Questi poveri amanti

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QUESTI POVERI AMANTI

Commedia in tre atti

Di VINCENZO TIERI

Rappresentata da Ruggero Ruggeri

PERSONAGGI

DARIO MONZA (50 anni o poco più)

FEDERICO CISTA (38 anni)

GIANNETTO LU­GLI (poco meno di 30 anni)

ARTURO BONNET (55 an­ni)

SERAFINO (30 anni)

GRAZIELLA, moglie di Dario (non più di 25 anni)

ELENA, madre di Graziella (50 anni)

PIERA BONNET (tra i 25 e i 30 anni)

RINA (tra i 20 e i 25 anni)

ROSALBA (tra i 20 e i 25 anni).

Invitati - invitate.

A Roma, tempi moderni.

Commedia formattata da


ATTO PRIMO

(Un salotto moder­nissimo, da scapolo, in casa di Federico Cista. Finestra ampia come la parete nel fondo. Una porta a destra che dà nell’ingresso; due a si­nistra che danno nel resto dell'apparta­mento. Telefono. E' mezzanotte).

Serafino                           - (in livrea da cameriere, entra dalla prima porta di destra, accende la lu­ce, guarda intorno) Mi pare che tutto sia in ordine.

Rina                                 - (anch'essa vestita da cameriera, entrando dietro Serafino) E' strano che questa volta non abbia voluto fiori.

Serafino                           - Quando non vuole fiori, si tratta di una donna maritata.

Rina                                 - Già, perché le donne maritate valgono meno delle altre?

Serafino                           - Ma no! Lui dice che alle donne maritate bisogna dare l'impressione di non essere abituati a rice­vere donne di contrabbando.

Rina                                 - Errore. Alle donne maritate bisogna dare pro­prio l'impressione contraria.

Serafino                           - E perché?

Rina                                 - Perché una donna ha bisogno di tradire suo marito con un uomo diverso da suo marito. Il marito non le fa trovare fiori; bisogna che glieli faccia trovare l'amante. Se gli amanti si comportassero come i mariti, che gusto ci sarebbe a tradire?

Serafino                           - Strano.

Rina                                 - Ma che strano! Voialtri uomini non capite niente. Vi sforzate a fare gli amanti; ma la vostra voca­zione è quella di fare i mariti. Appena una donna vi ha fatto il piacere di darsi a voi, diventate gelosi, prepo­tenti, avari, meschini, e insomma mariti. Questa povera donna non deve uscire, non deve frequentare il tale po­sto, non deve farsi corteggiare dal tale amico, non deve farvi spendere molto denaro; tutta roba che annoia e soffoca.

Serafino                           - Ah, per questo tu ti sei divisa da tuo ma­rito?

Rina                                 - i Per questo mi son divisa da mio marito e per questo non diventerò l'amante di nessuno.

Serafino                           - Non diventeresti nemmeno l'amante del si­gnore?

Rina                                 - (equivocando) ' Del Signore? Gesù, che eresia!

Serafino                           - Dico del signore, del nostro padrone.

Rina                                 - Di lui meno che di ogni altro.

Serafino                           - E' un uomo di prim'ordine.

Rina                                 - Sì; ma non vedi come tratta le donne? Prima pare che voglia morire per loro; e poi...

Serafino                           - E poi che cosa?

Rina                                 - Le tiranneggia, le umilia, le mette a stipendio come delle impiegate. Con una ha litigato per non rega­larle due volpi; a un'altra rivedeva i conti della sarta come un ragioniere; quella bionda la metteva in croce con le sue scene di gelosia... Andiamo! Meglio qualunque marito che luì. Almeno il marito ti dà il suo nome, as­sume l'impegno di mantenerti tutta la vita.

Serafino                           - E tu perché il marito lo hai abbandonato?

Rina                                 - Sono fatti miei.

Serafino                           - Ma la domenica, alla libera uscita, c'è uno che t'aspetta...

Rina                                 - Ti dispiace?

Serafino                           - No. Mi piacerebbe soltanto di sapere se sa fare l'amante.

Rina                                 - Non è il mio amante.

Serafino                           - Non lo è ancora...

Rina                                 - Non lo sarà mai. Appunto per questo mi tratta benissimo. Gli uomini bisogna farli crepare di curiosità e di desiderio. Soltanto così diventano liberali, premurosi e generosi. Io ero nata per fare la signora; e faccio la cameriera appunto per conservare la mia indipendenza.

Serafino                           - Non so in che cosa consista l'indipendenza di una cameriera.

Rina                                 - Consiste nell'indipendenza amorosa. Che cosa facevo con mio marito? La cameriera. Ed ero schiava in tutto. Adesso almeno sono schiava a metà. Del mio cuore, ne faccio quello che mi pare.

Serafino                           - Alla larga!

Rina                                 - Ohe! Non ti fare illusioni.

Serafino                           - E nemmeno tu.

Rina                                 - (sogghignando) Il fatalone! Intanto sei venuto tre volte a bussare alla camera mia...

Serafino                           - Sono sonnambulo.

Rina                                 - Be', allora sta attento che qualche notte non ti svegli all'improvviso con una scarpa in testa!

Serafino                           - Ah! Ah! Incominci ad amarmi.

Rina                                 - (improvvisamente ridendo) Mi sembri il si­gnore quando fa le scene con le sue amiche.

Serafino                           - E tu finora non hai ripetuto quello che gli dicono le sue amiche? (Comico) Va là, va là! Ti conosco, mascherina!

Rina                                 - (sedendo su una poltrona e atteggiandosi a si­gnora) Gli uomini, puah, tutti eguali.

Serafino                           - (imitandola) E le donne, puah, l'una peg­gio dell'altra!

Rina                                 - (recitando) Le altre donne: non io!

Serafino                           - (recitando anche lui) Già! Tu sei nata dai lombi della moglie di Giove!

Rina                                 - (smettendo di recitare) Come?

Serafino                           - (serio) Lombi della moglie di Giove.

Rina                                 - E che vuol dire?

Serafino                           - Ah, non so. Quando litiga con le sue amiche, lui dice sempre così.

Rina                                 - Non l'ho mai sentito.

Serafino                           - Tu stai attenta a quello che dicono le donne; io sto attento a quello che dice lui.

(Giunge dalla destra il rumore di una chiave girata nella toppa).

Rina                                 - (balzando in piedi) La porta?

Serafino                           - Va' di là! Mi faccio trovare io solo.

Rina                                 - Ma no! Arriva con una donna nuova. Voglio vederla anch'io.

(S'irrigidiscono sull'attenti, perché Federico sta per en­trare. E infatti, subito dopo, entra Federico, seguito da Giannetto Lugli: sono entrambi in smoking).

Serafino                           - Buona sera, signore.

Rina                                 - (insieme con Serafino) Buona sera, signore.

Federico                          - Buona sera. (Mentre Federico risponde, Rina e Serafino, meravigliati di vederlo entrare in com­pagnia di un uomo, si guardano con comica sorpresa. Federico continua) Niente di nuovo?

Serafino                           - Niente, signore. Tutto è stato eseguito se­condo i suoi ordini.

Federico                          - Allora potete andare.

Serafino                           - Andare a dormire?

Federico                          - Sì.

Serafino                           - Grazie, signore.

Rina                                 - Buona notte, signore.

(Serafino e Rina escono per la prima porta di sinistra, facendo ancora lievi cenni di sorpresa).

Federico                          - (a Giannetto, porgendogli la mano per con­gedarlo) Allora, caro Giannetto, ti ringrazio della bella compagnia...

Giannetto                        - (senza dargli la mano) Mi mandi via?

Federico                          - (con disappunto) No. Credevo che tu volessi andar via.

Giannetto                        - (sedendo) Non ti disturbo mica?

Federico                          - (freddo) Figurati! (Una pausa; poi, toc­candosi le tasche) Ti ho già dato, mi pare, quelle mille lire?

Giannetto                        - Sì, grazie. Ma non vorrei tu credessi che ti abbia accompagnato solo per questo.

Federico                          - (c. s.) Diamine!

Giannetto                        - Sai: in generale, quando si è ottenuto un prestito da un amico, si ha fretta di andarsene.

Federico                          - (sorridendo a stento) Già.

Giannetto                        - Io, invece...

Federico                          - Tu, invece, ti fermi.

Giannetto                        - Sì, mi fermo molto. Appunto per farmi coraggio. Per ricominciare a farmi coraggio. Il coraggio di abituarmi a sopportare gli sguardi del mio creditore.

Federico                          - (ride a stento).

Giannetto                        - Tu sei uno di quei creditori che danno soggezione.

Federico                          - (sempre freddo) Perché poi...?

Giannetto                        - Ci sono creditori che si dominano con uno sguardo; ai quali s'impedisce facilissimamente ogni richiesta di restituzione; e altri, invece, che...

Federico                          - (come per finirla) Senti, Giannetto, fa' conto che non t'abbia prestato quelle mille lire. Capirai, fra di noi... Ma ti debbo dire sinceramente che ho sonno.

Giannetto                        - (senza muoversi) Ah, allora vuoi che vada via?

Federico                          - Sì, grazie.

Giannetto                        - Bada, però, che io intendo restituirtele...

Federico                          - Ma sì. Diamine! Col comodo tuo. Non ha nessuna importanza. (Una pausa; poiché Giannetto non si muove) Sai, ho sonno, perché sono stanco.

Giannetto                        - Io, quando sono stanco, non riesco ad ad­dormentarmi.

Federico                          - Io sì.

Giannetto                        - Forse prendi dei sonniferi.

Federico                          - No. Prenderei piuttosto a calci quelli che non vogliono farmi dormire.

Giannetto                        - Si sentono molti rumori dalla tua ca­mera?

Federico                          - Nessuno.

Giannetto                        - E allora chi è che non vuole farti dor­mire?

Federico                          - Così, tante volte, qualche scocciatore...

Giannetto                        - Capisco.

Federico                          - (impaziente, fra sé) Non mi pare.

Giannetto                        - Come hai detto?

Federico                          - Niente.

(Una pausa).

Giannetto                        - Stasera non vieni al Circolo?

Federico                          - Te l'ho detto: sono stanco, ho sonno.

Giannetto                        - Dormi... solo?

Federico                          - Hai il sospetto che dorma in compagnia?

Giannetto                        - Perché non dovrei averlo?

Federico                          - (sorridendo amaro) Caro, e sei ha questo sospetto, non ti viene nemmeno lontanamente in testa l'idea di andartene?

Giannetto                        - (alzandosi) Uh, perbacco! Scusa. Non avevo capito.

Federico                          - (guardando l'orologio) Be'; ma hai capito in tempo.

Giannetto                        - Generino... di lusso?

Federico                          - (scrollando le spalle) Una qualunque.

(Giannetto                       - (fissandolo, malizioso) Non direi...

Federico                          - Soltanto, ti prego di non fare pettegolezzi al Circolo.

Giannetto                        - Ah, ah, ah! Ho capito tutto.

Federico                          - Bravo. Sei molto intelligente. Addio.

Giannetto                        - Del resto, lo immaginavo, sai. E, se vuoi che ti dica la verità, ti ho chiesto quelle mille lire, appunto perché sapevo.... Su la soglia dell'amore gli uo­mini sono generosi.

Federico                          - Evviva lo stoccatore psicologo! Ciao.

Giannetto                        - Certo, è un bel boccone.

Federico                          - Eh? Ma vatti a far benedire!

Giannetto                        - (avviandosi verso la destra) Il marito è partito stasera... Vecchie storie; ma sempre nuove. In ogni modo, con lei tu sei il primo. Buona fortuna!

Federico                          - Sono curioso di sapere a chi pensi.

Giannetto                        - A quella; all'una; all'unica. Su la piazza non c'è che lei. Per lo meno a tutti pare che ci sia lei soltanto. Frotte di corteggiatori; moltitudini di corteg­giatori. Tu la fai a tutti. Salti chi può.

Federico                          - Non c'è che dire. Hai una bella fantasia.

Giannetto                        - Ho un certo fiuto. Siccome ho sempre bisogno di danaro, debbo conoscere la vita circostante e i miei contemporanei. Chiederò un prestito anche a suo marito, quando torna. La generosità non è soltanto degli innamorati, ma anche delle loro vittime.

Federico                          - Va', va'. Sei un buffone.

Giannetto                        - Debbo pregarti di aprire la porta, dal momento che hai mandato a letto la servitù.

Federico                          - (cercando in tasca la chiave) Ah, già.

Serafino                           - (improvvisamente dalla sinistra) Prego. Ci sono io (cava di tasca una chiave e si avvia verso la destra).

Federico                          - (a Serafino) Perché sei ancora in piedi?

Serafino                           - Chiedo scusa; ma mi ero dimenticato di dirle qualche cosa.

Federico                          - Va bene.

Giannetto                        - (a Federico) Ciao, fortunatissimo!

Federico                          - Ciao. Ma non hai capito niente.

Giannetto                        - Se non ho capito, peggio per te. Potresti arrivare tardi.

Federico                          - Che vuol dire?

Giannetto                        - Mah! Te lo dirò quando mi serviranno altre mille lire. (Esce).

Federico                          - Ma vieni qua; senti... (fa l'atto di rincor­rerlo).

Serafino                           - (frapponendosi per fermarlo) Mi permetto di far notare al signore che sono già passati venti minuti dalla mezzanotte.

(Federico si ferma e poi va al telefono. Serafino esce per aprire la porta a Giannetto).

Fedisco                            - (solo; al telefono, dopo aver formato un nu­mero) Pronto... Siete voi?... Ah, bene! Allora v'a­spetto... Vorrei, anzi, dire « t'aspetto », perché oramai... Obbedisco. Allora v'aspetto... Vi raccomando di non di­menticare le chiavi... No: il contrario: quella piccola è del portone, e quella grande è della porta... Lasciate il ricevitore del telefono staccato; farò lo stesso anch'io. Isoliamo le nostre case dal mondo. Ma già la vostra casa è questa stasera... Grazie... Cinque minuti bastano?... Ar­rivederci... Sì, arrivederci. (Sospende la comunicazione, lasciando il ricevitore staccato).

Serafino                           - (che è già ritornato) M'ero dimenticato di dirle, signore, che la porta di servizio non funziona.

Federico                          - E che importa?

Serafino                           - Doveva venire il fabbro a cambiare la ser­ratura; ma evidentemente se n'è scordato.

Federico                          - Ma che importa?

Serafino                           - Intendo dire, signore, che per ogni eve­nienza sarà bene che ella non ci conti. L'unica porta è quella principale (accenna alla porta di destra). Se, per caso, ella dovesse far uscire improvvisamente e di na­scosto la signora, non avrebbe che la porta principale.

Federico                          - (alzando le spalle) Non servirà.

Serafino                           - Glielo auguro, signore. Ma già un'altra volta il signore si trovò nella necessità...

Federico                          - Uh! Era un pomeriggio. Poi si trattava di tutt'altra cosa...

