fu per merito del nô che i movimenti e le forme, la bellezza plastica delle antiche danze si tra­sfusero in precisi personaggi drammatici. Man mano che lo spirito nuovo giapponese rag­giungeva il suo maggior sviluppo, tutte le istituzioni medioevali ne subivano l'influsso. Fu all'inizio del XIV secolo che il teatro nô nella sua forma originaria vide la luce, grazie al genio di due autori che erano insieme gli interpreti dello spettacolo, Kwannami Kiyot-sugu (1333-1384) e soprattutto suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1443), autore d'un celebre trattato sulla interpretazione, il « Fûsbi-Kaden ».

La parola nô, o più esattamente nô-gei, in ori­gine significò « abilità », poi « abilità tea­trale » e gradatamente passò a significare que­sta speciale rappresentazione drammatica. Forma originale della letteratura giapponese essa è la sintesi delle arti d'un lungo passato. Dal punto di vista testuale il suo valore è altis­simo: nessun altro componimento del XIV e XV secolo offre nulla che ne sostenga il con­fronto. E' il gioiello letterario dell'epoca Ashikaga.

E, accrescendo l'interesse storico, il suo valore letterario per gli spettatori di altre civiltà ne è l'espressione più vera e più forte. Il nô risuscita ai nostri occhi, in forma ellittica resa intensissima da un lirismo costante, i sentimenti, i pensieri, le credenze, le super­stizioni, le aspirazioni, tutta la vita intellet­tuale e morale di quelle generazioni tumul­tuose ed inquiete; fa agire sotto ì nostri occhi i loro dei, i loro governanti, i loro guerrieri, i loro religiosi, e soprattutto ci rivela a che grado la dottrina buddista avesse modellato gli uomini di quel tempo. Il nô può, in tal senso, considerarsi una diret­ta testimonianza dell'insegnamento di Gothamo; è un genere d'arte costantemente ani­mato dal suo soffio.

Non solamente i monaci attraverso le loro preghiere procurano, nel nô, la pace a coloro che sono spariti dal mondo, ma appagano anche gli spiriti maligni ed esorcizzano i dè­moni; non solamente i luoghi di culto accol­gono tra le loro mura gli uomini che l'esisten­za ha ingannato o deluso, e la legge religiosa consola gli afflitti e i miserabili; ma in ogni azione è sempre il Budda che parla, è il suo pensiero espresso da tutte le bocche. Esso infonde vita e sentimento all'immensa natura, alle piante, alle rupi, alla terra intera. Questo carattere religioso del nò è uno dei punti attra­verso cui esso s'apparenta ai nostri « misteri » medioevali. Ma non è il solo. Come il « mi­stero » e la « sacra rappresentazione » d'occi­dente, anche il nô nacque, in parte, dalle feste, all'ombra dei templi e fu unito ai loro riti. E analoga fu la sua incidenza sul cuore degli spettatori, tanto più efficace quanto più legata a forme dì grande bellezza plastica e verbale. Codesta origine insieme religiosa e popolare suggerisce ugualmente un raffron­to con la tragedia greca. Come nei primitivi testi di Eschilo anzitutto è ridotto il numero dei personaggi: appena due antagonisti alle origini, cui si aggiunse presto qualche limitata comparsa. Ma fin dalle origini il nô dispone di un coro che dialoga con gli attori, o che si sostituisce, quando l'azione lo richieda, all'uno o all'altro dei protagonisti. Codesta pre­senza d'un elemento astratto ed anonimo accanto a personaggi teatralmente incisi costi­tuisce uno dei punti più importanti per giu­stificare la tensione drammatica di un'azione che tende continuamente, nel nô, a elevarsi su di un piano dì superiore distacco. La scena del nô fu, alle origini, semplicissima; all'aria aperta, senza sipario né attrezzi d'al­cuna sorta. Agli attori principali la maschera prestava le sue molteplici espressioni e la danza le sue evoluzioni solenni, feroci o ag­graziate, mentre un'orchestra rudimentale aggiungeva le proprie cadenze ai punti nodali dell'azione. Come l'antica tragedia greca, an­che il nô estese rapidamente i limiti delle sue trame, e dopo gli Dei e i santuari, si diede a celebrare gli Eroi, mise in azione la leggenda e la storia, e rendendo più familiare lo stile, consentì agli spettatori di specchiarsi nei propri dolori e nelle proprie pene come nelle con­siderazioni sulla fragilità del destino umano, Ma codeste similitudini con la tragedia del l'Ellade non debbono far dimenticare le dif­ferenze che dividono codeste due altissime manifestazioni del genio poetico, occidentale e orientale: e una soprattutto ci pare essen­ziale. Il soffio tragico attraversa talvolta il nô, ma non lo anima. Il più sovente l'episodio drammatico è raccontato più che messo in atto; l'intenzione è meno di rappresentare che di evocare, in un clima di raccolta medita­zione.

Il nô è innanzitutto un testo lirico e come tale deve essere inteso dallo spettatore oc­cidentale.

Nell'attuale rappresentazione il regista (che aveva già, con la collaborazione dello specia­lista giapponese prof. Soichi Nogami, eseguito uno spettacolo di nô nel Teatro Ateneo di Roma, parecchi anni or sono) non ha fatto ricorso alla ricostruzione puntuale e metodica dì uno spettacolo giapponese (che sarebbe impresa assolutamente impossibile sia per gli attori che per gli spettatori italiani), ha inteso soprattutto puntare sull'unico ele­mento suscettibile d'una trasposizione e cioè sui valori del testo. Egli si è quindi sforzato di mettere in evidenza, attraverso una elaborazione più vicina alle consuetudini sceniche occidentali, la straordinaria ricchezza poetica di tali brevi componi­menti. La scena, ideata da Bruno Munari, tiene conto dello « spazio » tipico dell'arte visiva giapponese, cioè di quel vuoto che prende apparenza dalla intensità di un parti­colare, e i costumi di Maria Signorelli senza alcun riferimento al pittoresco, caratterizzano i personaggi attraverso un libero rapporto fra colori e forme. Ai tre collaboratori dello spet­tacolo è così apparso di rendere valida una trasposizione che fosse rispettosa a un tempo dei valori esotici e di quelli della nostra tra­dizione.

Nel teatro nô, dove ogni elemento realistico è bandito dallo stile della composizione, e gli stesti più consueti moti dell'animo si vestono delle più inedite voci - qui, dove dalla mo­notonia delle passioni si sfocia il più delle volte in un misticismo ampio e solenne, in cui la povertà degli Esseri si dissolve nella infinita ricchezza del Cosmo -, qui è pos­sibile, forse, allo spettatore moderno cogliere per trasalimenti e subitanee intuizioni alcuni segni di quello che sarà, forse, il teatro di do­mani, cui Oriente e Occidente avranno varia­mente recato te note più meditabonde, gli accenti più amati e sofferti. Fu un grande poeta, l'irlandese Yeats, uno dei fondatori di quel rinnovamento teatrale che doveva recare, agli inizi del nostro secolo, unnuovo afflato alle ribalte d'Europa, a prevedere con pensiero profetico, la fecondità di cadesti possibili incontri: « Siccome una profondità della mente può essere avvicinata solo tramite ciò che è più umano e delicato, dobbiamo diffidare della distanza fisica, e del meccanismo... Sarebbe utile andare a scuola in Asia ».

A distanza di decenni da codesti primi con­tatti, l'incontro con il teatro giapponese, teatro di simboli e di meditazione, ci pare una delle più felici occasioni di ricerca, sia per la diretta portata dei contributi poetici che per la indiretta illustrazione di nuove forme, diverse da quelle consuetudini che da oltre un secolo sembrano gravare sulle tecniche espressive del teatro occidentale. Qui ci piace, per finire su un punto coronato, citare ancora W. B. Yeats. (E' il testo introduttivo che presenta una traduzione di nô latta da Ernesto Fenollosa e Ezra Pound.

Esso rimonta al 1916, ma per una singolare coincidenza di motivi, ci pare oggi d'una attualità più che calzante). Dice Yeats: « Il realismo è stato creato per il volgo che ne ha sempre maggiormente goduto, e continua a essere il godimento di tutti coloro che, edu­cati soltanto da maestri di scuola e da giornali, sono senza la memoria della bellezza e della sottigliezza emotiva.

« Il realismo umoristico occasionale, che ser­viva ad intensificare l'effetto emotivo delle tragedie elisabettiane era stato creato all'origine per il beneficio dello spettatore comune in piedi nella platea. Ma i grandi discorsi furono scritti da poeti memori dei loro me­cenati nelle logge... Un passaggio poetico non può essere capito senza una nutrita memoria, poiché l'orecchio deve percepire le varianti su vecchie cadenze e parole note, tutta la buona educazione dello stile poetico, dove non c'è nulla di affascinante, di crudo, nessun soffio di parvenu.

« Spingiamo pure le arti popolari verso un realismo più completo, con ciò sarebbero one­ste; ma le arti commerciali demoralizzano col loro compromesso e incompiutezza, il loro idealismo privo di sincerità e d'eleganza, con la loro pretesa che l'ignoranza possa com­prendere il bello...

« Dal tempo dì Keats e di Blake i poeti si so­no tramandati solo ciò che è meno declamativo, il meno popolare nell'arte di Shakespeare, e con un teatro del genere troveranno il loro uditorio abituale e riusciranno a mantenersi liberi. L'Europa è molto vecchia e ha visto sfilare molte arti, ha imparato a conoscere i frutti di ogni fiore, il sapore di ogni frutto. Ora è tempo di studiare l'Oriente e di vivere risoluti... ».                       

