Riccardo III

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WILLIAM SHAKESPEARE

riccardo iii

Dramma storico in 5 atti

Traduzione e note di Goffredo Raponi

titolo originale: “THE TRAGEDY OF KING RICHARD THE THIRD”


NOTE PRELIMINARI

1)Il testo inglese adottato per la traduzione è quello dell’edizione curata dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare, “The Complete Works”, Collins, London & Glasgow, 1951-1960, pagg. XXXII-1370, con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello della più recente edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Welles & G. Tayor per la Clarendon Press, New York, U.S.A., 1988-1994, pagg. XLIX-1274; quest’ultima contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Noble Kinsmen”) che manca nell’Alexander.

2)Il traduttore ha aggiunto di sua iniziativa alcune didascalie e indicazioni sceniche (“stage instructions”) laddove le ha ritenute opportune per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente concepita ed ordinata, il traduttore essendo convinto della irrappresentabilità del teatro di Shakespeare sulle moderne ribalte.

Si è lasciata comunque invariata, all’inizio e alla fine di ogni scena, come all’entrata ed uscita dei personaggi nel corso d’una stessa scena, la rituale indicazione “Entra”/ “Entrano” (“Enter”) ed “Esce”/ “Escono” (“Exit”/ “Exeunt”), avvertendo peraltro che non sempre essa indica movimenti di entrata/uscita dei personaggi, potendosi dare che questi si trovino già in scena all’apertura della stessa, o vi restino alla chiusura. Il teatro elisabettiano - com’è noto - non aveva sipario.

3)Il metro è l’endecasillabo sciolto, alternato da settenari; altro metro si è usato per citazioni, canzoni, proverbi, cabalette e altro, quando, in accordo col testo, sia stato richiesto uno stacco di stile.

4)I nomi del personaggi che vi si prestano sono resi nella forma italiana; sono lasciati comunque nella forma inglese quando preceduti da “sir” o “lady”. Per esigenze di metrica, i nomi inglesi di più sillabe che alla pronuncia inglese suonano sdruccioli, bisdruccioli e perfino trisdruccioli - come tutte le parole di questa lingua mono-bisillabica (es. Wèstmoreland, Làncaster) - posso ritrovarsi diversamente accentati nel corpo del verso, secondo la cadenza sillabica di questo.

5)Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni precedenti, in particolare della prima versione poetica di Giulio Carcano e di quelle del Baldini, del Lodovici, del Melchiori, del Lombardo, del D’Agostino e di diversi altri, dalle quali ha tratto in prestito oltre alla interpretazione di passi oscuri o controversi, intere frasi e costrutti; di tutto ha dato opportuno credito in nota.


PERSONAGGI

RE EDOARDO IV

EDOARDO, principe di Galles, poi Re Edoardo V

figli del re

RICCARDO, duca di York

GIORGIO, duca di Clarenza

fratelli del re

RICCARDO, duca di Gloucester, poi Re Rccardo III

EDOARDO, conte di Warwick, figlio minore del Duca di Clarenza

ENRICO, conte di Richmond, poi Re Enrico VII

IL CARDINALE BOURCHIER, arcivescovo di Canterbury

THOMAS ROTHERHAM, arcivescovo di York

IL DUCA DI BUCKINGHAM

IL DUCA DI NORFOLK

IL CONTE DI SURREY, suo figlio

IL CONTE DI RIVERS

(Antonio Woodville) fratello della regina Elisabetta, moglie di Re Edoardo

IL MARCHESE DI DORSET

LORD GREY

figli della regina Elisbetta (dal primo marito)

IL CONTE DI OXFORD

 

LORD HASTINGS, Lord Ciambellano

LORD STANLEY, conte di Derby, suo amico

SIR JAMES BLOUNT

seguaci del Conte di Richmond

SIR WALTER HERBERT

lord lovel

SIR WILLIAM BRANDON

SIR THOMAS VAUGHAN

SIR WILLIAM CATESBY

SIR JAMES TYRREL

SIR ROBERT BRAKENBURY, luogotenente della Torre

un prete (Christopher Urwick)

IL LORD MAYOR DI LONDRA

LO SCERIFFO DEL WILTSHIRE

hastings, messo di giustizia

TRESSEL

gentiluomini al seguito di Lady Anna

BERKELEY

UN PAGGIO

ELISABETTA, regina moglie di Re Edoardo

MARGHERITA, vedova di Re Enrico VI

LA DUCHESSA DI YORK,

madre di Re Edoardo IV, del Duca di Clarenza e del Duca di Gloucester

LADY ANNA NEVILL,

vedova di Edoardo, principe di Galles, figlio di Enrico VI, poi sposata al Duca di Gloucester

MARGHERITA, contessa di Salisbury, giovane figlia di Clarenza

GLI SPETTRI delle vittime di Riccardo III

Lords - Gentiluomini - Cortigiani - Vescovi - Borghesi - Cittadini - Soldati - Alabardieri - Sicari - Messaggeri

SCENA: in Inghilterra.


ATTO PRIMO

SCENA I - Una via di Londra([1])

Entra RICCARDO, duca di Gloucester

RICCARDO -

Ormai l’inverno del nostro travaglio

s’è fatto estate sfolgorante ai raggi

di questo sole di York;([2]) e le nuvole

che incombevano sulla nostra casa

son sepolte nel fondo dell’oceano.

Ora le nostre fronti

si cingono di serti di vittoria;

peste e ammaccate sono appese al muro

le nostre armi, gloriose panoplie,

e in giulivi convegni tramutate

le massacranti marce militari.

Deposto ha Marte l’arcigno cipiglio

e spianata la corrugata fronte,

e, non più in sella a bardati destrieri

ad atterrir sgomente anime ostili,

ora se’n va, agilmente saltellando

per l’alcova di questa o quella dama

alle lascive note d’un liuto.

Ma io che son negato da natura

a questi giochi, che non son tagliato

per corteggiare un amoroso specchio,

plasmato come son da rozzi stampi,

e privo della minima attrattiva

per far lo sdilinquito bellimbusto

davanti all’ancheggiar d’una ninfetta;

io, che in sì bella forma son tagliato,

defraudato d’ogni armonia di tratti,

monco, deforme, calato anzitempo([3])

in mezzo a questo mondo che respira;

io, che sono sbozzato per metà

e una metà sì sgraziata e sbilenca

che m’abbaiano i cani quando passo;

io, dico, in questa nostra neghittosa

e zufolante stagione di pace,

altro svago non ho, altro trastullo

da consentirmi di passare il tempo,

fuor che sbirciare la mia ombra al sole

e intonar col pensiero, in vari toni,

variazioni sul mio stato deforme.

Sicché, poiché natura m’ha negato

di poter fare anch’io il bellimbusto

di su e di giù, com’è frivola moda

di questi tempi dal parlar fiorito,

ho deciso di fare il delinquente,

e di odiare gli oziosi passatempi

di questa nostra età.

Ho tramato complotti d’ogni genere,

ho iniettato negli animi il veleno

con profezie, calunnie, fantasie,

per seminar mortale inimicizia

tra mio fratello Clarenza ed il re;

e se re Edoardo è uomo giusto e retto

com’io son furbo, falso e traditore,

proprio oggi Clarenza

dovrebb’essere preso e imprigionato

in virtù d’una certa profezia

secondo cui gli eredi di Edoardo

saranno assassinati da una “G”.([4])

Entrano il DUCA DI CLARENZA e BRAKENBURY

Ma adesso, miei pensieri,

sprofondate nel fondo del mio cuore,

perché Clarenza è qui… Buondì, fratello.

Che significa questa scorta armata

che ti cammina a fianco?

CLARENZA -

Per protezione della mia persona,

sua maestà m’ha assegnato questo corso

che mi meni alla Torre.

RICCARDO -

E perché mai?

CLARENZA -

Perché mi chiamo Giorgio.

RICCARDO -

Ohibò, fratello!

Di questo tu non hai nessuna colpa;

per questo il re dovrebbe incarcerare

i tuoi padrini. Forse sua maestà

avrà in mente di farti battezzare

una seconda volta nella Torre…

Ma, sul serio, Clarenza,

di che si tratta, lo posso sapere?

CLARENZA -

Sì, sì, quand’io l’avrò saputo anch’io,

Riccardo, perché ancora non lo so.

Per quanto n’abbia potuto sapere,

egli dà ascolto a sogni e profezie,

e ha strappato la “G” dall’alfabeto

perché un veggente, dice, gli ha predetto

che per mano e ad opera di un “G”

sarà diseredata la sua prole.

E poiché “G” è la lettera iniziale

del nome mio, ne segue, a suo giudizio,

che quel “G” sarei io…

Per questa ed altri simili sciocchezze

senza alcun fondamento, come apprendo,

sua altezza mi fa ora arrestare.

RICCARDO -

Questo è quel che succede quando gli uomini

si fanno governare dalle donne.

Chi manda te alla Torre non è il re,

ma Lady Grey sua moglie; è lei, Clarenza,

che lo trascina a tal sorta di eccessi.

E non è stata lei, con suo fratello,

l’esimio ed onorato Antonio Woodville,

a indurre il re a rinchiudere Lord Hastings

alla Torre, da dove proprio oggi

è uscito in libertà?…

Noi non siamo al sicuro qui, Clarenza,

noi non siamo al sicuro.

CLARENZA -

Penso, perdio, che non lo sia nessuno

al sicuro, all’infuori dei parenti

della regina e dei porta-messaggi

che nottetempo fan su e giù la spola

fra lui e mistress Shore.([5])

Non hai sentito che anche Lord Hastings

s’è dovuto ridurre umile supplice

presso di lei per esser liberato?

RICCARDO -

Ed alla sua deità umilmente prono

ha potuto ottenere la libertà

anche il Lord Ciambellano. Credi a me,

fratello, se vogliamo mantenerci

i favori del re, non c’è altra via

che metterci al servizio di costei

e rivestirci della sua livrea.

Lei e quell’invidiosa anziana vedova,

dacché nostro fratello le ha innalzate

a gentildonne, son le due comari

più potenti di questa monarchia.

BRAKENBURY -

Supplico di scusarmi, signorie,

ma sua maestà ha severamente ingiunto

che nessuno, qualunque sia il suo rango,

parli in privato con vostro fratello.

RICCARDO -

Oh, Bràkenbury, se vi fa piacere,

potete udire quello che diciamo!

Non parliamo di tradimenti, amico.

Dicevamo che il re è uomo saggio

e pieno di virtù, e la sua regina,

nobile dama, pur se un po’ attempata,

è sempre bella, e per nulla gelosa;([6])

e dicevamo che madama Shore

ha un bel piedino, un labbro di ciliegia,

un occhio seducente, una parlata

oltremodo piacevole all’orecchio;

e che fratelli e zii della regina

son diventati tutti gente nobile.