Serafino                           - Mi dispiace di dover fare la parte del dia­volo; ma le precauzioni non sono mai troppe. Questa volta andrà certamente bene; ma per l'avvenire sarà opportuno far aprire un'altra porta in fondo al corridoio. Mettiamo che io sia un importuno ed entri qui per que­sta porta (accenna alla porta di destra). La signora è di là (accenna alla porta di sinistra). Essendoci la porta che dico io, la signora potrebbe girare così         (il gesto con un braccio) e trovarsi nell'ingresso per la nuova porta, in modo da poter fare la strada principale, che per una signora è sempre la più decorosa.

Federico                          - (divertito) Bravo lo stratega.

Serafino                           - Comunque, stanotte mi permetterò di vegliare.

Federico                          - Non c'è bisogno. Il marito è partito.

Serafino                           - Tante volte i mariti fingono di partire.

Federico                          - Secondo quali...

Serafino                           - Non c'è che una sola specie di mariti, si­gnore, quando si avvertono i primi... sintomi alla fronte. Sono i mariti che vogliono sapere. Dopo, ciascuno si regola a modo suo; ma prima tutti quanti vogliono sapere.

Federico                          - Questa volta si tratta non soltanto di un marito partito sul serio; ma di un marito che di tutti potrebbe sospettare meno che di me.

Serafino                           - Il signore può contare su la discrezione dell'amico ch'è uscito poco fa?

Federico                          - Sicurissimo. Del resto, è un mio debitore.

Serafino                           - I debitori sono sempre lieti di creare im­barazzi ai loro creditori e fanno di tutto per sbarazzar­sene.

Federico                          - Ma finiscila, Serafino, con le tue idee cata­strofiche! (Si ode il rumore di una chiave che gira nella toppa). Senti? Eccola. E' lei. Vattene.

Serafino                           - Vado, signore. In bocca al lupo! (Esce per la sinistra).

(Subito dopo per la destra entra Graziella, in vestito da sera, con mantello. Federico le corre incontro, fa l'atto di abbracciarla. Ma Graziella lo scosta dolcemente e cade su una poltrona).

Graziella                          - (emozionata) Un momento, un momento. Che paura!

Federico                          - (affettuoso, protettivo sorridente) Paura di che?

Graziella                          - Paura, emozione, non so... Capirete. E' la prima volta.

Federico                          - E' strano. A me pare di avervi sempre aspettata e di avervi sempre amata. A me non pare la prima volta. Pare la volta più bella. E ogni altra volta, sono sicuro, mi sembrerà più bella ancora.

Graziella                          - Voi siete un uomo: un uomo anche abituato...

Federico                          - Oh! E come potete credere? Come potete credere che io sia stato mai innamorato di altra donna che di voi? Nessuna donna mi è mai piaciuta quanto mi piacete voi. Tutte le altre - pochissime del resto - furono avventure. Voi siete l'amore.

Graziella                          - Ma voi non avete altri legami, altri do­veri. Per me è la prima volta anche perché... (vuol dire: «Ho un marito»). Sapete: è un accavallarsi, un tumul­tuare d'impressioni nuove. Da ventiquattro ore mi sembra di vivere in sogno. Quando, ieri sera, mio marito rice­vette quel telegramma che lo chiamava a Genova, voi c'eravate...

Federico                          - Sì. Ci guardammo. A tutt'e due - a me e a voi - passò nella mente, e quasi negli occhi lo stesso pensiero. C'intendemmo come se avessimo parlato.

Graziella                          - Esatto. Ma poi voi andaste via, e io rimasi sola con lui. Qui incominciano le impressioni mie, personali. Improvvisamente mi pareva di amarlo di più, mi pentivo della promessa che avevo fatta a voi...

Federico                          - (disapprovando) Ah!

Graziella                          - Per un attimo solo...

Federico                          - Ah, be'!

Graziella                          - Dopo provavo per lui un senso di pietà. Gli guardavo i capelli grigi, mi pareva più stanco, mi veniva fatto di esclamare: «Poveretto!». Nasceva in me un sentimento filiale, un bisogno di esser con lui tenera, un desiderio di chiedergli perdono... Lui mi disse: « E' la prima volta che parto solo, senza di te »; e mi guardava con certi occhi imploranti che pareva volessero dire: «Non approfittarne!». Il volto gli si illuminò quando io gli chiesi: «Vuoi che t'accompagni? ». E prima che mi rispondesse passò un minuto: un minuto che mi parve lunghissimo: un secolo. In quel minutosentivo di odiarlo come si può odiare un carceriere. Le mie simpatie erano tutte per voi...

Federico                          - Grazie.

Graziella                          - Ecco: così mi rispose anche lui: «Gra­zie». E aggiunse: «E' un viaggio d'affari, ti annoieresti, non me ne saresti grata ». Allora nuovamente... cu­rioso questo alternarsi di sentimenti puri e di sentimenti impuri nuovamente ne ebbi compassione.

Federico                          - Compassione non è amore.

Graziella                          - E chi lo sa? L'amore della donna per il proprio marito è così complesso, ha tante facce, tante sfumature! Comunque, sarei stata più contenta dì liti­gare con lui, di creare una giustificazione al mio proposito di tradirlo. Lui, invece, fu dolcissimo, tenerissimo, tutta la sera. Sembrava volersi far perdonare la sua età, la sua gelosia, il fatto stesso di avermi sposata tanto più giovane di lui. Non è che dica chiaramente questo: oh, non lo dice mai! Ma esalta la mia giovinezza con tali parole, vorrei dire con tale sapienza, che il paragone fra la mia e la sua età è sempre lì, fra di noi, presente. E questo ora mi piace, ora mi spiace; a volte mi turba gradevol­mente, a volte m'indispettisce. Non so come farvi capire...

Federico                          - Capisco, capisco. Ma perché adesso par­late tanto di lui? E' il nostro primo, vero incontro. E' l'ora del nostro amore.

Graziella                          - E’ vero. Scusate. (Si alza, si leva il man­tello).

Federico                          - (aiutandola) E' singolare il fatto che non ho rimorsi, amandovi. Certo dovrei averne, perché - mio Dio, come si può dimenticare? - lui è il mio più intimo amico. Dirò meglio: ho per lui una grande, una profonda simpatia; che egli, del resto, ricambia genero­samente. Ma forse l'amore è più forte di qualunque altro sentimento o forse la donna amata si ama anche attra­verso suo marito.

Graziella                          - (sorridendo) Vi faccio osservare che adesso siete voi a parlare di lui.

Federico                          - Già, è vero. Vi chiedo scusa. Vi chiedo scusa e vi chiedo anche... (fa l'atto di abbracciarla per darle un bacio).

Graziella                          - (schermendosi) Non ancora. Più tardi.

Federico                          - (implorante) Graziella!

Graziella                          - Bisogna che mi abitui a questa idea. Abbiate pazienza. Sento anch'io il bisogno di... Eppure... Non so... questo ambiente nuovo... questa casa un po' fredda... Non vedo nemmeno un fiore. Non vi piacciono i fiori?

Federico                          - Moltissimo. Solo mi pareva un po' banale farvi trovare la casa infiorata, come si fa... con tutte le donne.

Graziella                          - Sì, sì, avete ragione. Grazie. Ogni donna crede di essere diversa dalle altre e poi si aspetta di es­sere trattata come le altre.

Federico                          - Volete bere qualche cosa?

Graziella                          - No. (Abbassa gli occhi, sorride) Ho già bevuto due bicchierini di cognac.

Federico                          - (scherzoso) Ah! Sborniona!

Graziella                          - (c. s.) Per farmi coraggio. Cinque minuti prima che partisse il treno, lui mi ha telefonato. Io mi aspettavo questa telefonata; ma la sua voce, anche at­traverso il telefono... non so... mi ha dato dei brividi.

Federico                          - Vi ha telefonato prima che vi telefo­nassi io?

Graziella                          - Dieci minuti prima. Il treno è partito alle ventiquattro e quindici. Lui mi ha telefonato alle venti­quattro e dieci; voi alle ventiquattro e venti. E' curioso che anche lui, come voi, mi ha detto di staccare la spina del teli fono.

Federico                          - Ah, già. Voi avete il telefono con la spina. Io no. Io, come vedete, ho dovuto staccare il microfono.

Graziella                          - Mi ha domandato se mi fossi divertita a teatro, se la mamma m'avesse accompagnata a casa, se la servitù fosse già a letto, e perfino se stanotte mi met­tessi una certa camicia che... (con pudore, pentendosi) Oh, che cosa stavo per dire! Scusate. (Una pausa). Dopo tutto, è un uomo tanto premuroso e mi vuol tanto bene.

Federico                          - (avvicinandosi, prendendola per le braccia) Basta, basta!  Parliamo di te, parliamo di noi. Anzi... non parliamo più (tenta di baciarla su la bocca; ma ella gli sfugge ed egli preme le labbra sul collo di lei).

Graziella                          - (ridendo) No, no, mi fate il solletico!

Federico                          - «Mi fate»? Mi dai ancora del «voi»?

Graziella                          - (allontanandolo dolcemente) Se volete che vi dia del « tu », state lontano.

Federico                          - Sta bene. E allora dimmi: mi ami?

Graziella                          - (con pudore) Sì.

Federico                          - No, non così. Mi devi dire: «Ti amo» .

Graziella                          - (con dispettosa civetteria) Vi amo.

Federico                          - (scherzoso) Bada che mi vendico!

Graziella                          - E come?

Federico                          - (saltandole addosso, prendendola per la vita) Ecco: così.

(Vuol baciarla. Ella glielo impedisce. Durante la breve lotta affettuosa, squilla il campanello della porta, nell'ingresso).

Graziella                          - (sobbalzando) Il telefono?

Federico                          - (preoccupato) Eh, no. Il ricevitore è stac­cato.

(Nuovo squillo di campanello).

Graziella                          - Suonano alla porta?

Federico                          - E chi può essere a quest'ora?

(Dall'interno, Serafino bussa alla porta di sinistra).

Serafino                           - (dall'interno) Signore, io sono qua. Se vuole che vada ad aprire io.

Graziella                          - (avendo udito la voce di Serafino) E chi è?

Federico                          - E' il mio domestico. (Poi, a Serafino, forte) No, non c'è bisogno. Vado io. (Poi, a Graziella) Dev'es­sere qualcuno del piano di sotto o di sopra. A quest'ora, il portone è chiuso.

                                        - (Nuovo squillo di campanello).

Graziella                          - Federico! E se fosse mio marito?

Federico                          - (escludendo assolutamente questa possibilità)

                                        - Oh! Sta' tranquilla, cara. Vado a vedere. Anzi, vado a sentire.

Serafino                           - (dall'interno) Signore, è forse più pru­dente che vada io.

Federico                          - (a Serafino, gridando) Iettatore! (Poi, a Graziella, ridendo) Ma su, su! Fatti coraggio. (Esce per la destra; poi si sente la sua voce dall’interno) Chi è? (Una pausa). Come? (Un'altra pausa). Oh! Eccomi. Un minuto. Prendo la chiave. (Rientra in fretta, pallidis­simo) Tuo marito!

Graziella                          - (spaventata) Possibile?

Federico                          - Via, di là. Non c'è tempo da perdere. (Prende rapidamente il mantello di lei, glie lo dà, la spinge verso la seconda porta di sinistra; poi chiama) Serafino!

Serafino                           - (entrando dalla prima porta di sinistra) Ebbene?

Federico                          - Ebbene un corno! Dammi una vestaglia. (Mentre Serafino riesce per la sinistra, egli si leva la giacchetta dello smoking, guarda intorno se non ci sia alcuna traccia rivelatrice della presenza di Graziella, si infila la vestaglia che Serafino gli porge, dice a Serafino) Va' tu ad aprire          - (e lo segue fino alla soglia della porta di destra. Si ode il rumore della chiave con cui Serafino apre la porta e poi la voce di Serafino).

Serafino                           - (dall'interno) Buona sera, signore.

Dario                               - (dall'interno) Buona sera.

Federico                          - (pallidissimo, sforzandosi di sorridere) Oli, Dario! E come mai da queste parti?

Dario                               - (entra; è in vestito da viaggio; guarda intorno)

                                        - Disturbo?

Federico                          - Per carità! Ti chiedo scusa d'averti fatto aspettare. Ma non avevo in tasca la chiave e la porta si apre soltanto con la chiave. (E' rientrato anche Serafino).

Serafino                           - Il signore ha ordini?

Federico                          - (con uno sguardo d'intesa) Quando è pronta la camomilla, dammela.

Serafino                           - Ho capito. (Esce per la sinistra).

Federico                          - (a Dario) Mi sento poco bene. Ero tornato appunto dieci minuti fa per prendere una camomilla. Quella del Circolo è impossibile.

Dario                               - Allora sei solo?

Federico                          - Solissimo. Perché mi fai questa domanda?

Dario                               - Così. Ho piacere di non averti disturbato.

Federico                          - Del resto, anche se fossi stato in com­pagnia... Con te non ho segreti. Ti prego: siedi.

Dario                               - (sedendo) Grazie.

Federico                          - Ma che hai? Ti vedo un po'...

Dario                               - Come?

Federico                          - Non saprei dire. Ma non mi sembri del tuo solito umore.

Dario                               - Infatti. Un contrattempo. Un ridicolo contrat­tempo. Sai che dovevo partire...

Federico                          - Ah, già! Tu dovevi partire. E... come mai?

Dario                               - (sopra pensiero) Sono partite le mie valigie; e io... eccomi qui.

Federico                          - (non comprendendo) Sono partite le tue valigie?

Dario                               - Sì, ero già in treno, nella mia cabina. M'ero già fatto preparare il letto; avevo chiuso la porta. A un tratto ho guardato l'orologio e ho visto che mancavano cinque minuti alle ventiquattro e quindici. Ho pensato: faccio in tempo a telefonare a mia moglie. Sono sceso dal treno, mi sono avvicinato a uno dei telefoni automatici che stanno sotto la pensilina. Era occupato. Ne ho cercato un altro più in là: occupato anche quello. Avrei potuto tornare indietro; ma tu conosci certamente le piccole ostinazioni che ci vengono soprattutto di fronte alle piccole contrarietà. Ne ho cercato un terzo, molto più lontano. Era libero; ma mi sono accorto che non avevo una monetina da cinquanta. Sono andato a com­prare un giornale, per cambiare. Sono ritornato all'ap­parecchio, ho telefonato. Sai: cinque minuti fanno presto a passare. Quando ho cercato il mio treno, il treno non c'era più.

Federico                          - Oh, perbacco! E allora?

Dario                               - (piega un angolo della bocca in un sorriso triste e amaro) T'interessa la mia storia?

Federico                          - (allibito) Non so... non capisco che cosa tu voglia dire...

Dario                               - (alzandosi; con un lieve sogghigno) Mah! E' una storia molto banale. Ti saluto e ti chiedo scusa di averti disturbato. Vado a casa.

Federico                          - Ah, non ci sei ancora andato a casa?

Dario                               - (fissandolo) Te ne sei accorto?

^Federico                        - Come, me ne sono accorto? Ma, insomma, Dario, che cosa hai?

Dario                               - (amaro) Ho la triste sapienza della mia età.

Federico                          - (preoccupato e desolato) Francamente, non riesco a capirti.

