Questi nostri figli

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QUESTI NOSTRI FIGLI


QUESTI NOSTRI FIGLI

Commedia in tre atti

di FABIO MARIA CRIVELLI

PERSONAGGI

STEFANO RENZI, celebre attore

NORMA e SERGIO, suoi figli

MARIA, attrice

VANNA e FRANCO, amici dei Renzi

Il signor D'ANTONI, padre di Vanna

GISMONDI, giornalista

GIOVANI, came­riere

Il commissario

Una cameriera

Un dot­tore

Due agenti

Due infermieri

ATTO PRIMO

Salotto in casa di Stefano Renzi. E una vasta stanza ammobiliata con gusto moderno e con un certo lusso. Ma L’abbondanza dei soprammobili e la disposizione dei vari oggetti dà nell'insieme un'impressione di disordine e di trascuratezza. Manca ogni senso d'intimità e dì gusto personale. Al centro della scena un divano, un tavolinetto con sopra dei liquori, un paio di poltrone, un radiogrammofono. A destra una porta che dà sull'anti­camera e su altre stanze. A sinistra un'altra porta che immette al resto della casa. Nella parete di fondo un caminetto. Sopra il caminetto, bene in vista, un grande quadro in cui è effigiato l'attore Stefano Benzi in costume. (E notte Norma e Vanna siedono sul divano. Norma è una ragazza sui vent'anni, vestita con una certa ostentata noncuranza,nervosa, senza trucco. Nei suoi gesti c'è qualche cosa d'inconsapevolmente mascolino. Vanna e sui treni anni, biondissima, molto truccata. E in abito da sera. Sergio, un giovane che può avere dai ventidue ai venticinque anni, e seduto per terra, su un cuscino, piuttosto annoiato. Franco, tipo di giovane efebo, è in piedi, presso il radiogrammofono).

Franco                      - (scegliendo fra i dischi) Sergio, quando ti deciderai a comperare qualche disco? Questi co­minciano ad avere la muffa.

Sergio                       - Troppe cose qui dentro cominciano ad avere la muffa.

Franco                      - (mette un disco di musica jazz e lo fa suo­nare) Forza ragazzi. C'è aria di mortorio, sta­sera. Un po' d'allegria se non volete vedermi pian­gere. (Avvicinandosi al divano) Norma, vuoi bal­lare? Vanna è troppo sbronza.

Norma                      - Ma non ti sei ancora scocciato'?

Vanna                       - Ma chi ti dice che sono sbronza? E' una calunnia. Sono appena al sesto whisky... No, forse al settimo... Be', non ricordo. Non li ho contati. Comunque, sono in forma, in formissima. Ci vuol altro per me. (Si alza con un po' di fatica).

Franco                      - Stai seduta, cara. Potresti cadere. E Sergio è troppo distante per prenderti fra le braccia.

Vanna                       - Adesso vedrete se sono in forma. Nes­suno vuol ballare con me? Ballo da sola. (Si toglie le scarpe) Ho studiato danza classica io! E voi non sapete niente, niente... (Comincia a girare per la stanza danzando con pose caricaturali, canterel­lando con voce strascicata sul motivo del disco, e barcollando a tratti. Gira un po' attorno a Sergio tirandogli i capelli. Poi di colpo si lascia cadere accanto a lui, quasi addosso).

Sergio                       - (scostandola irritato) Smettila, scema!

Franco                      - E' ubriaca ma sa cadere al punto giusto!

Vanna                       - (ride istericamente. A Sergio) Tesoro, sei funereo stasera. Hai perso ancora al gioco?

Sergio                       - Questo non ti riguarda.

Vanna                       - (ride ancora) Ne sei proprio certo? (Ser­gio scatta irritato e la colpisce sul viso).

Norma                      - (alzandosi di scatto) Sergio! Mascalzone! (Vanna si è accasciata per terra, con la testa sul pavimento. Piange, e poi resta come inanimata).

Sergio                       - Che ti prende ora?

Norma                      - (chinandosi su Vanna) Sta male, non lo vedi?

Franco                      - Per forza. Ha bevuto come una spugna.

Norma                      - Vanna, su, cosa ti senti?

Franco                      - Che ne dite di una doccia fredda?

Sergio                       - E' la donna più idiota che io abbia mai visto.

Vanna                       - (sollevandosi) Sono idiota, lo so. E tu invece sei un genio, vero? Un genio quasi come tuo padre. Un superuomo! Oh, siete tutti grandi voi. Ma quando vi capita un guaio...

Sergio                       - (l'afferra per un braccio) Smettila. Non vedi che ti sei ubriacata come un facchino?

Vanna                       - (piangendo incoerentemente) Sì, sto male. Sto male.

Norma                      - Vanna, vuoi un caffè?

Vanna                       - Mi gira la testa. Sergio, voglio riposare. (Si aggrappa a Sergio che l'aiuta ad alzarsi. Appena in piedi gli passa un braccio attorno al collo e gli si appoggia tutta contro) Ti prego, tesoro, sii buono. Portami di là. Ho bisogno di stendermi.

Norma                      - Vieni, Vanna, vieni in camera mia.

Vanna                       - (subito, secca) No. (Altro tono) Sto bene con Sergio. (Avvicinandosi con la bocca al viso di lui, carezzevole) Tu non mi lascerai più cadere, vero, Sergio?

Sergio                       - (spingendola con malgarbo) Andiamo, cammina. Non vorrai che ti porti di peso...

Vanna                       - (camminando a fatica, tutta appoggiata a lui) Perché no, caro? Sono leggera, leggera, leg­gera. Come una farfalla.

Sergio                       - (sorreggendola mentre sta per cadere) Ma­ledizione, lo sento! (ha fa passare per la porta a sinistra, uscendo con lei. Sì vede il braccio di Vanna che sì chiude la porta alle spalle. Quasi al centro della scena sono rimaste abbandonate, disordina­tamente, le scarpe di Vanna. Pausa).

Franco                      - (è in piedi vicino al radiogrammofono, sta scegliendo un altro disco) Bravissima Vanna, no? Dovresti parlarne a tuo padre. Stasera ha reci­tato una scena stupenda.

Norma                      - (si è seduta dì nuovo sul divano) Ma che dici?

Franco                      - (ridendo) Cara, non hai capito che non è più sbronza di me e di te? (Mette un disco) Que­sto va benissimo per loro, ora: « Dolce notte »          - (Il disco comincia a suonare. Norma si alza di scatto, strappa il disco dal grammofono, lo spezza in due sul ginocchio) Ehi, e che ti prende ora? Hai be­vuto troppo, cara.

Norma                      - (tornando a sedere) Può darsi. Bisogna pur divertirci in qualche modo, no?

Franco                      - (raccogliendo i pezzi del disco rotto) E io non ti diverto!

Norma                      - Proprio no, mio caro.

Franco                      - (con intenzione) Già. Mi piacerebbe proprio sapere, però, cos'è che potrebbe divertirti. Certe volte, Norma, mi fai una strana impressione.

Norma                      - Lascia correre, vuoi? E' mezzanotte pas­sata e se continui a pensare non ti resteranno più idee per domani.

Franco                      - Va bene. Vuoi almeno bere?

Norma                      - Ma si. Finalmente un'idea sensata.

Franco                      - Whisky?

Norma                      - Liscio. (Bevono senza guardarsi).

Franco                      - (toma al radiogrammofono, mette un altro disco) Avanti, scuotiti. Facciamo un altro giro prima di andare a nanna. (La prende per il brac­cio forzandola quasi ad alzarsi).

Norma                      - Come sei scocciante! (Ballano svoglia­tamente, molto distaccati. Dopo qualche minuto Norma si svincola con decisione, si getta sul divano) Scusami, ma non ce la faccio proprio.

Franco                      - (ferma malinconicamente il disco) Che bella festa!

Norma                      - (quasi a se stessa) Vorrei sapere che stanno facendo quei due di là.

Franco                      - (voltandosi a guardarla) Ma no! Certe volte tu mi metti paura!

Norma                      - Che c'entra?

Franco                      - Con le tue domande come questa, vo­levo dire. (Ride. Norma, nervosa, si alza, va verso la porta dì sinistra, poi si ferma con la mano sulla maniglia, indecisa. Torna indietro, si versa ancora da bere) Ehi, sta attenta: non esagerare. Io non po­trei portarti in braccio di là. Né tu lo vorresti!

Norma                      - (posa con gesto irritato il bicchiere) Cre­tino! (Franco ride forte. In questo momento, sulla risata di Franco, esplode a sinistra, da dietro la porta, il rumore d'un colpo di rivoltella. Franco in piedi, e Norma sul divano, restano immobili, come paralizzati. Pausa. Poi sì apre la porta, appare Ser­gio. E' sconvolto. Resta un attimo immobile sulla soglia, guarda i due come se non li vedesse, poi si copre il volto con le mani).

Franco                      - Sergio! Sergio, cosa è accaduto?

Norma                      - (si slancia verso la porta di sinistra gri­dando istericamente) Vanna, Vanna!

Sergio                       - No, no. (Cerca dì trattenere la sorella. Ma Norma si divincola, riesce a passare. Sergio va verso la poltrona, vi si lascia cadere con un gemito).

Norma                      - (riappare sulla soglia, stravolta. Grida) E' morta!

Sergio                       - S'è ammazzata!

Franco                      - Oh che bella festa!

Sergio                       - (confusamente, quasi tra se) S'è ammaz­zata davvero. Ma è assurdo. E' pazza... Era pazza!

Norma                      - (con un grido) Sei stato tu! Tu, tu l'hai ammazzata!

Franco                      - (va vicino a Norma, l'afferra per i polsi e spingendola verso il divano, con forza, concitata­mente) Non fare l'idiota, non fare l'idiota, ca­pisci? (Costringe Norma a sedere).

Sergio                       - (coinè sopra) Era ubriaca? Ho creduto fingesse. Ma forse... Non so. Perché mi correva dietro cosi, perché?

Franco                      - Ma insomma, cosa è avvenuto vera­mente?

Sergio                       - L'hai visto poco fa, no? L'ho portata di là. L'ho messa sul letto, e ho fatto per uscire. Al­lora s'è alzata subito, m'è corsa dietro. Ho pensato che avesse fatto la commedia...

Franco                      - Certo, l'aveva fatta.

Sergio                       - Non voleva che me ne andassi. Sai che non mi dava requie, da due mesi. Le ho detto una parolaccia. S'è messa a ridere. Rideva, rideva. Come una pazza. S'è rimessa a girare per la stanza, apriva i cassetti, chiedeva un'arma, per ammazzarsi.

Franco                      - E tu?

Sergio                       - (coprendosi il viso con le mani) Ma come potevo pensare davvero... Ero esasperato...

Franco                      - E allora?

Sergio                       - (piano) Le ho detto: « E' in quel cassetto. Ammazzati e falla finita! ».

Norma                      - (istericamente) Assassino, assassino!

Franco                      - (con uno strattone) Zitta, stupida!

Sergio                       - Quando le ho visto la pistola in mano mi sono ricordato che era carica. Le ho urlato di posarla. Ma lei... Era fuori di sé. Era diventata matta. « Così vi ricorderete di me » ha detto. Mi sono precipitato: non ho fatto a tempo. Ha sparato!

Franco                      - (con rabbia) Pazza! Pazza! Pensa in che guaio ci ha messo ora.

Norma                      - (piangendo) Vanna! Vanna!

Franco                      - Vuoi smetterla? Bisogna fare qualche cosa. Scuotiti anche tu, Sergio. Dobbiamo uscirne in qualche modo. Pensa allo scandalo, a tuo padre. Starà per tornare.

Sergio                       - (tra se) E' di là, per terra... La testa... E' spaventoso!

Franco                      - Scuotiti, ti ho detto. Telefoniamo a qualcuno, a un dottore...

Norma                      - (singhiozzando istericamente) Un dot­tore!... Valla a vedere, valla a vedere com'è...

Franco                      - Dobbiamo avvertire la polizia. E' stata una disgrazia. E' chiaro'?

Norma                      - Vigliacchi! Vigliacchi!

Franco                      - Sergio, prendi Norma. Portala in ca­mera sua. E' capace di rovinarci.

Norma                      - No, no. Non mi muovo di qui.

Sergio                       - (cercando di calmarsi) Va bene. La po­lizia... No, aspetta. Bisogna evitare che « lui » ar­rivi ora. Mio padre, voglio dire. Telefono a Marta. (Esce in fretta a destra. Pausa).