Che ne dite signore?

Potete voi negare tutto questo?

BRAKENBURY -

Io con questo, signore,

non ho proprio a che fare.

RICCARDO -

Come, come!

Male a che fare con madama Shore?([7])

Sai che ti dico, amico?

Che chiunque abbia a che fare con lei,

eccetto solo uno,

è meglio che lo faccia di nascosto.

BRAKENBURY-

E chi sarebbe quell’uno, signore?

RICCARDO -

Eh, suo marito, diamine, birbante!

Non vorrai mica prendermi in castagna?

BRAKENBURY -

Vostra grazia, vi prego di scusarmi

e di voler troncare il suo colloquio

con il nobile duca.

CLARENZA -

Conosciamo la tua consegna, Brakenbury,

e ad essa obbediremo.

RICCARDO -

Noi non siamo che gli umili vassalli

della regina, e dobbiamo obbedire.

Addio, fratello. Andrò per te dal re,

e farò tutto quel che posso fare

- dovessi pur chiamar “sorella mia”

la vedova di Edoardo -,

per ottener la tua liberazione.

Frattanto questa profonda lesione

alla nostra comune fratellanza

mi tocca al cuore più che non immagini.

CLARENZA -

Lo so, molto piacere

essa non fa a nessuno di noi due.

RICCARDO -

Bene, vedrai che la tua prigionia

non sarà lunga: ti libererò,

o altrimenti prenderò il tuo posto.([8])

Nel frattempo, tu devi aver pazienza.

CLARENZA -

Dovrò averla per forza. Arrivederci.

(Escono Clarenza e Brakenbury)

RICCARDO -

Va’, segui la tua strada

dalla quale più non farai ritorno,

ingenuo, candido fratello mio;

ti voglio tanto bene, che ben presto

farò volare al cielo la tua anima….

se pure il ciel vorrà accettare il dono

dalle mie mani… Ma chi viene qui?

Hastings appena uscito di prigione?

Entra HASTINGS

HASTINGS -

Il buon giorno al grazioso mio signore!

RICCARDO -

Altrettanto al mio buon Lord Ciambellano!

Bentornato tra noi all’aria libera.

E come ha sopportato la prigione

vossignoria?

HASTINGS -

Con pazienza, signore,

come deve qualunque prigioniero.

Ma spero, signor mio, di viver tanto

da poter fare i miei ringraziamenti

a quelli che m’han fatto carcerare.

RICCARDO -

Senza dubbio, signore, senza dubbio;

e lo stesso farà anche Clarenza,

ché sono suoi nemici

quelli stessi che sono stati i vostri,

e han prevalso su lui come su voi.

HASTINGS -

Più triste è che in gabbia siano l’aquile,

mentre avvoltoi e falchi

predano in libertà.

RICCARDO -

Che nuove in giro?

HASTINGS -

Nessuna sì cattiva quanto questa

che abbiamo in casa: ed è che il re è malato

indebolito e triste, e i suoi dottori

temono assai per lui.

RICCARDO -

Per San Giovanni,

questa è davvero una notizia brutta!

Ahimè, da troppo tempo

ha seguito una vita sregolata

che doveva finire fatalmente

per logorar la sua regal persona.([9])

È penoso pensarlo. Dov’è adesso?

A letto?

HASTINGS -

Sì, signore.

RICCARDO -

Andate avanti voi. Vi seguirò.

(Esce Hastings)

Non può vivere, spero, nel suo stato,

ma non deve morire

prima che Giorgio sia a spron battuto

spedito in cielo. Adesso vado dentro

a rattizzargli in cuore, con menzogne

corazzate di solidi argomenti,

il suo cieco livore per Clarenza;

e se il segreto mio scopo non falla,

Clarenza non ha più giorni da vivere…

Dopo di che, si prenda pure Iddio

il Re Edoardo nella Sua mercé,

e lasci il mondo a me,

perch’io possa giostrarmici a mio agio.

Perché allora mi prenderò per moglie

una figlia di Warwick, la più giovane…

Sì, le ho scannato suocero e marito,

ma che importa? Per fare di ciò ammenda

a lei, la via migliore e più spedita

è farmi io suo padre e suo marito.

E lo farò: non tanto per amore

quanto per altra mia segreta mira,

che sposandomi a lei devo raggiungere.

Ma non mettiamo il carro innanzi ai buoi.([10])

Clarenza ancor respira;

Edoardo è vivo e regna.

Questi due una volta liquidati,

potrò tirare il conto dei profitti.

(Esce)

SCENA II - Londra, un’altra strada.

Scortata da alabardieri, entra la salma di Enrico VI con Lady ANNA in gramaglie;

con lei sono TRESSEL, BERKELEY e altri gentiluomini

ANNA -

Sostate un po’; posate pure a terra

l’onorato fardello - se l’onore

può essere ravvolto in un sudario -,

ch’io possa qui, per qualche istante ancora,

piangere e lamentar, secondo il rito,

l’acerba fine del virtuoso Làncaster.

Povera spoglia d’un re consacrato,

fredda come una chiave,

pallide ceneri di casa Làncaster,

resti esangui di quel sangue reale,

ch’io possa, Enrico, chiamare il tuo spirito

ad ascoltare le lamentazioni

della misera Anna,

la consorte del tuo figliolo Edoardo,([11])

trucidato da quella stessa mano

ch’ha inferto a te tutte queste ferite.

Ecco, nel vano di queste finestre

che han lasciato fuggire la tua vita

io verso il balsamo inefficace

dei miei poveri occhi. Oh, maledetta

la mano che ti aperse questi squarci!

Maledetto quel cuore

cui bastò il cuore di far tanto scempio!

Maledetto quel sangue

che ti fece versare tanto sangue!

Sopra quell’esecrato malfattore

che ci fa miseri con la tua morte

scenda sorte più cruda che augurare

io possa solo a ragni e rospi e vipere

e quant’altre creature velenose

vivono sulla terra. Se avrà un figlio,

che gli nasca come un mostruoso aborto,

prima del giusto tempo di natura

e tale che col suo deforme aspetto

atterrisca la speranzosa madre

ed erediti la paterna infamia.

E se avrà una moglie, questa sia ridotta

per la sua morte ancora più infelice

che non lo sia io per quella tua

e quella del mio giovane marito.

(Ai portatori del feretro)

Avanti, ora, col vostro sacro peso,

fino a Chertsey,([12]) perché s’abbia colà

la sua definitiva sepoltura.

E se per via vi coglierà stanchezza

nel portarlo, sostate pure ancora,

ch’io possa alzar sul corpo di Re Enrico

altre lamentazioni.

Entra RICCARDO

RICCARDO -

Fermi là,

voi che portate il cadavere, giù,

riposatelo a terra!

ANNA -

Qual mai nero stregone

avrà evocato qui questo demonio

ad interrompere devoti riti

di cristiana pietà?

RICCARDO -

Giù quel cadavere,

furfanti, o, per San Paolo, un cadavere

farò di chi rifiuta d’obbedirmi!

UN ALABARDIERE -

(Sbarrandogli il passo con l’alabarda)

Fate passar la bara, monsignore,

state indietro.

RICCARDO -

Sta’ fermo tu, piuttosto,

cane screanzato, quando io te l’ordino!

E leva via da me quest’alabarda,

o, per San Paolo, ti stendo morto

ai miei piedi, pezzente, e ti calpesto

per tanta tua insolenza!

ANNA -

(Agli alabardieri)

E che! Tremate tutti di paura?.

Ahimè, non posso certo biasimarvi;

siete mortali, e l’occhio d’un mortale

non sopporta la vista del demonio.

(A Riccardo)

Orribile ministro dell’inferno,

vattene! Il tuo potere

non va oltre il suo corpo:

la sua anima tu non puoi averla.

E dunque va’, allontànati da qui!

RICCARDO -

Dolce santa, per carità di Dio,

non esser sì cattiva.

ANNA -

Immondo diavolo,

per l’amore di Dio, vattene via!

Non venire a turbar la nostra pace.

Tu di questa felice nostra terra

hai fatto il tuo inferno, l’hai riempita

d’urla imprecanti e di basse bestemmie.

Se ti piace ammirare i tuoi misfatti,

guarda questo campione

dei tuoi massacri. Guardate, signori,

oh, guardate, guardate le ferite

di Enrico morto: le lor fredde bocche

spalancate riversano ancor sangue…

(A Riccardo)

Vergogna a te! Vergogna,

ammasso di deforme luridume,

perché è la tua presenza

quella che fa versare questo sangue

da vene vuote e fredde e inaridite;

il tuo misfatto, innaturale ed empio

provoca questa innaturale uscita

di sangue. O Dio, Tu che questo sangue

hai creato, vendica la sua morte!

E tu, o terra, che di questo sangue

t’abbeveri, fa’ anche tu vendetta

della sua morte. Incenerisca il cielo

col suo fulmine questo maledetto

assassino, o la terra

si faccia sotto i suoi piedi voragine

e se lo inghiotta vivo, come inghiotte

ora il sangue di questo buon sovrano

trucidato dal suo braccio infernale.

RICCARDO -

Madama, voi mostrate d’ignorare

le regole di quella carità

che rende bene per male,

benedizioni per imprecazioni.

ANNA -

Sei tu che ignori, infame,

tutte le leggi di Dio e degli uomini.

Non c’è bestia che sia tanto feroce

da non conoscere almeno un briciolo

di pietà.

RICCARDO -

Ma io non la conosco,

perciò non sono bestia.

ANNA -

Oh, meraviglia,

quando i diavoli sono veritieri!

RICCARDO -

Ancor più meraviglia

quando gli angeli sono così in collera.

Oh, dégnati, divina perfezione

di donna, di concedermi licenza

che di questi supposti miei delitti,

io con te, giust’appunto, mi scagioni.

ANNA -

Degnati tu di dar licenza a me,

tu, cancerosa pestilenza d’uomo,

di urlarti sulla faccia, maledetto,

questi ben conosciuti tuoi delitti.

RICCARDO -

O bella più che lingua possa dire,

accordami quel tanto di pazienza

che mi dia agio di giustificarmi.

ANNA -

O tristo, più che cuor possa pensare,

altra discolpa non potrai trovare

se non che nell’appenderti a un capestro.

RICCARDO -

M’accuserei da me,

con un tal gesto di disperazione.

ANNA -

No, con quel gesto tu ti assolveresti,

ché con esso faresti su di te

degna vendetta degli atroci eccidii

consumati da te uccidendo gli altri.

RICCARDO -

Se dicessi che non li ho uccisi io?

ANNA -

Sarebbe dire ch’essi da nessuno

furono uccisi; eppure sono morti,

e per tua mano, diabolico schiavo!