Dario                               - Ammetto che tu non possa capirmi. Tu sei scapolo. Per capirmi, bisogna aver moglie e bisogna aver perduto il treno. (Nuovamente ha un lieve sogghigno. Una pausa) Ciao.

Federico                          - Ma dove vai?

Dario                               - Te l'ho detto: a casa.

Federico                          - (volendo veramente trattenerlo) E fermati un poco. Se sei salito... Dal momento che sei salito... A proposito, come hai fatto ad aprire il portone? A quest'ora dev'essere chiuso.

Dario                               - (lo guarda prima in maniera enigmatica; poi) Passavo. Ho visto che un inquilino stava entrando. Ho chiesto permesso, e mi sono infilato anch'io.

Federico                          - Ah, ecco. Ma... è un caso che tu m'abbia trovato. Tu sai che normalmente a quest'ora...

Dario                               - (lo fissa nuovamente come prima; e poi dice) Ho visto la finestra illuminata (accenna alla grande finestra ch'è nella parete di fondo).

Federico -                        - Ho capito. Allora tu... venivi da me?

Dario                               - Insomma, vuoi proprio che ti dica tutto.

Federico                          - (imbarazzato) No. Ti chiedo, anzi, scusa delle domande. Te le rivolgevo per trattenerti. Tu sei sempre il benvenuto.

(Una pausa).

Dario                               - (prima, come parlando a se stesso) E perché no? (Poi rivolgendosi a Federico) Tu sei scapolo. Può darsi che ti ammoglierai. Forse un po' tardi; come me; ma ti ammoglierai. E' bene, dunque, che tu sappia quello che può accadere a un ammogliato in certe circostanze.

Federico                          - (imbarazzatissimo) Ma... Dario!

Dario                               - Ti sembra forse che io vaneggi? No. Te l'ho già detto: ho la triste sapienza della mia età. Siamo ri­masti al punto in cui ho trovato sgombri i binari del mio treno. I binari lucidi e squallidi, un lumino rosso che s'allontana... Provavo l'impressione che qualcuno fosse partito al mio posto. Mi sorpresi a fare un cenno con la mano, come quando si saluta un partente. Un attimo di malinconia. Poi la stupida realtà: ho perduto il treno. Ci sono dei mariti che lo pèrdono apposta.

Federico                          - (sforzandosi a sorridere) Adesso non mi vorrai mica dire che... (vuoi dire: « Che tu saresti ca­pace di perderlo apposta »).

Dario                               - Il mio primo istinto è quello di andare dal capostazione o dal funzionario di polizia ad avvertire che ho lasciato in treno le mie valigie. Ma il controllore dei vagoni-letto mi conosce, ha già in consegna il mio scontrino con il mio nome; quindi penserà lui, domani, a riportare indietro la mia roba. Il mio secondo istinto è quello di telefonare a mia moglie: «Sai, ho perduto il treno; ritorno a casa». Ma ho già detto a mia moglie di levare la spina del telefono, e certamente lei l'ha già levata. (Guarda per caso il telefono di Federico, vede il ricevitore staccato) Stavi telefonando?

Federico                          - No. Avevo staccato il ricevitore per non essere disturbato. Ecco: lo rimetto a posto (esegue, mac­chinalmente, senza sapere perché).

Dario                               - (riprendendo il racconto) Allora vado a casa.

Federico                          - Ah, dunque, ci sei andato a casa?

Dario                               - Si direbbe che t'interessi di sapere partico­larmente se io sia andato a casa.

Federico                          - Oh, Santo Iddio! Stasera con te non si sa come parlare...

Dario                               - Può darsi. Debbo essere fuori tono: stonato. Dunque dicevo: vado a casa, cioè penso di andare a casa. Sono ancora alla stazione, al principio della pensi­lina. Non mi vedi? E' curioso che io mi vedo, come se si trattasse di un altro. Anzi, ecco: mi vedo realmente perché di fronte a me, sopra un pilastro, è un grande specchio con una scritta pubblicitaria e la mia figura vi si riflette intera. Lo specchio è appannato e contro luce. La mia immagine vi appare sfocata, incerta, come in una trasparenza d'acquario. Mi sembra d'essermi sdoppiato.

Federico                          - (guardandolo, ora, come si può guardare un pazzo) Caro Dario, è la prima volta che ti sento par­lare così.

Dario                               - Così, come? Credi forse che io inventi? O che scelga le parole? Se tu mi trattieni, se tu vuoi sapere, lasciami dire.

Federico                          - (come rassegnato) Di', di', di' pure.

Dario                               - Io non so se quello che è passato nel mio cervello sia passato nel cervello di un altro uomo, o, meglio, di un altro marito. Non ti scandalizzare, non protestare, non reagire. Ti dico l'esatta verità, e tu tro­vala come vuoi ma credila verità. Non tutti siamo fatti allo stesso modo ed è sciocco condannare negli. altri quello che non abbiamo fatto o provato, sol perché non lo abbiamo né fatto né provato. Mi guardo nello spec­chio e parlo a me stesso come se parlassi a un altro: «Perché vuoi arrivare a casa inaspettato? Tua moglie sa che tu sei partito, si è già adagiata nel pensiero di essere sola e libera. Magari non fa nulla di male; cer­tamente, anzi, non fa nulla di male; ma le piace ormai questa piccola, questa breve libertà. Le pare di essersela guadagnata e meritata. Non saprebbe rinunciarvi senza provare un po' di disappunto e forse anche un po' di rancore contro di te. n tuo ritorno improvviso provoche­rebbe fra voi due disagio e malumore. Meglio non an­dare. Meglio non andare anche per un'altra ragione. Un marito, sì, può perdere il treno, come lo perdono tanti; ma lascia sempre il sospetto di averlo perduto volonta­riamente. Tua moglie, dunque, può pensare che tu dubiti di lei; può sentirsene offesa; può sentirsene incoraggiata a peccare ».

Federico                          - Andiamo, Dario! Ma che storie son que­ste? Tua moglie... che ti adora... (vuol dire: «Come puoi ritenerla capace di tanto? »).

Dario                               - Io ti sto dicendo il mio pensiero, sto rifacendo il corso del mio pensiero. Credi che il pensiero possa essere governato dalla volontà o dalla logica o dai sentimenti? Le nostre azioni, sì; il nostro pensiero, no, Il pensiero è libero. Federico (tentando di volgere il colloquio in ischerzo)

                                        - Già. Il « libero pensiero ». Mi tocca adesso di vedere te, un signore, un uomo intelligente, abbandonarsi alle incongruenze dell'anarchismo...

Dario                               - Non vuoi sentire la continuazione?

Federico                          - Se ti fa piacere, sì. Ma ti dico sincera­mente che non mi interessa. Ho capito dove vuoi arri­vare. E' assurdo.

Dario                               - Assurdo che cosa?

Federico                          - Quello che hai pensato, quello che hai fatto, e anche quello che hai visto... se pure hai visto niente! Immischiare tua moglie, la purezza in persona, nelle tue fantasticherie da «pochade»! Devi prendere anche tu una tazza di camomilla, e basta!

Serafino                           - (riapparendo dalla prima porta di sinistra) Debbo servire la camomilla?

Federico                          - (guardando ora Serafino, ora Dario) No. Aspetta. Più tardi.

Serafino                           - Quando il signore vorrà, debbo servirla qui, nello studio o in camera da letto?

Federico                          - (fissando Serafino come uno che non com­prenda) Eh, qui, naturalmente...

Serafino                           - (con uno sguardo significativo) Sta bene, signore. Ma... anche di là... se vuole... tutto è in ordine…

Federico                          - (avendo capito) Be'... vedremo...

Serafino                           - Con permesso, signore. (Esce).

Dario                               - (che ha seguito il dialogo tra Federico e Sera­fino con interesse, pur senza muoversi e senza guardare)

                                        - Adesso, posso continuare?

Federico                          - (più tranquillo) Come vuoi.

Dario l                             - Io sono ancora davanti allo specchio della stazione: davanti allo specchio appannato e controluce. Non mi decido ad andare a casa anche per un'altra ra­gione, che ti può sembrare cinica ma è piena di saggezza. Se mia moglie è uscita? Oppure: se mia moglie non è sola?

Federico                          - Ma, insomma, tu dubiti di tua moglie?

Dario                               - E di chi dovrei dubitare se non di mia moglie? Della regina del Siam? Dell'inquilina del terzo piano? Si dubita appunto delle persone che amiamo e che forse ci amano. Sarà terribile; ma è così.

Federico                          - Sta bene. E allora?

Dario                               - Allora ecco il punto: non arricciare il naso, non ti meravigliare allora ho fatto un ragiona­mento di cui, veramente, non mi credevo capace. Se mia moglie fosse uscita o se fosse in compagnia di qualcuno, sarebbe per me un grandissimo dolore, e poi... una in­commensurabile seccatura. Un dolore, perché sì, non posso negarlo  io l'amo. Una seccatura, perché... tu capisci perché. Uccidere? Battersi in duello? Querelare? Promuovere causa di separazione? Ora io sono arrivato a quella età in cui si fa di tutto per evitare i dolori e le seccature. Non è eroico: lo so. Forse non è nemmeno elegante. Ma gli anni conducono all'egoismo. Se non fossi un egoista, non avrei sposato una donna molto più gio­vane di me. Insomma, tu capisci, ho avuto paura di tornare a casa (dice queste ultime parole come disprez­zandosi).

Federico                          - E così... hai pensato di venire da me.

Dario                               - Non ci ho pensato. Ci son venuto per caso, macchinalmente. (Guarda Federico; poi, con un riso sinistro, dice) Del resto, non sei il mio migliore amico?

Federico                          - (sudando freddo) Hai... hai fatto benissimo.

Dario                               - Tu come trovi tutto questo? Deplorevole?, odioso?, abbietto?

Federico                          - (c. s.) Ma... sai... io non ho moglie... quindi…..

Dario                               - Non aver moglie, certo, è molto più comodo; ma non sempre. Tu non hai moglie; ma hai delle amanti. Forse fra le tue amanti c'è qualche donna maritata...

Federico                          - Oh, per carità!

Dario                               - Temi le donne maritate? Hai ragione. C'è tutta una letteratura la quale pretende che, nel famige­rato terzetto, l'unico da compiangersi sia il marito. E' vero perfettamente l'opposto. Pensa alle sofferenze, alle torture, alle paure che il marito può infliggere agli altri due. Poiché la legge è dalla parte sua, egli, il marito, può tormentare come vuole la moglie e l'altro: può im­pedir loro di vedersi, può amareggiarli con mille astuzie, può tenerli in continua preoccupazione e agitazione; in­fine può anche mandarli all'altro mondo o in galera. Mi sembra una posizione invidiabile.

Federico                          - (guardandolo con orgasmo, come per capire) Già.

Dario                               - Tutto sommato, credo che ti convenga di prender moglie.

Federico                          - (con un sorriso disperato) E' un'idea.

Serafino                           - (dalla prima porta di sinistra) Chiedo scusa, signore; ma la camomilla è già servita, nello studio. Mi permetto di consigliare al signore di prenderla subito. Non vorrei che il malessere del signore si aggravasse...

Federico                          - Vuoi venire, Dario?

Dario                               - E perché no? Ma non per prendere la ca­momilla. (Con intenzione) Sei tu che ti senti male; non io.

Federico                          - E' giusto. Prego. (Lo lascia passare per primo, ed esce dopo di luì per la seconda porta di sini­stra, seguito da Serafino che chiude la porta. Immedia­tamente dopo, dalla prima porta di sinistra, esce Rina, seguita da Graziella).

Rina                                 - (rapida, sottovoce) Ecco, signora. Da quella parte. La chiave ce l'ha?

Graziella                          - Sì, grazie. (Attraversa rapidamente la scena ed esce per la porta di destra).

Serafino                           - (dalla seconda porta di sinistra) E' uscita?

Rina                                 - Sì. Che paura! Ma credo che adesso non ci sia più pericolo.

Serafino                           - Chi lo sa!

Rina                                 - Perché? Tu sospetti che il marito...? (vuol dire: «Che il marito abbia qualche dubbio?»).

Serafino                           - Non tutto il discorso ho afferrato. Ma non sono affatto tranquillo.

Rina                                 - E che c'entri tu?

Serafino                           - Dico: non sono tranquillo per il signore.

Rina                                 - Ti confesso sinceramente che a me del signore non importa gran che. Io sono più preoccupata per lei.

Serafino                           - Per lei, chi?

Rina                                 - Per la signora.

Serafino                           - Eh, eh! Solidarietà femminile...

Rina                                 - Ti pare strana?

Serafino                           - Anzi! Naturalissima.

Rina                                 - In fondo, lui le può essere padre.

Serafino                           - Già, già! (Ironico) E siccome le può essere padre, è giusto che lei lo tradisca. E' giusto che le figlie tradiscano i padri...

Rina                                 - Be'; pensala come ti pare. Io ho sonno. Vado a dormire.

Serafino                           - Buon sonno.

Rina                                 - E' inutile che tu venga a fare i soliti tentativi.

Serafino                           - Vedrò. Ma forse stasera non mi conviene. Sai che quella signora, emozionata, si è distesa sul mio letto? Ha lasciato il suo profumo sul mio cuscino. Chi sa che sogni farò questa notte!

Rina                                 - Bene! Sogna pure. Felici sogni! Ma ricordati di sognare nella tua camera. Lasciami in pace.

Serafino                           - Me lo dici con troppa insistenza. Si di­rebbe che...

Rina                                 - Stupido!

Serafino                           - Amore!

(Rina fa una smorfia ed esce. Dalla seconda porta di sinistra rientrano Federico e Dario).

Federico                          - (dopo aver dato uno sguardo intorno e aver guardato Serafino che lo rassicura con un cenno del capo) Ecco: mi sento già meglio.

Dario                               - Anch'io.

Federico                          - Ah, dunque ti sentivi poco bene anche tu?

(Nel frattempo Serafino esce per la seconda porta di sinistra).

Dario                               - In un altro modo; ma anch'io.

Federico                          - (sorridendo a stento) Già! (Una pausa). Io vado al Circolo. Vieni anche tu?

Dario                               - (con un sorriso ambiguo) No. Oramai... posso andare a casa.

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

(Una sala di soggiorno nella casa di Dario Monza. Porte a sinistra e nel fondo. A destra, arco su una veranda. Telefono. E' mezzogiorno).

Rosalba                            - (in vestito da cameriera, è al telefono e an­nunzia a Graziella, tenendo coperto il microfono) E' il signor Cista, che chiede del signore.

Graziella                          - (che è seduta in un angolo della sala, preoc­cupatissima) Digli che rispondo io.

Rosalba                            - (al telefono) Ecco, signor Cista: viene la signora... No, signore. Il signore è fuori Roma... Non so, signore….. (guarda Graziella e fa l'atto di volerle chiedere qualche cosa).

Graziella                          - Lascia, lascia. Fammi preparare un caffè.

Rosalba                            - Subito, signora. (Lascia staccato il micro­fono ed esce).