Enrico Fulchignoni


IL CAVALIER MISERIA

di Anonimo del secolo XV

Persone:

L'Imperatore Tokyiori

Tsuneyo, il Cavalier Miseria

La sposa di Tsuneyo

Un ciambellano

Il coro

La scena si svolge sulla montagna, nella casu­pola di Tsuneyo;

 poi a Kamamura, nel palazzo dell'Imperatore.

Una sperduta capanna nel deserto di neve di Fen-Li. Un viandante si avvicina stanco, affranto dal gelo e dalla solitudine. È l'Im­peratore Tokyiori in persona. È il pio so­vrano della reggia di Kamamura che ha ab­bandonato, da lunghi anni ormai, la Corte ed il suo fasto, per conoscere davvero il suo paese. Nascosto sotto i panni del vian­dante ha per scopo d'interrogare a sud e a nord, a occidente e a levante del Regno la maggior parte dei più umili sudditi, per co­noscere che pensieri essi celino nel loro cuore. Lo squallido stambugio accoglie un vecchio e la sua sposa. Tokyiori è ricevuto per la notte, con l'attenzione che è dovuta in Giappone ad ogni ospite anche se sconosciuto. E anzi, per onorare la presenza del viandante, che pur non ha rivelato la sua identità, il vecchio Tsuneyo decide d'abbattere e di ar­dere tre alberi nani che ornavano la sua mi­serabile dimora. Al calore della fiamma, rin­francato da quest'atto d'amore, il viandante chiede al vecchio di rivelargli la sua identità: la presenza degli alberi nani, piccoli gioielli della casa d'ogni nobile, testimonia che non deve trattarsi d'un povero contadino. Tsu­neyo, dopo qualche esitazione, rivela il suo passato. Ora egli è caduto nella più grave in­digenza, ma un tempo era stato uno dei più validi guerrieri dell'Imperatore. Rovesci di fortuna e l'accanirsi del fato non hanno però in nessun momento intaccato la fedeltà alla dinastia del suo sovrano. Ha venduto ogni cosa, quadri, ornamenti e mobilio prezioso, per sopravvivere assieme alla sua sposa, ma la sola ricchezza che ha custodito intatta, sono le armi, per il giorno in cui la minaccia dei nemici premesse alle frontiere del Regno. Commosso da tanta costanza l'Imperatore, sempre tacendo la propria identità, s'allon­tana all'alba dalla capanna ospitale. Ma, giunto al Palazzo, decide di convocare i suoi samurai per compensare il Cavaliere dalla Triste Figura, fedelissimo fra i fedeli.

Il Coro           — Da che parte volgerò il passo? Da qui o di lì è lo stesso. Troverò sempre qualcuno. Io sono Hoyono Tokyiori, l'Imperatore, e ho de­ciso di lasciare per qualche tempo il mio pa­lazzo, e sotto quest'abito di pellegrino, di andare di città in città, chiedendo ospitalità, per ren­dermi conto io stesso dei sentimenti e dei bisogni dei sudditi miei. Senza sospetti per quest'abito religioso, essi mi apriranno i segreti del loro cuore. Guardate come cade la neve! Un morbido tappeto bianco copre la campagna. O mio paese, una nebbia rossastra ti avvolge nelle cime dei tuoi monti, un freddo vento soffia nelle gole dei tuoi monti. Là, in basso, scorgo la prateria. Ora ho varcato la collina della Separazione ed ecco che ancora una volta mi sono distaccato dagli uomini! Nevica sempre più forte!.... Il cielo è bianco, la terra è bianca! Io mi sento un poco affranto da questa candida infinità! Andiamo! Qui, in questa capanna tra vero un rifugio. (Bussa).

La Sposa         — Chi bussa?

Tokyiori        — Un viandante che s'è sperduto nella neve! Abbiate la carità di offrirmi ricovero per questa notte!

La Sposa         — Lo farei volentieri, ma mio marito è lontano da qui, e non vi posso ricevere finché egli non sia tornato. Ma non tarderà, credetemi...

Tokyiori        — Io aspetto che torni.

(Giunge Tsuneyo).

Tsunevo         — Ah, come fiocca la neve!... È passato tanto tempo da quando ancora mi potevo chia­mare un uomo fra gli uomini, e non un misera­bile rottame in questa desolata capanna. Quand'ero giovane perfino mi piaceva veder la neve turbinar sui prati! Com'era bello... I fiocchi vo­lavano lievi nel cielo, come le piume delle anatre! E io mi divertivo a rivestirmene come d'un bianco mantello! La neve d'oggi è come quella d'allora. È come allora. Solo io sono cambiato: i miei capelli sono diventati bianchi Che sera fredda! Io tremo sotto questi miserabili stracci!  Ma voi che fate qui? Perché aspettate fuori, mentre fiocca la neve?

La Sposa         — Mio signore, ecco perché vi aspetto qui: un religioso in vostra assenza è venuto a chiedere ospitalità per la notte; e io gli ho detto che non eravate tornato. E allora ha deciso d'attendere paziente il vostro ritorno.

Tsuneyo         — Dov'è?

La Sposa         — Eccolo.

Tokyiori        — Il giorno è prossimo alla fine e io mi sono sperduto nella tempesta bianca. Ora non so dove rifugiarmi. Volete darmi asilo, per questa notte?

Tsuneyo         — Ahimè! Ahimè! Non posso... La mia dimora è un rudere...

Tokyiori        — Per povero che sia il giaciglio che mi destinerete, l'accetto. La neve cade così fitta.

Il Coro           — La neve cade così fitta! Pietà del pellegrino errante! Il lago è pieno di brume. Non un'anima nella foresta profonda... Solo al vento invernale le scimmie urlano la loro tri­stezza... In questa occasione il poeta potrebbe cantare: «Io coglierò a tentoni il crisantemo bianco sotto la neve ». E in effetti, come poterlo distinguere? Per puro che sia un cuore, noi ci rimoviamo sempre come nelle tenebre, a tentoni. A che assomiglia la nostra vita? A un volo d'anatre, che venendo a posare sulla neve, tal­volta lasciano una labile impronta... Due uomini sotto la neve si sono incontrati. L'uno chiede soccorso ed è di tutti gli uomini il più potente... Io vorrei, pensa nel suo animo l'Imperatore, io vorrei abbandonare qui le mie illusioni e vedere, per un solo istante, il cuore dei miei sudditi.

Tsuneyo         — Avrei voluto ricevervi, ma, ve lo ripeto, la mia capanna è miserabile. C'è appena, dietro quella stuoia, un giaciglio per la mia sposa e per me. Vi prego umilmente di conti­nuare il cammino! Prendendo codesto sentiero arriverete al villaggio di Fen-Li, popolato da ricche dimore. Ma dovete mettervi in cammino prima che la notte sia caduta.

Tokyiori        — Dunque mi scacciate?

Tsuneyo         — Non posso accogliervi.

Tokyiori        — E io che aspettavo sotto la neve come il sole della speranza. Ecco il cuore dei miei sudditi. (S'allontana).

La Sposa         — Che abbiamo fatto? Abbiamo ne­gletto i comandamenti divini! Quale errore in una vita passata ci indusse, in questo giorno a cadere in tanta vergogna? Vi prego, richia­matelo, pregatelo di restare...

Tsuneyo         — Se questo è il vostro pensiero m'in­dicate il sentiero della bontà. Tra frammenti di pioggia, squarcio di nubi, anche un raggio può sorridere... Ehi! Ehi! La neve cade così spessa che il pellegrino è murato nel silenzio.

Il Coro           — Un viandante, come un punto nero... Dov'è? Dov'è? Il sentiero sparisce sotto la neve. Dove muoverà il cammino? Dove vanno? E noi, gregge sterminato degli uomini, dove andiamo?

Tsuneyo         — Tornate! ha sentito... Scuote la neve dagli abiti...

Il Coro           — Così dice una vecchia canzone di soldati: « Non avevamo rifugio. E allora scuo­temmo i nostri mantelli nel crepuscolo neb­bioso ».

La Sposa         — Possano gli Dei avere scorto il no­stro rimorso...

Tsuneyo         — Tornate! Non continuate a vagare, stremato di forze, nella nebbia della sera.

Tokyiori        — Io vi ringrazio per questo tratto d'amore.

Tsuneyo         — Un tetto non basta. Bisognerebbe trovargli del cibo.

La Sposa         — Ci resta solo del miglio bollito... credete che si possa offrire?

Tsuneyo         — Possiamo offrirvi un poco di miglio bollito? È un cibo vile che s'addice solo ai poveri, ma è tutto quello che possediamo.

Tokyiori        — Offerto con tanto buon cuore, è un tesoro per me,

Tsuneyo         — Una volta, quando ero ancora in mezzo agli uomini, io non sapevo del miglio che ciò che ne cantano i poeti, l'elogio del fiore-Oggi è il mio solo cibo... Per bevanda non pos­siamo offrirvi che questa neve fusa.

Il Coro           — Una volta, con gli altri guerrieri, coi suoi compagni d'arme, sotto le corazze scintil­lanti amava cantare alla vigilia delle battaglie. Ma sono ricordi d'un tempo remoto! Tokyiori dice: « Passato, presente, lo so, è solamente il­lusione... ».

Tokyiori        — La neve cade, il vento grida nella notte!

Tsuneyo         — Non ha mai fatto tanto freddo. Non riuscirete a dormire...

Il Coro           — Il vento soffia sulla pianura nevosa, caccia il sogno, ridesta i ricordi! Come erano felici i giorni di un tempo, alla corte di Kamamura, quando per l'onore della patria, anda­vamo a combattere sulla sella d'indomiti de­strieri... Il vento che soffia sulla pianura nevosa risveglia i ricordi! Chi crederebbe che due no­bili samurai sono qui fermi in questa capanna? Sotto la neve, sotto la neve covano gli antichi ricordi! Essi tremano, in attesa del mattino. Come turbina la polvere in questo universo che non avrà mai fine, così volge il destino degli umani! Ogni felicità è illusoria.