RICCARDO -

Non ho ucciso io vostro marito.([13])

ANNA -

Allora non è morto?

RICCARDO -

È morto, sì,

ma per mano di Edoardo.

ANNA -

Immondo ipocrita!

Tu menti per la gola. La regina

ha visto il tuo micidiale pugnale

ancor tutto fumante del suo sangue;

e tu stavi in procinto di piantarlo

già nel petto di lei, se i tuoi fratelli

non te ne avessero sviato il colpo.

RICCARDO -

Fui provocato, in quella circostanza,

da quella sua calunniosa linguaccia

che voleva addossar la loro colpa

sulle mie spalle, del tutto incolpevoli.

ANNA -

No, a provocarti fu la tua natura

sanguinaria, che non sognò mai altro

che sangue e stragi. Ed ora questo re

non l’hai ucciso tu?

RICCARDO -

Concedo, sì.

ANNA -

Ah, lo concedi, brutto porcospino!

Così voglia concedere a me Dio

che ti sia data dannazione eterna

per questa turpe azione.

Oh, quanto mite e nobile e virtuoso

egli era!

riccardo -

Tanto meglio per il cielo

che l’ha ora con sé.

ANNA -

Sì, egli è in cielo,

dove tu non sperar d’andare mai.

RICCARDO -

Sia dunque grato a me

che l’ho aiutato ad andare lassù

se più a quel luogo egli era congeniale

che alla terra.

ANNA -

Sì, come congeniale

ad altro luogo tu sei che l’inferno.

RICCARDO -

Oh, un luogo diverso ci sarebbe,

se posso dirlo…

ANNA -

Sì, una prigione,

o che altro?

RICCARDO -

La tua stanza da letto.

ANNA -

Non conosca riposo quella camera

ove giaci.

RICCARDO -

Così sarà, madama,

finché io non mi giaccia insieme a te.

ANNA -

Lo spero bene.([14])

RICCARDO -

Io ne sono certo.

Ma, lasciamo da parte, mia gentile,

questa arguto duello di cervelli,

e scendiamo a un parlare più concreto:

chi è stato causa delle acerbe morti

di questi due Plantageneti, Enrico

ed Edoardo, non è altrettanto reo

di chi ne è stato il pratico strumento?

ANNA -

Tu sei stato la causa,

e tu il loro maledetto effetto.

RICCARDO -

No, questa tua bellezza, ed essa sola,

è stata causa di quell’effetto;

questa bellezza tua che m’ossessiona

fin nel sonno, da spingermi a pensare

di dar morte magari a tutto il mondo

pur di vivere un’ora sul tuo seno.

ANNA -

Se mi venisse mai un tal pensiero,

io ti dico, assassino, che quest’unghie

farebbero a brandelli la mia faccia

per cancellarne via questa bellezza.

RICCARDO -

S’io vi stessi vicino,

questi occhi certo non sopporterebbero

quella devastazione di beltà;

non potresti offuscarla, me presente.

Ché come il mondo s’allieta del sole,

così di quella io; è la mia luce,

è la mia stessa vita.

ANNA -

La nera notte offuschi la tua luce,

la morte la tua vita.

RICCARDO -

Non imprecare contro te medesima,

bella creatura: tu sei l’una e l’altra.

ANNA -

Ah, vorrei esserlo, per vendicarmi!

RICCARDO -

Vendicarsi di chi t’ama, è querela

assai contro natura.

ANNA -

È giusta e ragionevole querela

per me cercar vendetta

contro colui che ha ucciso mio marito.

RICCARDO -

Chi ti privò del marito, signora,

lo fece perché tu potessi averne

uno migliore.

ANNA -

Migliore di lui

non ce n’è che respiri sulla terra.

RICCARDO -

Vive e respira invece sulla terra

chi t’ama meglio ch’egli non sapesse.

ANNA -

Dimmi il nome.

RICCARDO -

Plantageneto.

ANNA -

Ebbene,

era lui quello.

RICCARDO -

Ha lo stesso nome,

ma è uno di natura superiore.

ANNA -

Dov’è costui?

RICCARDO -

È qui davanti a te.

(Anna gli sputa in faccia)

Perché mi sputi addosso?

ANNA -

Vorrei che fosse veleno mortale,

per te.

RICCARDO -

Mai scaturì mortal veleno

da così dolce fonte.

ANNA -

Mai veleno

restò rappreso a più schifoso rospo.

M’infetti gli occhi! Via dalla mia vista!

RICCARDO -

Son gli occhi tuoi ad avere infettato

questi miei, soavissima signora.

ANNA -

Basilischi vorrei che essi fossero,

per darti morte.([15])

RICCARDO -

Oh, sì, e poter morire

subito qui! Se no, a morte lenta

m’uccidono i tuoi occhi, che dai miei

han saputo spillare amare lacrime,

ombrandone le luci

con un diluvio di puerili gocce;

questi occhi miei da cui non scese mai

lacrima di rimorso,

neppure quando mio padre ed Edoardo

piansero a udire il pietoso lamento

di Rutland, quando l’efferato Clifford

gli vibrò la fatale pugnalata;([16])

né quando quel guerriero di tuo padre

ci raccontò piangendo e singhiozzando

come un bambino la morte del mio,

sì che le guance di tutti gli astanti

eran come alberi stillanti pioggia.

Perfino in quel momento di tristezza

stragrande questi miei occhi virili

sdegnaron di versar l’umile lacrima.

Ma quello che non seppero strizzare

dagli occhi miei quelle tristi vicende,

lo doveva ora far la tua bellezza,

che me li rende accecati di pianto.

Pregato non ho mai nemico o amico,

mai la mia lingua seppe pronunciare

carezzevoli frasi di lusinga,

ma ora che m’arride come premio

la tua bellezza, l’altero mio cuore

incita la mia lingua

e suggerisse ad essa le parole.

(Anna lo guarda con disprezzo)

Non insegnar, signora, alle tue labbra

tanto disprezzo; non per disprezzare

esse son nate, bensì per baciare.

Se il tuo cuore ha tal sete di vendetta

da non conoscere alcun perdono,

ecco, ti do la mia spada affilata:

affondala, se vuoi, in questo petto

a te fedele, e fanne uscire l’anima

che t’adora; io qui me lo denudo

per il colpo mortale,

ed umilmente inginocchiato a te

a te chiedo la morte.

(S’inginocchia e si scopre il petto; ella afferra la spada che egli le offre, fa per colpirlo, ma si trattiene)

Non esitare: ho ucciso io Re Enrico,

ma fu la tua bellezza a provocarmi.

Colpisci, presto: sono stato io

a pugnalare il tuo giovane Edoardo,

ma fu il tuo volto d’angelo a istigarmi.

(Anna lascia cadere dalle mani la spada)

Raccogli quella spada, o rialza me.

ANNA -

Riàlzati, via, simulatore!

Per quanto possa voler la tua morte,

non voglio essere il tuo giustiziere.

RICCARDO -

(Rialzandosi)

Dimmi allora d’uccidermi da me

e lo farò.

ANNA -

Questo te l’ho già detto.

RICCARDO -

Sì, ma è stato nell’impeto dell’ira.

Ripetilo ora a freddo,

e questa mano che per amor tuo

ha ucciso l’amor tuo,

ucciderà con quella stessa spada

un amore di quello assai più vero;

sarai così tu stessa la cagione

dell’una e l’altra morte.

ANNA -

Vorrei poter discernere

quello che hai nel cuore…

RICCARDO -

Il cuore mio

è tutto quanto nelle mie parole.

ANNA -

Temo siano bugiardi l’uno e l’altre.

RICCARDO -

Mai allora ci fu uomo sincero.

ANNA -

Ebbene, su, rinfodera la spada.

RICCARDO -

Pace fatta?

ANNA -

Questo lo saprai poi.

RICCARDO -

Potrò almeno vivere sperando?

ANNA -

Come vivono, spero, tutti al mondo.

RICCARDO -

Degnati di portare quest’anello.

ANNA -

(Lasciandosi infilare l’anello al dito)

Prendere non è dare, sia ben chiaro.

RICCARDO -

Guarda come il mio anello cinge bene

il tuo dito; così stringe il tuo seno

il mio povero cuore;

portali entrambi con te, sono tuoi.

E se il tuo povero e devoto servo

può impetrar dalla tua graziosa mano

ora una grazia, lo confermerai

per sempre nella sua felicità.

ANNA -

Quale grazia?

RICCARDO -

Che tu voglia lasciare

questa luttuosa funebre incombenza

nelle mani di chi ha più d’ogni altro

cagione di occuparsi delle esequie([17])

e dirigerti invece a Crosby Place;([18])

quando avrò dato degna sepoltura

nell’abbazia di Chertsey([19])

a questo nobile re e versato

contrite lacrime sulla sua tomba,

là verrò a renderti in tutta fretta

il mio devoto omaggio.

Ti supplico di farmi questa grazia

per un insieme d’intime ragioni.

ANNA -

Con tutto il cuore, e molto rallegrata

di vederti sì vòlto a contrizione.

Tressel e Berkley, venite con me.

RICCARDO -

Il tuo saluto…

ANNA -

È più di quanto meriti;

ma poiché sei maestro di lusinga,

immagina d’averlo ricevuto.

(Esce con Tressel e Berkley)

RICCARDO -

Signori, su la bara ed in cammino.

UN GENTILUOMO -

A Chestley, monsignore?

RICCARDO -

Ai “Frati Bianchi”;([20])

e là aspetterete il mio arrivo.

(Escono, con il feretro, portatori e alabardieri)

Ci fu mai donna in quello stato d’animo

circuita d’amore?

Ci fu mai donna in quello stato d’animo

conquistata?… L’avrò, ma non a lungo.

Non ho quest’intenzione.

Ma come! Io, l’assassino confesso

del marito e del suocero, d’un tratto

carpirle il cuore ancora colmo d’odio,

con le sue labbra ancor maledicenti

ed agli occhi le lacrime… e presente

là il testimone ancora sanguinante

del suo sdegno; e presenti ancora Dio,

la sua coscienza e tutti i vari ostacoli

che si frappongono fra lei e me!

Ed io, senz’altro amico accanto a me

a sostener la mia preghiera a lei

se non il diavolo a viso scoperto

e il mio ceffo beffardo, la convinco:

il mondo intero contro un nulla! Puah!…

Ha dunque ella già dimenticato

quel valoroso principe d’Edoardo,

suo signore, che in un accesso d’ira

ho ucciso a Tewksbury, non son tre mesi?

Un gentiluomo più che dolce e amabile,

cui natura era stata molto prodiga,

giovane, valoroso, saggio, intriso

d’un tale tratto di regalità,

che non ne vedrà un altro il vasto mondo.