Franco                      - (avvicinandosi a Norma) Norma, cerca di calmarti, ti prego.

Norma                      - Vattene. Non toccarmi, sai?!

Franco                      - Ma cara, è assurdo!

Norma                      - Lasciami in pace, ti dico. Vi odio, vi odio tutti!

Franco                      - (passandosi le mani sulla fronte) Oh che bella festa! (Si avvia verso la porta di sinistra, scompare un attimo, poi rientra chiudendola dietro a sé. E' sconvolto anche lui, si lascia cadere su una poltrona) Ma che le ha preso?... Maledette donne: cos'hanno al posto del cervello? (Norma continua a tratti a singhiozzare) Anche tu... Perché non la smetti? Non capisci che è mutile compli­care di più le cose?

Norma                      - Ma che vuoi? Che c'entri? Vattene, hai capito, vattene! Non hai nulla da fare, nulla da vedere tu con Vanna, con me. Sei uno scoccia­tore di passaggio e non 'c'è bisogno che t'immischi.

Franco                      - Benissimo. Me ne vado subito. Ben felice.

Sergio                       - (rientrando) Ho parlato con Marta. Sarà qui a momenti. Era appena finito lo spettacolo.

Franco                      - Anche qui. O forse sta per cominciare.

Sergio                       - (si versa da bere) Bisogna avvertire la polizia, ora.

Franco                      - Norma vuole che me ne vada. Forse ha ragione.

Sergio                       - No, aspetta. (A Norma) Calmati, tu. Siamo tutti nei guai, ma è necessario fare qualche cosa per evitare il peggio. E' stata una disgrazia. (Scuotendola con forza per le braccia) Hai capito? Una disgrazia. (A Franco) Telefona tu alla polizia. (Franco esce a destra. Sergio siede sul divano, ac­canto a Norma) Ascolta. Tra me e te da molto tempo c'è qualcosa. Non so bene che cosa. Forse lo chiariremo, più tardi. Ma ora bisogna passarci sopra. Siamo fratello e sorella e non possiamo metterci nei guai. Occorre pensare anche a lui.

Norma                      - «Lui»... «lui»... E che vuoi che gli importi di tutto questo?

Sergio                       - Ma ti rendi conto? Pensa i giornali do­mani... Si butteranno su questa storia, sul nome dei Renzi...

Norma                      - Ma lei è morta, è morta!

Sergio                       - (scostandosi) Sì, è morta. (Con uno scatto d'ira) Ma perché quella cretina...

Norma                      - (con forza) Insultala ora. Anche ora! Vigliacco!

Sergio                       - Ma cosa vuoi da me? Cosa dovevo fare? Non hai capito? Voleva, voleva... che ci andassi a letto. Mi faceva schifo...

Norma                      - (piangendo di nuovo) Non è vero, non è vero...

Sergio                       - E' vero, perdio, è vero! Era come una cagna... Pazza! Ma non potevo immaginare che arrivasse a questo punto...

Franco                      - (rientrando) Fatto. Non se la sono presa calda. Ci sono abituati a queste storie, loro. (Squillo di campanello. Nessuno si muove. Norma e Sergio tacciono, assorti. Pausa) Suonano alla porta.

Sergio                       - Vado io. (Via a destra. Dopo un attimo rientra con Marta).

Marta                        - (sui trent’anni. E' un'attrice. Veste con semplice eleganza. E' calma, sicura di se) Ra­gazzi, che brutta storia!

Franco                      - Bruttissima!

Marta                        - (guardandolo) Questo giovanotto?

Franco                      - (presentandosi) Franco Solbelli. Sono un amico.

Marta                        - Bene. E questa è Norma, vero? Quanti anni. Eri una bimba quella volta che ci conoscem­mo. (Siede vicino a lei, sul divano) Calmati, ora. Dobbiamo tutti essere molto calmi. Dobbiamo pen­sare anche a lui, a tuo padre.

Norma                      - Certo, si capisce. Perché non facciamo sparire il cadavere?

Sergio                       - Non farci caso, Marta. E' sconvolta.

Marta                        - E' naturale che sia sconvolta. E' meglio che vada in camera sua. Vieni, andiamo bambina, ti accompagno io. (Dolcemente, ma fermamente la fa alzare, l'accompagna verso destra).

Franco                      - Forse sarebbe bene che anch'io tagliassi la corda.

Marta                        - Certo. E' meglio.

Franco                      - (inchinandosi) Buona notte, signora. (A Norma) Buona notte. (Norma non risponde ed esce a destra con Marta. Franco esita un momento in mezzo alla stanza).

Sergio                       - Vieni, ti accompagno. (Escono insieme, anche loro da destra. Pausa. Sergio rientra. Si versa da bere) Accidenti... Mi tremano le mani. Come se davvero... Come se avesse ragione Norma.

Marta                        - (rientra. Si ferma vedendo le scarpe di Vanna. Si china a raccoglierle, le guarda per un momento, poi le rimette a terra, una accanto all'altra, vicino al divano. Si siede) Non bere più, Sergio. Siediti. E raccontami con calma.

Sergio                       - Oh, ti ho detto tutto al telefono. I fatti sono quelli che sono.

Marta                        - Sì, ma è meglio essere chiari. Voleva uccidersi?

Sergio                       - Non lo so. Non lo so, ti dico. Non è fa­cile capirlo... Forse sì, ma è assurdo. Tutto, tutto è così... assurdo.

Marta                        - Era la tua amante?

Sergio                       - No. No. Io non la volevo. Ma ti ho detto tutto prima, lasciamo stare. (Pausa) Lui non verrà subito, vero?

Marta                        - Spero di no. Quando mi hai telefonato stava uscendo dal teatro. Abbiamo avuto una prima difficile. Un grande successo. Lui era in mezzo a tanta gente... L'hanno portato con loro.

Sergio                       - Avremo molto spazio sui giornali di domani, tra lui e me!

Marta                        - Per carità! Bisogna fare il possibile. Sono qui anche per questo. Parlerò con la polizia. Cercheremo...

Sergio                       - Certo, certo. Bisogna evitare lo scan­dalo attorno al nome di lui, del grande Stefano Renzi! E' questa la tua preoccupazione, vero?

Marta                        - Perché mi hai chiamato, Sergio? Voglio dire: perché hai telefonato proprio a me?

Sergio                       - Già, perché? Ecco, vedi, penso che quando si è nei guai si ricorre al padre, o alla madre, se uno ce li ha. Ora... Mia madre non l'ho più, è come se non l'avessi mai avuta. E mio pa­dre... Be', in questo caso, è come se non ce l'avessi neanche lui. Non serve. Bisogna anzi fare il possi­bile perché lui ne sia fuori. E' sempre stato così. Fin da piccoli io e Norma siamo stati abituati a farne senza. La nostra vita è una lunga serie di anni in cui ci sono governanti, cameriere, amici che sono lì a dirci: « Non fate chiasso, state at­tenti, papà è stanco, papà dorme, papà sta stu­diando». Capisci?

Marta                        - Sei cambiato dall'ultima volta che ti ho visto...

Sergio                       - Dall'ultima volta? Non sono che pochi mesi!

Marta                        - No, non volevo dire questo. So bene che c'incontriamo ogni tanto, fra la gente, in qual­che locale. Ma non conta. Mi riferivo a molto tempo fa, alla prima volta che ti vidi.

Sergio                       - Sì, ricordo. Ma è davvero tanto tempo fa!

Marta                        - Portavi i primi calzoni lunghi. Eri... eri buffo, con la voce che ti stava mutando, e la prima peluria sul labbro.

Sergio                       - E tu eri molto bella. Lo ricordo. Fu alla festa della premiazione al ginnasio. Lui aveva pro­messo di venirci. Non che io ci tenessi poi tanto. Erano gli altri, i professori, il preside. Mi avevano messo in croce perché lo convincessi. Lui promise, ma all'ultimo momento mandò te, a dirmi che aveva un impegno.

Marta                        - E tu, quando te lo dissi, rispondesti con aria strana: «Ha sempre impegni, lui». Mi sem­brasti tanto solo!

Sergio                       - Lo ero. Lo sono sempre stato. Ma non quel giorno. Tu fosti così carina! Portavi uno strano cappellino azzurro. I miei compagni, i professori, ti mangiavano con gli occhi. Anche se non eri ancora celebre.

Marta                        - No. Conoscevo Stefano da poco.

Sergio                       - Già, forse ancora... Scusami.

Marta                        - Forse, volevi dire, non ero ancora di­ventata la sua amante? No, ancora no. Ma lo amavo già allora.

Sergio                       - Sì, sì. Lo pensai. Fu la prima volta in cui mi sentii geloso di mio padre. Ero un ragazzo buffo, l'hai detto.

Marta                        - Sì.

Sergio                       - (alzandosi per interrompere il discorso) Che fa la polizia? Perché non è già qui?

Marta                        - Meglio così. Siediti. Devi, essere lucido ora che ti interrogheranno. Pensa a quello che devi dire: non devono esserci ombre.

Sergio                       - Già, certo. Tutto chiaro. «Alle ore... è accaduto così ». Come se queste cose si potes­sero ridurre in un verbale. Sai cosa dice Norma? Che l'ho ammazzata io!

Marta                        - Norma è una bambina sconvolta. Non complicare.

Sergio                       - E se fosse vero? Che ne sappiamo noi di quello che facciamo? Di quello che possiamo provocare con i nostri atti, con le nostre parole?

Marta                        - Ti prego, non eccitarti. Mi pare tutto così chiaro. Non era una donna normale. La cono­scevo. S'era incapricciata di te. Ma tu non la vo­levi. Perché avresti dovuto?

Sergio                       - Certo, perché? Ma, vedi, non è tutto. Non ti ho detto tutto. Pensavo che non l'avrei detto a nessuno. Ma è meglio che tu lo sappia... Mi ero fatto dare dei soldi, da lei. In principio... in principio non volevo. Ma avevo perso al gioco, molto. Mi mise in tasca un assegno, quando lo seppe. Volevo ridarglielo, strapparglielo sul viso. Ma ero... ero nei guai. Pensai che in fondo... in fondo c'è tanta gente che lo fa. Tanti che io conosco. Così lo tenni. E poi ancora un'altra volta, e un'al­tra... Capisci ora?

Marta                        - (volutamente calma) Giochi molto?

Sergio                       - Sì. Ma non credere... Non sono una vittima del demone, è un modo come un altro di fare qualcosa. Anche nei vizi noi siamo dei mediocri.

Marta                        - Stefano lo sa?

Sergio                       - Oh, lui!

Marta                        - Sembra che tu lo odii, da come lo dici.

Sergio                       - No, perché dovrei?... E' mio padre, no?

Marta                        - Ma non lo ami.

Sergio                       - Lascia stare.

Marta                        - Perché? Ci ho pensato, talvolta, a voi, a questa vostra vita. Ho cercato d'immaginarla. Non è facile capire Stefano. Per me è diverso...

Sergio                       - Per te e anche per gli altri. Sono tutti pazzi di lui. E' grande.

Marta                        - Sì, lo è.

Sergio                       - Siamo noi troppo piccoli. Troppo me­diocri. Cosa siamo io e Norma? Due ragazzi vi­ziati. Forse lui sperava di farne qualche cosa di noi. O forse no. Porse preferisce così, lasciarci nell'ombra. Il fatto è che siamo molto diversi da lui. Il genio non si eredita, lo sai.

Marta                        - Sei cattivo con te stesso, Sergio.

Sergio                       - E' la verità. Credi che non lo sappia? Che non abbia schifo di tutto questo? Di questa vita, di questa casa? Che ne sai tu di come vivia­mo... Stasera sei qui perché è scoppiato un bub­bone. Ma non è che un episodio. Siamo marci tutti.

Marta                        - Sei un ragazzo troppo solo, ancora oggi, Sergio. E' soltanto questo.

Sergio                       - Già, una diagnosi semplice. Può anche essere buona. E' un fatto che la nostra vita, nel fondo, non è stata mai allegra. Vedi, se potessi fissare tutti questi anni in una sola immagine, sa­rebbe quella di me stesso in mezzo a tanta gente, a tanta gente che parla continuamente di lui, di Stefano Renzi. Ma è difficile spiegarti.

Marta                        - Sì, posso capirlo.