Tsuneyo         — Vorrei accender la fiamma per ri­scaldarvi, ma non ho legna... Ah, un'idea! Ho ancora tre alberi nani, in quel recinto che mi serve da giardino. Li taglierò e li arderò per voi...

Tokyiori        — Tre alberi nani? È possibile?

Tsuneyo         — Sì. Io possedevo un giorno grandi e bei giardini: amavo ornarli di begli alberi nani. Quando fui ridottoallo stato miserabile in cui mi vedete li abbandonai, conservandone solo tre, i miei più diletti: un pruno, un ciliegio e un pino. Da qui li potrete vedere coperti di neve... Come sono belli!

Tokyiori        — Come sono belli!

Tsuneyo         — Li arderò con gioia perché possiate scaldarvi.

Il Coro           — Nelle sere di festa, gli invitati an­davano peril parco, come unosciame di rondini, e passando lì vicino, salutavano il ciliegio, il pino, il pruno. Questa sera i loro piccoli rami sembrano braccia, par che chiedano pietà. Ed ecco il pruno, il pino, il ciliegio. A ogni prima­vera i loro fiori riempivano di profumo questa povera capanna, e il loro aroma, nelle notti nere, riportava ancora i sorrisi di quel tempo. Questi tre piccoli alberi erano la nostra felicità. Sof­focati dalla amarezza, pensavano di morire, in una notte di luna accanto al ciliegio in fiore!

Tokyiori        — Risparmiate questi alberi. Essi por­tano la felicità con loro.

Tsuneyo         — Debbo arderli.

Tokyiori        — No, non tagliate questi piccoli alberi. Un giorno, forse, quando tornerete fra gli uomi­ni ne avrete bisogno. Essi sono come gioielli preziosi nei giardini dei nobili.

Tsuneyo         — La mia vita è come un albero morto coperto per sempre dalla terra. Il mio tronco non ha più né rami né fiori.

La Sposa         — Avete freddo, santo viandante, e questi piccoli alberi non sono che giocattoli inutili. Ogni casa deve offrire fuoco all'ospite.

Il Coro           — Tsuneyo ha scosso la neve che copre ì piccoli rami degli alberi e li guarda con te­nerezza. Dice: « Ah, non posso, non posso ucci­derli! O alberi miei, ricordi di un tempo felice! Amici sempre fedeli! Perdonatemi! ». E si ac­cinge a colpirli!...

Tsuneyo         — Primo il pruno. O pruno! Vicino alla finestra quando sorriderà la primavera non vedrò più le tue gemme profumate! Sei tu che morrai per primo! I tuoi fiori non vedranno i pastori che salgono verso la montagna, e che si fermavano stupefatti ad ammirare la tua leg­giadria, prima di riprendere il cammino verso i pascoli lontani. (Recide il pruno) O ciliegio! I tuoi fiori squisiti ci rapivano, e tu morrai ugualmente! Il tuo destino fu di fiorire per gli uomini. Tu fiorirai in fiamme... per riscaldare questa notte il viandante che aspetta l'alba. E tu o pino, emblema di longevità, noi speravamo di invecchiare insieme! Io ti vedevo già carico d'anni, coi tuoi piccoli aghi lucenti. Ahimè, era un'illusione! Tu arderai...

Il Coro           — La fiamma lucente si leva, come il fuoco che le sentinelle suscitano nella notte da­vanti il palazzo dell'Imperatore. La fiamma ma­gnifica ha dorato le poveri pareti della capanna! Avvicinatevi ospite nostro! Riscaldatevi!

Tokyiori        — Possano ricompensarvi i numi ce­lesti!

Tsuneyo         — Ora possiamo parlare e non più tener conto del freddo.

Tokyiori        — Fuori seguita a nevicare. Istante pri­vilegiato, questo della nostra vita che ci ha con­sentito di riunirci, per una notte sotto il mede­simo tetto. Vorrei chiedervi di che condizioni siete...

Tsuneyo         — Io sono un povero, un povero mi­serabile.

Tokyiori        — No, voi non siete uomo comune. Fra poco all'alba, sarà l'ora in cui ci divideremo, forse, per sempre. Perché non volete confidare i vostri segreti a chi non vi vedrà più?

Tsuneyo         — Io fui Tsuneyo Genzayemon, padrone di Sano.

Tokyiori        — E come mai, cavaliere, vi vedo ora in questo stato?

Tsuneyo         — Parenti malvagi usurparono le mi terre e io caddi nell'estrema indigenza.

Tokyiori        — Perché non avete chiesto giustizia all'Imperatore?

Tsuneyo         — Ohimè, il sovrano che servo, l'augusto Tokyiori, da molto tempo è partito in pelle­grinaggio. Nessuno sa dove egli sia andato.

Tokyiori        — Tokyiori...

Tsuneyo         — A lui solo, e al nostro paese ho con­sacrato la mia vita. Che m'importa delle ric­chezze? Che m'importano gli agi in cui vivevo? Non sono questi i sostegni d'un uomo d'onore Vedete, al muro di questa miserabile stamberga, pende una lancia e una armatura spezzata e nella mia squallida scuderia un vecchio cavallo aspetta. Tokyiori! Non ho mai cessato di servirlo... Chi ha votato il cuore a una causa non può riprenderlo indietro a ogni cambiar di sta­gione! Che fedeltà è quella che muta, come le foglie sulla riva dello stagno, a ogni nuova tempesta? Io non ho mai cessato di credere e per la difesa della mia fede sono sempre pronto a partire... Che giungano dalla città notizie ter­ribili, che mi dicono che il mio Imperatore è in pericolo! Allora vedete, per quanto arrugginita sia rivestirò l'armatura, per quanto spun­tata sia brandirò ancora la lancia. E così debole e vecchio che sia il mio cavallino nero, lo inforcherò e, come già feci un tempo, mi lancerò nella lotta, senza paura. Non esiterò un istante a tornare un guerriero, e quando sarà giunto il tempo della suprema battaglia precipitan­domi verso il nemico cercherò l'avversario più temibile urlando: « A noi due! A noi due! ». In questo mondo dove tutto è destinato a sparire, l'uomo che mantiene nell'avversa sventura fe­dele e immutabile il proprio coraggio, è più no­bile e prezioso del diamante. E tutta la mia vita io l'ho sognata nella gloria dell'Imperatore Tokyiori... Ma ahimè, questo è solo un sogno! Vedete la mia condizione miserabile: fra poco sarò morto di freddo e d'inedia.

Tokyiori        — Sta per spuntare il giorno.

Il Coro           — Sta per spuntare il giorno. E così malinconico s'allontana il viandante nella neve. Soli e vecchi sono gli sposi nel capanna. Ma questo non è che un piccolo episodio nell'im­mensità della terra. Destino, destino. Questa notte, davanti allo stesso fuoco e sotto il me­desimo tetto due generosi cuori si sono incon­trati.

(Qualche mese più tardi è la buona stagione).

Tsuneyo         — Che mi dite o guerrieri? Dite che tutti i cavalieri dell'Imperatore sono convocati? Tutti sono convocati alla Corte? Il nostro so­vrano ci chiama? 0 felicità! Oh giorno tanto invocato! Corteo sublime dì guerrieri, si ve­dono splendere le corazze d'argento e le scia­bole tempestate di pietre preziose. Eccoli ca­racollare fra la polvere i meravigliosi corsieri! E anch'io rispondo all'appello, con gli altri sa­murai... La mia armatura è rotta, la mia lancia è spuntata, il mio cavallo non avanza che zop­picando, ma arriverò lo stesso, anche se un poco in ritardo. Anch'io sono un guerriero dell'Imperatore!

Il Coro           — Che accadrà ora? Si faranno beffa di Tsuneyo i ricchi guerrieri? Certo, quando chiama l'Imperatore è il valore che dovrebbe rifulgere avanti ogni cosa... Ma guardate il ca­valiere e la sua montura come sono ridotti! Come sono vacillanti cavallo e padrone!

Tsuneyo         — Io sono il Cavaliere Tsuneyo, al ser­vizio dell'Imperatore!

Il Coro           — Il cavallo è vecchio, senza più forze, le sue membra sono nodose come i rami del cespuglio. Cavallo magro e deforme che né il frustino né lo sperone potranno mai più rad­drizzare. Intorno i cavalieri superbi trascor­rono coi loro palafréni, e il Cavalier Miseria ridicolo ma imponente di fierezza segue gli altri da lontano con la sua rozza zoppicante. Ed ecco tutti arrivano davanti al sovrano. Tokyiori il divino è seduto sul trono dai mille rubini. Altissimo è il momento. Sovrano Imperatore, eccoli tutti qui i tuoi soldati fedeli, baroni, ca­valieri, samurai.

Tokyiori        — Scudiero!

Il Cerimoniere — Mio divino signore sono in­degno di apparirvi dinanzi agli occhi.

Tokyiori        — I miei guerrieri sono presenti?

Il Cerimoniere — Tutti i vostri fedeli sono al vostro cospetto.

Tokyiori        — Guarda che ci deve essere in mezzo a loro un certo cavaliere dall'armatura rotta, che è venuto sul dorso di un cavallo zoppo. Lo si cerchi e lo si conduca al mio cospetto.

Il Cerimoniere — L'Imperatore ha mentovato il vostro nome.

Tsuneyo         — Siete  sicuro di non ingannarvi? È proprio di me che chiede l'Imperatore?