Ed ella abbassa su di me lo sguardo,

su di me che di quel soave principe

ho falciato l’aurata primavera,

e l’ho ridotta vedova di lui

in un letto di pianto?

Su di me, il cui tutto non eguaglia

la metà di Edoardo? Su di me,

deforme e claudicante come sono?

Il mio ducato contro pochi spiccioli([21])

che io mi sono ingannato fino ad oggi

sopra la mia figura,

s’ella mi trova - al contrario di me -

un uomo di straordinario fascino.

M’accollerò, costi quello che costi,

la spesa d’uno specchio,

e ingaggerò due dozzine di sarti

che studino le fogge di vestiti

più adatti ad abbellirmi la persona.

Poiché sono strisciato fino al punto

di venire gradito anche a me stesso,

voglio tenermi su a qualunque prezzo.

Prima però sistemerò a dovere

nella sua tomba quel brav’uomo là;

poi torno dal mio amore

a versare sospiri sul suo seno.

E tu splendi, bel sole,

finché mi sia comperato uno specchio,

ch’io possa rimirare, camminando,

la mia ombra riflessa sul terreno.

(Esce)

SCENA III - Londra, sala nel palazzo reale.

Entrano la REGINA ELISABETTA, LORD RIVERS e LORD GREY

RIVERS -

Dovete aver pazienza, mia regina:

il re riacquisterà rapidamente

la sua salute, non ci sono dubbi.

GREY -

Con questo vostro umore contristato

non farete che peggioragli il male.

Perciò, in nome di Dio,

fate cuore e cercate di mostrarvi

viva e gioviale, a confortar sua grazia.

ELISABETTA -

Che sarebbe di me s’egli morisse?

GREY -

Nessun altro malanno che la perdita

d’un signore par suo.

ELISABETTA -

La perdita per me d’un tal signore

porta con sé ogni sorta di malanno.

GREY -

Il cielo v’ha mandato, a confortarvi,

con un bel figlio, s’egli vi mancasse.

ELISABETTA -

Ah, egli è giovane, e finché è minore

dovrà restare sotto la tutela

di Riccardo di Gloucester, che non m’ama

come non ama nessuno di voi.

RIVERS -

È stabilito che sia lui il Reggente?

ELISABETTA -

Stabilito, se pure non sancito

formalmente; ma certo lo sarà

se il re verrà a mancare.

Entrano il DUCA DI BUCKINGHAM

e LORD STANLEY, conte di Derby.

GREY -

Ecco Lord Buckingham e il Conte Derby.

BUCKINGHAM -

Buon giorno a vostra grazia.

stanley -

Dio renda gioia a vostra maestà.

ELISABETTA -

La contessa di Richmond, vostra moglie,([22])

difficilmente vorrà dire “Amen”

a questa vostra amabile preghiera,

mio buon Lord Derby; tuttavia, signore,

malgrado ch’ella sia vostra consorte

e non mi veda troppo di buon occhio,

non pensate ch’io porti a voi rancore

per l’odiosa ed altera sua arroganza.

STANLEY -

Non date credito, ve ne scongiuro,

alle calunnie false ed invidiose

dei suoi accusatori;

e se doveste udirla anche accusata

sulla base di voci veritiere,

perdonatele la sua debolezza

che le deriva, com’io son convinto,

da una congenita sua leggerezza,

non già da radicata malvolenza.

ELISABETTA -

Vedeste oggi il re, caro Lord Derby?

STANLEY -

Veniamo appunto, Buckingham ed io,

dall’aver visitato sua maestà.

ELISABETTA -

Che speranze d’un suo miglioramento?

BUCKINGHAM -

Buone, direi, madama:

sua grazia è in buona vena di parlare.

ELISABETTA -

Che Dio gli dia salute.

Poteste allora conferir con lui?

buckingham -

sì, signora; desidera, ci disse,

provocare una riconciliazione

tra il Duca Gloucester([23]) ed i vostri fratelli

e tra costoro ed il Lord Ciambellano.

ELISABETTA -

Volesse Dio… ma ciò non sarà mai.

Ho paura che la felicità

sia giunta al termine per tutti noi.

Entrano RICCARDO, HASTING e DORSEY

RICCARDO -

Mi fanno torto, e io non lo sopporto!

Chi è che si lamenta con il re

di me, dicendo che son scontroso

e, guarda un po’, non li amo? Per San Paolo,

devono amare ben poco sua grazia

quelli che vanno a inzuffargli le orecchie

con simili rissose baggianate!

Poiché non son capace di adulare,

di ostentare un amabile contegno,

di sorridere in faccia, di lisciare,

d’ingannare, imbrogliare, civettare

ed inchinare il capo alla francese

con la smorfiosità d’uno scimmiotto,

debbo esser perciò considerato

un astioso nemico?

Un galantuomo non può vivere

senza pensare di far male agi altri,

e senza che codesta sua lealtà

debba essere presa pel malverso

da vellutati, striscianti furbastri?

GREY -

A chi allude di noi qui Vostra grazia?

RICCARDO -

A te, che manchi d’onestà e di grazia.

Quand’è che io t’avrei maltrattato?

Quando t’ho fatto torto?…

(A Rivers)

O a te?…

(A Stanley)

O a te?

O a chiunque altro della vostra cricca?

Peste vi colga! Sua grazia reale

- il cielo ce lo voglia preservare

meglio che non v’augurereste voi -

non può tirare in pace un po’ di fiato

senza che voi l’andiate a infastidire

coi vostri strampalati piagnistei.

ELISABETTA -

Gloucester, cognato, avete male inteso:

il re, di sua augusta iniziativa

e non richiesto da alcun postulante,

pensoso forse dell’interno odio

che ben traspare dalle vostre azioni

contro i miei figli, contro i miei fratelli,

contro me stessa, ci convoca a lui

per conoscere meglio le ragioni

di tanta ostilità da parte vostra

e cercar di rimuoverle. Ecco tutto.

RICCARDO -

Io non so più che dire:

il mondo è diventato così becero,

che gli uccelletti vanno a far man basa

dove non osano posarsi l’aquile.

Da quando ogni villano

è stato battezzato gentiluomo,

molti che sono veri gentiluomini

sono svillaneggiati.

Elisabetta -

Andiamo, andiamo,

sappiamo bene a chi volete alludere,

cognato Gloucester; non v’è andata giù

l’elevazione mia e di mia gente.

Dio non ci faccia mai aver bisogno

di voi.

RICCARDO -

Dio vuole, intanto, che siam noi

ad avere bisogno ora, di voi.

grazie alle vostre mene,

nostro fratello è condotto in prigione,

io stesso sono in disgrazia del re,

tutta la nobiltà è tenuta a vile

mentre ogni giorno si fan promozioni

per dare titoli di nobiltà

a gente che soltanto l’altro ieri

non valeva nemmeno mezzo nobile.([24])

ELISABETTA -

Io giuro su Colui che m’ha innalzata

dalla serena mia pace di prima

a questa altezza gravida d’affanni

di mai aver pronunziato parola

per cercar d’istigare sua maestà

contro Clarenza; ho anzi perorato

da zelante avvocato la sua causa.

Mi recate un’offesa vergognosa,

signore, coinvolgendomi così

con questi vostri ignobili sospetti.

RICCARDO -

Voi potete negare certamente

d’essere stata voi a provocare

la cattura e l’imprigionamento

di Lord Hastings…

RIVERS -

Lo può, sì, monsignore…

RICCARDO -

Lo può, Lord Rivers! Già, chi non lo sa?

Ella può questo ed altro, signor mio:

può procurare a voi fruttuose cariche

e poi anche negare

d’avervi dato mano ad ottenerle

ed affermare ch’esse sono merito

delle vostre eccellenti qualità.

Che cosa ella non può? Ella può anche…

per Maria Vergine…

RIVERS -

Che cosa può,

per Maria Vergine?

RICCARDO -

Che cosa può?

Ma maritarsi a un re, per Maria Vergine!([25])

Lei, vedova, a uno scapolo,

ed un bel giovanotto, per di più.

Vostra nonna, ch’io sappia,

non fece nozze altrettanto cospicue.

ELISABETTA -

Monsignore di Gloucester,

ho sopportato ormai da troppo tempo

le vostre villanesche reprimende

e i maligni sarcasmi. Adesso basta!

Per il cielo, vorrò informare il re

di tutte queste grossolane offese

che m’è toccato spesso sopportare.

Entra, rimanendo in fondo alla scena,

la vecchia REGINA MARGHERITA

Non che la sposa di un grande monarca,

vorrei essere, in queste condizioni,

un’umile servetta di campagna,

derisa, vilipesa come sono…

Mi viene veramente poca gioia

dall’essere regina d’Inghilterra.

MARGHERITA -

(A parte)

Che anche quella poca abbia a scemare,

ti supplico, Signore! A me dovuti

sono gli onori tuoi, il fasto, il seggio!

RICCARDO -

Ah, minacciate di ridirlo al re?

Ma diteglielo, senza alcuna remora!

Quanto v’ho detto qui,

son pronto a dichiararlo innanzi a lui,

a rischio d’esser mandato alla Torre.

È tempo di parlare: i miei servizi,

tutti dimenticati.

MARGHERITA -

(c.s.)

Via, demonio!

Li ricordo fin troppo i tuoi servizi:

ucciso mio marito nella Torre,

e mio figlio Edoardo a Tewksbury.([26])

RICCARDO -

Io, prima che voi foste regina,

e che vostro marito fosse re,

ho fatto sempre il cavallo da soma

dei suoi alti interessi, la ramazza

con la quale far pulizia sul campo

dai suoi fieri avversari, il dispensiere

di compensi ai suoi sostenitori:

ho versato il mio sangue

per dar regale dignità al suo.

MARGHERITA -

(c.s.)

Di sangue n’hai versato,

ma del suo e del tuo assai più nobile.

RICCARDO -

E in tutto questo tempo, voi e Grey,

vostro marito, e voi con loro, Rivers,

parteggiavate per la casa Làncaster.

Ucciso non fu forse a Sant’Albano

vostro marito mentre combatteva

per Margherita?([27]) E voglio ricordarvi,

se mai vi fosse passato di mente,

quel ch’eravate e quel che siete adesso,

e quel ch’io sono e sono sempre stato.

MARGHERITA -

(c.s.)

Un infame assassino, e tale resti!

RICCARDO -

Il povero Clarenza

che disertò da suo suocero Warwick([28])

facendosi spergiuro con se stesso,

Dio gli perdoni…

MARGHERITA -

(s.c.)

E ne faccia vendetta!

RICCARDO -

… per combattere a fianco di Edoardo,

per tutta ricompensa, sventurato,

è messo in carcere… Volesse Iddio

che avessi anch’io un cuore come Edoardo

di pietra, o che Edoardo avesse un cuore

sì tenero e pietoso come il mio!