Sergio                       - Scuole, collegi, alberghi, pensioni. Ho viaggiato molto da piccolo. Ogni anno si cambiava. E sempre nuova gente intorno: amici, amiche, am­miratori, impresari, creditori. Tutta una corte, più o meno ai suoi ordini. E noi, io e Norma, era­vamo sempre un difficile problema. Forse un no­ioso problema: non c'era posto per noi in quel genere di vita. Oh, non che fossero cattivi con noi. Non lo potevano: eravamo i figli di Stefano Renzi. Una cosa strana. Tutti erano pronti a sorriderci, a regalarci giocattoli e chicche e carezze. Ma solo perché aspettavano lui, e quando lui compariva, via, via tutti. Restavamo con le cameriere. Anche ora... Tu non sei venuta qui, prima di oggi. Non sai come si vive. Questa non è una casa. E' un albergo. Ognuno si alza quando vuole, mangia da solo, e poi, a tutte le ore, gente che arriva, che aspetta, che telefona. Ogni tanto ci troviamo tutti e tre, per caso, e ci comportiamo come degli estranei in visita.

Marta                        - E' triste ciò che dici, Sergio. E' triste: perché io so quanto lui vi ami.

Sergio                       - L'ho forse negato? L'ho forse messo in dubbio? Non è colpa sua. O è colpa sua solo alla origine: perché non doveva metterci al mondo, ecco. Uno come lui... non ha il diritto di avere dei figli. Oppure bisogna che siano come lui.

Marta                        - Ma se tua madre non fosse morta così presto...

Sergio                       - Può darsi. Ma anche lei era un'attrice. Ed io, invece, te lo confesso, odio il teatro. (Rumore fuori della porta a destra. Passi).

Marta                        - C'è qualcuno. (Entra Stefano, accom­pagnato da Giovanni, il cameriere, che porta una valigetta. Stefano ha cinquant'anni, ma ne dimo­stra, naturalmente, di meno. Veste con eleganza. In ogni suo gesto, in ogni sua parola, si sente il grande attore, l'attore di razza e di temperamento. E' sempre difficile distinguere in lui l'uomo dal personaggio, perché ha il teatro nel sangue).

Stefano                     - (al cameriere) Vai pure a letto, Gio­vanni. Lascia la roba in camera mia. Oggi sve­gliami a mezzogiorno.

Giovanni                  - Buona notte, signore. (Via a destra).

Stefano                     - (avanzando verso il centro della scena vede Marta e Sergio che sono seduti un po' in pe­nombra. Gesto di lieve stupore) Marta, sei qui? Sei sparita senza dirmi nulla. Ma c'è anche Sergio. Ecco un bell'incontro. Hai saputo del successo di stasera? Veramente una bella serata. Tu, Marta, sei stata magnifica. Lo diceva anche quella lingua malefica di Vallarico...

Marta                        - (gli va incontro, lo prende per il braccio, quasi volesse parlargli da solo) Stefano, è acca­duto qualche cosa di molto spiacevole.

Stefano                     - Cosa? (Si guarda intorno, allarmato) Dov'è Norma? Mio Dio non...

Marta                        - No, Norma non c'entra. Ascolta. Devo dirti in fretta. Sta per arrivare la polizia.

Stefano                     - La polizia? Marta, cosa dici? (Si siede sul bracciolo di una poltrona).

Marta                        - Vanna D'Antoni, un'amica di Sergio e di Norma, tu la conosci...

Stefano                     - Sì...

Marta                        - Le è accaduta una disgrazia. Forse era ubriaca, o esaltata. Non si sa bene. Insomma s'è uccisa.

Stefano                     - No! S'è uccisa? Ma perché? Dove?

Marta                        - Qui, nella stanza di Sergio. E' ancora lì.

Stefano                     - (alzandosi di scatto) No, no, per ca­rità di Dio. Un pover'uomo rientra stanco, dopo una serata come questa. Vuol stare solo, a casa sua, solo, finalmente, solo, e in pace... E... Dio mio, figurati il chiasso, ora, le chiacchiere, i giornali. Ma perché proprio qui? Perché nella stanza di Sergio?

Sergio                       - Mi dispiace, papà. Ti giuro che se lo avessi potuto immaginare a tempo l'avrei accom­pagnata altrove, magari in strada, perché si spa­rasse là, e non ci recasse, non ti recasse tanto di­sturbo. (Stefano che stava camminando per la stanza, sì ferma davanti al figlio, lo guarda un momento senza parlare).

Marta                        - (avvicinandosi) Non discutiamo, ora, Stefano. La polizia dovrebbe già essere qui. Vor­ranno sapere molte cose. Bisogna parlare con loro, convincerli che nessuno ha colpa, e vedere di te­nere la notizia nascosta il più possibile. Forse tu potrai ottenerlo.

Stefano                     - Figurati se sarà facile. Con tutti questi giornali.,. E col mio nome di mezzo! Un'occasione troppo buona per loro!

Sergio                       - Scusami, papà, ma non capisco cosa c'entri il tuo nome questa volta. Se quella s'è am­mazzata è colpa mia...

Stefano                     - Che vuol dire colpa tua?

Marta                        - Sergio è un po' sconvolto. Si capisce. La verità è che era ubriaca: era ubriaca, ecco tutto.

Sergio                       - No, non mentire. Marta. Un po' di verità farà bene a tutti. Anche a lui. (Alludendo a Stefano).

Stefano                     - (sì ferma davanti al figlio, lo guarda e siede sulla poltrona) Non ti capisco, ragazzo. Vuoi parlare con un po' di coerenza?

Sergio                       - Non hai capito? S'è ammazzata perché io non la volevo.

Stefano                     - Non essere sciocco! (Ridendo) Non era una bambina, lei! La conoscevo, lo sai. Aveva quasi dieci anni più di te. Da quando io me la ricordo l'ho vista sempre correre dietro a qualcuno.

Sergio                       - Può darsi. Ma io non avevo il diritto di respingerla, dal momento che m'aveva pagato.

Stefano                     - Pagato? Ma sei ubriaco!

Marta                        - E' eccitato, Stefano. E fa una terribile confusione nei suoi pensieri.

Sergio                       - Pagato, pagato! M'ha dato del denaro, parecchio. Ed era sottinteso cosa volesse in cambio. Accettandolo io avevo perso il diritto di... Invece l'ho insultata; e le ho detto dov'era il revolver. Adesso sai come stanno le cose.

Stefano                     - (resta un attimo in silenzio. Vede i li­quori e si versa da bere) Crescono in fretta que­sti ragazzi, non c'è che dire. Ora ti senti più impor­tante, vero, Sergio?

Sergio                       - Mi sento molto tuo figlio, papà. (Pausa. Abbassando la voce) Scusami, non volevo...

Marta                        - Te l'ho detto, Stefano. E' sconvolto. Bisogna calmarlo.

Stefano                     - Senti, Sergio...

Sergio                       - (alzandosi d'impeto) No, ti prego. Ora no. Sono calmo, calmissimo. State tranquilli: non vi metterò nei guai. Tu, papà, non c'entri: non sai niente. (Squillo prolungato di campanello. Tutti e tre restano un attimo immobili. Poi Marta si scuote, esce a destra. Passi e voci nell'anticamera. Marta rientra precedendo il commissario che è se­guito da un dottore, due infermieri con una let­tiga, due agenti).

Marta                        - (attraversando la scena seguita dagli altri) Di qui, commissario.

Il Commissario         - E' tutto in ordine?

Marta                        - Sì, come l'abbiamo trovata. Nessuno ha toccato niente.

Il Commissario         - (sì ferma un momento davanti a Stefano e a Sergio che hanno accennato un sa­luto) Buona sera. Avrò bisogno di parlare un momento con loro, dopo. Vogliono attendermi? (Entra a sinistra seguito dagli altri. Marta chiude dietro a loro la porta. Da destra entra Norma, in silenzio: va a sedersi sul divano, mentre Stefano e Sergio, in piedi, al centro della scena, la guardano).

Stefano                     - Cara, avresti fatto meglio a startene in camera tua, non credi?

Norma                      - Perché? Perché avrei dovuto mancare a questa bella e rara riunione di famiglia?

Marta                        - (a Stefano) E' molto eccitata anche lei. Non è stato uno spettacolo piacevole.

Stefano                     - No, lo capisco. Siamo tutti sconvolti. (Con impeto) Ma perché... quella pazza!

Norma                      - Taci! Non insultarla anche tu!

Stefano                     - Non la insulto. Ma era pazza. E' chiaro. E ci ha messo in una bella situazione. Non lo capite?

Sergio                       - Certo, terribile! Non per lei, per Vanna, per quello che le è accaduto... Tu non l'hai nean­che vista... Per noi, per te, per lo scandalo. Non è una commedia, questa. Non si sa come andranno le cose. La polizia non scherza. Che ne sa di pre­ciso? Vorrà andare a fondo, indagare su noi, su me, su questa, strana famiglia. Chi dice che vera­mente si è uccisa? In ogni caso io, il figlio di Ste­fano Renzi, non ci farò una bella figura! E' a questo che pensi, papà?

Norma                      - Pensa a se stesso, al suo nome, è chiaro. Che gl'importa a lui di Vanna? Non l'hai visto il gesto con il quale ha detto « era una pazza »? L'ha spinta fuori del suo pensiero come una cosa ingombrante e sudicia.

Stefano                     - (durante queste due ultime battute s'è avvicinato al caminetto, voltando le spalle al pub­blico, in silenzio. Ora si volta lentamente, guarda i due figli. Dopo una pausa) Basta ora. Vi ho ascoltato abbastanza. Siete due ragazzi spauriti. Niente altro. Nelle mani di quelli là finireste col dire delle cose assurde, irragionevoli. Non posso lasciarvi compromettere in questa storia. Vi dareb­bero in pasto al pubblico, ben lieti di colpirmi attra­verso voi. (A Marta) La polizia non sa ancora nulla di preciso, vero?

Marta                        - No. Ma cosa vuoi fare?

Sergio                       - Non hai sentito? E' di nuovo lui di scena. Ha già una parte pronta. Ora la reciterà.

Stefano                     - Sì, proprio così. Voi non c'entrate, non sapete niente. Voi due eravate in camera di Norma. Tu, Marta, sei arrivata dopo. Con quella donna c'ero soltanto io.

Norma                      - (con un grido) No!

Stefano                     - Sì. Io dirò che amava me. Che mi correva dietro...

Sergio                       - E' mostruoso, è un'infamia!

Stefano                     - E' vero. C'è solo un errore di data.

Sergio                       - Cosa inventi ora?

Norma                      - Sta recitando, vedi? Ha inventato un nuovo particolare.

Stefano                     - E' così. E' stato l'anno scorso. Non vorrei dover parlare di queste cose con voi. Sono vostro padre, e vi ho tenuti sempre lontani da un certo mio mondo. Non pensavo che ci si può insu­diciare anche fuori, anche qui. Comunque, ora devo dirlo. Ha provato con me, hai capito, Sergio? Prima con me. Non mi dava pace. Una notte, a Milano, me la son trovata in camera all'albergo. Il giorno dopo le ho parlato chiaro. Forse ha comin­ciato a frequentare te più tardi. Non so...

Norma                      - Non credetegli! Recita.

Stefano                     - E' vero. Marta lo sa.

Marta                        - Sì. Ma anche tu hai colpa, Stefano. Dovevi avvisare Sergio, metterlo in guardia subito.

Sergio                       - Perché avrebbe dovuto farlo? Che ne poteva sapere lui che io fossi così schizzinoso? Era tutto molto semplice: bastava che me la portassi a letto anch'io e nulla sarebbe accaduto. Niente colpo di pistola, niente dramma, tutto per bene!

Stefano                     - Forse domani parleremo con più calma, Sergio, e ti accorgerai- di quanto tu sia ancora sciocco e giovane. Ora bisogna pensare solo ad evitare il peggio.

Sergio                       - No. Tu t'inganni se credi che io per­metterò... E' vile, non capisci?

Stefano                     - Mi congratulo, ragazzo. Il coraggio ti viene fuori ora, quando si tratta di mettere nei guai gli altri. Tutti. Cominciando da me, da tuo padre,

Sergio                       - Ma non sei tu che vuoi metterci fuori per fare tutto da solo? Non sei tu che ancora una volta vuoi startene alla ribalta e recitare da prota­gonista? E allora?