Il Cerimoniere — Ha chiesto di vedere il Cava­lier Miseria.

Tsuneyo         — Ma vedete questa corazza? Vedete la mia acconciatura? Certo mi prendete per un altro.

Il Cerimoniere — No. L'Imperatore mi ha detto di cercare il peggio equipaggiato dei suoi sa­murai.

Tsuneyo         — Il peggio equipaggiato? Sono io.

Il Coro           — Ed ecco quello che accadde. Il Cava­lier Miseria fu condotto al cospetto dell'Impe­ratore. Tutti intorno silenziosamente stavano di­sposti i samurai come magnifiche tigri. Da per tutto sventolano le bandiere. Non sono uomini. Sono numi.

Tokyiori        — Fedele amico mio!

Il Coro           — E davanti ai guerrieri magnifici avan­za il Cavalier Miseria. La giubba è lacera, gli stracci pendono fuori dall'armatura. Risate e mormoni accolgono il suo ingresso. Altri svol­gono altrove lo sguardo sdegnato. Ma fieramente il Cavalier Miseria ha raggiunto il trono. Dice, senza tremare: Mio signore, eccomi!

Tsuneyo         — Eccomi sempre fedele al tuo nome, mio signore.

Tokyiori        — Riconoscete il viandante incontrato nella bufera?

Il Coro           — Come splendeva la luce della fiamma a cui bruciavano un ciliegio, un pruno, un pino. Echeggiavano le parole della devozione, della fedeltà: « Che il mio sovrano sia in pericolo, che giungano dalla città notizie funeste, e allora, per quanto lacera sia la mia giubba, rivestirò ancora l'armatura arrugginita. Per quanto spuntata sia, io mi armerò della lancia, e inforcherò il mio cavallino nero e così vecchio, e desolato e scon­volto dalla miseria e dagli anni combatterò, co­me sempre in prima fila contro il nemico. In questo mondo dove tutto è destinato a sparire, la fedeltà dello spirito umano è più nobile e preziosa del diamante ».

Tokyiori        — Di tutti i miei guerrieri voi siete il più forte. Le vostre parole sono rimaste scol­pite nel mio cuore come gemme rilucenti. La vostra pena e la vostra fedeltà mi sono di so­stegno più di tutti i tesori riuniti del mio regno. Non c'è nobile più nobile di Tsuneyo...

Il Coro — E sotto il sole del tramonto i samu­rai sentono le parole dell'Imperatore. E sotto il tramonto il più vecchio dei cavalieri tenne ancora per molti anni la fronte levata verso il sole.

F I N E

Alla prima rappresentazione al Teatro del Convegno di Milano, il 30 gennaio 1963, le parti furono così distri­buite: Guido Lazzarini (Tsuneyo), Delia Bartolucci (La Sposa), Aldo Danieli (L'Imperatore), Leonardo Bragaglia (Il Ciambellano), Giovanna Scotto e Elena Da Ve­nezia (Il Coro).


IL TAMBURO DI PANNO

di Kwanze Motokiyo, fine secolo XIV

Persone:

Waki

Ai

Shite

La Dama

Coro


Un vecchio giardiniere del palazzo di Ko-no-Maru è caduto vittima d'amore per una delle dame del seguito dell'Imperatore, intravista per caso durante una passeggiata della Corte Imperiale nei viali della dimora principesca. La dama ha appreso, da qualcuno dei cortigiani, codesto assurdo sentimento del vecchio, e per beffarsi di lui ordina di sospendere un tamburo ai rami d'un albero. Fa dire, per dileggio, allo strano innamorato che la sua passione l'ha commossa e che ha quindi de­ciso di mostrargli daccapo il volto, se il suono del tamburo arriverà a farsi sentire fino al palazzo. Ma si trattava soltanto dì una beffa. In luogo del tamburo il giardiniere non avreb­be battuto che su di una lama di panno, stesa dai cortigiani sullo strumento, destinata a togliergli ogni sonorità. L'infelice giardiniere, all'alba d'una lunga e frenetica veglia, e dopo aver, un'ultima volta, inutilmente, in­vocato la visione del volto dell'amata, vista la inutilità di ogni sforzo, si suicida gettan­dosi nel lago.

Ma tosto che il corpo è scomparso nelle acque tempestose, lo spirito della vittima riappare terribile sulla terra per vendicarsi della frivola creatura che s'era fatta beffe del suo sentimento d'amore.

(Un inserviente porta in scena un arbusto al quale è sospeso un tamburo).

Waki               — Sono un nobile in servizio alla resi­denza imperiale di Ko-no-Maru nel paese di Ku-ci-zen. Da questa parte si stende uno stagno famoso che chiamano lo stagno del canneto. L'Imperatore in persona, sovente, si compiace di respirarvi l'aria della sera. Un vecchio, inca­ricato della cura del giardino, un giorno ha intravisto da lontano il volto d'una dama del palazzo e ha concepito per lei un grande amore. La cosa è giunta all'orecchio della nobile dama e poiché è legge d'amore ignorare la distinzione del rango, essa s'è mossa a pietà. « Si sospenda - ha detto la dama - un tamburo ai rami del canneto che è ai limiti dello stagno e che il ve­gliardo lo percuota. Se il suono di codesto tam­buro si farà sentire fino al palazzo, allora gli lascerò - ancora - intravedere il mio volto ». Così m'accingo a chiamare quel vecchio per infor­marlo. Ehi! Ehi!

Ai                    — Eccomi, signore.

Waki               — Di' al vecchio che cura il giardino dell'Imperatore di presentarsi al mio cospetto.

Ai                    — Obbedisco. (Va al fondo della scena e chiama) Olà, vecchio! Una notizia per te! Affret­tati dunque... Ecco, s'avvicina l'uomo che ha in cura il giardino.

(Entra Shite).

Waki               — Olà, vecchio! Il tuo amore è giunto a conoscenza della nobile dama, cui tutti gli onori sono dovuti, ed essa s'è mossa a pietà. Vieni dunque a battere sul tamburo sospeso al can­neto dello stagno. Se il suono perviene fin den­tro al palazzo, la dama ti lascerà ancora una volta scorgere il suo viso.

Shite              — Accolgo con umiltà l'ordine che mi da­te; e poiché questo è il suo volere, andrò a bat­tere sul tamburo.

Waki               — Vieni. Ecco lo strumento di cui t'ho parlato; affrettati a battere.

Shite              — In verità, l'ho inteso dire, il canneto della luna mansueta, quello che circonda il palazzo della luna è celebre fra tutti i canneti. ma questo, questo è per me il solo vero... Ed ecco, ai limiti dello stagno lucente il tamburo sospeso ai lievi rami. Che echeggi infine il suo­no, che freni lo sgomento d'amore che m'ha in­vaso. Ed ecco la mia voce unirsi alla campana della sera... Come i suoi rintocchi d'argento in­calzano i giorni; l'uno all'altro i giorni succe­dono.

Il Coro           — E sempre la sera, alla sera seguente affida la mia speranza... Ah, voglio battere sul tamburo, oh, simbolo d'un'ora sognata...

Shite              — Fra una dama ed un servo si stende un abisso. Un corpo vecchio non può chiudere che poca luce...

Il Coro           — O miseria! nutrire ancora pensieri d'amore...

Shite              — Il tempo trascorre, e io non me ne avvedo. Le rughe crescono come le onde del lago canute e io non me ne avvedo...

Il Coro           — Perché dunque il tamburo non dà nessun suono?

Shite              — La vita futura non mi scuote da code-sta speranza. O autunno! O amore legato alla dolorosa vecchiezza mia!...

Il Coro           — Simili alla lenta rugiada le lacrime mi segnano il volto. E codeste gocce che scivo­lano una a una sui miei pensieri, mettono la loro triste tinta sulle mie vesti d'erba. Che spe­ra dunque codesto amore convulso come un ra­mo d'edera?

Shite              — In questo mondo le cose umane asso­migliano al loro contrario. I giorni sfuggono con una corsa inafferrabile. Gli anni passano e quando il tempo sarà venuto, il significato di questa esistenza breve come la rugiada, a chi dovrò chiederlo?

Il Coro           — Oh, miserabile cosa! Oh, miserabile cosa! Se questo è vero perché continuo a cedere alle illusioni?

Shite              — « Svegliatevi! » grida all'alba.

Il Coro           — Lottando con la fatica a colpi feb­brili... 0 potessi intravedere il volto o solo il damasco dell'abito suo. Non sa che di damasco è fatto il tamburo del canneto. Con tutta la for­za delle sue povere mani, il vegliardo batte e batte... e non sente suono alcuno. « Sarebbe dunque la vecchiaia a negarmi l'udito? » si chiede. E ascolta. E ascolta. Delle onde del lago, della pioggia sugli alberi, io sento il fruscio. Solo il tamburo implacabile tace... O strano tam­buro... Perché dunque nessun suono ne nasce? Questo amore, penso potrò dimenticarlo men­tre suono il tamburo; ma dal tamburo di panno nessuna voce riecheggia. E come, come potere attendere quello che non verrà mai?

Shite              — In una notte di pioggia la luna anche se attesa con ansia, non appare sul cielo. Così lo strumento tace ancora...

Il Coro           — Ai colpi battuti sul tamburo delle ore, i giorni trascorrono... Era ieri. Così è oggi. La speranza può morire...

Shite              — Colei cui ho dedicata la vita, neanche in sogno...

Il Coro           — Si lascia scorgere. Nei miei pensieri segreti, sera e mattina...

Shite              —  Io resto murato. Il tamburo non suona.