Graziella                          - (si alza, si assicura di non essere udita da nessuno, va al telefono) Pronto?... Sì, sono io... No, non è tornato. Né stanotte, né stamattina. E' un mistero... Potete anche capire in che stato d'animo sono io». Non so che cosa pensare e soprattutto non so che cosa fare... Che volete che vi dica? C'è un'ipotesi: che egli abbia aspettato un treno della mattina; oppure che sia partito in aeroplano. Comunque, se è andato a Genova, mi tele­fonerà. Io sono qui e non posso che aspettare... Per ca­rità! Dovete essere addormentato, per credere possibile una cosa simile. Voi non dovete e non potete avvertirmi. Egli è venuto da voi segretamente, confidenzialmente. Con quale diritto e con quale pretesto voi avvertireste me di averlo veduto? Io e voi sappiamo la stessa cosa, e tutt'e due dobbiamo far finta di non saperla... Proprio così: è terribile... Be', non credo prudente continuare questa conversazione. Addio... Non so, non so. Non so se vi amo, non so se vi odio; non so niente. Addio... Non me la prendo con nessuno: me la prendo con me stessa. Addio... (Seccata) Sì, sì, va bene: addio. (De­pone il ricevitore con gesto nervoso; rimane li, ferma, a pensare).

Elena                               - (dalla sinistra, dopo averla guardata senza par­lare) Graziella!

Graziella                          - (con un sussulto) Oh, mamma! Buon giorno.

Elena                               - Che hai?

Graziella                          - Niente di grave. Mi sento poco bene.

Elena                               - (avvicinandosi, affettuosissima) Hai una fac­cia! Si direbbe che tu non abbia dormito.

Graziella                          - Infatti, ho dormito pochissimo e male.

Elena                               - Uh, povera piccola! E perché? Ieri sera, a pranzo, stavi benissimo.

Graziella                          - Non so. Forse m'ha fatto male il gelato.

Elena                               - Hai sentito il medico?

Graziella                          - Oh, cosa passeggera. Non valeva la pena.

Elena                               - Notizie di tuo marito?

Graziella                          - Nessuna. Ieri sera, dalla stazione, m'ha telefonato qualche minuto prima che partisse il treno... poi basta.

Elena                               - A quest'ora dev'essere a Genova. Come mai non t'ha telefonato da Genova? Te l'aveva promesso.

Graziella                          - Già; anche per questo sono in pensiero... .

Elena                               - Be', in pensiero!  Avrà avuto da fare.

Graziella                          - Tu lo conosci meglio di me. E' tanto preciso, tanto premuroso...

Elena                               - Figlia mia, bisogna abituarsi. I mariti, ap­pena fuori del guscio... (vuol dire: «Fanno tutti così»). Tuo padre, vicino a me, era un angelo; lontano, invece...

Graziella                          - Voglio ammettere che non abbia potuto o voluto telefonarmi subito. Ma è mezzogiorno.

Elena                               - Ti fa impressione, perché è la prima volta; poi ti rassegnerai anche tu. Del resto, potevi accompa­gnarlo. Prima lo accompagnavi.

Graziella                          - M'ha detto: «E' un viaggio d'affari; ti annoieresti... ».

Elena                               - Te lo avrà detto per vedere se tu avevi piacere di accompagnarlo.

Graziella                          - Credi?

Elena                               - Diamine! Si può dire che non faccia un passo senza di te. Non puoi mettere in dubbio che sia innamorato.

Graziella                          - Oh, anche troppo.

Elena                               - Te ne lamenti?

Graziella                          - Non è che me ne lamenti; ma... sai un po' di respiro.»

Elena                               - Se l'hai sposato appunto per questo!  Sì, l'hai sposato anche per la sua posizione, per il suo nome, per la simpatia che ispira; ma la ragione più forte - non devi dimenticarlo - è che sapeva amarti più dei tanti ragazzi che ti stavano intorno ed erano stupidissimi. La parola è tua. Tu dici: «Il respiro». Eccolo, il respiro. E' partito; sei sola. E tuttavia, come vedi, stai di malu­more perché non t'ha telefonato. Va là, va là; gli vuoi bene anche tu! Del resto, vuoi un'idea? Lui a Genova scende sempre al Grand Hotel. Telefonagli tu. Anche se non è in casa, saprà che tu gli hai telefonato; e questo gli farà molto piacere.

Graziella                          - Giusto. Hai ragione (si accinge a tele­fonare).

Rosalba                            - (dalla sinistra, con il caffè) Il caffè, signora. (Poi, a Elena) Buon giorno, signora. Debbo servirlo an­che per lei?

Elena                               - No, grazie.

 Graziella                         - (a Rosalba) Portalo via. Non mi va più.'

Rosalba                            - La cuoca desidera sapere a che ora la signora fa colazione.

Graziella                          - Non so.

Rosalba                            - Va bene, signora. (Esce).

Graziella                          - (a Elena) Soltanto non vorrei che una mia telefonata lo mettesse in sospetto.

Elena                               - In sospetto di che?

Graziella                          - I mariti sono così strani!

Elena                               - Non capisco.

Graziella                          - Potrebbe pensare che io gli telefoni per accertarmi del suo arrivo a Genova.

Elena                               - Ebbene?

Graziella                          - Insomma, come debbo dirtelo, mamma? Una moglie che si vuole accertare dell'arrivo di suo marito in un'altra città, può anche farlo per...

Elena                               - Per che cosa, Graziella?

Graziella                          - (mettendosi a piangere nervosamente) So­no infelice, ecco: sono infelice...

Elena                               - Graziella!  Adesso, poi, capisco meno di prima. Sei infelice perché lui è lontano, o perché lui non ti ha telefonato, o per un'altra ragione?

Graziella                          - Io so che non è lontano; so che non è partito.

Elena                               - Non è partito?

Graziella                          - Dice che ha perduto il treno, e non so se sia vero. Certo stanotte era a Roma, e non è tornato a casa.

Elena                               - Ha un'amante?

Graziella                          - Sarebbe molto meglio.

Elena                               - Allora, non l'ha.

Graziella                          - Forse sospetta che lo abbia io.

Elena                               - Tu? E come può sospettare una cosa simile?... Perché tu... tu non hai un amante. (Una pausa). Oppu­re...? Graziella, rispondi!

Graziella                          - Mamma, aiutami tu. La mia situazione è veramente incresciosa.

Elena                               - Ma che cosa è successo, in nome di Dio?

Graziella                          - E' successo che ieri sera... dopo che lui mi ha telefonato dalla stazione... io sono uscita...

Elena                               - Oh!

Graziella                          - Senti, mamma: non incominciare ad as­sumere quel tono di riprovazione, se vuoi che io con­tinui. Non ho un amante. Potevo averlo; forse lo avrei già, a quest'ora, se non fosse accaduto quello ch'è acca­duto; ma non l'ho. Sono uscita per andare a casa... di una persona amica.

Elena                               - Di chi?

Graziella                          - Non ha importanza.

Elena                               - Ne ha moltissima, cara.

Graziella                          - Sta bene. Ti dico tutto. A casa di Federico Cista.

Elena                               - Graziella!

Graziella                          - Bada: non so se l'amo. Non so se l'ho mai amato. Oggi, poi, lo detesto. Ci sono andata così: non ti so dire neanche io perché...

Elena                               - Così! Così, in casa di un uomo solo, di un uomo giovane... di notte... quando il marito è appena partito... Ma non sei mica una bambina, per non com­prendere che...

Graziella                          - Oh, capisco tutto. Capisco, anzi, troppo. A furia di star vicino a un uomo che ha tanta espe­rienza della vita!

Elena                               - Questo ti piaceva. L'hai sposato anche per questo.

Graziella                          - Allora non capivo niente.

Elena                               - Di modo che... tu non lo ami?

Graziella                          - Finiscila, mamma, con queste domande precise. « L'ami? Non l'ami? Ami questo? Ami quell'altro? ». Amo me stessa; amo certi miei pensieri, certi miei desideri. Non è facile a dirsi. Tu sei donna, e do­vresti rendertene conto.

Elena                               - Sta bene. Me ne renderò conto. Ma intanto, i fatti. Andiamo ai fatti...

Graziella                          - Mentre io era da Cista saranno state le dodici e mezza: non mi ero neanche rimessa dall'emo­zione qualcuno suona alla porta. Chi è? Lui.

Elena                               - Tuo marito?

Graziella                          - Né più né meno.

Elena                               - Aveva fatto finta di partire?

Graziella                          - Qui incomincia il mistero. le, per un po' di tempo, sto dietro la porta ad ascoltare. Sento dire che, mentre lui era venuto a telefonare a me, il treno era partito. Poi il cameriere di Cista mi invita a nascon­dermi nella sua camera per ogni evenienza; poi la ca­meriera mi fa uscire...

Elena                               - Per un'altra porta?

Graziella                          - No, per la porta comune. Un'altra porta c'è; ma s'è perduta la chiave. Io corro a casa con un tassì, mi metto a letto, mi sento relativamente sicura, aspetto. A un certo momento sento suonare questo tele­fono - il mio, quello della camera da letto, non fun­zionava perché avevo tolta la spina - e vado a sentire, credendo che sia lui. Invece è Cista che mi dice rapi­damente: «State tranquilla: mi pare non abbia alcun sospetto: è uscito adesso e ha detto che viene a casa ». L'hai visto, tu? Io no. Sono dodici ore, a momenti; e non so che cosa abbia fatto, che cosa gli sia accaduto... Sa? Non sa? Sospetta? Non sospetta? Mistero. Io sono qui, nell'impossibilità assoluta di fare delle ricerche, perché lui m'ha messa a nanna, io debbo essere sicura clic lui è partito... e basta.

Elena                               - Potrebbe essergli accaduta una disgrazia. O potrebbe aver capito che tu... Certo, è una situazione im­barazzante... E Cista che dice?

Graziella                          - Che cosa vuoi che dica? M'ha telefonato poco fa. Ne sa quanto me. Anche lui legato al segreto' della visita notturna... non può parlare, non può fare un passo.

Elena                               - Potrebbe far lui le ricerche, come all'insaputa tua. Telefona a casa, non lo trova; è naturale che voglia vedere che cosa gli è successo.

Graziella                          - E' un'idea.

Elena                               - Ma perché, poi, avendo perduto il treno, è andato da Cista, invece che venire a casa?

Graziella                          - Ho sentito, quando ancora ero dietro la porta, che si trovava a passare per caso dinanzi al portone di Cista...

Elena                               - Dove abita Cista?

Graziella                          - Vicino alla stazione. La cosa è verosimile.

Elena                               - Oh! Non mi potevi dare una notizia peg­giore. E adesso?

Graziella                          - E' quello che domando a te. O meglio: si può fare il tentativo che tu mi hai suggerito. Telefono a Cista...

Elena                               - Aspetta. Non telefonare. Vediamo di non commettere altre imprudenze. Forse è meglio telefonare a Genova. Se ti dicono che non è arrivato, tu puoi inco­minciare le ricerche.

Rosalba                            - (dalla sinistra,- parta un biglietto da visita in un vassoio) Ce questa signora.

Graziella                          - (dopo aver letto il nome) E chi è?

Elena                               - (leggendo anche lei) Piera Bonnet. E' una straniera ?

 Rosalba                           - Non mi pare. Parla benissimo l'italiano.

Graziella                          - Che tipo è?

Rosalba                            - Una signora abbastanza giovane, molto elegante.

Graziella                          - Ha chiesto di me personalmente?

Rosalba                            - Prima, in verità, ha chiesto del signore. Io le ho detto che il signore è fuori Roma. Lei m'ha detto: «Ho capito; allora mi annunzi alla signora». «Non so se la signora è in casa; e non so se a quest'ora riceve ». « Ditele che è cosa molto urgente».

Graziella                          - Che ne dici, mamma?

Elena                               - Falla entrare. »

Graziella                          - (a Rosalba) Che venga.

(Rosalba esce e subito dopo rientra, precedendo Piera Bonnet).

Piera                                - Buon giorno. La signora Monza?

Graziella                          - Sono io.

Piera                                - Sono la signora Piera Bonnet.

Graziella                          - Piacere. Prego. (La invita, con un gesto, a sedere; poi, presentando la madre) Mia madre. (Inchini da ambo le parti).

Piera                                - (a Graziella) Mi permetto di chiederle il fa­vore di rimanere sola con me.

Graziella                          - Ma... con mia madre... non ho segreti.

Piera                                - Potrei averne io.

Elena                               - Giusto. (A Graziella). Io vado di là. Ci rive­dremo dopo. Vuoi che, intanto, telefoni io a Genova?

Piera                                - E' inutile, signora.

Elena                               - Come?

Graziella                          - (contemporaneamente) Che vuol dire?

Piera                                - Immagino che vogliano telefonare a Genova per parlare con il signor Monza.

Elena e Graziella             - (insieme, sbalordite) Appunto.

Piera                                - Non credo che il signor Monza a quest'ora sia a Genova.

Graziella                          - E dov'è?

Piera                                - Se lo sapessi, non sarei qui, a parlare con lei.

Elena                               - (a Piera) Dunque, è a mio genero che lei vo­leva parlare?

Piera                                - (a Elena) Sì, a lui. In assenza - assenza pre­vista - alla moglie. Ma non a lei, signora. Chiedo scusa.

Elena                               - Prego. (Esce).

Piera                                - (a Graziella) Chiedo scusa anche a lei di aver costretto sua madre ad allontanarsi; ma ci sono confi­denze che non ammettono testimoni di nessun genere. Lei, poi, delle mie confidenze faccia l'uso' che crede; ma io ho il dovere - o forse neanche il dovere... ma sì, an­che il dovere - di parlare con lei sola.

Graziella                          - (meravigliata e incuriosita) Dica.

Piera                                - S'è mai accorta che suo marito abbia...?

Graziella                          - (subito) Un'amante?

Piera                                - No. O meglio: non so e non mi riguarda. Non escludo che abbia l'abitudine di guardare molto e con molto interesse le donne: me, per esempio. Ma è proba­bile che le guardi non precisamente per... per desiderio.

Graziella                          - - E perché dunque le guarderebbe?

Piera                                - Se mio, è molto difficile a dirsi. La prego in anticipo di scusarmi. Debbo completare la mia prima domanda.

Graziella                          - La completi.

Piera                                - Ella non si è mai accorta che suo marito ha un vizio?

Graziella                          - Un vizio? Non so. Quello di fumare, quel­lo di giocare...

Piera                                - Più grave; seppure meno riprovevole, perché in fondo... è un vizio irresistibile. Io ho studiato legge; ho studiato medicina legale, e so queste cose.

Graziella                          - Francamente, non riesco a capire.

Piera                                - Signora, suo marito è cleptomane.

Graziella                          - Cleptomane?

Piera                                - Sì, cleptomane. Ruba quasi inconsapevol­mente, quasi senza accorgersene. Non per bisogno, non a scopo di illecito profitto; ma così - come dicevo - per forza irresistibile.

Graziella                          - Ma è assurdo!

Piera                                - Non è assurdo, signora. E' fatale. Si nasce cleptomani come si nasce storti o deficienti o muti...

Graziella                          - Non mi sono mai accorta che...