Stefano                     - Sì. Perché niente può fare più male a me, niente può più sporcarmi. E poi, tutto è più logico. Un attore celebre, anche se non ha i tuoi vent'anni, ha sempre qualche donna che gli corre dietro, qualche donna che può perdere la testa per lui. Il pubblico non si stupisce troppo di una storia così. Non ci fa caso...

Sergio                       - (amaro, indignato) No, non ci fa caso. Dice « che stupida ». E la sera viene a teatro a batterti le mani. Così avrete anche un bel suc­cesso di cassetta. Hai sentito, Marta? Anche a te l'idea comincia a piacere, vero?

Marta                        - Credi proprio?

Sergio                       - Che ne so. Che ne so io di voi?

Stefano                     - E' così. Non sai niente, ragazzo. Non sai niente e credi di sapere tutto. Non sapete niente. Non vi curate che di voi stessi. E avete una gran fretta di muovervi, senza però sapere dove volete arrivare. Ma non è che un impulso meccanico, non c'è in voi né volontà né sentimento. E al primo urto restate là immobili, pieni di ira, come dei ra­gazzi impotenti. (Si apre la porta a sinistra. Entra il commissario e va verso Stefano).

Il Commissario         - Il signor Stefano Renzi, vero? L'ho riconosciuta subito. Stanno rimuovendo il corpo. Lo trasportano dall'altra uscita.

Stefano                     - Credo che basterà parlare tra noi due. Vuole che andiamo nello studio? (La porta a sini­stra è rimasta aperta e tutti guardano verso quella parte come se vedessero il macabro spettacolo. Nor­ma, sul divano, stringe convulsamente tra le mani le scarpe di Vanna. Sergio si passa le mani tra i capelli. Marta gli ha appoggiato una mano, sulla spalla. Stefano avviandosi verso sinistra) Prego, di qua, commissario.

ATTO SECONDO

La stessa scena del primo atto, due giorni dopo. E' un tardo pomeriggio.

(Quando si alza il sipario, la scena è vuota. Ma subito, da destra, entra Marta, seguita da Gio­vanni, il quale accende la lampada del salotto).

Marta                        - Il signore è in camera sua, Giovanni?

Giovanni                  - Sì, signora.

Marta                        - I ragazzi?

Giovanni                  - Anche loro. Non s'è visto nessuno.

Marta                        - Ancora nervosismo in giro, vero?

Giovanni                  - Sì. Hanno mangiato quasi niente. E ognuno per conto proprio. Come al solito, del resto.

Marta                        - Sono preoccupata per Norma. E' così inquieta...

Giovanni                  - Anche il signor Stefano e il signorino sono preoccupati. Hanno tentato tutti e due di andare da lei. Ma non ha voluto aprire.

Marta                        - Proverò io, ora. Se il signor Stefano mi cercasse, sono di là. (Via a destra. Giovanni gira per il salotto riordinando).

Stefano                     - (entra da sinistra) E' venuta la si­gnora Marta?

Giovanni                  - Sì, signore. E' andata dalla signorina.

Stefano                     - Speriamo che almeno lei riésca a par­larle. (Suonano a destra. Giovanni esce e rientra subito).

Giovanni                  - C'è il signor Gismondi. Dice che ha appuntamento.

Stefano                     - Sì, sì. Fallo entrare. (Giovanni fa passare Gismondi, poi via a destra. Stefano an­dando incontro al visitatore) Avanti, caro amico. Si accomodi. (Gli indica una poltrona, siede anche lui) Mi ha telefonato il suo direttore. Ma non c'era bisogno. Io la conosco. Leggo spesso i suoi articoli.

Gismondi                 - Grazie. Spero di non disturbarla troppo.

Stefano                     - Ma no. Perché? Posso offrirle qual­che cosa? Tè, caffè, un liquore?

Gismondi                 - Un liquore, grazie.

Stefano                     - Benissimo. Vediamo; un gin?

Gismondi                 - Un gin. Grazie. (Beve).

Stefano                     - (guarda un momento l'altro, come inter­rogando) Il suo direttore mi ha parlato di un'in­tervista. Penso che vogliate sapere qualche cosa del dramma che stiamo dando. Ha avuto successo, indubbiamente. Ma non le dico il lavoro...

Gismondi                 - (interrompendolo) Veramente... Devo confessarle che mi sento un po' imbarazzato.

Stefano                     - (ridendo) Oh, questa poi... Un gior­nalista che si sente imbarazzato! E un giornalista come lei! Andiamo, chieda pure.

Gismondi                 - Ecco, signor Renzi. Lei... Non è un giorno che sta nel teatro... Conosce bene l'am­biente. Sa quanto sia pettegolo. Come facilmente si chiacchieri...

Stefano                     - (teso) Ebbene?

Gismondi                 - Bene: da due giorni corrono delle voci. Si collega in qualche modo a lei la storia di Vanna D'Antoni. Sa, la sua morte ha fatto un po' di chiasso. La conoscevano tutti. I giornali ne hanno parlato poco, invece. Come di una di­sgrazia. Non dicendo dove e come sia accaduta. Ma c'è qualcuno che ha messo in giro la voce...

Stefano                     - Quale voce? Si spieghi.

Gismondi                 - Ecco, dicono che si sarebbe am­mazzata qui, in casa sua. E che lei è riuscito a mettere la cosa a tacere. Almeno in parte.

Stefano                     - (si alza, concitato) Le voci... Chiac­chiere! Non mi interessano. Non sono disposto a raccoglierle!

Gismondi                 - Questo non vuol dire che esse ces­seranno. (Si accende una sigaretta) Vede, signor Renzi, ci sono molti tipi di giornali. Ci sono quelli seri, come il mio, che prima di raccogliere una di queste voci ci pensano sopra, cercano d'infor­marsi, di controllare. Ma ci sono anche gli altri, quelli che di un pettegolezzo fanno una notizia e la sparano senza esitare. I particolari, se non li hanno, se l'inventano. Non mi stupirebbe che ci fos­se qualche cosa, domattina, su uno di questi giornali.

Stefano                     - (si rimette a sedere) Non c'è mai tregua, dunque? Mai niente che vi fermi in que­sta vostra maledetta corsa allo scandalo? Pensavo che trent'anni di lavoro bastassero a guadagnarmi un po' di rispetto. Ma è inutile: questo è un mondo di cannibali!

Gismondi                 - Signor Renzi, io...

Stefano                     - (interrompendolo, con gesto deciso) Lei non ha colpa. E' uno schiavo del suo me­stiere, come io del mio. Lo sa bene: schiavi del pubblico, degli altri, di quelli che conosciamo e perfino di quelli che non conosciamo. Non ab­biamo diritto neanche a questo... (indica vaga­mente la stanza) ad una casa, ad un piccolo an­golo qualunque dove poterci rifugiare, dopo aver chiuso la porta. Nossignori! Non basta passare metà della propria vita su un palcoscenico con gli occhi di migliaia di persone addosso. Non basta! Il pubblico ce lo portiamo sempre appresso, ci segue anche fuori, in casa, vorrebbe vederci anche a letto, vorrebbe vederci nudi, magari per sco­prire finalmente che abbiamo le vene varicose, o la pancia. Tanto per ringraziarci delle emozioni che gli abbiamo dato, o per vendicarsi della ge­losia che ha provato per noi... Questa è la verità, amico mio.

Gismondi                 - Signor Renzi, le ho detto subito che ero imbarazzato.

Stefano                     - Questo non le impedirà, mio caro, di scrivere un magnifico articolo appena che io gliene dia la possibilità. (Ride) E perché no? Do­vrei esserci abituato ormai, dopo tanti anni. E' sempre stato così.

Gismondi                 - Tuttavia, se le è penoso...

Stefano                     - Penoso? Penoso è un po' poco. Ma non importa. Ha ragione lei: meglio mettere tutto in chiaro, piuttosto che lasciar inventare chissà cosa. Beva ancora un gin, amico mio: E non mi dica più di essere imbarazzato. Io non merito ri­guardi: devo pur pagare la mia celebrità. (Bevono) Dunque, lei vuol sapere di Vanna. Spero che ca­pirà esattamente. Non che ci sia poi molto da capire. E' una storia banale. Se qualcuno me la raccontasse in un copione non ci perderei neanche il tempo a leggerla. Lei stesso, se non ci fossero quelle voci che girano, non se ne sarebbe occupato. Di donne che si ammazzano ce n'è sempre tante, no? ;

Gismondi                 - Direi di sì.

Stefano                     - Ma questo è un caso particolare. Perché... diciamolo pure: perché ci sono io di mezzo. Questo dicono in giro, vero? (Guarda intensamente l'altro, come per avere una conferma) Che s'è ammazzata per me?...

Gismondi                 - (un po' imbarazzato) Sì, più o meno.

Stefano                     - Ecco. E allora diventa una storia im­portante. La sartina che prende il veleno perché l'ha abbandonata il fidanzato non interessa nes­suno: ci fanno due righe in cronaca e basta. Ma la ricca sfaccendata che corre dietro al celebre attore e, respinta, si spara un colpo di pistola, aiutata da una buona dose di whisky, fa chiasso. Tanto da mettere in moto un giornalista come lei. (Pausa) Lei la conosceva?

Gismondi                 - Sì, abbastanza. L'ho vista qualche volta in compagnia di suo figlio, Sergio, mi pare.

Stefano                     - Sergio?... Col ragazzo. Sì, certo. An­che questo è un lato della storia. Il meno sim­patico. D'altra parte la gente chiacchiera, e non sa. Ha una gran voglia di gettare fango su di noi, in qualsiasi modo. E allora bisogna pur difen­dersi, no?

Gismondi                 - Parli, parli pure, signor Renzi. Non si preoccupi. 11 mio giornale le è amico:, pubbli­cheremo solo ciò che lei vorrà.

Stefano                     - Sì, certo, lo so. Ma non è questo. E' per quella donna. D'altra parte si sa chi era. Non più una bambina. Ma mai interamente donna, nel senso della compostezza, almeno. Anormale, per certi aspetti. Come dire? Affamata, diciamo, affa­mata di sensazioni, di novità, inquieta, pronta a prendere tutto terribilmente sul serio. Di quelle che si gettano su ogni uomo come se sempre fosse il primo...

Gismondi                 - Sì, lo so. Capisco.

Stefano                     - Allora il resto è semplice. Viene da sé. Io sono un attore che si è fatto un certo nome, ho sempre fatto colpo sulle donne. Lei mi aveva visto recitare, ha cominciato a darmi la caccia. E' riuscita a farsi presentare, poi è divenuta sempre più insistente. Veniva in teatro, mi seguiva al ri­storante, la trovavo nei locali che ero solito fre­quentare. Credo che per lei questp di dare la caccia agli uomini cominciasse come un gioco divertente. Ma poi... poi finiva col crederci. Comunque per me divertente non era. Io ho così poco tempo per la mia vita. E quel genere di donne non mi interessa.

Gismondi                 - Sì, è chiaro.

Stefano                     - Glielo dissi, fin troppo brutalmente. Cercai di prenderla in burla. Le parlai dei miei capelli bianchi...

Gismondi                  - Che non si vedono...

Stefano                     - (sorridendo suo malgrado) Già, che non si vedono. Comunque fu peggio. Respinta, finì col prendere sul tragico quello che in prin­cipio era solo uno scherzo. Divenne un'ossessione. Andai in giro con la compagnia, e lei sempre dietro, In ogni piazza in cui arrivavo lei era già lì ad aspettarmi. Mi scriveva lettere terribili. Natural­mente le ho distrutte.

Gismondi                 - Fino a quando...

Stefano                     - Già. Fin quando... Ma sono passati molti mesi prima. Non riuscendo più ad avvici­narmi con facilità, fece amicizia con Sergio e Nor­ma, i miei figlioli. Così arrivò fin qui, fin dentro casa mia. (Pausa) Pensandoci, ora, io credo che ella non fosse presa tanto di me, di questo che lei vede qui, l'uomo, il padre di due ragazzi, quanto di Stefano Renzi, l'attore, quello che lei ogni sera vedeva a teatro, quello che lei udiva dire le parole di Amleto, di Brand, di Liolà. Le donne hanno più fantasia di noi, specialmente quel tipo di donne. Per noi un personaggio è un personaggio. Poi cala il sipario e torniamo noi stessi. Ma lei, evidentemente, continuava a veder­mi così, sempre. E non me quindi amava, capisce, ma loro, quei personaggi ai quali io davo ogni sera voce ed anima.