Son davvero un fanciullo,

troppo ingenuo per questo basso mondo!

MARGHERITA -

(c s.)

Sbrigati allora, per la tua vergogna,

a lasciarlo, demonio, per l’inferno,

ché laggiù è il tuo regno!

RIVERS -

Mio signore di Gloucester,

in quei giorni di grande confusione

che voi qui rievocate per bollarci

come nemici, noi seguimmo allora

colui che era il re nostro sovrano,

così come ora seguiremmo voi,

se foste il nostro re.

RICCARDO -

Se fossi io re? Piuttosto uno straccione

vorrei essere. Lungi dal mio cuore

un simile pensiero!

ELISABETTA -

Così poca è la mia gioia, signore,

d’esser regina, quale voi pensate

possa esser quella che godreste voi

se di questo paese foste il re.

MARGHERITA -

(c.s.)

Ah, com’è vero! Quanta poca gioia

ha la regina di questo paese!

E son io quella, e d’ogni gioia priva!

Più non resisto a starmene in silenzio!

(Forte, facendosi avanti)

Ascoltate, briganti litigiosi,

che state lì a rissare

per spartirvi il bottino a me rubato:

c’è tra di voi qualcuno

che mi possa guardar senza tremare?

Se come sudditi non v’inchinate

a me, vostra regina, innanzi a me,

da voi deposta tuttavia tremate

come ribelli.

(A Riccardo)

Ah, nobile furfante!

Guardami bene in faccia, non voltarti!([29])

RICCARDO -

Matta strega grinzosa,

che ci fai tu davanti alla mia vista?

MARGHERITA -

Null’altro che ripeterti a memoria

tutte le tue nefande malefatte.

E lo farò, prima di farti andare.

RICCARDO -

Non sei bandita, a pena capitale?

MARGHERITA -

Lo sono, ma l’esilio è maggior pena

che la morte per me; perciò la rischio

restando qui dov’è la mia dimora.

D’un marito e d’un figlio

tu mi sei debitore,

(A Elisabetta)

e tu d’un regno;

voi tutti, della vostra sudditanza.

Questo dolore mio è di diritto

il vostro, e sono miei

tutti i piaceri che voi mi usurpate.

RICCARDO -

Su di te pesa la maledizione

che il mio nobile padre ti scagliò

quando cingesti le sue fiere tempie

d’una corona di carta; i tuoi scherni

gli provocarono fiumi di lacrime,

e tu, per tergerli, porgesti al Duca

una pezzuola ancora tutta intrisa

dell’innocente sangue del suo Rutland…([30])

Sul tuo capo son tutte ricadute

le sue maledizioni,

profferite dal suo cuore straziato,

e Dio, non noi, ha castigato in te

quel tuo atto di sangue.

ELISABETTA -

Dio è giusto

nel rendere giustizia agli innocenti.

HASTINGS -

Ah, trucidare quella creatura

fu l’atto più nefando e più spietato

mai visto o udito al mondo.

RIVERS -

A udirlo raccontare ha fatto piangere

anche i tiranni.

DORSET -

E non ci fu nessuno

che non preconizzasse la vendetta

che sarebbe seguita.

BUCKINGHAM -

Northumberland, che si trovava lì,

pianse a vederlo.

MARGHERITA -

Che! Tutti ringhiosi

l’uno con l’altro, pronti ad azzannarvi

prima ch’io comparissi, ed ora tutti

a volger il vostro odio su di me?

Ha avuto tanta udienza in cielo

quella terribile maledizione

di York, da far che la morte d’Enrico

e quella di Edoardo mio diletto,

e il loro regno andato in altre mani,

e l’amaro tormento del mio esilio

non sarebbero che il prezzo pagato

da noi per quel bizzoso marmocchietto?

Possono dunque le maledizioni

squarciar le nubi e penetrare in cielo?

Oh, allora, aprite il varco, grevi nuvole,

alle maledizioni mie vibranti:

il vostro ingordo re, se non in guerra,

muoia d’indigestione e di stravizio,

come per assassinio è morto il nostro,

per far lui re; ed Edoardo tuo figlio,

il quale è ora principe di Galles

per il mio Edoardo, faccia anch’egli,

ancora giovane, com’era lui,

morte violenta prima del suo tempo!

(A Elisabetta)

E tu, che usurpi a me che fui regina

il posto di regina,

possa tu sopravvivere in miseria,

alla presente pompa e, come me,

possa ridurti tu ad un rottame;

e viver tanto a lungo

da piangere la morte dei tuoi figli;

e vedere, com’io vedo ora te,

dei tuoi diritti adorna un’altra donna,

come tu sei dei miei; e non morire

prima d’avere visto tramontare

i tuoi giorni felici; e possa tu,

dopo ore infinite di tormento,

morire non più madre, non più moglie

non più regina di questa Inghilterra.

Voi due, Rivers e Dorset e anche tu,

Lord Hastings, eravate lì presenti,

quando mio figlio venne pugnalato.

Io prego Dio che nessuno di voi

possa giungere al fine naturale

di sua vita, ma sia stroncato prima

da un qualsivoglia imprevisto accidente.

RICCARDO -

Finiscila con questi tuoi scongiuri,

odiosa e raggrinzita fattucchiera!

MARGHERITA -

Lasciando fuori te?… Fermati, cane,

ché anche tu m’hai da sentire, e come!

Oh, s’abbia per te solo in serbo il cielo

un funesto flagello, il più terribile

dei tormenti ch’io possa mai augurarti,

e voglia trattenerlo fino al tempo

che siano maturate le tue colpe,

e lo scagli sdegnoso su di te

che sei stato nemico della pace

su questo nostro derelitto mondo.

Ti corroda incessantemente l’anima

il tarlo insonne della tua coscienza;

e, possa tu trattar per traditori,

fin che vivi, gli amici tuoi più cari,

e per amici più cari e fidati

traditori della più bassa risma.

Non chiuda il sonno i tuoi occhi letali

se non per darti sogni tormentosi

che t’atterriscano con un inferno

di orrendi diavoli, schifoso aborto

di malizia, maiale grufolante,

marchiato da rifiuto di natura

e figlio dell’inferno dalla nascita;

tu, vivente calunnia

del grembo di tua madre che t’ha fatto;

tu, schifoso germoglio

dei lombi di tuo padre; strofinaccio

dell’onore, esecrato…

RICCARDO -

Margherita!

MARGHERITA -

… Riccardo!

RICCARDO -

Eh?

MARGHERITA -

Non ti ho mica chiamato.

RICCARDO -

Scusa, credevo che chiamassi me

dandomi tutti quegli amari epiteti.

MARGHERITA -

Difatti, ma non chiedevo risposta.

Ti chiedo solo di farmi concludere

la mia maledizione.

RICCARDO -

Io l’ho conclusa,

e finisce così: con “Margherita”.

ELISABETTA -

(A Margherita)

Così tutte le tue maledizioni

te le sarai soffiate addosso a te.

MARGHERITA -

Ah, parli tu, immagine dipinta

di regina, tu, vano abbellimento([31])

di quella che fu già la mia fortuna!

Perché spargi il tuo zucchero

sulla gobba di quel tumido ragno

la cui rete mortifera

finirà per avvolgere anche te?

Stolta, stolta! Ti affili da te stessa

il coltello che ti darà la morte!

Giorno verrà che chiamerai aiuto

da me, per aiutarti a maledire

questo gobbo rospaccio velenoso.

HASTINGS -

Smettila dunque, falsa profetessa,

con codeste tue folli imprecazioni,

se non vuoi abusare, a tuo discapito,

della pazienza nostra!

MARGHERITA -

Svergognati!

Della mia abusato avete tutti!

RIVERS -

Sarebbe rendervi un buon servizio

a insegnarvi qual è il dover vostro.

MARGHERITA -

Sarebbe rendermi un buon servizio

se ciascuno facesse il suo dovere

con me: cioè se m’insegnaste ad essere

vostra regina e voi esser miei sudditi,

rendendo a me quello che a me è dovuto,

e insegnando a voi stessi quel dovere.

DORSET -

Non state a disputar con lei. È pazza.

MARGHERITA -

Zitto, mastro marchese!Sei maldestro.

Il fior di conio di questo tuo titolo

ancora non ha corso in Inghilterra.

Ah, se la vostra fresca nobiltà

sapesse giudicare che vuol dire

perderla e ritrovarsi un miserabile!

Chi sta in alto è scrollato dalle raffiche

e, se cade, rovina in mille pezzi.

RICCARDO -

Buon consiglio, perbacco!

Fanne tesoro, imparalo, marchese.

DORSET -

Riguarda voi, signore, quanto me.

RICCARDO -

Oh, certo, anzi di più.

Ma io ci sono nato così in alto:

il nostro nido d’aquile

sta edificato in vetta all’alto cedro,

scherza col vento e si beffa del sole.

MARGHERITA -

E muta il sole in ombra, ahimè, ahimè!

Ne sa qualcosa il povero mio figlio,

ormai per sempre all’ombra della morte,

i cui splendenti, luminosi raggi

la nera nube della tua ferocia

ha avviluppato nell’eterna tenebra.

Ed il tuo nido d’aquila

è stato edificato in quello nostro.

Tu che lo vedi, Dio, non tollerarlo!

Fu ottenuto col sangue,

e nel sangue dev’essere perduto.

BUCKINGHAM -

Oh, finitela insomma! Per vergogna,

se non per carità.

MARGHERITA -

E proprio voi

mi parlate di carità e vergogna?

Voi che con me vi siete comportati

senza un’ombra di umana carità,

e che senza vergogna avete ucciso

le mie speranze? Carità è per me

l’oltraggio, vivere è la mia vergogna.

Ed in questa vergogna viva in me

sempre la rabbia per il mio soffrire.

BUCKINGHAM -

Basta là, basta! Fatela finita!

MARGHERITA -

Nobilissimo Buckingham,

a te io voglio baciare la mano,

in segno di alleanza e d’amicizia;

con l’augurio che scenda su di te

e la tua nobile casa ogni bene;

sui tuoi vestiti non ci sono macchie

del nostro sangue, tu non sei compreso

nel cerchio della mia maledizione.

BUCKINGHAM -

Né io né gli altri: le maledizioni

non vanno mai più lontano

del labbro di colui che le pronuncia.

MARGHERITA -

Io penso invece ch’esse vanno in cielo

a ridestare dal suo dolce sonno

il silenzio di Dio. Guàrdati, Buckingham,

da quel cagnaccio! Attento:

se ti scodinzola, morde! e se morde,

il morso del suo dente velenoso

ti dà ferita cancerosa e morte.