Piera                                - Lo credo. I malati di questo male hanno una grande astuzia. Compiono, sì, macchinalmente, l'atto del rubare; ma usano mille cautele sia prima che dopo, per non essere sorpresi e scoperti.

Graziella                          -  (sempre sbalordita) E a lei consta che mio marito...?

Piera                                - Sono, fino a questo momento, una vittima del suo male.

Graziella                          - In che modo?

Piera                                - Ieri sera partivo per Genova, con il treno del­le ventiquattro e quindici: lo stesso treno con cui partiva suo marito. E' vero che suo marito partiva con il treno delle ventiquattro e quindici?

Graziella                          - Sì.

Piera                                - Salimmo quasi insieme sulla prima carrozza delle vetture-letto. Egli mi cedette il passo, entrò dopo di me. Tutte due, prima di salire, consegnammo i nostri libretti e i nostri scontrini al conduttore della vettura. Il conduttore salutò confidenzialmente me e lui perché ci conosceva. Lui aveva nelle mani un giornale. Io por­tavo una borsetta di cuoio rosso, un po' eccentrica. Quan­do fui nella mia cabina - cabina numero ventisei - misi la borsetta sul divano e guardai se le mie valigie fossero state messe a posto. Volgendo in giro lo sguar­do, trovai suo marito quasi su la soglia della mia ca­bina e notai che egli osservava con attenzione la mia borsetta. Mi ricordo benissimo che pensai: «Faccio ma­le a portare i miei gioielli in una borsetta che attira gli sguardi di tutti ». Ma fu un lampo. Dopo, mi parve che suo marito si interessasse piuttosto di me che della mia borsetta. Sa: il treno... un uomo e una donna in due cabine vicine... Non succede mai niente; ma si sogna sempre - si sogna o si teme - che possa succedere qual­che cosa...

Graziella                          - E mio marito... avrebbe...?

Piera                                - Sto esponendo dei fatti, signora. Vedrà che non è possibile sbagliare. Dunque, suo marito- incomincia a passeggiare dinanzi alla mia cabina. Suo marito è un bell'uomo.

Graziella                          - Grazie!

Piera                                - Dico ch'è un bell'uomo, per farle capire che la sua attenzione, dopo tutto, non mi dispiaceva. Io siedo; mi metto a guardare un giornale illustrato, sento che suo marito ordina al conduttore di preparargli il letto; av­verto sempre la presenza di suo marito nel corridoio, dinanzi alla mia cabina; poco dopo sento che suo ma­rito si ritira nella sua cabina dopo avere ordinato una bottiglia di acqua minerale, la sveglia alle otto e un caffè nero. Allora io esco nel corridoio. C'è il movimento che precede la partenza. Il conduttore sta preparando altri letti, in altre cabine. Io me lo farò preparare per ultima, perché non ho sonno. Guardo l'orologio sul mio polso: sono le ventiquattro e dieci. Mi accorgo che il giornale mi ha macchiato le dita. Chiudo la porta della mia cabina, e vado nella « toilette » per lavarmi. Debbo essere stata molto tempo nella « toilette », perché, quando ne esco, il treno è già in moto da alcuni minuti. Le ca­bine sono tutte chiuse. Il conduttore viene verso il suo posto dalla parte opposta del corridoio. Lo fermo, e gli dico: «Mi prepari il letto ». Alla mia borsetta non penso più. Solo dopo che sono rientrata nella mia cabina e mi sono quasi svestita, mi accorgo che la mia borsetta non c'è.

Graziella                          - Signora! E da questo, nientemeno, lei arguisce che... ?

Piera                                - Le ripeto, signora: espongo i fatti. Mi butto addosso una vestaglia, suono il campanello, avverto del­la scomparsa il conduttore. Lui mi dice: «Non c'era nes­suna borsetta, sul divano». Guardiamo meglio, cerchia­mo: niente. Il conduttore mi propone di denunziare la scomparsa alla milizia ferroviaria. Io ho il presentimento che non sia necessario. Prego il conduttore di aspettare. Mi passa per la mente un'idea - come dire? - un po' femminile: «La borsetta, l'ha presa il signore che sia nella cabina accanto, per avere un pretesto di attaccare discorso con me durante la notte». Dico al conduttore: « Aspetti: voglio fare una prova ». Tra la mia cabina e quella di suo marito c'è una porticina. Giro la chiave di sicurezza, e busso. Non risponde nessuno. Tento- di aprire, e la porta, infatti, si apre, perché non è fermata nemmeno dall'altra parte. La cabina è vuota. Tutto il resto si capisce. Ricerche nelle altre carrozze, nelle «toilettes»: dovunque. Suo marito è scomparso. Non può essere disceso che alla stazione di partenza, prima che il treno si muovesse. Il conduttore esclude che suo marito sia un ladro. Mi dà nome, cognome, indirizzo: tutte le infor­mazioni più rassicuranti. Del resto, il nome non è nuovo neanche a me. Non può trattarsi che di un caso di clep­tomania.

Graziella                          - E se mio marito, 'invece, fosse scomparso per un'altra ragione?

Piera                                - Quale? Lei ha più veduto suo marito da ieri sera?

Graziella                          - (imbarazzato.) No.

Piera                                - Ne ha avuto notizie?

Graziella                          - No. Ero appunto preoccupata di non aver ricevuto una sua telefonata da Genova, e pensavo, con la mamma...

Piera                                - Ecco. Avevo già capito. Del resto, alla stazione di Pisa, verso l'alba, giunse una telefonata, la quale av­vertiva il conduttore del vagone-letti che suo marito, di­sceso pochi minuti prima della partenza, aveva perduto il treno e raccomandava al conduttore le sue valigie, che erano nella cabina numero ventisette. E' chiaro che, nella fretta di fare il colpo, egli o si era dimenticato delle sue valigie; o aveva lasciato le sue valigie per crearsi un alibi. Comunque, apprendo ora da lei che non è tornato a casa. Non credo che occorrano altre prove.

Graziella                          - Ma... può non essere tornato a casa per altre ragioni.

Piera                                - E quali, signora? Io sono sicura di quello che ho pensato e di quello che dico. Tanto è vero che, a Pisa, sono discesa dal treno per Genova e ho aspettato un treno per Roma. Ho pregato il conduttore di non far paro-la a nessuno di quanto era accaduto. Per me, l'es­senziale è di riavere i miei gioielli, e credo che li riavrò, perché suo marito non li ha rubati per bisogno. Le dirò, anzi, che il caso m'interessa per i miei studi. Non mi attribuisca una fantasia romanzesca e conti su la mia assoluta discrezione.

Graziella                          - Tutto quello che lei mi dice è sbalorditivo. Dario, un cleptomane? Vivo ormai con lui da tre anni e non mi sono mai accorta .che...

Piera                                - Oh, i malati come lui sono furbissimi: gliel’ho già detto. Per di più, normalmente sono insospettabili, appunto come suo marito. E' un caso che io abbia po­tuto pensare a lui. In compenso, quando sono irrimedia­bilmente scoperti, non negano. Restituiscono il bottino e dicono di non ricordare perché lo abbiano fatto. Forse sono sinceri. Sarebbe interessante, anzi, sapere se sono sinceri. Non è da escludere che accada a loro quello che accade agli epilettici, dopo l'accesso del male: non se ne ricordano. Può darsi anche che la cleptomania sia una forma latente di epilessia.

Graziella                          - E' spaventevole. Permetta ch'io chiami mia madre.

Piera                                - Padronissima. Questa, ora, è una decisione che spetta a lei.

Elena                               - (rientrando subito) .Ho sentito. Chiedo scusa, ma questa visita, dopo la scomparsa di Dario mi pareva tanto strana... (A Graziella) Noi, tuttavia, sappiamo che... (vorrebbe alludere alla visita notturna di Dario a Fede­rico Cista).

Graziella                          - (fermandola) Mamma!

Piera                                - C'è forse qualche elemento nuovo o che mi sfugge?

Graziella                          - No, no.

Elena                               - (correggendosi) Volevo dire: noi sappiamo che Dario è assolutamente incapace di...

Piera                                - Io non voglio prolungare il disturbo, signora. Suppongo che in giornata suo marito rientrerà. Finito l'accesso del male, rientrerà. Rientrerà con la mia bor­setta. Basta vigilare perché non abbia il tempo di na­sconderla. Se riuscisse a nasconderla, sarebbe grave. I malati come lui hanno ripostigli inimmaginabili. Allora io farei la figura di avere inventato un capitolo da ro­manzo di appendice, e sarei costretta a fare quello che non ho fatto finora: una denunzia. Mi aiutino loro a evi­tare una decisione così dolorosa.

Rosalba                            - (entrando improvvisamente) Signora, è rien­trato il signore.

Piera                                - Ah!

Graziella                          - E dov'è?

Piera                                - Vogliono che io esca senza farmi vedere o che mi nasconda?

Elena                               - No, no, no. Stia pure. E' meglio che stia. Vero, Graziella?

Graziella                          - Io... imi sento morire.

Piera                                - (a Graziella) Perché, signora? Si calmi. Vedrà che tutto andrà benissimo. (A Rosalba) Portava qualche cosa il signore, quando è rientrato?

Rosalba                            - .Non l'ho visto entrare.

Elena                               - (protestando) Ma questa è una vera e propria inchiesta! Mi permetta, signora, di dirle che ancora non ha alcun diritto...

Dario                               - (dalla sinistra, freddo, calmo, tranquillo) Che c'è?

Graziella                          - (subito, correndogli incontro, sforzandosi a mostrarsi meravigliata) Oh, Dario! E come mai? Tu dovevi essere a Genova. Pensavamo proprio adesso di telefonarti a Genova...

Dario                               - (prendendo la moglie per le braccia, senza ba­ciarla) Un contrattempo. Ti dirò. (La guarda a lungo) Stavi in pensiero?

Graziella                          - (sostenendo a stento io sguardo del marito) Eh, capirai. Tu avevi detto che appena arrivato a Ge­nova mi avresti telefonato.

Dario                               - E' già tardi?

Graziella                          - Come, non lo sai? E' passato mezzogiorno.

Elena                               - (avanzando) Ma che cos'è? Ti sei sentito male?

 Dario                              - Oh, Elena! (fa per darle la mano; si accorge della presenza di Piera) Ah, lei! (Si rivolge immediata­mente a Rosalba) Prendi quella borsetta che ho lasciato adesso nella mia camera. (Rosalba esce. Le tre donne si guardano: Elena e Graziella sono stupite; Piera ha Varia di dire: a Ecco, è come pensavo ». Dario, rivolto a Gra­ziella, continua) Tu la conosci? Vuoi presentarmi?

Graziella                          - (più morta che viva) Mio marito. La signora...

Piera                                - Bonnet.

Dario                               - (completando) Piera Bonnet. (Poi, inchinan­dosi) Fortunatissimo. Già noi ci conoscevamo di vista. Ieri sera, nel rapido di Genova...

Piera                                - Sì: eravamo vicini di cabina.

(Ritorna Rosalba con una borsetta rossa).

Dario                               - (prende dalle mani di Rosalba la borsetta e la porge a Piera, che la prende) Eccole la sua borsetta. Vuol verificare se è intatta?

Piera                                - (senza verificare) Oh, certamente.

Elena                               - (a Dario, quasi balbettando) E... e come... come ti trovi tu... la borsetta della signorina?

Piera                                - (rapida) Forse m'era caduta.

Dario                               - Non credo che le fosse caduta. Era sul di­vano della sua cabina.

Graziella                          - Ah, ecco! E tu... l'hai trovata sul divano?

Piera                                - Non è il caso, per ora...

Dario                               - Io l'ho trovata molto più lontano... E' stato un miracolo. Credo che la signora sia già informata...

Piera                                - No. Veramente no.

Dario                               - (a Piera) Ma allora lei non era venuta qui per la sua borsetta?

Piera                                - (imbarazzata) Sì, veramente si.

Dario                               - (guardando successivamente tutt'e tre le donne)

                                        - Oh, perbacco! Fatemi capire.

Elena                               - Dario! La signora crede... sospetta...

Dario                               - Che cosa?

Piera                                - Ma no! Non è il caso. Evidentemente c'è un equivoco.

Dario                               - Che equivoco?

Elena                               - Insomma, la signora sospetta che l'abbia presa tu, distrattamente, sul divano della sua cabina...

Dario                               - (facendo l'atto di ricordare) Io?

Graziella                          - Sì, prima di scendere dal treno per tele­fonarmi. Non ti ricordi che sei sceso dal treno per tele­fonarmi ?

Dario                               - (guarda a lungo la moglie; poi esclama ridendo)

                                        - Oh! (Una breve pausa). Quando io sono sceso dal treno per telefonarti, anzi quando sono uscito dalla mia cabina, ho visto che un tale usciva dalla cabina della signora e aveva nelle mani quella borsetta rossa. Mi passò nella mente il pensiero che fosse un ladro. Ma avevo fretta di salutarti e m'incamminai velocemente verso la porta del vagone. Su la porta quel tale, volendo pre­cedermi, mi diede uno spintone. Lo vidi saltare giù e correre sotto la pensilina, verso i cancelli. Non ebbi più alcun dubbio. Lo inseguii. Vedendosi perduto, egli a un certo punto lasciò cadere la borsetta. Io la raccolsi e venni a telefonarti.

Graziella                          - (pallidissima) E dopo?

Dario                               - Ah, dopo... (Guarda Piera) Non credo che alla signora interessi di sapere quello che avvenne dopo.

Piera                                - (poco convinta) Infatti...

Dario                               - (a Piera) Andava anche lei a Genova?

Piera                                - Sì.

Dario                               - E... è tornata indietro appunto per la borsetta?'

Piera                                - Sì.

Dario                               - Dunque, qualcuno l'ha avvertita che la bor­setta era presso di me?

Piera                                - No.

Dario                               - No? Eppure io ho telefonato alla stazione di Pisa sia perché mi fossero riportate indietro le mie va­ligie, sia perché lei fosse avvertita che la sua borsetta era nelle mie mani.

Piera                                - La seconda parte del suo fonogramma non mi è stata comunicata.

Dario                               - E come ha fatto, dunque, a immaginare? (Comprende; sorride) Oh, perbacco! Allora, per alcune ore, io, per lei, sono stato un ladro?

Elena                               - Un cleptomane.

Dario                               - (divertendosi) Bellissimo.

Piera                                - (a Dario) La prego scusarmi...

Dario                               - Per carità! Pier Giuseppe Proudhon mi con­sidererebbe un ladro fin dall'infanzia. Fu lui, come sa­pete, che un secolo fa disse: « La proprietà è un furto ». Io sono proprietario da quando sono nato. Che poi i ladri si chiamino qualche volta cleptomani, è una que­stione linguistica di scarso interesse. Piuttosto mi pia­cerebbe di sapere se la mia famiglia (accenna a Elena e a Graziella) mi ha creduto anche lei, sia pure per un momento, qualificabile come la signora, per equivoco, mi ha qualificato.

Elena                               - E come puoi credere?

Dario                               - (guardando Graziella) Mia moglie non ri­sponde?

Graziella                          - (impacciatissima) Ma... io...

Dario                               - (sempre fissando Graziella) Tu?