Gismondi                 - Sì, probabilmente è così.

Stefano                     - Tuttavia la gente questo non lo ca­pirà. Dirà che. si è uccisa per me. Ma che potevo fare, mi dica, che potevo fare io?

Gismondi                 - Come, precisamente, è avvenuto?

Stefano                     - L'ho trovata qui, tornando dal tea­tro. Mi aspettava.

Marta                        - (entrando da destra) Stefano, scusami, volevo... (Si ferma vedendo l'altro) Oh, mi di­spiace. Credevo fossi solo.

Stefano                     - (andandole incontro) Vieni, cara, vieni. Non fa niente. Il signor Gismondi è un amico, un giornalista. Lei conosce Marta, vero?

Gismondi                 - (baciando la mano a Marta) Si­gnora...

Stefano                     - Siedi qui con noi, cara. Gismondi è venuto per quella disgraziata storia. In giro ne parlano già. Allora ho dovuto dirgli come stanno le cose perché non lavorino di fantasia.

Marta                        - Oh, io speravo che di tutto ciò non si parlasse. Che una volta tanto si avesse un po' di comprensione.

Gismondi                 - Purtroppo, signora, come ho detto al signor Renzi...

Stefano                     - (interrompendolo) Sì, sì. Tu sei an­cora giovane, Marta. Non immagini fino a qual punto si arrivi quando si vuole... Lasciamo stare. Comunque, le ho già detto tutto, Gismondi. Non credo ci sia altro...

Gismondi                 - Sì, l'ha trovata qui tornando da tea­tro, ha detto.

Stefano                     - Vuole anche i particolari. Va bene. Era qui. Era esasperata perché il giorno prima le avevo detto chiaramente di lasciarmi in pace, di non cercarmi più. Aspettandomi aveva bevuto, molto. Io arrivando ho cercato di mandarla via. Ma lei mi ha seguito anche in camera. Ha inco­minciato a fare discorsi sconnessi, a frugare nei cassetti, Non so come, le è capitata fra le mani una pistola...

Gismondi                 - Ora so tutto.

Stefano                     - Sì. Così. Credevo recitasse, natural­mente. Quando, allarmato, mi sono avvicinato per toglierle il revolver, s'è sparata.

Gismondi                 - Una storia spiacevole. Ma lei non ha colpa, signor Renzi: è evidente.

Stefano                     - Sì, almeno spero. Non si può mai dire. Comunque conto sulla sua amicizia. Lei capisce...

Gismondi                 - Certo, stia certo. Le sono molto grato: ma vedrà che è meglio così. Meglio sem­pre la verità.

Stefano                     - Sì, la verità.

Gismondi                 - (alzandosi) Tolgo il disturbo, signor Renzi. Lei è stato molto cortese. Grazie ancora. (Inchinandosi a'Marta) Signora...

Stefano                     - (avviandosi con l'altro verso destra) L'accompagno. (Escono a destra. Subito dopo Ste­fano rientra).

Marta                        - Stefano, come hai potuto?

Stefano                     - Ti prego. Sono stufo di questa storia. Se credi che per me sia piacevole! Ma tu almeno hai il dovere di capirmi.

Marta                        - Non credere che sia sempre facile, Stefano.

Stefano                     - (si siede sul bracciolo della poltrona, vi­cino a Marta, le passa affettuosamente la mano sui capelli) Sì, hai ragione. Ma in questo caso non è difficile. Pensaci un attimo. Cosa dovevo fare? Lasciar coinvolgere Sergio? E' un ragazzo, e non sempre è lucido. Come sarebbe andata a finire? Vedi che già in giro chiacchierano? Sono pronti a gettarci addosso manate di fango. Pensa a tutta la gente che mi odia, che mi invidia. Sarebbe ben felice di potermi colpire alle spalle attraverso mio figlio.

Marta                        - Sì, ma bisognerebbe far capire questo a Sergio. Bisognerebbe che non gli restasse l'im­pressione... Che non abbia idee sbagliate.

Stefano                     - Che idee? Cosa pensa?

Marta                        - Ecco, Stefano. Non tutto è chiaro fra te e lui. Io non so di chi sia la colpa. Ma ho l'impressione che parliate due linguaggi diversi. E questa volta le cose sono peggiorate.

Stefano                     - Cosa pensa, di'? Cosa pensa. Che io gli abbia soffiato la parte? Per farmi bello, per il gusto di recitare... No... E' mostruoso!

Marta                        - Ho paura di sì. T'ho detto che c'è molta incomprensione tra voi. Dovresti fare uno sforzo, avvicinarti a lui, cercare di comprenderlo.

Stefano                     - Comprenderlo? Come se fosse facile! Che ne sappiamo noi di questi ragazzi? Chi li capisce? Sai tu cosa vogliono? E' stato tutto così diverso per me, trent’anni fa... Io sapevo bene cosa volevo, lo dicevo forte, a tutti. La vita non era stata generosa con la mia infanzia. Se ripenso a tutte le busse che ho preso. Alle umiliazioni che ho patito. E poi, più tardi, alle candele che ho consumato per leggere, per studiare... Ma sapevo cosa volevo. E l'ho realizzato. Ma Sergio? Che vo­gliono questi ragazzi? Cosa pensano? Cosa hanno fatto finora? Stanno lì a guardarti, se li interroghi ti guardano dall'alto, ti accusano di essere vecchio, di non capirli... (Da destra entra Franco; vedendo i due, resta sulla porta imbarazzato).

Franco                      - Pardon. Credevo ci fosse Sergio.

Marta                        - (a Stefano sottovoce) Ora che ci penso... Lui era qui, l'altra notte. Parlerà in giro. Sa tutto...

Stefano                     - Lui... era qui? (A Franco) Avanti, giovanotto, venga avanti. Sergio è in camera sua. Sieda un momento.

Franco                      - Grazie. (Siede).

Stefano                     - Lei era qui l'altra notte, vero?

Franco                      - Sì.

Stefano                     - Già. Ora capisco come mai circolino certe strane voci, malgrado la polizia abbia tenuto coperto il fatto...

Franco                      - Lei vuol dire... che io...

Stefano                     - Esattamente.

Franco                      - Be', vede, le dirò... io...

Stefano                     - No, non dica nulla. Le dirò io, in­vece. Stia attento. Domani i giornali daranno una certa versione del fatto, una versione che forse po­trà stupirla. Tuttavia desidero vivamente che lei ritenga questa versione la sola autentica. E' abba­stanza chiaro?

Franco                      - Signor Renzi, io non capisco perché lei mi parli con questo tono. Io sono un amico.

Stefano                     - Un amico? Di Sergio? Può darsi. Francamente le dirò che non lo sapevo. Se l'avessi saputo non l'avrei approvato. Certo, non avrei per­messo che lei frequentasse questa casa.

Franco                      - Mi pare che lei non faccia compli­menti.

Stefano                     - No. Con tipi come lei, no. La conosco bene, io, sa? E come me, la conoscono in tanti.

Franco                      - Non capisco assolutamente cosa voglia dire.

Stefano                     - Vuole che parli chiaro? Che le ri­cordi i quattrini che lei si fa dare dalla marchesa D'Ambrais? E la notte in cui l'hanno gettato fuori del circolo per certi giochetti con le carte? E la sua strana amicizia con un certo barone al quale sparì il portafogli?

Franco                      - (pallido) Pettegolezzi. Chiacchiere.

Stefano                     - Può darsi. Come quelli che lei ha fatto sulla storia dell'altra notte, qui. Comunque, se fosse necessario, c'è sempre qualcuno al quale potrebbero interessare. Mi sono spiegato?

Franco                      - Non avrei immaginato che improvvi­samente lei si scoprisse moralista!

Stefano                     - Stupido mascalzoncello! Esca di qui.

Franco                      - Sì. Tuttavia non vedo perché lei do­vrebbe farmi la predica. Non credo che qui den­tro tutto sia cristallino. Provi a guardarsi in giro più attentamente.

Stefano                     - Fuori.

Franco                      - Me ne vado. I miei rispetti. (Via a destra. Pausa).

Stefano                     - E quello è un amico di Sergio?

Marta                        - Credi che non racconterà in giro...

Stefano                     - No. Sta' tranquilla. Potrei rovinarlo. Conosco il tipo. Ma qui dentro non deve mettere più piede. Hai sentito l'insinuazione? Voleva met­termi sul suo piano. Perdio, non sono uno stinco di santo. Tu conosci la mia vita, lo sai...

Marta                        - Oh, solo una parte della tua vita. Quella di questi ultimi sette anni...

Stefano                     - Anche il resto. La conoscono tutti. Cos'è che non si sa di me? Ho avuto una vita dura. Momenti spaventosi. Ho commesso tanti errori, lo ammetto. Ho avuto delle donne...

Marta                        - Un'infinità...

Stefano                     - Per anni ho bevuto come un folle, ho giocato, ho fatto debiti. Il danaro non basta mai! Ma tutto ha un limite. C'è una morale anche per noi. Va bene che oggi è di moda farsi dare soldi dalle vecchie pazze. Ma, moda o no, restano delle porcherie. E mi danno allo stomaco. E' un'al­tra cosa. Se io ho peccato, ho cercato di non far male a nessuno. E ho pagato di persona, sempre!

Marta                        - Sì, caro. (Lo accarezza sulle tempie) Forse non andrai all'inferno. Comunque hai an­cora tempo per pentirti.

Sergio                       - (entrando da sinistra) Scusatemi. Ma aspettavo Franco.

Stefano                     - (alzandosi e avviandosi verso destra) Credo che non verrà più.

Sergio                       - Perché? Cosa vuol dire?

Stefano                     - L'ho cacciato fuori di qui. Non mi piace che tu e tua sorella frequentiate tipi del ge­nere.

Sergio                       - Ma guarda! Improvvisamente tu ti oc­cupi dei nostri amici! (Guardando Stefano e Mar­ta) Che succede?

Stefano                     - (tornando indietro verso Sergio) Ascol­tami, ragazzo. Dovrai riconoscere che ti ho sempre lasciato molta libertà e che non ti ho mai chiesto nulla. Ma il fatto che quel signorino giri qui per casa è troppo. E credo non ci sia bisogno ch'io ti dica il perché. Credo che tu lo " conosca abba­stanza.

Sergio                       - Oh, la gente dice tante cose! Non cre­dere che parli meglio di noi. Di me e di te... (Ste­fano colpisce Sergio al viso, con la mano. Poi resta immobile. Sergio non si muove e non parla. Guarda Stefano quasi senza espressione, Stefano fa un gesto d'ira ed esce in fretta, a destra. Ser­gio si passa la mano sul viso. Lentamente si lascia cadere sul divano. Pausa) Giuro che non lo ca­pisco. Che gli ha preso, ora?

Marta                        - Questa volta mi pare abbia ragione, Sergio. Dico sul conto di Franco.

Sergio                       - Va bene. Mettiamo anche che sia vero quello che dicono. E con questo? Credi che noi, che lui, si abbia il diritto di scandalizzarci?

Marta                        - Stefano non intende erigersi a giudice. Ma c'è un limite!

Sergio                       - Ma no, non è questo. E' che lui è Stefano Renzi: e allora, si capisce, tutto è giusti­ficato, tutto gli è permesso!

Marta                        - Ti prego, Sergio. Cerca di essere equa­nime. Non farlo peggiore di quello che è. E ri­cordati, se ti riesce, che è tuo padre.

Sergio                       - Ma quello che ha fatto l'altra notte l'hai dimenticato, di'? Ti pare niente anche quello? La facilità con la quale ha mentito, la scena che ha recitato... E come ne godeva! Non l'hai visto tu! Come si è affrettato a gettarsi davanti, a dire: «sì, si è uccisa per me». Che importava a lui di quella disgraziata! Non era che una occasione, un'ottima occasione per recitare una bella parte, per farsi della pubblicità. E ora fa il moralista!

Marta                        - Sergio, tu non puoi credere sul serio questo! Non è vero!

Sergio                       - Sei tu che cerchi di non crederlo! Sei tu che fai il possibile per non crederlo. Ma dentro di te lo sai, lo sai!

Marta                        - No, no. L'ha fatto per te. Per tenerti fuori di questa storia. Lui ti vede ancora come un ragazzo, come un fanciullo. Per i padri i figli sono sempre piccoli. Cerca di capirlo.