Il Coro           — Non s'è mostrata. Dice il proverbio: « Gli amanti non può dividerli neanche il Dio della folgore » sì, questo dice il proverbio. Per­ché dunque, allora, non è apparsa la dama? E detestando la vita, maledicendo il destino: «Se questa è la mia sorte - ha gridato - perché seguitare a vivere? ». E nello stagno precipita e muore, precipita il corpo miserabile e muore.

Ai                    (uscendo dal palazzo) — Oh! oh! che dicono? Si racconta che il vecchio che aveva cura del giardino, disperato di non udire alcun suono, s'è gettato nello stagno del canneto e che è morto annegato... O lamentevole fine!... La ra­gione per la quale è finito così, eccola esatta­mente. Un giorno che l'Imperatore con la sua corte era venuto a respirare sulle rive del lago, quest'uomo, malgrado la bassezza della sua con­dizione intravide per un istante il volto lumi­noso d'una delle dame di corte e ne concepì un amore senza limiti. Si parla spesso d'amori senza speranza, ma questo sembrava davvero inoffensivo. Così la nobile dama, avendo appre­so quanto era accaduto s'impietosì del vecchio perché l'amore non fa differenza tra le condi­zioni degli uomini. Essa ordinò di sospendere un tamburo di panno al canneto dello stagno e di farlo battere dal vecchio; se il suono si fos­se udito dal palazzo essa gli avrebbe ancora la­sciato intravedere il volto. Sospesero infatti il tamburo, diedero il messaggio al vegliardo. Ora accade sovente che a causa del tempo o delle condizioni del cielo anche un tamburo ordinario non dia che un suono assai fievole; a più forte ragione che suono poteva mai dare un tamburo che avevano coperto di panno? L'uomo credette che il suono non poteva udirlo a causa della vecchiezza sua. Così, arso di demenza, volendo a ogni modo sentire il rullio sì mise a battere da disperato giorni e giorni e giorni... Lo stesso orribile silenzio circondava le sue mani stre­mate... E questa volta tutto è finito! - disse al­lora gettandosi nello stagno del canneto e quivi perì annegato. Veramente nulla mi appare più degno di pietà. Non si trattava, è vero, che di un uomo della più bassa estrazione, ma la morte e l'amore rendono uguali i viventi.

Waki               (si avvicina ad Ai) — È vero che il giardi­niere è annegato?

Ai                    (chinando il capo) — È vero.

Waki               (corre verso il palazzo. Intanto alle soglie, sostenuta da due ancelle è apparsa la dama di corte) — Olà, quel vecchio, disperato di non potermi fare udire il tamburo s'è gettato nello stagno del canneto ed è morto. La tenacia di codeste apparizioni è spesso temibile. Così, in fretta, vi supplico di venirlo a vedere...

La Dama        (avanzando) — Olà, tutti! ascoltate!... Sentite dunque... Il rombo che fanno le onde del lago urtando l'una con l'altra non assomi­glia al suono d'un tamburo? Da dove viene? O dolce suono di tamburo lontano!... O suono soave...!

Waki               — Sentite? Il modo di questa donna è quello di chi ha perso la mente. Che le è dun­que accaduto?

La Dama        — È giusto che abbia perduta la ragione... Come può risuonare un tamburo di panno? Gli ho domandato di battere quello che non poteva dare alcun suono... È da allora che ho cominciato a perder la ragione...

Waki               — Delira. Sulle sponde del lago mormo­rano le onde della sera.

La Dama        — Fra le onde...

Waki               — Sento levarsi lontana la sua voce...

Shite              — Del vecchio divenuto polvere errante sulla cresta delle onde... Come il battito ricor­rente dell'acqua...

Il Coro           — Ritorna il disperato amore e il ran­core...

Shite              — Oh, come insensato fu questo malva­gio amore che mi possiede! E non si estinguerà mai... Durerà eterno... Le nubi che m'hanno oscurato lo sguardo non si dissiperanno mai più ed eccomi mutato in un dèmone.

Il Coro           — Il mio corpo è un lago, un lago in cui entrano i flutti dell'universo... Perché dun­que, perché con tanta ferocia ordinarmi di bat­tere uno strumento muto?

La Dama        — Questo tamburo di panno sospeso al canneto?...

Shite              — Può dunque risuonare? Può suonare dunque? Batti, ora, batti. (Tocca la spalla della dama e la porta accanto al tamburo).

Il Coro           — Batti! Batti! - le dice. Come un tam­buro incalzante batte la carica, a colpi di preci­pizio, sempre più densi... sempre più densi... presto! presto! batti! - le grida. E la opprime brandendo i bastoni. Il tamburo non suona... O sciagura! Sciagura! Urla la donna. È roca la sua voce!

La Dama        — Ebbene ti penti, ora? Ti pentì?

Shite              — Del gran dèmone delle regioni oscure tali debbono  essere le  torture.  Un  supplizio uguale alla ruota di fuoco che schiaccia i corpi e dilania le membra, io soffro! Orribile spasimo!

Wari               — La catena di causa ed effetto è chiara al mio sguardo.

Il Coro           — Chiara ed immediata, eccola davanti a voi, spettatori. La riconosco. Sulle rive del lago stava sospeso il tamburo. Senza vedere il corso delle notti e dei giorni. Mi sono spossato a chiamarti, ho speso l'intera forza del mio vecchio cuore, poi mi sono gettato nel lago, e sono disceso nel fondo dell'abisso. Ora, polvere errante al sommo dei flutti, ritorno... Come il vento che irrompe entro le querce sono entrato in possesso della dama di corte. Mia è ora la sua pena... la scuoto con i mille brividi del vento. Confusamente si lamenta la terra nella notte invernale. Nello stagno, al limite d'oriente, il ghiaccio s'è fuso al soffio di tramontana; sotto la pioggia di gelo s'aprono i fiori di loto, il grande loto scarlatto... Ora è la tempesta... Ec­comi pronto all'assalto... Al disopra dei flutti la carpa è balzata... s'è mutata in un orrido drago, ora vedo, ora, simile ai dèmoni delle regioni oscure. « Oh, la detesto! La detesto! La detesto questa donna adorata! » urla il morente E s'affonda negli abissi dell'amore...

F I N E

Alla prima rappresentazione, al Teatro del Convegno di Milano, il 30 gennaio 1963, le parti furono così distribuite: Guido Lazzarini (Il giardiniere e il suo fantasma), Bianca Toccafondi (La Dama), Aldo Danieli (Waki), Leonardo Bragaglia (Ai), Giovanna Scotto e Delia Bartolucci (Il Coro).

LA LETTIGA DESERTA

di Anonimo del secolo XV

Persone:

Komaci

Waki

Waki-Zure

Il Coro


Nel cuore della foresta di Aberto, due monaci sostano per riposare nel lungo cammino che li porterà fino al santuario della lontana città. Quando i pellegrini, rinfrancati da un breve sonno, fanno per riprendere il sentiero, a poca distanza, distesa sulla stujra, la pietra sacra dei buddisti, scorgono una parvenza umana avvolta in miserabili stracci. Chi è questa derelitta, questo rudere, che osa pog­giare il proprio corpo sulla stujra? La inter­rogano. La profondità e l'acutezza delle sue ri­sposte sorprendono i pellegrini. Essi chiedono alla mendicante di rivelare il suo nome. La vecchia, dopo qualche titubanza, racconta la terribile storia del suo passato. Essa, che un tempo fu la nobile dama Ono-no-Komaci, splendente di bellezza e di grazia, leggiadrissima giovanetta, fece morire per capriccio un suo pretendente, l'eroico samurai Fukakusa. Caduta poi nella totale rovina, invecchiata, rosa dal rimorso, derelitta, gira ormai da lun­ghissimi anni per i boschi, sfuggendo lo sguardo degli uomini, e ogni tanto, quando è luna piena, sente lo spirito della sua vittima prendere possesso del suo corpo e si tra­sforma essa, la mendicante, in quello che fu un eroico e sfortunato guerriero.

Waki               — Aspra è la cinta delle montagne sco­scese che ci circondano. Ma profondo si man­tiene nei nostri cuori il desiderio di solitudine. Siamo due monaci che abitano il monte Koya. Andiamo in pellegrinaggio diretti alla capitale, per portare le nostre offerte al venerabile san­tuario.

Waki-Zure     — Per un raro privilegio ci è stato dato di nascere sotto forma umana...

Waki               — Ma se la vita dell'uomo dura breve come un sogno, come si può credere alla realtà delle cose? Noi che portiamo codesti abiti non abbiamo più né parenti, né amici, né figli... Per­correre migliaia di leghe non è troppo lungo cammino, dormire sull'arido suolo, trascorrere le notti tra i monti, sono cose comuni per chi s'è congedato dal mondo... Qui siamo nel cuore della pineta d'Abeno, nel paese di Settau. È tempo di riposare.

(Siedono a sinistra. Dal fondo avanza, a passi stenti, una squallida vecchia mendicante. È Komaci. Procede lenta, appog­giandosi ad un bastone).

Komaci          — Triste e sola sono come una foglia caduta che nessun vento più solleva... Ahimè!

Il Coro          — Ahimè! E dire che un tempo fu piena d'orgoglio e di vanità! Ali dai riflessi az­zurri le sue folte chiome di seta ondeggiavano come il salice al vento di primavera, I suoi canti erano quelli del rosignolo, umidi di rugiada. Una peonia che s'apre alla rugiada del mattino, chi non si china ad ammirarla. Così ero io Komaci. Ora ispiro ribrezzo anche al più derelitto vian­dante. Giorni, mesi, anni d'angoscia hanno sna­turato il volto e le membra. Eccola, vecchia centenaria, sacco di pane e di povertà. Oh, come teme, per le strade della città gli sguardi dei curiosi! Se qualcuno dicesse: « Ma come? Que­sta fu un tempo...? ». E nella notte che incombe fugge ogni volta dagli uomini, e dalla loro ma­ledetta città. Le sentinelle, alla cinta delle mura, non hanno mai visto trascorrere relitto più mise­rabile. Che dolore doversi confondere con l'om­bra dei pini... Ecco la collina d'autunno. Ecco i tronchi... Voglio dormire ora... Sono sfinita.