Graziella                          - (c. s.) Io meno di tutti, si capisce.

Dario                               - Grazie. (Poi a Piera, sorridendo) Io tengo alla stima di mia moglie.

Piera                                - (guarda prima Graziella, poi Elena, poi Dario, un po' sconcertata, poi saluta) Buon giorno.

Dario                               - Se ne va?

Piera                                - Sì, è tardi.

Dario                               - L'accompagno.

Piera                                - (a Elena e a Graziella) Buon giorno.

Elena e Graziella             - (rispondono con un cenno del capo).

Dario                               - (a Piera, cedendole il passo) Prego. (Poi a Rosalba) Colazione fra un quarto d'ora.

(Dario e Piera escono da un lato; Rosalba dall'altro).

Graziella                          - (a Elena) Qual è la tua impressione?

Elena                               - Che vuoi che ti dica? Intanto questa storia della borsetta mi pare un pasticcio. Poi, non «i capisce perché, avendo perduto il treno ieri sera, sia tornato a casa solamente stamane.

Graziella                          - Io non so come comportarmi.

Elena                               - Comunque tu hai il diritto di chiedergli delle spiegazioni sul mancato viaggio. Vedi un po'. A seconda di quello che lui ti risponde...

Graziella                          - E se continua a rispondermi in questa maniera equivoca, ambigua, incomprensibile?

Elena                               - Abbi pazienza. Di fronte a lui, la tua posi­zione è semplice. Dopo aver ricevuto la sua telefonata, sei andata a letto, hai riposato, ti sei alzata, hai aspettato che lui ti telefonasse da Genova. Il resto deve dirlo lui, non tu.

Graziella                          - Non mi ha neanche baciata. Ma parlato sempre con quel suo tono canzonatorio...

Elena                               - (sospirando) Figlia mia! Ti serva come lezione. Tu hai commesso un'imprudenza grave; la più grave che si possa commettere. Una vera pazzia.

Dario                               - (ritorna, precedendo Federico Cista) Vieni, vieni, Federico. (Poi alle due donne) Qui c'è il nostro caro Federico.

(Sguardi interrogativi e imbarazzo da parte di Fede­rico, Elena, Graziella).

Federico                          - Buon giorno. (Bacia la mano alle signore).

Dario                               - Dunque ti dicevo, mio caro Federico, che hai fatto bene a venire, pur sapendomi a Genova. (Lo guarda in maniera significativa, come per fargli intendere: « Non ci siamo visti altrove che qui »).

Federico                          - In realtà io credevo che tu non fossi par­tito affatto. Ho incontrato poco fa Giannetto Lugli, che m'ha detto di averti visto. M'ha detto, anzi, che proba­bilmente verrà da te.

Dario                               - Quanto gli serve?

Federico                          - Ah, lui ha la sua unità di misura: mille lire. Ieri sera gliele ho date io, e naturalmente le ha perdute. Oggi, forse, gliele darai tu...

Dario                               - Può darsi. Dipende dall'umore.

Federico                          - Non sei di buon umore?

Dario                               - Ottimo. E tu?

Federico                          - Così. Abbastanza buono. Dunque, dicevi?

Dario                               - Dicevo che da dodici ore faccio il poliziotto dilettante.

Federico                          - E perché poi?

Dario                               - Una parte della mia avventura, la conosce anche mia moglie. (A Graziella) Oh, scusa, cara. Sono rientrato e non ti ho neanche baciata. Permetti? (la bacia parecchie volte).

Federico                          - (seccato e imbarazzato, si volge a Elena, sor­ridendo amaramente) i Sempre come due sposini...

Dario                               - (a Federico e a Elena) Scusate. Con voi non faccio complimenti.

Elena                               - (scherzosa) E' un diritto.

Dario                               - E' un piacere. (Bacia ancora Graziella). De­testo i diritti e i doveri, nella vita coniugale. (Poi a Gra­ziella) E tu?

Graziella                          - (trepidando) Sono... d'accordo con te.

Dario                               - Troppo remissiva. Più personalità. Ma ne ri­parleremo. (Poi, a tutti) Dunque...

Federico                          - Siamo sempre a questo « dunque ». Avanti, parla.

Dario                               - Tu sai che amo le interruzioni. I parlamenti democratici mi piacevano solo per le interruzioni. Dun­que, ho fatto il poliziotto dilettante. E' più divertente di quanto immaginavo.

Federico                          - (nervoso) E... a proposito di che cosa l'hai fatto?

Graziella                          - (come per rassicurare Federico) Sapete: una signora, una sua compagna di viaggio, era stata de­rubata della borsetta, e Dario ha acciuffato il ladro.

Dario                               - (che mostra di aver colto l’interessata premura della moglie nel’informare Federico) Brava! Aiutami.

Graziella                          - (pentita) Forse volevi raccontarlo tu?

Dario                               - Prego. Continua.

Graziella                          - Non... non so altro.

Federico                          - (a Dario) E che c'entra la storia della bor­setta con il mancato tuo viaggio a Genova?

Dario                               - C'entra. E' l'unica cosa che c'entri. Altrimenti perché avrei perduto il treno?

Federico                          - (con aria di complice) Ah, capisco.

Elena                               - (a Dario) Hai perduto il treno; ma non sei tornato subito a casa.

Graziella                          - Già. Come mai?

Federico                          - Ah, non sei tornato subito a casa?

Dario                               - (interessandosi sempre all'imbarazzo dei tre in­terlocutori) A casa! E chi avrei trovato a casa?

(Terribile silenzio da parte dei tre).

Federico                          - (facendosi coraggio) Tua moglie.

Dario                               - Sì, naturalmente, mia moglie. Ma non l'uomo che mi premeva di trovare.

Elena                               - Quale uomo?

Dario                               - Il ladro. Il ladro della borsetta; (A Federico) Borsetta che conteneva gioielli per parecchie centinaia di migliaia di lire.

Graziella                          - Ma tu... la borsetta... l'hai raccolta per terra; e l'uomo era scappato...

Dario                               - Ho dovuto dire così alla signora Bonnet; in realtà lo svolgimento dei fatti è meno semplice. Ma voi non mi lasciate parlare. M'interrompete continuamente.

Elena                               - Hai ragione. Lasciamolo parlare. (A Dario) Capisci: siamo un po' tutti nervosi, perché...

Dario                               - Perché?

Graziella                          - Devi ammettere che tutto quello ch'è suc­cesso è un po' strano.

Dario                               - Strano? Non mi pare. Vorrei dire, anzi, che è troppo solito, troppo stupido. Non è poi vero che la realtà è più originale della fantasia. Fatti come quelli che son capitati a me ne succedono continuamente. Non sei del mio parere, Federico?

Federico                          - (sconcertatissimo) Io ancora questi fatti non li so. Anzi, adesso mi ricordo che ho un appunta­mento. Bisogna che me ne vada. Mi dirai un'altra volta.

Dario                               - (a Federico) Si direbbe che la mia avventura ti abbia seccato. Mi dispiace.

Federico                          - Ma no. Che seccato! Figurati. Vedo, qua, le signore in orgasmo; tu vai per le lunghe...

Dario                               - Calmati, calmati. Sarò breve. Ma debbo pure spiegare a mia moglie le ragioni della mia lunga assenza. Lei potrebbe anche pensar male di me... sebbene mi co­nosca fedelissimo e innamoratissimo.

Graziella i                        - i Avresti fatto meglio a tornare subito a casa!

Dario                               - Credi? (Poi a Federico) Come vedi, è gelosa: E non posso negare che agli uomini faccia sempre un po' di piacere la gelosia della moglie. Dunque... un altro «dunque» ci vuole... dunque...

Federico                          - (non potendone più) Ti stai prendendo gioco di noi. Questa è la verità. E' meglio parlarsi chia­ramente. Io non so che cosa sia accaduto; ma tu stai facendo di tutto per non farci capire niente. Ora questo non mi piace: permettimi che te lo dica.

Dario                               - (calmo) Federico bello! Ma che cosa ti pren­de? Ti agiti, smanii, alzi perfino la voce... come se fossi in casa tua.

Federico                          - (riprendendosi) Oh! Hai ragione. Che sciocco! (Ride). Per fortuna, tu mi capisci...

Dario                               - Altro che!

Rosalba                            - (entrando dalla sinistra) Signore, la cola­zione è pronta.

Dario                               - (a Federico) E dal momento che hai preso cappello, farai colazione con noi.

Federico                          - In questo caso, non posso proprio che ac­cettare.

Dario                               - Bravo. Così a tavola ti racconterò tutto, per filo e per segno. (Alle signore) Vogliamo andare?

Rosalba                            - Mi permetto di avvertire il signore che di là c'è il signor Giannetto Lugli.

Dario                               - Eccolo là. Puntualissimo. Vogliamo invitare a colazione anche lui?

Federico                          - Non credo che sia venuto per la colazione; o per lo meno non credo che sia venuto soltanto per la colazione.

'Dario                               - Ah, già! (Cava dalla tasca dei pantaloni al­cuni biglietti da mille, ne prepara uno piegato in quattro, lo tiene nella destra, poi dice a Rosalba) Fa' entrare il signor Giannetto Lugli.

(Rosalba esce. Dario si mette in attesa. Federico, Ele­na, Graziella fanno gruppo a se, discretamente, per la­sciare che Dario dia le mille lire a Giannetto Lugli quando sarà entrato).

Federico                          - (alle signore) Lasciamo che questa opera­zione... a fondo perduto si compia con la dovuta di­screzione.

Graziella                          - (sottovoce a Federico) Che ne pensate?

Elena                               - (sottovoce a Federico) Siete stato di un'im­prudenza puerile.

Federico                          - (fa segni come per dire: a E' vero; ma non ne potevo più»).

(E mentre i tre, preoccupatissimi, si scambiano sotto­voce le loro impressioni, Dario riceve Giannetto).

Dario                               - Avanti, Giannetto, vieni.

Giannetto                        - Caro Dario, è veramente una fortuna che tu non sia partito...

Dario                               - Lo so, lo so.

Giannetto                        - Una fortuna per me...

Dario                               - Anche per me. (Gesto dei tre, che vogliono dire: «Ecco! Continua! »).

Giannetto                        - Anche per te?

Dario                               - Sì. Anche per me, che ho il piacere di... (mette nella mano di Giannetto un biglietto da mille).

Giannetto                        - Oh, grazie. Tante grazie! Come sei in­telligente!

Dario                               - Purtroppo, sì.

Giannetto                        - Purtroppo? Mi rendi questo grande fa­vore, e già te ne penti.

Dario                               - Scherzavo.

Giannetto                        - Del resto, senza complimenti. Per tua tranquillità ho portato una cambiale. Eccola (la mostra; cava di tasca una penna stilografica) Adesso la riempio, la firmo.

Dario                               - (prendendogli la cambiale dalle mani) Dam­mela così.

Giannetto                        - Bianca? Senza neppure la mia firma? Così?

Dario                               - (la guarda) Così, vale ancora una lira. Con la tua firma non varrebbe più niente (se la mette in tasca).

Giannetto                        - (ridendo) Ah! Ah! Ah!

Dario                               - E adesso fai colazione con noi. (Alle donne, invitandole con il gesto) Signore...

(Mentre le donne escono, Giannetto si inchina).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

(Un salotto in casa di Dario Monza. Poltrone e divani a destra e a sinistra. Nel fondo un arco, oltre l'arco un corridoio, e oltre il corridoio un altro arco e poi un vasto salone, gremito d'invitati a un trattenimento serale. Sono tutti in abito da società. Nel salone, a tratti, si balla; e la musica arriva su la scena appena percettibile. Il movimento degli invitati nel salone è continuo, fino alla pe­nultima scena. Quando si alza il sipario, viene avanti Fe­derico, seguito da Giannetto).

Federico                          - (infastidito) Mi dispiace, Giannetto, ma non ho denaro.

Giannetto                        - E perché me lo dici con codesto tono?

Federico                          - Bisognava pure che una buona volta te lo dicessi con questo tono. Tu non sei nemmeno un giocatore fortunato. Perdi. Che gusto c'è a prestarti del de­naro perché tu lo perda?

Giannetto                        - Quasi sempre lo vinci tu stesso.

Federico                          - E ti pare un bell'affare? Io vinco il mio stesso denaro; tu vieni a riprendertelo; io te lo rido; tu lo riperdi; io lo rivinco... Oltre tutto, è un giro molto noioso.

Giannetto                        - Ma tu giochi per divertirti; mica per vin­cere. Alla fine io contribuisco al tuo divertimento.

Federico                          - E’ un bel divertimento!

Giannetto                        - Ho capito. Sei nero. Le faccende d'amore ti vanno male.

Federico                          - Ma neanche per sogno! Mi vanno benis­simo.

Giannetto                        - Non credo. Ti ho già detto che i fortu­nati in amore sono generosi. Dario Monza è molto più generoso di te.

Federico                          - E tu rivolgiti a Dario Monza! Sei in casa sua. Cercalo. E’ facile.

Giannetto                        - Sta bene.

Federico                          - E ti prego anche di finirla con codesta abi­tudine di abbinare il nome mio con quello di Dario in una materia così scabrosa.

Giannetto                        - Eh, stasera hai proprio deciso di trat­tarmi male! Lo so, che quelli che chiedono, specialmente quelli che chiedono denaro, debbono essere preparati a tutto; ma da te m'aspettavo...

Federico                          - (sempre ostile) Che cosa?

Giannetto                        - E dagli con quel tono! Per lo meno mi aspettavo un rifiuto non brutale. Io, quando ho potuto, ti ho reso dei servigi.

Federico                          - Ma quattrini mai.

Giannetto                        - Si rende quello che si può. L'ultima volta che fummo a colazione insieme, qua, in questa casa, io solo, con i miei mezzi...

Federico                          - Quali mezzi?

Giannetto                        - Mezzi diplomatici. Ognuno ha i suoi. Con i miei mezzi diplomatici, ti ho evitato... non so se la morte... ma certo un grande dispiacere.

.Federico                         - Uh, là là!

Giannetto                        - Ullallà; ma tu eri irritato, stavi per tra­dirti; lei anche... Sì, certo, Dario mostra una grande pa­zienza; ma, se fossi in te, non mi fiderei. E' un uomo che sa.

Federico                          - Ma che cosa deve sapere?

Giannetto                        - Eh, andiamo! (Una pausa). Tu hai cre­duto a quella storia della borsetta?

Federico                          - Non m'interessa.

Giannetto                        - Eppure per quella storia ti irritavi. Ap­punto perché capivi che quella storia ne nascondeva una molto più grave. Sì, sta tutto bene: lui ha perduto il tre­no, ha recuperato la borsetta alla signora Bonnet... A proposito, sono diventati amici; hai visto che c'è anche lei; con il marito. Anche lei, donna giovane, con un marito anziano... Sotto, Federico. E' l'ora tua.

Federico                          - Non cambiare discorso. Continua.

Giannetto                        - Le fai già la corte? E’ carina, elegante...

Federico                          - Ti prego di continuare il discorso di prima.

Giannetto                        - Dicevo per dire. A te piacciono i boc­coni speciali. E' un'idea che ti dò. Fanne l'uso che vuoi.