Sergio                       - Metti anche che sia vero. Perché doveva farlo? Non capisci che è proprio questo? Che sono stanco di essere un ragazzo? Stanco di essere sem­pre « il figlio di Stefano Renzi »? Dovunque io mi muova c'è sempre questo davanti. « Il figlio di Stefano Renzi». La gente mi saluta, mi parla, e pensa a me solo così: « Il figlio di Stefano Renzi ». Lui dice che mi ha dato sempre la massima libertà. E' vero. Anche troppa. Ma la prigione me l'ha stesa quando sono nato. Quando ho cominciato a muovere i primi passi. Sempre è stato così. A scuola, in collegio, era un coro: « Renzi, Renzi? Il figlio di Stefano, di Stefano Renzi!». Riesci a capire questo? Mi dici che può fare un individuo con questa specie di marchio addosso?

Marta                        - Ma non è un caso eccezionale, Sergio. C'è tanta gente che ha il padre famoso. Eppure...

Sergio                       - Il padre famoso... Ma bisogna vedere di che fama si tratti, Marta. Sai tu che vuol dire vedere su un giornale la fotografia di tuo padre accanto a quella di una qualsiasi donna seminuda e leggere sotto: «Una nuova scoperta di Stefano Renzi... ». « Stefano Renzi si prepara a lanciare una nuova attrice...». E vedere gli altri che am­miccano e che ci ridono su, commentando. E in collegio, sentire i compagni che parlano di una sua recita, o di un suo film, o della sua più recente conquista... Sentir parlare di lui come d'un feno­meno da baraccone? Lo sai tu che vuol dire questo?

Marta                        - Sergio, tu... (S'interrompe vedendo en­trare Norma dalla porta di destra).

Norma                      - (vedendo i due si ferma sulla soglia) Dov'è? Dov'è lui?

Marta                        - Credo in camera sua. Ma cos'hai, Nor­ma? Vieni, siediti qui. (Norma siede sulla pol­trona) Come ti senti? Stai meglio?

Norma                      - (sta seduta, rigida, col viso tirato. E' chia­ramente sofferente) Sto bene. Sto benissimo.

Sergio                       - Norma...

Norma                      - (interrompendolo) Sai cos'ha fatto an­cora? Non bastava la scena dell'altra notte. Mi ha telefonato Franco. Ha raccontato la sua storia ai giornali. Domani la stamperanno. Scriveranno que­sta schifosa menzogna... (Sergio si alza, va verso il caminetto. Resta là, voltando le spalle al pubblico).

Stefano                     - (è entrato mentre parlava Norma e l'ha udita. E' pronto per uscire. Ora va presso Norma, le accarezza i capelli) Bambina, bambina, non eccitarti. Non c'è ragione.

Norma                      - (si alza di scatto) Non toccarmi, non toccarmi, ti odio.

Stefano                     - (la trattiene) Siedi, Norma. Siedi an­che tu, Sergio, vieni qui. Parliamo un momento con calma. (Pausa) So cosa pensate. Me l'ha detto Marta. Ma non è vero. Non è vero! Dovete cre­dermi. Ho voluto soltanto tenervi fuori da questa sporca faccenda. Solo questo...

Sergio                       - Vorrei crederti. (Piano) Ma è difficile, capisci? E' difficile distinguere quando sei tu che parli e quando è l'attore...

Stefano                     - (colpito) Ah, è questo! Non vi piace il mio mestiere. Avreste voluto avere un altro pa­dre. Un altro padre qualsiasi. Capisco. Ma cosa posso farci, ditemi? E' la mia vita, lo è sempre stato. Da prima che nasceste voi. Dovrei rinun­ciare... Rinunciare... a tutto... E' questo che volete?

Norma                      - Basta, basta con le parole. A che ser­vono? E' Vanna che è morta: noi siamo vivi. E tu l'hai sporcata anche dopo, continui a sporcarla!

Stefano                     - Non dire sciocchezze, Norma. Che ne sai tu di lei? Che ne sapevi?

Norma                      - Era la mia amica, la mia unica amica.

Stefano                     - Mi dispiace. Se l'avessi saputo ti avrei detto allora chi era.

Norma                      - (fuori di se) Basta, non insultarla più. Io... (In un impeto irrefrenabile) Io- l'amavo!

Marta                        - Che dici, Norma!

Norma                      - (in piedi,  come una furia) L'amavo, l'amavo, l'amavo! Che m'importa del vostro orrore. Cos'hai da dire tu, Stefano Renzi? Dovresti capire tu, tu che capisci tutto! (Si abbatte sul divano singhiozzando. Stefano e Sergio la guardano alli­biti. Pausa).

Marta                        - (si avvicina a Norma,, la fa alzare) Vieni, vieni in camera tua. Hai bisogno di star sola, ora. Vieni (ha sospinge dolcemente verso de­stra, esce con lei).

Sergio                       - (piano) Hai sentito?

Stefano                     - (siede sulla poltrona, curvo, accasciato. Si passa le mani sul viso, lentamente. Piano, quasi tra se) Norma... Una bambina... Ricordo la prima volta che mi chiamò «papà». Una bam­bola tutta rosa. E quando mi tirava i capelli. Un giorno la madre la portò nel mio camerino. Gio­cava con la parrucca, me la tolse. « Brutto » di­ceva, «brutto papà con i capelli finti. Brutto papà». E si mise a piangere. (Pausa. Si alza) Bisogna fare qualche cosa. Dobbiamo salvarla. E' ancora una bambina.

Sergio                       - Non vuoi proprio aprire gli occhi, papà? Gli anni sono passati. Almeno per noi. Tu stavi in palcoscenico e noi crescevamo. Per conto nostro. Da soli. In mezzo a tanta gente. Tu credevi che bastasse darci da mangiare, comperarci i vestiti, mandarci a scuola, regalarci i balocchi. No. Non bastava. Non è bastato. Noi avevamo bisogno an­che di altro, di molte altre cose. Di avere una casa, per esempio. Una casa vera. Di sentirci dire da qualcuno quello che era bene e quello che era male. Avevamo bisogno di verità, non di frasi che sapevano troppo di battute. Avevamo bisogno di qualcuno che c'indicasse una strada nostra da seguire e magari ci costringesse a prenderla. Invece tu ci hai lasciato vagabondare. Dici che volevi lasciarci liberi... Non è una scusa per coprire il tuo disinteresse? Perché avevi qualche cosa che ti prendeva tutto, qualche cosa di più importante, tante cose più importanti? Solo ora ti accorgi che ci siamo impantanati, che siamo nel sudiciume fino al collo...

Stefano                     - (si alza. Resta in piedi davanti al cami­netto, proprio sotto il suo ritratto). E' difficile capirti, Sergio. Siete così diversi da noi. Tu sai ben poco della mia vita. Quello che dice la gente... La verità è che è stata una vita dura. Forse non un modello di vita, è vero. Ma appunto per questo vi ho tenuti lontani, finché ho potuto. Un attore non può uccidere le proprie passioni. Tuttavia, quando voi siete tornati a casa, siete venuti a vivere con me, io sono cambiato. Dovete essermi testimoni di questo, tu e Norma. Ho fatto il pos­sibile per dare alla nostra vita quel tono normale che credevo per voi il più adatto. Perché mi ero accorto di questo: che voi eravate venuti su di­versi da me. Tutti della vostra età siete, diversi. Non so se peggiori o migliori. Non vi sento vi­vere, ecco, forse è questo. Nulla vi appassiona. Noi eravamo dei ribelli, voi... voi aspirate solo alla mediocrità!

Sergio                       - Per forza! Che possiamo fare d'altro? Non t'accorgi che avete già fatto tutto voi? Che non ci avete lasciato niente? Ogni passo che muoviamo intorno è un passo dietro a voi. I grandi gesti, le grandi passioni, i nostri stessi tormenti... Roba da ridere! Voi ci guardate dall'alto e ne ridete! Sapete tutto voi, avete già pro­vato tutto. Siete andati così a fondo nel gioco dei sentimenti che ogni nostra reazione è catalo­gata in anticipo. Trent'anni fa voi eravate gente che andava all'assalto della vita come ad un at­tacco alla baionetta. Chi usciva dalla normalità poteva sentirsi grande. Perfino nella vostra disso­lutezza c'era il gusto della ribellione. Ma oggi, oggi che gusto vuoi che ci sia, quando i pederasti affollano le strade, e le lesbiche... (Si ferma. China la testa) Lasciamo andare...

Marta                        - (rientrando) Stefano, farai tardi. Devi disporre per le prove di domani. Ti aspettano, lo sai.

Stefano                     - Sì, vado. Vado. (Esita) Sergio... Biso­gnerà riparlarne.

Sergio                       - A che scopo, papà?

Stefano                     - (indugia sulla porta) Addio. (Esce a destra. Pausa).

Sergio                       - Come sta Norma?

Marta                        - Meglio, forse. Ma è a un punto cri­tico. E' necessario fare qualche cosa per lei.

Sergio                       - Sì. Siamo tutti e due a un punto cri­tico. Vedi, tutto quest'affare è come una grossa crisi. Maturava da anni dentro di noi. Ora è scop­piata. E tutto il marcio che avevamo dentro viene fuori. Tutto ciò che indistintamente pensavamo, ora lo stiamo dicendo, senza pietà.

Marta                        - Senza pietà. Povero Stefano!

Sergio                       - Lo ami molto, vero?

Marta                        - Perché me lo chiedi?

Sergio                       - Forse da molto tempo me lo chiedo. Da quel giorno. Ho pensato tante volte a te, sai? E sempre mi sono chiesto perché lo amavi. In fondo tu sei più vicina a me, come anni, che a lui...

Marta                        - Magari, Sergio.

Sergio                       - Ma sì, è così. E pure... pure ami lui. Anche questo ci hanno tolto loro, la possibilità di farci amare da donne come te.

Marta                        - Sono un'attrice anch'io. L'hai dimenti­cato? Non così grande come Stefano, certo.

Sergio                       - Non ti ho mai vista a teatro. Non vorrò vederti mai.

Marta                        - Oh, non perderai molto. Vedi... forse questo ti dirà qualche cosa. Quel poco che so... quel poco che ho imparato... la strada che ho per­corsa... Devo tutto a lui, a Stefano. L'ho cono­sciuto che non ero niente. Una mocciosa con una grande ambizione e niente in testa. Lui mi prese a benvolere, si prese cura di me. Con infinita pazienza mi insegnò tutto. E' stato infinitamente buono. Come un padre.

Sergio                       - (subito) Un padre! Ecco. E' chiaro. Vedeva in te la figlia che non aveva, quella che avrebbe voluto. Da tirar su simile a lui. Una che sostituisse noi, Norma e me. Cara sorella! (Ricìe) La sorella perfetta di due ragazzi sbagliati.

Marta                        - Bene. Ora cominci a odiare anche me.

Sergio                       - (va a sedersi vicino a lei, sul divano) Odiare? Ma no. Tutt'altro. Invece comincio final­mente a capire. Me lo sono chiesto tante volte, sai? Perché ho pensato a te tante volte. Lo sai, di'? Lo sai?

Marta                        - (scostandosi lievemente) Io credo che tu. faccia una tremenda confusione.

Sergio                       - (visibilmente eccitato) Ma no. E' tutto così semplice. Tu non l'ami. Forse lo credi. Ma non è vero. Gli sei grata. Ecco tutto.

Marta                        - Ma che dici? Chi ti dà il diritto?

Sergio                       - Lo vedi? Hai paura. Gratitudine, niente altro. Perché è stato buono. L'hai detto tu: come un padre.

Marta                        - Ragazzo! Sciocco ragazzo! Sono la sua amante, non lo sai?

Sergio                       - Che vuol dire? Gratitudine, anche quella. Lui ne ha approfittato, naturalmente. Non hanno esitazioni, loro. Si prendono tutto. Ma il tuo non è che un modo di pagare, ecco, è questo.

Marta                        - Sei pazzo, sei pazzo!

Sergio                       - Può darsi, Marta. Può darsi. (Quasi con un gemito) Ma perché tutto è così sudicio?

Marta                        - Sei tu che vedi tutto così, tu che spor­chi tutto col pensiero!

Sergio                       - Io cerco la verità. Sono stanco delle parole false degli altri.

Marta                        - E tormenti me, ora!

Sergio                       - Ma non capisci? Ho pensato a te per tutti questi anni. L'unica immagine vera. Ma c'era lui di mezzo, come sempre. Ora so che non lo ami.