(Komaci si appoggia alla Stujra e si addormenta).

Waki               (volgendosi alla Stujra e accostandosi a Komaci) — Guarda. Una mendicante. È orribile, nel suo squallore. Ma non è dunque una pietra sacra, quella a cui si appoggia?

Waki-Zure     — Ehi, mendicante!

Komaci          — Chi mi chiama? Oh, lasciatemi, sono sfinita!

Waki               — La pietra su cui riposi è un'ara sacra, simbolo del corpo di Budda al quale tutti dob­biamo venerazione. Allontanati da qui, vecchia.

Waki-Zure     — Potrai riposare altrove.

Komaci          — Perché parli di rispetto? Questo non è che un albero morto.

Waki               — Anche un albero morto ha portato i suoi frutti alla buona stagione.

Komaci          — E io non sono che un povero tronco marcito. Ma se in fondo al mio corpo esiste an­cora la traccia di una rama fiorita, perché non potrei offrirla al Budda? Perché non potrei? E perché dici che questa è l'immagine di Dio?

Waki               — L'apparenza del suo corpo è in questa pietra scolpita.

Waki-Zure     — La terra, l'acqua, il fuoco, il vento, lo spazio.

Komaci          — I cinque elementi. I cinque elementi che compongono ogni creatura umana. Ma al­lora perché sarebbe sconveniente accostarvisi?

Waki               — Perché ogni pietra sacra contiene pro­fonde virtù nel mistero delle sue strutture.

Komaci          — Quali virtù, dimmi?

Waki               — Un solo sguardo sul Budda allontana le tre vie del Male.

Komaci          — Ma il Male può essere vinto dal pen­siero del Bene. Da un pensiero improvviso può nascere nel cuore la luce.

Waki               — Se nel tuo cuore si è fatta una simile luce, perché non abbandoni questo mondo d'il­lusioni?

Komaci          — Tu credi che io appartenga ancora alla terra. Ma il mio cuore l'ha abbandonata ormai.

Waki               — Cuore certo non devi averne, se non hai riconosciuto il corpo di Budda.

Komaci          — È perché l'ho riconosciuto che porto qui la miseria che sono. Se le pietre sono di­stese sulla nuda terra, perché un essere umano non può distendersi su una pietra anche sacra?

Waki-Zure     — Ma quell'ara è l'immagine stessa del cielo.

Komaci          — E l'universo non manifesta in me tutte le sue azioni e i suoi dolori?

Il Coro           — Ma questa mendicante ha la risposta pronta, dicono i due monaci e curvano fino a terra la fronte e per tre volte la salutano.

Waki               — Questa mendicante è d'una profonda saggezza. Voglio domandarle il suo nome. Ehi! vecchia! Dicci quale nome portavi un tempo...

Komaci          — E sia. Benché ne provi un'estrema vergogna, vi dirò quale fu il mio nome. Sono la figlia dell'antico signore di questa provincia. Ecco a che cosa è ridotta Ono-No-Komaci...

Il Coro           — Komaci... Komaci fu un tempo una dama che spargeva attorno a sé la gioia. La sua bellezza fioriva come un giglio...

Waki               — La falce di luna del suo sopracciglio splendeva di riflessi azzurri. Mai le sue guance vedevano illanguidire il loro elegante pallore.

Il Coro           — Le vesti di seta pregiata si accumula­vano nei cofani di legno prezioso.

Komaci          — Gli ornamenti erano il mio solo pen­siero.

Il Coro           — Se non li aveva bruciava di desiderio. Una volta ottenuti, li custodiva inquieta.

Komaci          — I miei capelli s'incurvavano in onde mirabili. Come nubi contro il verde d'una col­lina. Racchiusa nel broccato delle vesti assomi­gliavo al fiore di loto, lieve sulle acque mat­tutine. In quel tempo componevo canti, imma­ginavo ritmi di poesia; ciascuno alla Corte mi ammirava o mi festeggiava come la prima di tutte le cose!

Waki               — E quando fu che si mutò a questo grado una sorte così lieta?

Komaci          — Un giorno...

Il Coro           — Quello che chiamano il Male, asso­miglia in ogni punto al Bene. Come sapere il giorno che muta la corsa del destino? Un uomo, c'era, una volta, che amava una donna crudele. Egli le parlò del suo amore. Per metterlo alla prova, la malvagia, fece mettere una lettiga di nudi rami sul luogo del giardino ove erano soliti incontrarsi e gli disse: « Quando avrete tra­scorso cento notti disteso su codesto giaciglio, allora ascolterò quello che avrete da dirmi ». « È cosa facile - rispose l'uomo - per un amore come il mio! ». E che la pioggia cadesse a rovescio, o il vento mugghiasse, o il gelo mor­desse le foglie, ogni notte, col cuore in tumulto veniva a distendersi sul suo duro giaciglio. E con la spada incideva una tacca per ogni notte trascorsa in quella prova sovrumana. Così era arrivato alla novantanovesima prova. E si levò dicendo: « Una sola notte ancora su questo gia­ciglio, e domani non potrete più rifiutare la mia preghiera ». E dentro di sé pensava: « Oh notte, vieni presto sul mondo! ». Da quella notte accadde che suo padre morì all'improvviso e nonpoté staccarsi dal corpo venerato. Non poté recarsi al suo giaciglio di speranza. Da un servo gli fu rimesso un rotolo di seta. Conteneva una poesia composta dalla donna malvagia: « I segni da te numerati ad ogni aurora sull'orlo della lettiga erano monotoni. Ma la notte in cui non sei venuto l'ho ricordata io nella pietra ». L'uomo capì che tutto era finito e sparì lontano da questa contrada, per sempre.

Komaci          — Composero canti.. Scrissero poesie... I miei capelli si sono riempiti di polvere. Lei mie sopracciglia hanno perduto il loro colore di montagne lontane. Fino a che dura la notte posso credere d'essere viva, ma alla luce dell'alba il mio aspetto m'inorridisce...

Waki               — Cosa porti nel sacco che hai appeso sul collo?

Komaci          — La cagna famelica, per calmare la fame di domani ha un avanzo di galletta muffita.

Waki-Zure     — E nel sacco che hai sulle spalle?

Komaci          — Uno straccio imbevuto di sudore e di polvere...

Waki               — E nella cesta di bambù che ti pende al braccio?

Komaci          — Dei sandali di leggera paglia...

Il  Coro          — Il mantello di paglia che cade a brandelli...

Waki               — Il cappello sfondato...

Komaci          — Non mi nasconde più neppure il volto... E come potrò proteggerlo dal gelo, dalla neve, dalla pioggia, dal vento? dalla neve, dalla pioggia, dal vento.

Il Coro           — E per asciugare le lacrime, non ha più le sue vaghe maniche di broccato... Ora solo la carità dei passanti, per le strade dell'igno­minia. E se qualcuno le rifiuta l'obolo, se qualcuno la scaccia come una bestia malata, ecco un odio allora la prende... un tremendo rancore la sua voce si trasforma e diventa orrenda come un dèmone.

(Komaci tende il cappello verso monaci che indietreggiano spaventati).

Komaci          — Fate la carità, buoni monaci; ohimè, buoni monaci!...

Waki               — Cos'è? Che vuoi?

Komaci          — O monaci, voglio andare da Komaci...

Waki-Zure     — Ma sei tu Komaci? Che voce è questa?

(Komaci si toglie il mantello e appare in veste di guerriero).

Komaci          — Sono Fukakusa, il guerriero, l'eroe! Lasciatemi! Lasciatemi correre al giardino di Komaci! Largo! Largo! Quando scende la notte questo è il mio cammino! Non manca che una notte sola! E tu, oh luna, unica compagna, tu sai che l'avrò il mio premio! Ve lo giuro! Ve lo  giuro!

Il Coro           — Com'era bella la crudele Komaci! Ecco la punizione: soffrire più della vittima. Per cento anni quanti ora ne ha, pagare le cento notti di Fukakusa.

Komaci          — Ah, come l'amo, come l'amo! Essa m'ha imposto cento notti di passione e di speranza. Corro, corro... Ecco, ancora sempre... corro verso quel triste giaciglio... Tutto il giorno sto in ansia ad aspettare e quando infine la notte è discesa, nascondendomi a tutti gli sguar­di, m'incammino, avendo a compagna la luce della luna, e vado attraverso le tenebre, vado nelle notti di pioggia, e nelle notti di vento, vado sotto lo stillicidio delle foglie morte nei boschi sepolti dalla nebbia... Il Coro — Le foglie morte nei boschi sepolti... Sempre più presto...

Komaci          — E vado e vengo, e torno e ritorno. Una notte, due notti, tre notti, quattro notti, sette notti, otto notti, nove notti, venti notti... Perfino la festa delle raccolte m'ha visto in cam­mino. Con la stessa fedeltà con cui il gallo se­gna l'arrivo del giorno, ogni mattina, ogni mat­tina ho inciso i miei segni sul legno della lettiga. Per cento notti dovevo tornare e già la novan-tanovesima era trascorsa! O che dolore! Gli occhi mi s'oscurano!... (Cade).

Il Coro           — Così, disperatamente, senza poter raggiungere il momento supremo, è caduto il fedele amante!