Federico                          - Ancora?

Giannetto                        - Che stavo dicendo? Sai, mi distraggo, perché penso che stasera dovrò ricorrere a un altro. A chi? Speriamo che il Signore mi illumini e mi aiuti. Dun­que, è verissimo che lui ha recuperato la borsetta alla si­gnora Bonnet; ma come? Come diceva prima a sua moglie e a sua suocera e alla stessa signora Bonnet; non come ha voluto far credere a noi dopo. Figuriamoci! La sco­perta del ladro, il pedinamento tutta una notte, l'alberguccio malfamato, le due camere vicine, il drammatico colloquio con il ladro. Bubbole. Da quando l'ho veduto io, scommetto che il poliziotto dilettante lo ha fatto per tutt'altra ragione.

Federico                          - Tu l'hai veduto la mattina; poco prima di venire qua a colazione.

Giannetto                        - (sogghigna) Ecco la mia diplomazia. Io, invece, sapevo che non si era mosso da Roma.

Federico                          - E come lo sapevi?

Giannetto                        - Ah, incominci a interessarti!

Federico                          - Di', di': come lo sapevi?

Giannetto                        - Mi fai violare un segreto grave; mi fai fare una parte odiosa.

Federico                          - Su, quanto ti serve?

Giannetto                        - (con comica aria di protesta) Oh! Ades­so, ecco, mi credi capace di vendermi. Siamo amici da tanti anni, e mi offendi, mi umili, mi tratti come uno straccio. Io uso diplomazia con tutti; e gli altri invece... Facciamo una cosa: tu mi rendi quest'altro favore...

Federico                          - Il solito?

Giannetto                        - Sì, il solito. Ma indipendentemente da quello che sto per dirti. Tu mi rendi un favore d'amico, io ti faccio una confidenza d'amico. Mi preme di stabilire questa reciprocanza...

Federico                          - Sta bene, sta bene. Avanti!

Giannetto                        - (segue i gesti di Federico per vedere se egli " prenda in tasca il denaro) Allora... siamo intesi...

Federico                          - Vuoi prima...? (Intende dire: «Vuoi pri­ma il denaro? »).

Giannetto                        - Per carità! Tra di noi... Basta la parola.

Federico                          - Sbrigati, prima che venga gente.

Giannetto                        - Ti ricordi quella sera che mi facesti quell'altro favore, a casa tua?

Federico                          - Me ne ricordo certamente più, di te.

Giannetto                        - Eh, capisco: perché tu sei il creditore..

Federico                          - Giannetto, ti vuoi sbrigare?

Giannetto                        - Io uscii di casa tua. Se non mi sbaglio, mi cacciasti via.

Federico                          - Ti pregai di andartene.

Giannetto                        - Ecco, vedi: che cosa ci vuole a essere cortese? «Mi pregasti di andarmene». Mi sento meglio. Ti parlo da pari a pari.

Federico                          - (seccato) Uffaah!

Giannetto                        - E abbi pazienza! Sono cose gravi. Mi sento tremare al solo pensarci. Uscii di casa tua, e, ap­pena in istrada, anzi per le scale, pensai: «Voglio ve­dere chi è la donna che è di turno stasera ».

Federico                          - Bella discrezione!

Giannetto                        - Te l'ho già detto: sono povero; bisogna che conosca i miei contemporanei. Ma già io immagi­navo. Ho l'occhio clinico. Capisco tutto. Infatti, mi ba­stò rimanere qualche minuto in quell'angolo pieno di ombra che è sulla piazzetta, proprio di fronte al tuo portone, per vedere...

Federico                          - Chi hai visto?

Giannetto                        - Lei. Graziella. La grazia in persona.

Federico                          - Avevi le traveggole.

Giannetto                        - Le traveggole? Ho una vista, che nean­che la lince! Sapessi quanta gente debbo evitare tutto il giorno, quanti onesti operai e commercianti! Be', co­munque, apprezzo la tua inutile cavalleria. (Riprendendo il racconto) Lei scese da un tassì, mise in mano all'au­tista una moneta già preparata, aprì rapidamente il por­tone, scomparve. Non ti nascondo che ti ho invidiato.

Federico                          - Tutto qui?

Giannetto                        - (sospirando) Eh! (Alzando gli occhi al cielo) Signore mio, perdonami. Tu solo sai quello che ci vuole per campare, sebbene tu non debba pagare ne il trattore ne l'albergatore. (Una pausa). Dietro quel tassì, c'era un altro tassì. Dentro il secondo tassì c'era un uomo. Quell'uomo era Dario Monza.

Federico                          - (quasi sforzandosi a non credere) Ma va!

Giannetto                        - Era lui. Era lui. Passò oltre; ritornò, dopo una diecina di minuti, a piedi; si fermò dinanzi al tuo portone...

Federico                          - Lo hai visto proprio tu?

Giannetto                        - Come vedo te, in questo momento. Ine­quivocabile. Mi tremavano le gambe come se fossi al posto tuo. Non ti invidiavo più.

Federico                          - Gli parlasti?

Giannetto                        - E chi ne aveva il coraggio! Ho pensato: «Qua succede una tragedia». Caro Federico, io non posso permettermi il lusso di essere coinvolto nelle tra­gedie. Gli scandali danno troppa celebrità. Per tre quarti della mia giornata io debbo vivere in incognito.

Federico                          - E allora?

Giannetto                        - Me ne andai. Dopo circa un'ora ti vidi al Circolo sano e salvo. Vincevi come se barassi. E que­sto è tutto.

Federico                          - (come fra se) Ho capito.

Giannetto                        - Adesso « applica et fac saponem ». (Rac­comandando il segreto) Io non ti ho detto niente.

Federico                          - (sopra pensiero) Grazie.

Giannetto                        - (come per ricordargli la promessa) Gra­zie a te.

Federico                          - (c. s.) Prego.

Giannetto                        - Ti dicevo grazie per quel piccolo favore.

Federico                          - (c. s.) Prego, prego.

Giannetto                        - Per quel piccolo favore... che mi hai promesso.

Federico                          - (c. s.) Figurati. Tra di noi...

Giannetto                        - Che mi hai promesso ma che ancora non mi hai fatto...

Federico                          - (e. s.) Non te l'ho fatto?

Giannetto                        - No.

Federico                          - E che cosa ti dovevo fare?

Giannetto                        - Quel grazioso prestito...

Federico                          - Ah, già. Scusa. Un assegno. Ti posso dare un assegno. Non ho denaro.

Giannetto                        - E dove lo cambio a quest'ora?

Federico                          - Eh, diamine! C'è tante gente al Circolo.

Giannetto                        - Già… ma., non posso, mostrarlo a nessuno senza il pericolo che chi lo vede «e lo trattenga.,, in conto.

Federico                          - Ah! In queste condizioni sei?

Giannetto r                      - Che vuoi! Perdo sempre.

Federico                          - E perché giochi?

Giannetto                        - Per vincere.

Federico                          - Quando è così, abbi pazienza. Più tardi,. o domani (fa per andare).

Giannetto                        - No, aspetta. Dammelo. Me lo faccio cambiare da Bonnet. E' meglio anzi che stringa rapporti con» lui. Un'amicizia nuova fa sempre comodo. Eccolo, viene da questa parte. (Si vede Arturo Bonnet venire dal fondo  insieme con Graziella).

Federico                          - (riempie un assegno e lo dà a Giannetto) Tieni.

Giannetto                        - Grazie.

Federico                          - Cerca di condurlo via.

ìGiannetto                       - i Ho capito. Penso io. (Va incontro ad Arturo Bonnet e a Graziella. Si vede parlare un poco con loro e poi allontanarsi verso il fondo).

Graziella                          - (entrando sola, a Federico) Giannetto hai pescato una nuova vittima.

Federico                          - (rapido, sottovoce) Le cose sono molto più gravi.

Graziella                          - Che c'è?

Federico                          - C'è che vostro marito, quella sera, vi vide entrare in casa mia.

Graziella                          - No!

Federico                          - Sì, sì, è certo. E ormai tutto è chiaro, j Perduto il treno, trovato la borsetta come disse a voi e adesso mi ricordo benissimo che quando venne da me aveva un involto che lasciò in anticamera - tornò a casa, vi vide uscire e prendere un tassì, vi seguì in un altro tassì, aspettò che qualcuno aprisse il portone... e non so che intenzione avesse poi... E già! Adesso capisco tante bugie, tante reticenze, tante allusioni... (Ricordan­do) Mi disse: « Pensa alle sofferenze, alle torture, alle paure che un marito può infliggere agli altri due...».

Graziella                          - Agli altri due?

Federico                          - Alla moglie e all'amante della moglie.., Quindi quell'agire equivoco, l'assenza di dodici ore... Ah, è perfetto. Però è un cinico! Ne avevo rimorso e non ne ho più. Chi uccide può far pena; chi agisce come lui merita qualunque oltraggio.

Elena                               - (entrando e deplorando con lo sguardo il fatto che Federico e Graziella siano soli a parlare) Graziella!

Federico                          - (allontanandosi, irritato) Scusate. (Esce).

Elena                               - Graziella! Tu hai deciso di farmi morire.

Graziella                          - (amarissima) Uh, mamma, quanto mi pare odiosa questa vita.

Elena                               - Che altro c'è, adesso?

Graziella                          - Ah! A te pare che tutto sia finito?

Elena                               - Finito o non finito, dipende da te dargli la impressione che i suoi dubbi - se i dubbi li ha - siano infondati.

Graziella                          - Dubbi? Certezze, vuoi dire.

Elena                               - Come?

Graziella                          - Lui sa.

Elena                               - Ne sei sicura?

Graziella                          - Ora sì.

Elena                               - Ma allora qual è il suo scopo?

Graziella                          - Mah! Lui sa. L'altro - che pure, per caso, non è il mio amante - ha detto poco fa che mio marito merita qualunque oltraggio. Il che, in parole po­vere, vuol dire che adesso, secondo lui, egli mi prenderà solo per oltraggiare mio marito (storce la bocca come se avesse inghiottito una cosa molto amara).

Elena                               - La colpa di tutto questo è tua. (Una pausa). D'altra parte, poi, che cosa sa? Prima di questa male­detta partenza, non può avere avuto dubbi di sorta. Avete fatto la stessa vita ora per ora.

Graziella                          - E che dubbi può avere dopo la mia par­tenza? Non ero in casa di Cista nemmeno da dieci mi­nuti. Tuttavia sa che l'intenzione c'era. Il fatto impor­tante è questo. L'intenzione di tradire qualche volta è peggio del tradire: almeno suppongo che così debba es­sere per un marito. Ma ecco che lui, giocando su le cir­costanze, non parla. Sono quasi del parere del mio man­cato amante. E' un cinico. Qualche volta è preferibile il passionale: quello che uccide. Uccidere è meno crudele che torturare.

Piera                                - (entrando come in cerca di qualcuno) Oh, chie­do scusa. Cercavo mio marito.

Elena                               - Prego, prego, signora.

Piera                                - Non hanno visto mio marito?

Graziella                          - Poco fa era con me. S'è allontanato, mi pare, con Giannetto Lugli. Ma non tarderà a tornare. Sarà sceso in giardino.

Elena                               - (a Piera) S'è divertita, signora?

Piera                                - Moltissimo, grazie. La casa della signora è bella, vasta, soprattutto varia. Mi rallegro. Poi una com­pagnia tanto simpatica. (A Graziella) Suo marito è uno «charmeur». Non posso dire che m'abbia fatto la corte, ma è come se me l'avesse fatta, tanto m'ha interessata e divertita.

Graziella                          - Grazie. Anche suo marito è un uomo molto amabile.

Piera                                - Sì, sì. Un po' freddo, apatico. Ma molto pre­ciso. E’ un banchiere. Ha da fare con i numeri.

Graziella                          - Gli uomini precisi sono preferibili a quelli imprecisi.

Piera                                - Non so. Con gli uomini precisi manca l'im­previsto.

Graziella                          - L'imprevisto può essere fonte di tor­menti.

Piera                                - Anche questo è vero. Del resto, mio marito è meno giovane del suo.

Graziella                          - Non mi pare.

Piera                                - Almeno sembra. Sì, io avevo tanti ragazzi che mi volevano sposare. Ma sa come accade: ancora siamo troppo giovani noi stesse per non sentire il bisogno di un polso fermo, di un affetto saldo. Questa, per lo meno, è la regola. Solo, è un po' noioso perché molti si sen­tono nel diritto di spingere la loro corte al di là del lecito. Dicono: «Ha un marito anziano...».

Graziella                          - Già, già.

Elena i                             - Come se poi un marito anziano, tante volte, non fosse... (Vuol dire: («Migliore di loro»).

Piera                                - Naturalmente.

Elena                               - Graziella è innamoratissima di suo marito.

Piera                                - La capisco. Del resto, anch'io. Forse io sono un po' distratta dai miei studi... e una prova (sorride) ve l'ho data con la mia romanzesca invenzione della cleptomania. Ma lui mi lascia tanta libertà di seguire le mie tendenze. Mi dice: «Quando non mi vuoi più, dim­melo; ci siamo sposati da buoni amici: perché non do­vremmo parlarci sempre lealmente? ».

Elena                               - Sono cose che si dicono, signora. Poi vorrei vedere all'atto pratico...

Piera                                - Credo che all'atto pratico, lui si comporte­rebbe da gentiluomo. Capisce che m'ha sposato... un po' abusivamente, per la sua età.

Elena                               - Abusivamente; ma con il suo consenso...

Piera                                - Insomma, il mio parere è questo: un uomo anziano che sposi una donna giovane lo fa per una ra­gione non tanto d'amore quanto d'orgoglio. Tutto sta a vedere se questo orgoglio sopravvive al passare del tem­po. Io credo di no. E allora, nell'uomo invecchiato si genera una specie di rassegnazione...

Elena                               - Credo che si sbagli, signora. L'orgoglio è una pianta che s'irrobustisce, diventando vecchia.

Piera                                - Questo è contro la legge di natura.

Elena                               - Nei rapporti coniugali, e in generale in quelli amorosi, la natura ha delle leggi a sé.

Piera                                - Delle leggi innaturali, allora. Contraddizione nei termini... (Si sente improvvisamente un vocio con­fuso; qualche voce che domanda: «Che c'è? Ch'è suc­cesso?»; e poi dei passi affrettati, e infine entrano Dario e Arturo Bonnet. Dario è sempre calmo, freddo, e tiene Arturo per un braccio; Arturo è congestionato).

Dario                               - (ad Arturo, come per trattenerlo dal compiere atti violenti) Non è il caso. Un po' di calma. Ci de­v'essere un malinteso.

(Le donne, tutte insieme, chiedono spiegazioni).

Elena                               - Che c'è?

Graziella                          - Che è stato?

e successo:

Che

Piera

Dario                               - Niente, niente di grave.

Piera                                - (ad Arturo) Che hai? Che hai fatto?

Arturo                              - Una sciocchezza. Un piccolo incidente stupido.

Piera                                - E con chi?

Dario                               - (sottovoce a Graziella) Conduci via la si­gnora Bonnet.