Con lui non aver mai nulla a che fare;

tienilo solo a bada: su di lui

il peccato, la morte e il nero inferno

hanno stampato il lor sinistro marchio

e i lor ministri sono ai suoi comandi.

RICCARDO -

Che vi racconta costei, mio Lord Buckingham?

BUCKINGHAM -

Nulla ch’abbia alcun peso, vostra grazia.

MARGHERITA -

Che! Tu disdegni i miei buoni consigli,

ed assecondi il diavolo

contro il quale ti sto mettendo in guardia?

Te ne ricorderai un giorno o l’altro,

quando costui t’avrà spezzato il cuore

per l’ambascia, e dirai: “Qual buon profeta

sei stata, sventurata Margherita!”

Viva, ciascun di voi, in odio a lui,

ed egli a voi, e tutti in odio a Dio!

(Esce)

BUCKINGHAM -

Però mi si drizzavano i capelli

a udire quelle sue maledizioni.

RIVERS -

E così a me. Mi chiedo come mai

la si lasci girare in libertà.

RICCARDO -

Io la capisco: per la Santa Vergine,

ha dovuto soffrire troppi torti!

E mi pento del male che le ho fatto

anch’io, dalla mia parte.

ELISABETTA -

Per me, ch’io sappia, non gliene ho mai fatti.

RICCARDO -

Ritraete però ogni vantaggio

dai torti ch’ella ha potuto ricevere.

Troppo calore ho speso a far del bene

a chi ora è troppo freddo a riconoscerlo.

Quanto a Clarenza, per la Santa Vergine,

ha ricevuto bene la sua paga!

Sta rinchiuso all’ingrasso,

a ricompensa delle sue fatiche.

E Dio perdoni chi n’è responsabile!

RIVERS -

Saggia morale, d’un vero cristiano:

pregare Dio per chi ci ha fatto male.

RICCARDO -

È quel che faccio sempre…

(Tra sé)

E faccio bene:

ché a maledir qualcuno ora per questo,

mi sarei maledetto da me stesso.

Entra CATESBY

CATESBY -

(A Elisabetta)

Madama, sua maestà vi vuol parlare,

(A Riccardo)

ed anche a vostra grazia e a tutti gli altri.

ELISABETTA -

Vengo subito, Catesby.

Volete accompagnarmi, miei signori?

RIVERS -

Seguiamo volentieri vostra grazia.

(Escono tutti meno Riccardo)

RICCARDO -

Io faccio il male, e sono io il primo

a deprecarlo e sbraitar per esso:

carico il peso di tutti i misfatti

da me segretamente consumati

sulle spalle degli altri. Ho manovrato

per gettare Clarenza in gattabuia,

e lo compiango avanti a questo branco

di sempliciotti, Derby, Hastings, Buckingham,

e dico loro che fu la regina

coi suoi parenti ad istigare il re

contro il duca Clarenza mio fratello.

E quelli se la bevono,

e mi spronano a far la mia vendetta

sulle spalle di Rivers, Dorset, Grey;

al che io tiro fuori un gran sospiro,

e, appellandomi alle Scritture,

ricordo loro il divino precetto

che insegna a ripagar con bene il male.

Vesto così la mia nuda perfidia

con vecchi stracci carpiti a casaccio

dai sacri testi; e mostro d’esser pio

quanto più mi comporto da demonio.

Entrano DUE SICARII

Ma basta: sono qui i miei giustizieri.

Allora, bravi, duri e decisi compari,

siete pronti a sbrigare la faccenda?

PRIMO SICARIO -

Sì, monsignore, e veniamo da voi

per avere il mandato necessario

a consentirci d’essere introdotti

nel luogo ov’ei si trova.

RICCARDO -

Ottimamente.

L’ho appunto qui con me. E appena fatto,

verrete a ripararvi a Crosby Place.([32])

Però mi raccomando, amici miei,

siate fulminei nell’esecuzione,

ed inflessibili: nessun indugio

ad ascoltar le sue perorazioni;

perché Clarenza è un bravo parlatore,

e per poco che voi gli diate spago,

quello vi muove il cuore alla pietà.

SECONDO SICARIO -

Signore, non staremo certo lì

a scambiar quattro chiacchiere. I ciarlieri

son gente poco idonea all’azione.

Andiamo a usar le mani, non la lingua.

Potete star sicuro.

RICCARDO -

Gli occhi vostri, difatti, come vedo,

versano macine di pietra; lacrime

piovono sol dagli occhi degli sciocchi.

Mi piacete ragazzi. All’opra, subito.

E fate presto.

I DUE SICARI -

Sì, sì, monsignore.

(escono)

SCENA IV - Londra, la Torre.

Entrano CLARENZA e BRAKENBURY

BRAKENBURY -

Oggi vi vedo triste, vostra grazia.

CLARENZA -

Ahimè, ho trascorso una brutta nottata,

così piena di spaventosi sogni,

di orribili visioni, che vi dico,

quant’è vero che sono un buon cristiano,

non ne vorrei passare un’altra eguale

nemmeno se dovessi ricavarne

un mondo intero di giorni felici,

sì piena è stata di tetro terrore.

BRAKENBURY -

Che sogno è stato il vostro, monsignore?

Vogliate raccontarmelo, vi prego.

CLARENZA -

M’è parso d’essere fuggito a forza

dalla Torre e di essermi imbarcato

per raggiunger per mare la Borgogna;

e con me era mio fratello Gloucester,

che m’invitò a lasciare la cabina

per passeggiar sul ponte della nave:

da lì volgemmo gli occhi all’Inghilterra

e ci trovammo a ricordare insieme

mille atroci episodi capitatici

nella contesa fra York e Lancàster.

Camminavamo in su e in giù a coperta

sulle sconnesse plance, quando a un tratto

m’è sembrato che Gloucester inciampasse

e, cadendo, venisse addosso a me,

che mi sforzavo di tenerlo su,

e mi sbalzasse via di soprabordo

negli agitati flutti dell’oceano.

Dio, che pena! Mi parve di annegare.

Che pauroso strepito dell’acque

sentivo negli orecchi, e innanzi agli occhi

e quali orrende immagini di morte!

Mi sembrò di vedere intorno a me

mille orribili resti di naufragio

e uomini a diecine di migliaia

dilaniati da squali; e verghe d’oro,

ed ancore giganti, e perle a mucchi,

pietre rare, gioielli favolosi

sparpagliati sul fondo dell’oceano:

stavano alcuni dentro a teschi umani

incastrati nell’orbite degli occhi

dov’erano una volta le pupille,

quasi a beffa di queste:

gemme lucenti, splendide, occhieggianti

di tra il melmoso fondo dell’abisso,

parevano schernir l’ossa dei morti

sparse all’intorno.

BRAKENBURY -

Ed aveste tal agio,

trovandovi sull’orlo della morte,

di contemplar tutti questi segreti

delle profondità?

CLARENZA -

Così m’è parso.

Più volte mi sforzai di render l’anima,

ma sempre il flutto impediva, maligno,

al respiro di uscire e di esalarsi

nella libera vastità dell’aria

ed era come se la trattenesse

soffocata nel mio petto ansimante

ch’era quasi sul punto di scoppiare

nell’anelito d’eruttarla in mare.

BRAKENBURY -

E tutta questa angosciante agonia

non v’ha svegliato?

CLARENZA -

Per nulla. Il mio sogno

si proiettava al di là della vita.

Oh, adesso cominciò per la mia anima

la tempesta: passai, così mi parve,

la palude della malinconia,([33])

con lo scorbutico traghettatore

che cantano i poeti,

per entrare nel regno della tenebra.

Il primo a salutare la mia anima

appena giunta là, fu il grande Warwick,

il mio suocero illustre, che gridò:

“Qual pena per spergiuro

potrà assegnare all’infido Clarenza

la nera monarchia che regna qui?”

Disse e sparì. Mi venne quindi accanto

un’ombra erratica in sembianza d’angelo

con la chioma lucente insanguinata

e levò alto il grido: “Ecco Clarenza,

il perfido, spergiuro voltafaccia!

Clarenza che m’ha pugnalato a Tewksbury

sul campo. Impadronitevi di lui,

voi Furie, e trascinatelo al tormento!”([34])

A quel punto m’è parso intorno a meualeQ

che una legione di schifosi diavoli

m’accerchiasse e m’urlasse nelle orecchie

sì orrende grida che al loro clamore

mi son destato ch’ero tutto un tremito

e per un certo tempo non riuscivo

a creder di non esser più all’inferno

sì violenta era stata l’impressione

lasciatami nell’animo dal sogno.

BRAKENBURY -

Nessuna meraviglia, monsignore,

ch’esso v’abbia così terrorizzato:

sento venirmi anch’io la pelle d’oca

a udirvelo soltanto raccontare.

CLARENZA -

Ah, Brakenbury! Tutte queste cose

che ora gridano contro la mia anima

io le ho commesse per amor d’Edoardo,

e guarda come me ne ricompensa.

O Dio, se le contrite mie preghiere

non valgono a placar la tua vendetta

e mi vuoi castigar delle mie colpe,

sfoga su me soltanto la tua ira,

ma risparmia la mia sposa incolpevole

e i miei poveri bimbi.

Mio cortese custode, stammi accanto:

ho il cuore stanco e vorrei riposare.

BRAKENBURY -

Sì, certo, vostra grazia.

Il cielo vi conceda un buon riposo.

(Clarenza si assopisce)

Il dolore fa sovvertire agli uomini

le stagioni ed i tempi del riposo;

fa giorno della notte,

e notte del meriggio. A loro gloria

i principi non hanno che i lor titoli,

lustro esteriore d’interiore affanno;

e spesso per piaceri immaginari

soffrono mille triboli:

sicché tra i loro titoli gloriosi

e un nome oscuro non v’è differenza

se non che nell’esterna risonanza.

Entrano i due SICARII

PRIMO SICARIO -

Oh, c’è nessuno qui?

BRAKENBURY -

Che vuoi, compare?

E come hai fatto ad arrivar fin qui?

SECONDO SICARIO -

Devo parlare al Duca di Clarenza,

e son venuto qui con le mie gambe.

BRAKENBURY -

Brusco, l’amico!

SECONDO SICARIO -

Meglio che noioso,

signore, a starla a fare troppo lunga.

(Al compagno)

Mostragli questo, senza tante chiacchiere.

(Gli dà il foglio col mandato di Riccardo)

brakenbrury -

Qui mi si ordina di consegnare

in vostre mani il Duca di Clarenza.

Io non voglio indagare

che cosa possa ciò significare,

ché non mi voglio rendere colpevole

d’essermene immischiato.

Il Duca di Clarenza è là che dorme

e queste son le chiavi.

Andrò intanto dal re ad informarlo

che ho lasciato a voi la mia consegna.