Waki               — Almeno tanto dolore assolva delle sue colpe Komaci.

Il Coro           — Così è. Per la vita futura conviene pregare. (I monaci pregano) Pietra su pietra, sofferenza su sofferenza, grande sarà la pena. Ma grande sarà l'opera e il corpo accoglierà l'in­finito. Lo spirito del peccatore potrà infine ri­splendere, d'oro come l'oro. Tendiamo umil­mente le mani al beato tra i beati, al Budda. Ed entrerete nelle vie della Luce.

F I N E

Alla prima rappresentazione, al Teatro del Convegno di Milano, il 30 gennaio 1963, le parti furono così distri­buite: Elena Da Venezia (Komaci), Guido Lazzarini (Waki), Leonardo Bragaglia (Waki-Zure), Giovanna Scotto e Delia Bartolucci (Il Coro).


LA DONNA DI EGUCHI

di  Kwannami  Kiyotsugu (1334-1384)

Persone:

Il monaco

Il fantasma della donna di Educhi

I fantasmi delle geishe

Il pescatore

Coro


Negli antichi tempi, la città di Eguchi, im­portante nodo sulla via della seta, lungo la riva del fiume Yodo, nella provincia di Settsu, era un luogo rinomato ai viaggiatori, l mille locali destinati a rallegrare gli oziosi e i ricchi mercanti risuonavano del suono di flauti e cimbali, e sotto il cielo eternamente sereno le giovanissime gheishe, le belle adolescenti, al­lietavano col loro canto e le loro danze le notti degli ospiti. Di tutte le cortigiane di quel sito, la più celebre fu la Dama di Eguchi, autrice essa stessa di versi e di immagini rinomate.

Una leggenda racconta come codesta gheisha rifiutasse, una notte, di accogliere sotto il suo tetto, pur se affranto dalla stanchezza di un pellegrinaggio, il poeta eremita Saigyo (1118-90), che compose, dopo questo diniego, una lirica addolorata.

Ma la donna di Eguchi aveva rifiutato di ac­coglierlo in un luogo di frivolità e di errore, soltanto per la salvezza della sua anima. Il reale racconto dell'episodio è fatto ad un viandante, dalla gheisha in persona, momen­taneamente riaffiorata sulla terra, in una notte d'estate, dopo secoli e secoli, fra le nebbie serene del fiume, per rievocare assieme all'ombra delle compagne, la sua dimora sulla terra « asilo d'un istante »; per concludere, infine, sulla vanità d'ogni apparenza e l'illusoria labilità d'ogni cosa terrena.

Il Monaco     — La luna mi è ancora amica fedele, la mia solitudine non è completa. Sono un mo­naco che viaggia di provincia in provincia. Poi­ché ancora non ho visitato il tempio del Tenno nella provincia di Settsu ho deciso di compiere un pellegrinaggio in questo sacro luogo. (Si fer­ma davanti alla tomba della donna di Eguchi) Ecco dunque la tomba della donna di Eguchi, la famosa gheisha!Un tumulo di terra, ed è tutto… Come sono commosso... Qui dura il ricordo di lei... E poiché sono giunto qui, pellegrino, vo­glio cercare di ricordarmi i dettagli deliziosi della sua delicata leggenda. La leggenda della donna di Eguchi e di Sa-to, l'eremita, storia che avvenne in questi luoghi. Una sera, raccontano, un santo uomo, l'eremita Sato sbarcò ad Eguchi. Tante e tante case di gheishe, piccoli tetti di bambù ornavano le rive del fiume. Pioveva. Era freddo. Sa-to, dopo aver bussato a una porta, chiese asilo per una notte. Ora, vedendo il pio uomo, la donna ch'era alla porta esitava a rice­verlo. E allora l'eremita compose questo poema: « Arduo è per voi rinunziare alle gioie del mon­do! O voi che non sapete accordarmi l'asilo d'un istante ». E la donna rispose...

Il Fantasma — Ah! Questa poesia! Ricordi? Ri­cordi? L'avevo dimenticata... Ora rivedo tutto. Ma chi dunque recitava quei versi? Eri tu?

Il Monaco     — Una donna? Da dove viene? Non v'è, su questa riva, né strada, né case... È stra­no... Che è, per voi questo poema?

Il Fantasma —L'avevo dimenticato! Sotto l'er­ba della terra e la rugiada dei prati, tanti anni sono trascorsi! Questo mondo d'errori, questo mondo d'illusioni è certo « asilo d'un istante »... Eppure era difficile rinunziarvi... E la mia colpa fu più grave. Negai l'ospitalità anche d'una sola notte al pellegrino. Questo dice il poema, a mia vergogna... Ma non sapevo il senso di quelle parole. Ora t'appaio per spiegarti le ragioni di quella condotta insensata...

Il Monaco     — Spiegarmi che cosa? Chi sei? Co­me sai questo?

Il Fantasma — Perché non ricordi anche il poe­ma con cui la donna di Eguchi rispose al pellegrino?

Il Monaco     — Sì. Rispose: « O tu che hai rinunziato al mondo, alle sue gioie... ».

Il Fantasma — « O tu, illuminato, all'asilo d'un istante non attaccare il tuo cuore... ». Era un semplice consiglio dato a un pio eremita, ignaro delle cose del mondo. Non ebbi, forse, ragione?

Il Monaco     — È giusto, dato che l'uomo aveva rinunziato alla vita di questa terra...

Il Fantasma — E sostava innanzi alla casa di una gheisha, una gheisha, fiore profumato, ma vuoto, di cui nessuno conosce i lievi tormenti.

Il Monaco     — In un tal luogo...

Il Fantasma — L'esortò a non sostare, piena di rispetto per la sua santa vita. Esprimeva un pensiero di riguardi per l'uomo che aveva rifiu­tato le vane gioie terrene.

Il Monaco     — Mondo di sogni che svaniscono...

Il Fantasma — Asilo d'un istante!

Il Monaco     — Mondo di rugiada trascorso in un istante...

Il Coro           — Così fu. Ma perché ricordarci di que­sta storia passata? Il passato è come l'ombra della sera, non può tornare indietro. Tutto scor­re, tutto è infinito, e la vita non ha che un'ora. Uomo ritirato dal mondo, a questo ricordo della terra non attaccare il tuo cuore! Come le nubi del cielo, le onde della spiaggia, le forme e i suoni, i colori e le voci, svaniscono nell'universo. Al mattino il giovane cigno vede nel riflesso dell'acqua il blu grigio del cielo; a mezzogiorno l'acqua è tutta d'oro, e la sera, nel crepuscolo, trascorrendo fra le canne che ondeggiano, l'ala del pipistrello è rossa. Nubi, sogni svaniscono come la rugiada e sotto il mutevole firmamento, la vita dilegua, le cose si cancellano. L'asilo di questo mondo dura solo un istante. Ma che vedo? La donna che parlava nella notte sembra mutarsi in fantasma, diviene come la nebbia... Chi sei?... Chi sei?

Il Fantasma — La mia ombra diafana e leggera sta per sparire. Addio, sono lieve lieve, una nube, un nulla che galleggia sulla corrente del fiume... Io ero la donna di Eguchi...

Il Coro           — Era lo spirito della donna di Eguchi! La sua ombra si leva sulla spiaggia roccio­sa, poi, nella notte svanisce.

Il Fantasma — La terra non fu per me che l'asilo d'un istante...

Il Monaco     — Che dice? Che dice?

Il Fantasma — Su questa spiaggia trascorsi come l'onda che svanisce. Ma in una esistenza anteriore già t'avevo parlato. Ma anche allora non fu che un istante nell'asilo d'un istante! Ricorda... Io sono lo spirito della donna di Egu­chi...

Il Coro           — Solo la sua voce affiora lievemente dalla tenebra... La sua forma è scomparsa. La sentite da lontano? Lontana, lontana è la sua voce? La sentite ancora? Un poco, un poco... Più nulla...

(Durante le ultime battute del Fantasma, un pe­scatore di passaggio s'è accostato al monaco).

Il Pescatore            — Oh, voce soave, nella sera... Er­ba leggera sotto la lieve brezza, ai bordi dell'acqua: solo, nella sera, una fragile scialuppa ancorata. Alle mie spalle la pianura, custodita dalle stelle; e intanto lento trascorre il fiume sotto la luna.

Il Monaco     — Pescatore, l'hai vista anche tu?

Il Pescatore            — Chi dunque?

Il Monaco     — L'ombra, quella donna...

Il Pescatore            — Che dici? Non intendo...

Il Monaco     — Or non è molto, mentre medi­tavo sulla tomba della donna di Eguchi, una pellegrina mi è apparsa, che veniva non so da che terre. Essa m'ha recitato la poesia cele­bre che la donna d'Eguchi improvvisò all'ere­mita: « All'asilo d'un istante non legare il tuo cuore... ».

Il Pescatore            — Raccontano che nelle notti di luna, la donna di Eguchi, seguita dalle sue compagne ritorni sulla terra e passi su una barca per l'acqua trasparente... Uomini degni di fede l'hanno vista; ma a me - povero pe­scatore - ella non si è mai mostrata. Il povero è come una liana inaridita su un al­bero vecchio, è come un corvo notturno, è un cavallo sfiancato, è come un sole basso al tra­monto...

Il Monaco     — Io l'ho intesa parlare: sono il fantasma della dama di Eguchi, così mi ha detto. Poi è scomparsa. Come una cosa che si cancella, una foglia che d'autunno dilegua, una nebbia leggera... Tu dici che la donna di Egu­chi trascorre con le compagne il fiume.

Il Pescatore            — Certo. Tu conosci la storia di Shorin Shokada, fondatore del monastero dei Mille Smeraldi?