Marta                        - Lo amo. Lo amo.

Sergio                       - Non mentire più. Io ho bisogno di te. Ho bisogno di qualcuno. Ti amo, Marta, ti amo! (Cerca di attirarla a sé per baciarla).

Marta                        - (respingendolo) Sei tu, tu che cambi ogni cosa, che la fai peggiore...

Sergio                       - No. Siamo sporchi tutti: io, lui... tutti... tutti tranne te. Aiutami, Marta. Lascia che io ti ritrovi. Come ti ho vista allora. Come ti ho pen­sata sempre... (Cerca di attirarla ancora).

Marta                        - (respingendolo, si alza; con un grido) No! No!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Qualche giorno dopo, in un teatro, ha scena è divisa in due parti da un alto tramezzo: a destra il camerino di Stefano, a sinistra quello di Marta. I due camerini, presso a poco uguali, sono come tutti i camerini di un grande teatro. Sul fondo han­no tutti e due una porta. Da una parte e dall'altra del tramezzo, le due toilettes, quella di Stefano e quella dì Marta. L'azione ha luogo contemporanea­mente in tutti e due i camerini. (Quando si alza il sipario, nel camerino S., quello di Stefano, l'attore è seduto davanti allo specchio, intento a truccarsi. Stefano veste il costume di Kean per il dramma dì Dumas che deve recitare quella sera. Nel camerino M., quello di Marta, l'attrice sta anche lei ultimando il trucco e poi, dopo un po', sfoglia un copione ripassando la parte. Veste il costume dì Anna Damby. Sono le otto di sera).

NEL CAMERINO S.

Stefano                     - (sente bussare alla porta) Avanti. (Entra il signor D'Antoni. E' un vecchietto vestito dì nero. L'abito è di foggia un po' antiquata. Si ferma esitante sulla soglia. Stefano, senza voltarsi) Chi è?

D’Antoni                  - Il signor Renzi?

Stefano                     - Sì. Ma cosa vuole? (Voltandosi) Chi è lei?

D’Antoni                  - Mi chiamo D'Antoni. Non so se il mio nome le dice qualcosa. Sono il padre di Gio­vanna... di Vanna...

Stefano                     - (stupito accenna ad alzarsi. Poi resta se­duto) Ah...

D’Antoni                  - Mi permette di sedére?

Stefano                     - Certo. Certo. Si accomodi. Tuttavia... Forse sarebbe meglio se ci vedessimo in un altro momento... Stiamo per andare in scena...

D’Antoni                  - So. So. (Siede su una sedia libera) Ma non le farò perdere molto tempo. Devo ripar­tire tra' poco.

Stefano                     - Lei è qui... Ha letto i giornali, vero?

D’Antoni                  - Sì.

Stefano                     - Capisco.

NEL CAMERINO M.

(Marta è sempre davanti allo specchio, ripassan­do sottovoce la parte).

La Cameriera            - (entrando) Lia già messo il co­stume? Avrei voluto dargli una stiratina. Lasci ve­dere un momento.

Marta                        - Credo vada bene. Da' un'occhiata all'altro, invece.

La Cameriera            - (frugando tra le vesti appese) Nervosa?

Marta                        - Un poco. Come sempre, del resto1. Che ore sono?

La Cameriera            - Le otto e dieci. (Nei minuti che seguono Marta continua a leggere e la cameriera fa ordine nel camerino).

NEL CAMERINO S.

 (Stefano e D'Antoni sono rimasti per qualche mi­nuto in silenzio. Il vecchio immobile sulla sedia come assorto. Stefano guardandosi nello specchio).

Stefano                     - (si gira sulla sedia verso l'altro) Non crede che questo incontro sia penoso per tutti e due? Forse...

D’Antoni                  - No. Sono qui per sapere. Soltanto per questo. Vede... quando mi è arrivato il tele­gramma sono corso qui. Non capivo niente. Nean­che dopo ho capito niente. La polizia non ha detto molto. Non conosco questa città. Non co­nosco nessuno. Non ho potuto fare altro che por­tarmela laggiù, e seppellirla nel nostro cimitero, accanto a sua madre. Le dirò... le dirò che non è stato molto atroce. Vede... io l'avevo perduta da molti anni. Da quando andò via di casa. Ma poi, tornato laggiù, ho cominciato a ripensarci. A ten­tare d'indovinare. Non so niente di questo vostro mondo. Ho sempre vissuto in una piccola città di provincia. Tutta la vita ho lavorato per mettere da parte dei soìdi. Per lei. Perché non ho altri figli... E invece lei...

Stefano                     - Sì, capisco.

D’Antoni                  - No. Non riesco a spiegarmi. E' così difficile. Mi dica, la prego: quanti anni ha vera­mente lei?

Stefano                     - (sorpreso) Io?... Cinquanta.

D’Antoni                  - E ha figli?

Stefano                     - (in fretta) Sì... sì... ma senta... Forse sarà meglio vederci un'altra volta. Magari più tar­di, dopo lo spettacolo.

D’Antoni                  - No. Devo ripartire. Ora le dico in fretta. Ecco. Io ho letto i giornali. Così ho saputo. Ho cominciato a sapere. Da quando andò via di casa ignoravo tutto di lei. Non l'avevo più vista. Mi scriveva solo quando le occorreva denaro. Glie­lo mandavo, e basta. Ma ci pensavo, a lei, ci pen­savo, sempre. Era il mio tormento. Che potevo fare? A una certa età i figli non si tengono più. Ci sfuggono. Non li comprendiamo più. Vogliono una loro vita. Che potevo fare?

Stefano                     - Sì. Certo.

D’Antoni                  - Così li perdiamo.

Stefano                     - Sì. Li perdiamo.

NEL CAMERINO M.

Marta                        - (leggendo il copione di « Kean » che ha davanti e recitando la parte di Anna Damhy) « ...Languivo senza forza, senza desideri, senza spe­ranze. Il mio petto era vuoto, che l'anima n'era già fuggita o non vi era ancora discesa... L'anima dell'attore entrò in me... Io compresi che solo da quel giorno cominciavo a respirare, a sentire, a vivere... ». (Continua a leggere sottovoce).

NEL CAMERINO S.

Stefano                     - (si alza, siede più vicino al vecchio, gli appoggia una mano sulla spalla) Senta... Mi permetta... Io la comprendo. E' terribile, lo so. Lei è venuto da me perché voleva conoscere l'uomo che ha visto Vanna per ultimo. Per tentare di ri­costruire attraverso di me, per tentare di afferrare qualche cosa di questi anni in cui l'ha perduta. Ma non posso dirle nulla neanch'io.

D’Antoni                  - Sì. Qualcosa può dirmi. Era inna­morata di lei, vero?

Stefano                     - No, no. Non questo. Un'esaltazione. S'era persa dietro l'attore senza vedere l'uomo. Mi ha chiesto la mia età. Gliel'ho detta, ricorda? Come poteva veramente amarmi? Era una donna smar­rita. Smaniosa di qualche cosa che non poteva afferrare. I giornali non possono capire queste cose. Nessuno le può capire. E allora scrivono la cosa più facile. Ma mi creda: io c'entro ben poco.

D’Antoni                  - Non le rimprovero nulla. Non sono qui per questo. Se lei... se Vanna le correva dietro, che colpa ha lei? Lei o un altro. Solo... solo vorrei capire. Sapere se ha sofferto molto.

Stefano                     - No. Non credo. I giovani sono strani. Così diversi da noi. Senta... Non so perché le dica questo. Ho anch'io due figli... Due ragazzi... Io li vedo così, almeno. Ma forse non lo sono più. E non li capisco, non so niente di loro. Li sto perdendo anch'io, come lei aveva perduto Vanna. Senza poter fare nulla. Nulla!

D’Antoni                  - No, non si può fare niente. Se ne vanno. Mi dica... la prego... Giovanna... Vanna... le ha mai detto nulla di me?

Stefano                     - Di lei? (Esita. Poi decidendosi, a bassa voce, guardando verso lo specchio) Sì. Una vol­ta... Tempo fa. Quando io le dissi: «Potrei essere tuo padre». Allora mi guardò... Vidi passare qual­che cosa nei suoi occhi. Un ricordo. Un ricordo buono. Mi parlò di lei. Dei suoi anni lontani. La sua vita d'un tempo. Capii che in quel momento avrebbe voluto tornare indietro. Cercai d'aiutarla.

D’Antoni                  - Ma non è tornata...

NEL CAMERINO M.

(Marta è sempre alla toilette. La cameriera è usci­ta. Dalla porta entra piano Sergio, che si siede su una poltrona in fondo al camerino e resta a guar­darla in silenzio).

NEL CAMERINO S.

D'Antoni                  - (si alza) E' tardi. Devo andare...

Stefano                     - Senta... Dovremmo parlare ancora. Non vuol tornare?

D’Antoni                  - No. A che serve? Ora non so nean­che perché sono venuto. E' tutto così tremenda­mente inutile.

Stefano                     - Questo vorrei dirle almeno. Che ho cercato... Ho tentato di parlarle... La vedevo smar­rita... Respingendola credevo di farle del bene. Non potevo sapere.

D’Antoni                  - No. Nessuno poteva... Torno lag­giù. Sa... Forse posso dirglielo... Talvolta, di notte, ho l'impressione che il tempo si sia fermato. Che lei sia ancora lì. Di sopra. Nella sua stanza. Mi pare di sentirla camminare, di sentirla al piano­forte... Suona. Una musica così dolce... (Pausa) Addio. (Esce. Stefano resta a guardarlo. Poi si la­scia cadere pesantemente nella poltrona davanti allo specchio).

NEL CAMERINO M.

Sergio                       - (piano) Marta...

Marta                        - (voltandosi di scatto, in tono di rimprovero) Sergio... Eravamo d'accordo... Non dovevi.

Sergio                       - Norma se n'è andata.

Marta                        - Che vuoi dire?

Sergio                       - E' andata via di casa. Stamattina. Senza dir niente. Ha lasciato un biglietto per lui. (Glielo porge).

Marta                        - (lo scorre in fretta. Pausa. Piano) E' terribile. E ora? Stefano?

Sergio                       - Vado via anch'io.

Marta                        - Non puoi. Pensa a lui. Perché volete torturarlo così?

Sergio                       - Lui ha tante cose. Ha te!

Marta                        - Sergio, ti prego... Ascolta...

Sergio                       - Marta, è deciso, vado via stanotte. Tra poco. Non volevo venire qui. Pensavo di lasciare anch'io un biglietto. Come Norma. Ma prima... Sono stato un pazzo, l'altro giorno. Non capivo più nulla. Avevo bisogno di sentirmi qualcuno ac­canto. Ho sbagliato tutto. Perdonami.

Marta                        - Non puoi andar via così. Devi parlare con Stefano. Devi dirglielo...

Sergio                       - No. E' inutile. Ci diremmo altre parole cattive. Non c'è soluzione. Siamo troppo diversi, capisci? Io devo ricominciare da capo. Da zero. Ho bisogno di aria, di aria pura. Di non sentirmi legato a nessuno. Di camminare da solo. (Si muove per il camerino guardando i vestiti, toccandoli. Marta lo guarda attraverso lo specchio).

NEL CAMERINO S.

Stefano                     - (sta ripassando la parte, a bassa voce, co­me per dominare la propria emozione. Ora legge ad alta voce, con impeto) « E che m'importa? 0 mestiere maledetto! Dove nessun sentimento ci appartiene, dove non siamo padroni ne delle no­stre gioie, né dei nostri dolori! Col cuore a pezzi bisogna recitare Falstaff, col cuore pieno di gioia recitare Amleto... Eternamente una maschera, mai un viso... Sì... Sì... Il pubblico è impaziente. Perché m'aspetta per divertirsi, e non sa che queste lacrime mi soffocano. Oh, che supplizio! E poi, se entrerò in scena con le pene dell'inferno nel cuore, se non sorriderò quando bisogna sorridere, se il mio pensiero cambierà le parole della parte... il pub­blico fischierà, il pubblico che non sa niente, che non comprende niente, che non immagina ciò che avviene dietro il sipario...». (Getta il copione per terra, resta fermo, con la testa fra le mani).

NEL CAMERINO M.

Sergio                       - Devo andarmene, Marta. C'è tutto un mondo che non conosco. Sai che non sono mai stato in campagna? Che non ho mai visto una di­stesa di terra senza case, senza gente, senza ru­mori? Che non ho mai visto sorgere il sole lon­tano da questi palazzi, da questa città che odio?