Graziella                          - E perché?

Dario                               - Poi ti dirò. (Si riavvicina ad Arturo).

Arturo                              - (alla moglie) E' stato un equivoco, non. t'impressionare.

Elena                               - (a Graziella) Che t'ha detto?

Graziella                          - M'ha detto: « Conduci via la signora Bonnet »; non capisco per quale ragione.

Dario                               - (a Piera) Una discussione un po' vivace, si­gnora. Ma suo marito non c'entra affatto.

Piera                                - Ma con chi questa discussione?

Graziella                          - (a Piera) Signora, venga, venga con me. Le spiego io.

Piera                                - (a Graziella) Ma che cosa?

(Mentre nell’interno continua il brusio, Graziella e Piera, seguite da Elena, escono).

Arturo                              - (a Dario)Io vi chiedo scusa, caro amico, dell'essermi comportato così in casa vostra.

Dario                               - Per carità, sono io che chiedo scusa a voi. E veramente non so rendermi conto... Federico Cista è nor­malmente un uomo così compito... Siamo amici da tanti anni... Forse era un po' eccitato, aveva un po' bevuto...

Arturo                              - Non so. Parlava in una maniera così strana...

Dario                               - Ma di che cosa parlava?

Arturo                              - Certo di cose che non mi riguardano; ma con un tono... un tono che a un dato momento mi è parso troppo allusivo...

Dario                               - Allusivo?

Arturo                              - Sì, anche offensivo: offensivo per il mio onore...

Dario                               - Per il vostro onore? Oh, perbacco! Debbo chiedervi doppiamente scusa. Proprio la prima volta che mi avete fatto il piacere di essere mio ospite... E che cosa voleva? Io mi son trovato presente all'ultima parte del vostro discorso.

Arturo                              - Mi domando come io stesso abbia potuto... Sono un uomo così calmo... (Cercando di ricostruire? accaduto) Poco fa venivo da questa parte con vostra moglie; e lui, il Cista, era proprio qua dentro; parlava con quel giovane: il signor Lugli, mi pare.

Dario                               - Giannetto Lugli.

Arturo                              - Giannetto Lugli si è allontanato da Cista ed è venuto incontro a me, incominciando un discorso che lì per lì non capii; ma facendo intendere che voleva parlarmi a quattr'occhi. Vostra moglie, gentilmente, ci lasciò soli e venne di qua, dov'era Cista.

Dario                               - Ah! Ah!

Arturo                              - Io seguii Giannetto Lugli, verso il giardino. Non mi ricordo neanche bene: aveva un assegno; o mi parlava di un assegno...

Dario                               - Ah! Ah!

Arturo                              - Vi dico la verità, ero distratto. Fuori della banca non mi piace di parlare d'affari.

Dario                               - (sorridendo) Oh. Ma gli affari di Giannetto Lugli sono molto semplici. In generale ha bisogno di mille lire: basta dargliele, e l'affare è fatto. Non vi meravigliate, vi prego, che io lo riceva in casa. E' diver­tente, e dopo tutto non costa neanche molto.

Arturo                              - Ora, a un certo momento, viene il Cista un po' stravolto, e l'altro gli dice ridendo: «Federico, sto cercando di varare il tuo assegno: speriamo che non si tratti di un assegno a vuoto». Cista, di rimando, fa l'atto di dargli uno schiaffo...

Dario                               -  Un altro schiaffo?

Arturo                              - Come, un altro?

Dario                               - Dico: un altro, prima di quello che voi avete dato a Cista.

Arturo                              - Credete che io l'abbia colpito?

Dario                               - Accidenti! In pieno viso.

Arturo                              - Ne siete sicuro?

Dario                               - Amico mio, pareva che si fosse rotto un intero servizio di bicchieri.

Arturo                              - Allora...? (vuol dire: «L'incidente è irre­parabile »).

Dario                               - Eh, sì. Ma voi m'avete l'aria di essere un ottimo schermidore.

Arturo                              - (guardandolo) Si direbbe che ora questa faccenda vi diverta...

Dario                               - Caro amico, parliamoci chiaro. Se non glielo aveste dato voi, quello schiaffo, glielo avrei dovuto dare io.

Arturo                              - E perché?

Dario                               - Perché... (una pausa) ...in casa mia, capirete... E poi... quell'allusione...

Arturo                              - i Dunque, l'avete sentita?

Dario                               - Sì, sì. Attraverso le vostre parole, mi ricordo di avérla sentita. Ve lo dico, perché, tanto, io non posso essere padrino né vostro ne suo. L'allusione, esattamente, fu questa: «Non credere che mi manchi il sangue nelle vene, come ai mariti anziani delle donne giovani! ».

Arturo                              - Già. E che c'entrava?

Dario                               - Chi lo sa! Forse l'aveva in gola da tanto tempo, voleva dirla in qualunque modo. Ed era un'allu­sione, come capite, che poteva essere rivolta non soltanto a voi ma anche a me.

Arturo                              - (guardandolo) Infatti... Anche voi avete una moglie molto giovane.

Dario                               - Era eccitato; era fuori di senno. In realtà si mostrava nervoso da molti giorni. Lo stesso suo scatto irragionevole, sproporzionato alla natura dell'incidente, è un segno del suo nervosismo. Scommetto che se voi non lo aveste colpito vi avrebbe chiesto scusa.

 Arturo                             - Ammetto di avere ecceduto; ma - a voi posso dirlo - io sono un po' perseguitato da allusioni d questo genere, e vi confesso che ne sono stanco. M secca soltanto che un duello fra me e lui può far pensare... che c'entra anche mia moglie. Data la mia età la prima cosa che si pensi è quella. Eh, caro amico Nessuno ci perdona questa nostra vittoria su la tirannia del tempo.

Dario                               - (consentendo) E' una vittoria considerata come una specie di furto: una rapina.

Arturo                              - Io mi difendo accordando molta libertà a mia moglie: la lascio viaggiare, muoversi, attendere ai suoi studi.

Dario                               - E' un metodo anche questo.

Arturo                              - Ma vi dico francamente che se cercasse d'ingannarmi...

Dario                               - Che fareste?

Arturo                              - La ucciderei.

Dario                               - Capisco.

Arturo                              - Vi sembra un provvedimento troppo ra­dicale?

Dario                               - No.

Arturo                              - Forse un po' antico...

Dario                               - Secondo i punti di vista.

Arturo                              - In che senso?

Dario                               - Uccidere per ragioni sociali, può essere con­siderato antico. Uccidere per dolore o per orgoglio è eterno.

Arturo                              - E per amore?

Dario                               - Non so se per amore si uccida.

(Una pausa).

Arturo                              - Una sola volta io ho avuto il sospetto che mia moglie stesse per...

Dario                               - E che avete fatto?

Arturo                              - Le ho parlato subito, apertamente.

Dario                               - E lei?

Arturo                              - Ha ammesso. M'ha chiesto perdono. E sic­come non c'era stato niente di fatto...

Dario                               - (guardando nel vuoto) Già, perché il « fatto » è quello che conta.

Arturo                              - Non siete del mio parere?

Dario                               - (stringendosi nette spalle, non convinto) Si.

Arturo                              - Conta il fatto, perché i sentimenti sono quelli che sono...

Dario                               - Volubili, instabili...

Arturo                              - Appunto.

Dario                               - Una donna, mettiamo, violentata per forza, contro la sua volontà, è, secondo voi, più spregevole di una donna che pensi continuamente, che sia sempre sul punto di tradire; ma non tradisca.

Arturo                              - Comprendo la vostra distinzione; ma in questo senso non so quante donne si salverebbero dall'accusa di infedeltà. La fedeltà è spesso una vittoria sui capricci del proprio spirito, del proprio sentimento,

Dario                               - In altri termini, la donna fedele è spesso una donna che reprime il suo istinto di infedeltà... Lo re­prime da sola?

Arturo                              - Lo reprime da sola, con il suo senso morale, o con altre forze del suo spirito; oppure lo reprime con l'aiuto, con i lumi del marito.

Graziella                          - (rientrando) Signor Bonnet, sua moglie è in giardino, con mia madre. Desidera parlarle.

Arturo                              - Grazie. Vado. (Poi a 'Dario) Vi chiedo nuo­vamente scusa

Dario                               - Non c'è di che, caro amico.

Arturo                              - Con permesso. (Esce).

Graziella                          - Dario, non t'ho visto quasi mai tutta la sera. Che hai fatto?

Dario                               - Scusami. Sono stato sempre tra gli invitati. Una parola con l'uno, una parola con l'altro... Mi dispiace solo che la serata si sia chiusa così.

Graziella                          - Un fatto veramente inimmaginabile...

Dario                               - Hai saputo i particolari?

Graziella                          - Sì. Da Giannetto Lugli.

Dario                               - Li ha saputi anche la signora Bonnet?

Graziella                          - Per forza. Sai com'è Giannetto...

Dario                               - E Cista è andato via?

Graziella                          - Credo. Non l'ho più visto.

Dario                               - Strano che Federico abbia provocato un fatto simile.

Graziella                          - Doveva essere ubriaco.

Dario                               - Credo anch'io. Ma bisogna ammettere che era eccitato anche il signor Bonnet. Già, è un uomo con delle idee singolari.

Graziella                          - Chi?

Dario                               - Bonnet. La moglie infedele, la uccide. Ma se la moglie gli dice di essere stanca di lui, è pronto a ridarle la sua libertà. Non c'è coerenza in tutto questo. Perché i casi sono due: o l'ama o non l'ama. Se non l'ama, il fatto che la moglie gli dica: « Sono stanca di te » equi­vale al fatto che la moglie lo tradisca; può benissimo congedarla senza bisogno di ricorrere ad armi da fuoco o da taglio. Che glie ne importa? Ma se l'ama, il fatto del tradimento equivale al fatto della stanchezza con­fessata: egli ne soffre; ne soffre egualmente nell'un modo e nell'altro, e il punto essenziale è in questa sofferenza del marito disamato o tradito. Non ti pare?

Graziella                          - (impallidendo) Mah!

Dario                               - Già; tu sei donna e non puoi capire. Ma è curioso quello che m'ha raccontato. Un giorno egli ha avuto il sospetto che la moglie stesse per tradirlo. E sai che cosa ha fatto? Ha parlato alla moglie apertamente. La moglie ha ammesso e gli ha chiesto perdono. Lui ha perdonato perché «non c'era stato niente di fatto». Che ne dici?

Graziella                          - (imbarazzatissima) Che cosa vuoi che li dica? Lo hai detto tu stesso: io sono donna. Certi senti­menti dell'uomo non li capisco.

Dario                               - Naturalmente. Ma puoi capire se abbia fatto bene il marito a parlare, come dice lui, apertamente, a sua moglie, di un sospetto così delicato e imbarazzante. Ci sono sospetti che, una volta espressi, turbano l'armonia della vita coniugale e insomma della vita a due. Qualche «osa si schianta senza riparo; un'ombra si stende tra l'uomo e la donna; la convivenza s'imbruttisce o diventa penosa. Questo puoi capirlo.

Graziella                          - E perché dovrei capirlo?

Dario                               - Perché questo riguarda in egual misura l'uomo e la donna.

Graziella                          - (come riflettendo) Sì. Credo che tu abbia ragione.

Dario                               - - Ancora più strano è che la moglie abbia am­messo di aver avuto l'intenzione di tradire. Questa che può sembrare sincerità è un'imprudenza grave. Io credo che tutte le donne a un certo momento della loro vita coniugale rasentino l'orlo del tradimento. Le ragioni e le occasioni sono infinite. Ma dirlo a che serve? L'uomo che non lo capisce o non lo sa è un uomo inesperto: tanto vale lasciarlo al suo destino. L'uomo che Io ca­pisce o lo sa...

Graziella                          - (conte per liberarsi da un incubo, con co­raggio) Come si regola?

 Dario                              - (fissandola) Con che tono mi hai fatto questa domanda! Perché?

Graziella                          - - Perché ho letto una volta in un libro che un marito, il quale capiva o sapeva, incominciò a tormentare sua moglie con una raffinatezza che confinava con la crudeltà...

Dario                               - E come?

Graziella                          - Lasciandola nel dubbio; capovolgendo l'arma del dubbio; facendo in modo che fosse lei a non sapere e non capire se lui avesse un sospetto, e che cosa intendesse fare, e a che cosa mirasse. Ora io, leggendo quel libro, avevo degli impulsi di ribellione...

Dario                               - Di ribellione contro chi?

Graziella                          - Contro il marito.

Dario                               - Che li avessi tu, lettrice, non ha importanza. Ma gli stessi impulsi aveva quella moglie?

Graziella                          - Si.

Dario                               - Vuol dire che la moglie soffriva.

Graziella                          - Molto.

Dario                               - Ripagava con la sua sofferenza la sofferenza del marito...

Graziella                          - (consentendo, con voce bassa) Può essere.

Dario                               - Bastava che pensasse questo, e i suoi impulsi di ribellione si sarebbero placati. Non lo pensava quella moglie?

Graziella                          - Forse no.

Dario                               - Vedi: in queste storie antiche e lugubri e senza fantasia, c'è sempre una sofferenza contro una ce­cità. La sofferenza è dell'essere tradito; la cecità è del­l'essere che tradisce. Chi tradisce si arroga dei diritti: i cosiddetti diritti della libertà, i cosiddetti diritti del cuore. Per chi tradisce, il cuore di chi è tradito non conta. Questo cuore deve soffrire, essere straziato, qual­che volta naufragare in un mare di ridicolo... e i mezzi che il tradito adotta per difendersi o sono ritenuti ingenui o sono ritenuti crudeli. Io credo che quel marito di cui mi parli - quel marito di quel libro- fosse molto innamorato di sua moglie.

Graziella                          - E le dimostrava l'amore torturandola?

Dario                               - Altrimenti, che cosa avrebbe dovuto fare? Parlarle apertamente no: l'abbiamo già detto. Fare la vittima nemmeno: certo era un uomo forte, e la parte della vittima non gli si addiceva. Tanto meno uccidere: non si uccide per un peccato incompiuto, e non si uccide la donna che si ama. Tu dici: «Torturandola». Può essere un'impressione soggettiva: della moglie. Quella che tu chiami tortura era probabilmente rimorso. Il proprio rimorso purifica e redime più che il perdono o la ven­detta altrui.

Graziella                          - (asciugandosi le lagrime) Forse hai ragione...

Dario                               - Perché piangi? Sei ancora sensibile alle letture? (Ride, affettuoso, le si avvicina, l'accarezza) Non soltanto sei molto giovane: hai anche la civetteria di voler sembrare una bambina. Le bambine, piangono alla lettura delle favole. Ma questa favola che tu dici, io non te l'ho mai vista leggere. Forse l'hai letta durante la mia assenza? Leggi dell'altro, adesso che io riparto.

Graziella                          - Riparti?

Dario                               - Sì. Poco fa ho ricevuto un altro telegramma da Genova. Il solito affare, che per te sarebbe noioso.

Graziella                          - (gettandogli le braccia al collo) No, no. Portami con te! Portami con te!

Dario                               - (accarezzandola teneramente) Sì, cara, sì.

FINE