PRIMO SICARIO -

Saggia pensata. Fatelo, signore.

(Esce Brakenbury)

SECONDO SICARIO -

Che dici, lo pugnalo mentre dorme?

PRIMO SICARIO -

No, altrimenti poi quando si sveglia

dirà ch’è stata un’azione vigliacca.([35])

SECONDO SICARIO -

Bah, per svegliarsi non si sveglierà

che il giorno del Giudizio.

PRIMO SICARIO -

Va bene, ed anche allora ci dirà

che l’abbiam pugnalato che dormiva.

SECONDO SICARIO -

“Giudizio…” a pronunciar questa parola,

m’è venuto una specie di rimorso…

PRIMO SICARIO -

Che! Hai paura?

SECONDO SICARIO -

Non già di ammazzarlo,

visto che abbiamo a ciò l’ordine espresso,

ma di dannarmi per averlo fatto,

e per questo non c’è ordine espresso

che mi possa servir di copertura.

PRIMO SICARIO -

E io che t’ho creduto ben deciso…

SECONDO SICARIO -

Lo sono, sì… a lasciarlo campare.

PRIMO SICARIO -

Quand’è così, torno dal Duca a dirglielo.

SECONDO SICARIO -

No, un momento, ti prego;

spero che questo umor compassionevole

mi passi presto: mi dura di solito

il tempo di contare fino a venti.

PRIMO SICARIO -

(Dopo un po’ di silenzio in cui s’immagina che il Secondo Sicario conti da uno a venti)

Come ti senti adesso?

SECONDO SICARIO -

Alcuni rimasugli di coscienza

mi son rimasti dentro…

PRIMO SICARIO -

Ricòrdati che a ordine eseguito

c’è per noi il compenso.

SECONDO SICARIO -

Sangue di Cristo, è vero! Muoia, muoia!

M’ero dimenticato del compenso!

PRIMO SICARIO -

Dov’è andata la tua coscienza adesso?

SECONDO SICARIO -

Oh, nella borsa del Duca di Gloucester.

PRIMO SICARIO -

Dimodoché quand’egli l’aprirà

per pagarci il compenso,

la coscienza se ne volerà via?

SECONDO SICARIO -

Che se ne vada, non m’importa niente.

Saran certo ben pochi

o nessuno che la vorranno in casa.

PRIMO SICARIO -

E se dovesse ritornarti indietro?

SECONDO SICARIO -

Di coscienza non voglio più sapere;

fa d’un un uomo un codardo.

Uno non può rubare,

ch’essa non sia là pronta ad accusarti;

uno non può imprecare,

ch’essa non sia là pronta a rimbeccarti;

uno non può giacersi

a letto con la moglie del vicino,

ch’essa non sia lì pronta a denunciarlo.

La coscienza è un compunto spiritello

dal volto sempre rosso di pudore,

che fa il ribelle nel petto dell’uomo

creando all’uomo una massa di ostacoli.

Una volta m’ha fatto addirittura

riportare una borsa piena d’oro

rinvenuta per caso. La coscienza

riduce alla mendicità chi l’ospiti;

la caccian tutti da città e villaggi

come una cosa piena di pericoli;

ed ognuno che voglia viver bene

cerca di farne a meno

e di contare solo su se stesso.

PRIMO SICARIO -

Perdio, eccola giusto qui al mio fianco

che mi vuol persuader di non ucciderlo,

il duca.

SECONDO SICARIO -

E tu non credere a quel diavolo,

chiudilo nella mente e tienlo là:

lui ti si vuole intrufolare dentro

per farti sospirare e niente più.

PRIMO SICARIO -

Sono di buona tacca;

con me non riuscirà ad averla vinta.

SECONDO SICARIO -

Parli da valentuomo

che rispetta la sua reputazione.

E dunque forza, ci mettiamo all’opera?

PRIMO SICARIO -

Tu, con il manico del tuo pugnale,

gli affibbi una gran botta sulla zucca,

poi lo buttiamo dentro quella botte

di malvasia che sta nell’altra stanza.

SECONDO SICARIO -

Oh, eccellente trovata!

E ne facciamo una zuppa nel vino.

PRIMO SICARIO -

Piano, si sveglia.

SECONDO SICARIO -

Colpiscilo!

PRIMO SICARIO -

No, prima ragioniamo un po’ con lui.

CLARENZA -

(Svegliandosi, senza accorgersi della presenza dei sicari)

Custode, dove sei?… Dammi del vino.

SECONDO SICARIO -

Ne avrete presto più che a sufficienza,

di vino, monsignore.

CLARENZA -

E tu chi sei?

SECONDO SICARIO -

Un uomo, come voi.

CLARENZA -

Ma non regale, come sono io.

PRIMO SICARIO -

Né voi siete leale, come noi.([36])

CLARENZA -

Tu hai voce di tuono,

ma nell’aspetto mi sembri modesto.

PRIMO SICARIO -

La mia voce è del re,([37]) l’aspetto è mio.

CLARENZA -

Come scuro, funereo parli tu!

I tuoi occhi mi sono minacciosi;

perché sei così pallido?

Chi v’ha mandati? Perché siete qui?

I DUE -

Per… per…

CLARENZA -

Assassinarmi?…

I DUE -

Per l’appunto.

CLARENZA -

Avete appena il coraggio di dirlo;

non avrete perciò quello di farlo.

In che cosa v’ho offeso, amici miei?

PRIMO SICARIO -

Non noi, ma il re avete voi offeso.

CLARENZA -

Con lui vedrò di rappacificarmi.

PRIMO SICARIO -

Questo mai lo potrete, monsignore.

E perciò preparatevi a morire.

CLARENZA -

E ha scelto voi, fra tanti uomini al mondo,

per far assassinare un innocente?

Di che sono accusato? E su che prove?

Quale inchiesta, condotta legalmente,

ha messo in mano ad un arcigno giudice

il suo verdetto? Chi ha decretato

amara morte al misero Clarenza?

È procedura del tutto illegale

minacciarmi di pena capitale

prima di sottopormi ad un processo.

Io, per il sangue prezioso di Cristo,

e per la redenzione in cui sperate,

v’ingiungo di lasciare questo luogo

senza alzare su me nemmeno un dito!

L’atto che avete in animo di compiere

vi condurrebbe a dannazione certa.

Primo sicario -

Facciamo quanto ci è stato ordinato.

SECONDO SICARIO -

E chi ce l’ha ordinato è il nostro re.

CLARENZA -

O erronei vassalli! Il Re dei re

nelle tavole dei Comandamenti

ha scritto. “Non commettere omicidio!”

Violereste il precetto del Signore

per obbedire all’ordine d’un uomo?

Attenti! Ch’egli ha in mano la vendetta

da scagliare sul capo di coloro

che ardiscono violare la Sua legge.

SECONDO SICARIO -

E quella Egli ora scaglia su di te,

spergiuro traditore ed assassino.

Tu giurasti, prendendo il sacramento,

di combattere per la casa Lancaster.

PRIMO SICARIO -

Ma traditore a Dio,

hai infranto quel sacro giuramento

e infitto la tua lama traditrice

nelle budella del figlio del re…

SECONDO SICARIO -

… che giurasti di amare e di difendere.

PRIMO SICARIO -

Come puoi invocare su di noi

l’inesorabile legge di Dio,

quando tu stesso l’hai sì gravemente

violata?

CLARENZA -

Ahimè, per amore di chi

ho io commesso quell’atto malvagio?

L’ho fatto per Edoardo, mio fratello.

Non può mandarvi a uccidermi per questo,

giacché di quel delitto

è non meno di me lui responsabile.

Se Dio vuol castigare questa colpa,

oh, lo farà, sappiatelo!, in palese;

non togliete dal suo braccio potente

la causa del castigo; a Lui non serve

di agire in modo subdolo e indiretto

per togliere dal mondo chi l’ha offeso.

PRIMO SICARIO -

Chi ti fece strumento sanguinario,

allora, quando trafiggesti a morte

quel gagliardo germoglio, il valoroso

giovine principe Plantageneto?

CLARENZA -

L’amor per mio fratello,

il diavolo e il rabbioso mio furore.

PRIMO SICARIO -

L’amor per tuo fratello,

ora, il nostro dovere e le tue colpe

conducono noi qui per ammazzarti.

CLARENZA -

Oh, se davvero amate mio fratello,

non odiatemi; sono suo fratello,

e l’amo molto. Se siete assoldati

per guadagno, tornatevene indietro:

vi manderò da mio fratello Gloucester

che son sicuro vi compenserà

per la mia vita, meglio che Edoardo

per l’annuncio di avermi dato morte.

SECONDO SICARIO -

In questo v’ingannate:

vostro fratello Gloucester vi detesta.

CLARENZA -

Oh, no, mi vuole bene, e mi tien caro.

Andate pur da lui, da parte mia.

PRIMO SICARIO -

Per andarci, ci andremo.

CLARENZA -

E ricordategli

che quando il nostro augusto padre York

benedisse col suo braccio glorioso

i suoi tre figli e dal fondo dell’anima

ci comandò di amarci l’un con l’altro,

era ben lungi dall’immaginare

questa nostra divisa fratellanza:

dite a Gloucester di ripensare a questo,

e lo vedrete piangere.

PRIMO SICARIO -

Sì, macine,

come quelle che ha consigliate a noi.

CLARENZA -

Oh, non lo calunniate! Egli è gentile.

PRIMO SICARIO -

Sì, come la gelata sul raccolto!

Insomma, via, non vi fate illusioni:

è lui che ci ha mandato qui a sopprimervi.

CLARENZA -

Non può essere. Ha pianto alla mia sorte,

m’ha stretto fra le braccia

mentre mi ripeteva singhiozzando,

che avrebbe fatto tutto il suo possibile

per ottener la mia liberazione.

PRIMO SICARIO -

Ed è quello che fa

ora col mandar noi a liberarvi

da questa vostra schiavitù terrena,

per le gioie del cielo.

SECONDO SICARIO -

Riconciliatevi perciò con Dio,

perché dovete morire, signore.

CLARENZA -

E voi che in fondo all’anima

accogliete un sì sacro sentimento

da consigliarmi a far pace con Dio,

avreste l’anima tanto accecata

da fare guerra a Dio, assassinandomi?

Amici, riflettete:

chi v’ha indotto a commettere quest’atto,

v’odierà poi per averlo commesso.

SECONDO SICARIO -

E che dobbiamo fare?

CLARENZA -

Commuovervi, cedendo alla pietà,

e salvare così le vostre anime.

PRIMO SICARIO -

Commuoverci? È da vili,

da femminucce, no!

CLARENZA -

E non aprirsi alla pietà è da bestie,

da selvaggi, da diavoli d’inferno.