NEL CAMERINO S.

Stefano                     - (si alza. Suona convulsamente un cam­panello) Giovanni, Giovanni...

 NEL CAMERINO M.

Marta                        - Vorrei tanto poterti capire, Sergio.

Sergio                       - Ma perché? Cosa c'è di tanto difficile? E' tutto così chiaro. Senti... Tu hai la tua vita, no?

Marta                        - Che ne sai tu? Credi che si viva solo per se stessi?

Sergio                       - Va bene. Anche per gli altri. Tu vivi per lui. E lui?

Marta                        - Anche per voi. Soprattutto per voi.

Sergio                       - No. E' qui che sbagli. Lui vive per se stesso, prima di tutto. Per sé e per la sua arte. Ma è uguale. E per me e per Norma non c'è posto. Che ci resta? Vivere anche noi per lui? Aspettar­lo continuamente, che torni, che esca di scena, che si ricordi di noi? Non può chiederci questo. Ab­biamo diritto a essere noi stessi. A costruirci qual­che cosa di nostro, se ne saremo capaci.

NEL CAMERINO S.

Giovanni                  - (entrando) Signore?

Stefano                     - Portami da bere, Giovanni.

Giovanni                  - Da bere?

Stefano                     - Da bere, sì. Quello che vuoi. Del cognac. Ma porta la bottiglia. E fa presto.

Giovanni                  - Va bene. (Esce).

NEL CAMERINO M.

Marta                        - E non credi di poterla trovare anche qui la tua vita?

Sergio                       - Qui? E come? Oh, se rassomigliassi al­meno un poco a lui sarebbe facile. Ma non gli somiglio invece. Tutto il male sta qui.

Marta                        - Che ne sai? Come lo sai tu?

Sergio                       - Lo so... lo so. Da sempre lo so. Fin da bambino ho sofferto di questa sua vita. Fino da allora l'ho odiata...

NEL CAMERINO S.

 (Giovanni rientra con un vassoio. Depone la bot­tiglia e il bicchiere sulla toilette).

Stefano                     - Va bene. Lascia qui.

Giovanni                  - (esitando) Non le occorre altro?

Stefano                     - No. Vattene. (Giovanni va via. Ste­fano guarda la bottiglia. Poi la solleva, beve un lungo sorso) Ecco... Un vecchio amico che si ri­trova. (Beve ancora).

NEL CAMERINO M.

Marta                        - Sei senza pietà. Tutti voi lo siete. Par­late di diritti... Quali diritti? Volete arrivare d'un solo balzo là dove gli altri sono arrivati in tanto tempo, soffrendo, pagando duramente. Tutti han­no faticato per trovare se stessi. Tu ti metti di fronte a tuo padre come un giudice... Tu... Un ragazzo...

Sergio                       - Mediocre! Un ragazzo mediocre. Perché non lo dici anche tu?

Marta                        - Giudicare un uomo come Stefano! Sciocco!

Sergio                       - (piano) Come lo ami, Marta!

NEL CAMERINO S.

(Stefano posa la bottiglia. Si alza. Esce dal came­rino).

NEL CAMERINO M.

(Subito dopo Stefano entra nel camerino M. e re­sta per un momento fermo, chiudendosi dietro la porta).

Marta                        - Stefano... Sei già pronto?

Stefano                     - Sì. Sono pronto. Non lo vedi? Sono Kean, Kean in persona. E abbiamo anche Sergio a teatro, stasera. Quale onore! Hai fatto bene a venire. Ho una grande parte, oggi, sai? Una parte stupenda: la più adatta a me. Hai fatto bene a venire...

Sergio                       - Papà...

Marta                        - (interrompendolo) No... Non ora... Dob­biamo andare in scena tra poco.

Stefano                     - (guardandoli insospettito) Cosa c'è? Cosa vuoi nascondermi, Marta? Non temere. Nulla può turbarmi.

Sergio                       - Papà... Norma è andata via.

Stefano                     - (siede) Bene. E dove?

Marta                        - (gli porge il biglietto) Leggi...

Stefano                     - (legge in silenzio. Accartoccia il foglio, lo getta via) E tu, Sergio? Devi dirmi niente tu?

Sergio                       - Sì. Vado via anch'io. (Pausa).

Stefano                     - Bene. Dovevo aspettarmelo. Arriva sempre questo giorno. L'ha detto anche lui. Il pa­dre di Vanna.

Sergio                       - Il padre? Che ne sai tu?

Stefano                     - E' venuto qui. Poco fa. Aveva letto i giornali...

Sergio                       - E tu?

Stefano                     - Che dovevo fare io? Avanti, dimmelo tu... Tu che credi di sapere tutto... Che dovevo fare? Dirgli la verità? Dirgli che tutto quello che aveva letto era tutto falso? Che io avevo mentito per...

Sergio                       - (interrompendolo) La verità, sì, la ve­rità dovevi dire. Almeno a lui.

Stefano                     - Credi che questo l'avrebbe fatto fe­lice? Oh, fai presto tu. Dunque questo avrei do­vuto dirgli: che era una pazza. Così pazza da per­dere la testa per un ragazzo che credeva somigliasse a me... In cui credeva di ritrovare me...

Sergio                       - (ridendo, convulso) Lo senti, Marta? Lo senti? Questo ora crede, ora inventa un'altra ver­sione, per noi. Perfino con noi vuol recitare!

Stefano                     - Imbecille! La verità... Solo questo sai dire... La verità... (Con improvvisa decisione) Bene. L'hai voluta sapere... Aspetta... (Esce in fretta).

NEL CAMERINO S.

(Stefano entra d'impeto. Cerca convulsamente nel cassetto della toilette. Trova una lettera, la prende. Esce dì nuovo in fretta).

NEL CAMERINO M.

Stefano                     - (rientrando) La verità... Eccola... Leg­gila. Imbecille! (Si lascia cadere su una sedia).

Sergio                       - (leggendo, piano) « Stefano... Quando tanti giorni fa mi parlasti ed io capii che non ci sarebbe stata "un'altra volta", che il nostro com­miato era definitivo, credetti d'impazzire. Ti odia­vo, ti odiavo come non avevo mai odiato nessuno. Mi avevi detto con troppo crudezza quel che pen­savi di me. Poi, cominciai a capire. Ebbi pietà di me stessa. Mi fece bene piangere. Sono stata sem­pre tanto triste e tanto sola, anche se non sembra. Forse non ho nulla dentro di me: la vita bisogna che me la diano gli altri. E tu avresti potuto dar­mene tanta. Ma ora non conta più. Ora ho aperto gli occhi e ho capito molte cose. Stefano, nessuno è stato buono con me come lo sei stato tu. Tu vo­levi salvarmi, scacciandomi. Ora tutto è chiaro. Non c'è più odio per te, ma solo un'infinita tene­rezza. Poi... poi c'è un'altra cosa che volevo dirti: ho conosciuto tuo figlio. E' solo un ragazzo. Ma mi è parso di ritrovare in lui qualcosa di te, come un ricordo dolce e lontano. Anche se in superficie non ti assomiglia. Mi sembra di conoscerlo da tanto. Vo­glio avere da lui quella parte di te che " deve "' essere in lui, quel poco di te che tu " devi " aver­gli dato... ». Basta, basta!

Stefano                     - (d'impeto) No! L'hai voluta la verità. E ora continua. Leggi, leggi. Fino alla fine.

Sergio                       - (suo malgrado riprende a leggere) « Cer­cherò in Sergio una piccola immagine di te. Forse potrò così salire fino alla tua casa, vedere il luogo dove tu vivi, toccare le cose che la tua mano sfiora ogni giorno. Questo, solo questo, mi aiuterà a vivere... ». (Lascia cadere la lettera) No! No! Basta! E' troppo...

Stefano                     - (dopo un lungo silenzio, piano) Non volevo... Ma voi avete la smania di sapere, sapere, sapere... Ora sai. Ora l'hai avuta la tua verità... Cosa dovevo dire al padre? Parla, ora: che dovevo dire? Che era venuta da te, spinta dalla sua follia? E che tu l'avevi respinta ma non t'eri fatto scru­polo di prendere i suoi soldi... Quel denaro che il padre aveva faticosamente accumulato per lei?... Questo dovevo dire? Non parli più, ora...

Marta                        - Lascialo, Stefano. E' solo un ragazzo. (Stefano guarda un momento il figlio in silenzio. Poi esce).

NEL CAMERINO S.

(Entra Stefano e subito dietro a lui Giovanni).

Giovanni                  - (avvicinandosi al vassoio che è sulla toi­lette) Posso portar via?

Stefano                     - No. Chi te l'ha chiesto? Vattene.

Giovanni                  - E' tardi, signore. Manca solo un quarto...

Stefano                     - Vattene! Vattene! (Giovanni via).

NEL CAMERINO M.

(Marta e Sergio sono rimasti un momento immo­bili, ognuno al proprio posto).

Sergio                       - (alzandosi) Addio, Marta.

Marta                        - Vai via? Parti lo stesso?

Sergio                       - Sì. (Pausa) Salutalo tu per me. Digli che cerchi anche lui di perdonarmi, se può. Addio Marta.

Marta                        - (senza muoversi, guardando nello specchio) Addio. (Resta ancora immobile. Sergio dopo qualche attimo esce).

NEL CAMERINO S.

(Stefano guarda la bottiglia, assorto. Poi beve an­cora).

NEL CAMERINO M.

Giovanni                  - (entrando) Signora...

Marta                        - Che c'è, Giovanni?

Giovanni                  - Sono preoccupato per il signore. Non sta bene. Sta bevendo... troppo.

Marta                        - (alzandosi) Vado a vedere. (Esce).

NEL CAMERINO S.

Marta                        - (entrando) Stefano.

Stefano                     - (senza voltarsi) Sì, Marta.

Marta                        - E' tardi. Sta per alzarsi il sipario. (Pausa).

Stefano                     - E' andato via?

Marta                        - (piano) Sì.

Stefano                     - Parte?

Marta                        - (piano) Sì. (Pausa. Stefano guarda nel­lo specchio. Marta guarda lui) Stefano, ascolta...

Stefano                     - Ma sì, ma sì. Ho capito. Sta per al­zarsi il sipario. Non preoccuparti. Sto bene. Tutto andrà benissimo. Stasera sono Kean, no? E' quello che mi ci vuole. Nessuna parte sarà più vera per me. Magnifico! Sono Kean! Kean! (Alzandosi) Kean! L'attore, il genio, il folle! Kean è solo... Kean non ha figli! E dunque? E' giusto, non ti pare?

Marta                        - Calmati, Stefano.

Stefano                     - Sono calmo. Sono pronto. Reciterò stupendamente. Vuoi sentire? (Afferra il copione, lo stringe nel pugno, recita con impeto) « Lasciare il teatro? Lasciare il teatro! Oh, voi non sapete dunque cos'è questa camicia di Nesso che non può essere strappata dalle nostre spalle se non la­cerando la nostra stessa carne... Lasciare il teatro... Rinunciare a questo tormento, a questi spasimi, a questi dolori! Ricordatevi che l'attore non lascia niente dietro di sé, che egli non è vivo che du­rante la sua vita, che il ricordo di lui se ne va con la generazione alla quale appartiene, e che egli di colpo cade dal giorno nella notte, dal trono nel nulla!... No, no... Quando per la prima volta si è messo piede su un palcoscenico, bisogna per­correre questa strada fino alla fine! Ah, ah, come soffro... Mio Dio, come soffro... ». (Si lascia cadere sulla sedia davanti alla toilette. Resta immobile, con la testa china davanti allo specchio).

Marta                        - Stefano...

Stefano                     - Sto bene. Recitavo. Non sai la parte? Sono Kean, lo sai, no? Kean! Kean! (Resta riverso, la testa sul ripiano della toilette. Pausa. Bussano alla porta).

Una voce                  - (che ripeterà la battuta più volte allon­tanandosi) Chi è di scena, signori. Chi è di scena... (Stefano lentamente si solleva. Si guarda nello specchio e istintivamente si tocca il viso, si aggiusta il trucco. Marta lo guarda in silenzio. Poi apre la porta del camerino e resta ferma sulla so­glia ad aspettarlo. Lungo campanello di segnale per il sipario, mentre, lentamente, sull'azione, cala il sipario).

FINE