Il Monaco     — Ricordami quella storia.

Il Pescatore            — Raccontano che una notte quel­l'eremita ebbe un sogno meraviglioso! Una voce gli disse: Se vuoi contemplare il Budda nelia realtà del suo essere va a vedere la di­mora delle gheishe di Eguchi... Egli si incam­minò verso il luogo indicato. Ora in quella notte, al chiaro di luna, la Donna e le sue compagne, celebravano una festa sulle giun­che. Era una notte felice. Ma quale notte non è una notte di festa ad Eguchi? La Donna cantava: «La brezza passa tra i pini! Sull'ac­qua, per le sponde del fiume, il vento trascor­re, il vento mormora ». E le belle adolescenti che erano intorno a lei, percuotendo i tambu­relli, cantavano in coro: « Le nubi leggere, le nubi si levano e scompaiono... ». E il santo ere­mita pensava: « Che spettacolo per me questo sciame di adolescenti, abbandonate alla cor­rente dei vizi... ». E per la vergogna e il dolore chiuse gli occhi... Ma quando li riaprì vide la donna di Eguchi tramutata in divino Budda nella realtà trionfante della sua essenza, e le gheishe del suo seguito erano diventate venti­cinque dee, e la giunca su cui stavano distese era ora un elefante bianco! E le divine appa­rizioni cantavano: « Luce dell'infinito! Luce dell'eterno! Luce divina!». Ebbro di gioia, il santo eremita ringraziò il cielo e ritornò alle sue rocce. Ecco la storia...

Il Monaco     — Ma ce n'è un'altra... quella del monaco Sa-To...

Il Pescatore            — Fu solo più tardi che il mo­naco Sa-To venne una notte a chiedere ospi­talità a Eguchi. Ma questa storia... tu la co­nosci.

Il Monaco     — Ti son grato d'avermela rilevata.

Il Pescatore            — Creature vissute in tempi or­mai lontani...

Il Monaco     — Ai ricordi d'un istante non le­gare il tuo cuore. (Il pescatore saluta e si allontana).

Il Monaco     — Era dunque la donna di Egu­chi! Voglio pregare per il suo riposo. Ma chi avanza? Non sogno... In lontananza, sulle ac­que leggere ove la luna splende con la sua ca­sta luce, appaiono cullate sulle giunche, le gheishe, le gheishe di Eguchi! Oh, come è bella la luna! Eccola lì, la donna di Eguchi, e le giovinette con le chiome aureolate dalla luna, radiose di bellezza cantare, percuotendo i tam­buri: « All'asilo d'un istante non legare il tuo cuore! ».

I  Fantasmi Gheishe — Andiamo dolcemente sulla spiaggia d'amore distese sui cuscini tra­punti di rosa e d'oro! Le nostre barche sfio­rano lievi la corrente! Al sogno di questo mon­do di mutevoli apparenze i nostri corpi e le nostre anime erano consacrati. Oh, perché de­starci? Le nostre barche sfiorano lievi la cor­rente... Cantiamo!  Cantiamo!

Il  Monaco     — O canti profani! O luce di pec­cato!

I  Fantasmi    — È la principessa del ponte d'Ugi, che senza riposo, sulla collina attende il suo giovane sposo, agita un lungo velo di seta. Ma invano... Attende  colui  che  non  tornerà mai più.  Come la giovinetta infelice,  triste fu la nostra  sorte ad  Eguchi,  città senza tenebre. Vorremmo ritrovarli i fiori e ì canti sulle onde. Ma il passato non ritorna... Non ritorna...

Il  Monaco     — Rimpiangono questo mondo d'il­lusioni! Ma io temo d'avere una visione! Chi siete? Chi siete?

I  Fantasmi    — Chiedendo tu ci fai onore... Non vedi chi siamo? Su questo fiume, in questa notte di luna, tu puoi contemplare qui la bar­ca che cullava un tempo le giovinette di Eguchi, le soavi gheishe che furono. Canta, canta la tua canzone, o schiuma leggera! Cantate on­de lievi frementi il rimpianto del passato. E voi, sotto la luna e sul fiume, mostrateci la vostra gioia! Ecco le gheishe che passano sulle loro  giunche...  Esse  tornano  e  traversano  il mondo, «asilo d'un istante! »

La Donna       — Le cause e gli effetti turbinano in cerchio come un cocchio nell'arena del mondo...

Il  Coro          — Come volano in turbine gli uccelli nel cielo...

La Donna       — Le vite si succedono! Una vita anteriore, e prima di quella un'altra e prima un'altra ancora... e infinite altre, come una ca­tena negli spazi del cielo...

Il Coro           — La catena è senza fine...

I  Fantasmi    — Così sempre rinnovate fiorisco­no le esistenze, i destini...

Il  Monaco     — A meno che, per una sorte fe­lice l'essere umano non si muti in Dio...

I  Fantasmi    — Se non comprendiamo nulla, se restiamo nell'errore, a tentoni nelle tenebre, la notte ci vede...

Il Monaco     — Le gheishe di Eguchi vivevano nei tempi antichi, ora spariti...

La Donna       — I tempi antichi? I tempi spariti? Che dici? Che dici? Le notti sono uguali alle notti, le ore alle ore, i giorni ai giorni, i mesi ai mesi e la luna di questa notte assomiglia alla luna di un tempo...

I Fantasmi     — Non siamo sempre fresche e leg­giadre come i fiori che ci circondano? Dire che vivemmo in un tempo lontano non è anch'essa un'illusione?

La Donna       — Che importa? Se il tempo... il pas­sato... sogno dei sogni trascorre entro la nebbia! Cantiamo, cantiamo nella chiarità della luna!

Il  Coro          — Il tempo! E sulle acque d'autunno che si gonfiano e si rasserenano, la giunca lieve­mente trascorre. E noi mortali viviamo nelle tre vie  dell'Inganno e nelle otto regioni  del Dolore. Solamente la Fede non crolla sotto il peso del Dolore.

La Donna       — Fu la sorte che ci fece nascere fra gli esseri umani, già gravate d'un suggello di peccato. Da quanti millenni il nostro destino era già segnato? E noi andavamo in balìa della nostra ebrietà, come i lievi bambù che galleg­giano sull'acqua del torrente! Oh, come questo pensiero è grave di tristezza...

Il Coro           — Nelle albe di primavera tutti i fiori sono rose, e si vede fulgido il broccato sulle colline d'erbe e di fiori... Ma nelle sere d'autun­no cadono le rosse foglie e i boschi si coprono di rame, stoffa leggera il cui colore si cancella alla carezza del sole. Così svaniscono le cose! Così sì dissolvono gli esseri nel nulla. Due amanti conversano sotto la luce della luna e fra l'ombra dei pini, poi scompaiono e non tor­neranno mai più. Gli sposi che hanno tenera­mente accostato le loro guance nel sonno dietro il paravento color di smeraldo si divideranno a loro volta quando il momento supremo sarà giunto per loro... Alcun essere umano non sfug­ge alla volontàdel destino: né le piante senza anima, né le belve, né gli uomini!

La Donna       — Una dolce parola che si ascolta e il cuore si abbandona... Noi abbiamo peccato, ed è vero, ci siamo in ogni senso tuffate nella colpa. Colori e suoni, dolci carezze, tutto questo non è forse causa d'inganno per un povero piccolo corpo... Ah, deliziosa luna!

I  Fantasmi    — Deliziosa notte del mondo! 

Il  Coro          — Una dopo l'altra le nuvole trascorrono l'alto firmamento, e mormorano parole che nessuno sente; e l'onda d'un istante, nata dal fondo dell'Oceano dipende da infinite cause.

La Donna       — Così come una lieve onda, quando vivevamo alla luce, il nostro povero e debole cuore s'attaccava per sempre all'asilo d'un istante.

Il Monaco     — Senza la debolezza dei cuori, questo mondo conoscerebbe, forse, la verità.   

La Donna       — Dunque non esiste nemmeno l'amore?

Il Coro           — No. Mai più attese d'amore nelle sere di primavera...

I Fantasmi     — Mai più sentieri fioriti dove ci si lascia piangendo.

Il Coro           — Mai più dolori! Mai più giuramenti.

La Donna       — Non ci sono più gioie? Non ci sono più feste nel mondo? Non fiori sotto la luna, né crepuscolo rosa, né sorriso, né musica, né profumi! Che terribile angoscia!

I Fantasmi     — Che terribile angoscia!

Il Coro           — Tutto questo ci fu è vero, ma per spazio d'un istante.

La Donna       — Così l'ho detto io stessa nella mia breve poesia. Il mio consiglio non era vano dunque. Solo avrei dovuto capire d'essere io stessa muta, e cieca, e sorda. Ma la notte passa. Dobbiamo tornare, sparire... Svanisce la chiarità delle stelle...

Il Monaco     — Se ne vanno, ed ecco muta la visione. Io credo, in verità di intravedere un elefante bianco che reca su di sé delle apparenze divine...

I  Fantasmi    — All'asilo d'un istante non legare il tuo cuore.

Il Monaco     — Una nube d'oro le porta verso occidente, il cielo limpido le sostiene...

Il Coro           — Benedetta sia la visione che vi guarisce dai mali di questa vita terrena, da questo mondo d'inganni! Oh, non legate mai il cuore all'asilo d'un istante!

F I N E

Allaprima rappresentazione, al Teatro del Convegno di Milano, il 30 gennaio 1963, le parti furono così distribuite: Bianca Toccafondi (La Donna di Eguchi), Guido Lazzarini (Il Pellegrino), Delia Bartolucci (Una Donna), Leonardo Bragaglia (Il Pescatore), Giovanna Scotto e Elena Da Venezia (Il Coro).