Chi di voi due, essendo figlio a un principe

e privato della sua libertà,

com’io adesso, se due assassini

gli venissero avanti come voi,

non li supplicherebbe per avere

salva la vita? Sì, li implorereste,

se vi trovaste nelle mie strettezze.

(Al secondo sicario)

Oh, amico, nel tuo sguardo

mi par di scorgere un po’ di pietà:

se il tuo occhio non è un adulatore

bugiardo, mettiti dalla mia parte

e supplica per me:

d’un principe che chiede l’elemosina

quale mendico non avrà pietà?

SECONDO SICARIO -

Guardatevi alle spalle, monsignore!

PRIMO SICARIO -

(Pugnalandolo)

Toh, questo!… E questo!… E questo!…

E se non bastano, ti annegherò

nella botte di malvasia di là.

(Esce col corpo di Clarenza a spalla)

SECONDO SICARIO -

Azione sanguinaria,

e disperatamente consumata.

Come vorrei poter, come Pilato,

lavarmi ambo le mani,

da questo nefandissimo assassinio!

(Rientra il Primo Sicario)

PRIMO SICARIO -

Allora? Che significa?

Perché non ti sei mosso a darmi mano?

Perdio, il Duca lo dovrà sapere

da me quale fiaccone tu sei stato!

SECONDO SICARIO -

Potesse il Duca sapere da te

che ho salvato la vita a suo fratello!…

Prenditi pure tu tutto il compenso,

e riportagli quello che ti ho detto.

Io son pentito di questo assassinio.

(Esce)

PRIMO SICARIO -

Io no. Va’, va’, vigliacco!…

Beh, ora vado a nascondere il corpo

in qualche buco fin che venga il Duca

a dare l’ordine di sepoltura.

E una volta intascato il mio compenso,

me la squaglio: perché questa faccenda

si scoprirà, e conviene stare al largo.

(Esce)


ATTO SECONDO

SCENA I - Londra, sala nel palazzo reale.

Entrano RE EDOARDO, sofferente, sorretto da HASTINGS; la regina elisabetta,

dorset, rivers, BUCKINGHAM, GREY e altri.

EDOARDO -

E così tutto a posto: una giornata

bene impiegata. Ora a voi, miei Pari,

di mantenere stretta questa unione.

a mantenervi in unità e concordia.

Io m’aspetto oramai da un giorno all’altro

un messaggio dal nostro Redentore

che venga a liberarmi da quaggiù;

e salirà tanto più in pace in cielo

l’anima mia, se in pace

avrò lasciato i miei amici in terra.

Rivers e Hastings, datevi la mano;

non nascondete in voi sordi rancori:

giurate di volervi sempre bene.

RIVERS -

(Offrendo la destra a Hastings che la stringe)

Giuro che la mia anima

è purgata da odio e da rancore;

ed io suggello con questa mia mano

l’affetto più leale del mio cuore.

HASTINGS -

Così possa venirmi tanto bene,

com’io giuro la stessa lealtà.

EDOARDO -

Badate a non parlar solo per gioco

davanti al vostro re,

che non abbia il Supremo Re dei re

a castigare la vostra finzione

e a fare che ciascuno di voi due

sia la fine dell’altro.

HASTINGS -

Quanto a me,

così m’arrida una benigna sorte

per quanto è schietto l’amore che giuro.

RIVERS -

E così arrida a me,

per quanto schietto è il mio cuore con Hastings.

EDOARDO -

(Alla regina)

Né siete voi, madama, dispensata

da questo impegno, né voi, figlio Dorset,([38]);

né voi, Buckingham: siete stati tutti

faziosi l’uno contro l’altro. Moglie,

vogliate bene ad Hastings,

porgetegli la mano da baciare,

ma che non sia finzione ciò che fate.

ELISABETTA -

(Porgendo la mano ad Hastings)

Ecco, Hastings; e voglia così il cielo

far prosperare me e i miei parenti

com’io vorrò dimenticar per sempre

il nostro odio trascorso.

EDOARDO -

Abbracciatelo, Dorset; e voi, Hastings,

vogliate bene a questo lord marchese.

DORSET -

Dichiaro per mia parte

che questo patto d’amore reciproco

non sarà mai violato.

HASTINGS -

E così io.

(Si abbracciano)

EDOARDO -

Ed ora tu, nobilissimo Buckingham,

suggella questo patto di alleanza

abbracciando i parenti di mia moglie,

ed allietatemi di tal concordia.

BUCKINGHAM -

(Alla regina)

Se sarà mai, che Buckingham, signora,

rivolga il proprio odio a vostra grazia,

s’egli non amerà voi ed i vostri

col più sincero e doveroso affetto,

Dio mi punisca facendo rivolgere

su di me l’odio di tutti coloro

da cui più aspetto e specialmente amore;

e quando avrò maggior necessità

d’un amico del quale io sia sicuro,([39])

questi mi si riveli infido, falso,

traditore e imbottito di perfidia.

Questo invoco da Dio, o mia regina,

se mai dovesse intiepidirsi in me

l’affetto verso voi e i vostri cari.

(L’abbraccia)

EDOARDO -

Benefico cordiale, illustre Buckingham,

è questo tuo solenne giuramento

per l’infermo mio cuore. Ora non manca

che l’intervento del fratello nostro

Gloucester, a chiudere felicemente

il cerchio di codesta fausta pace.

Entra RICCARDO([40])

Ma eccolo che viene, ed in buon punto.

RICCARDO -

Buon giorno ai miei sovrani, re e regina,

e a tutti voi, nobilissimi Pari,

felice giorno.

EDOARDO -

Felice davvero,

pel modo come noi l’abbiamo speso.

Abbiam compiuto, Gloucester, buone azioni,

riconducendo in pace inimicizie,

in amore reciproco vecchi odii,

fra questi Pari sempre tra di loro

ingiustamente gonfi di rancore.

RICCARDO -

Sacrosanta fatica, mio sovrano

ed augusto signore. Quanto a me,

se alcuno in questa nobile congrega,

sulla base di falsa informazione

o d’erroneo suo convincimento,

mi creda suo nemico;

o se io stesso, inconsapevolmente,

o in un momento d’ira, abbia commesso

cosa mal sopportata, io qui con lui

desidero riconciliarmi e stringere

amichevole pace; ché per me

stare in inimicizia con qualcuno

è la morte, è qualcosa che aborrisco;

io bramo vivere in amicizia

con tutti i buoni.

(Alla regina)

Anzitutto da voi,

madama, impetro una pace sincera,

che spero di sapermi guadagnare

coi miei servigi di devoto suddito;

da voi, mio nobile cugino Buckingham,

se mai albergò astio tra noi due;

da voi, lord Rivers e da voi lord Grey,

che finora m’avete riguardato,

senza giusta ragione, con cipiglio

e da voi tutti, duchi, conti, nobili

e gentiluomini: proprio da tutti.

Non conosco nessun Inglese vivo

col quale la mia anima sia in urto

più di quanto lo sia con un infante

che sia nato stanotte.

E di tanta umiltà ringrazio Dio.

ELISABETTA -

Sia per noi questo giorno, d’ora innanzi,

giorno di festa; e voglia Dio

che tutte le discordie sian composte.

Mio sovrano signore, vostra altezza

voglia, vi supplico, di nuovo accogliere

nelle sue grazie il fratello Clarenza.

RICCARDO -

Madama, avrei io qui poc’anzi offerto

un tesoro di buoni sentimenti

per vedermi così da voi schernito

davanti a questa reale presenza?

Chi non lo sa che il nobil duca è morto?

RIVERS -

“Chi non lo sa che è morto”…

C’è qualcuno qui dentro che lo sa?

ELISABETTA -

O Dio che tutto vedi,

che mondo è questo?

BUCKINGHAM -

Sono anch’io, lord Dorset,

pallido in viso come tutti gli altri?

DORSET -

Sì, monsignore; e non c’è tra i presenti

chi non abbia le guance scolorite.([41])

EDOARDO -

Come! Morto Clarenza? Ma quell’ordine

era stato da me poi revocato!

RICCARDO -

Ma egli è morto, pace alla sua anima,

per il primo dei vostri ordini, e quello

lo recò al carcere un Mercurio alato,([42])

mentre a recare là la vostra revoca

è stato qualche tardigrado storpio,

giusto in tempo a vederlo seppellire.

Dio non voglia che altri,

di meno nobiltà e lealtà,

e più prossimo a lui non che per sangue

per pensieri di sangue su di lui,

meriti peggio di quanto è toccato

al povero Clarenza, e ciò malgrado

circoli franco da ogni sospetto.

Entra STANLEY, conte di Derby,

va davanti a re e s’inginocchia

STANLEY -

Mio sovrano, una grazia,

in nome dei servizi che v’ho reso!

EDOARDO -

Taci, ti prego; ho l’anima in gran pena.

STANLEY -

Non mi rialzerò

finché l’altezza vostra non m’ascolti.

EDOARDO -

Parla, allora, ma subito. Che chiedi?

STANLEY -

La grazia, mio sovrano,

della vita di uno dei miei servi

che oggi ha ucciso in rissa un gentiluomo

già al seguito del Duca di Norfolk.

EDOARDO -

Ed io dovrei, con questa stessa lingua

che ha condannato a morte mio fratello,

pronunciare la grazia ad uno schiavo?

Quel mio fratello non aveva ucciso;

sua colpa era soltanto il suo pensiero,

e il suo castigo è stato nondimeno

una morte crudele.

Chi ha intercesso per lui presso di me?

Chi è venuto, durante la mia collera,

a gettarsi ai miei piedi

e ad esortarmi a più mite consiglio?

Chi a parlarmi d’amore e fratellanza?

Chi a ricordarmi che la pover’anima

aveva disertato il grande Warwick

per venire a combattere al mio fianco?([43])

Chi a ricordarmi che sul campo, a Tewksbury

quando Oxford m’aveva già abbattuto,

egli solo era accorso in mio aiuto

gridandomi: “Fratello, vivi e regna!”?

Chi a ricordarmi di quell’altra volta,

che, al campo, stesi a terra tutti e due

rischiando di morire assiderati,

egli m’avviluppò nei suoi vestiti,

incurante di esporsi, nudo e fragile,

all’agghiacciante freddo della notte?

Tutto questo una collera bestiale

m’aveva delittuosamente tolto

dalla memoria, e non ci fu tra voi

uno che si degnasse rammentarmelo.

Ma se uno dei vostri carrettieri

o dei vassalli della vostra casa

ha commesso, ubriaco, un omicidio,

e sfigurato la preziosa immagine

del nostro Redentore,

eccovi subito qui inginocchiati

ad implorare: “Grazia, grazia!”, ed io,

se pure ingiustamente, ad accordarla.

Ma per quel mio fratello,

nessuno volle spendere parola,

né io, spietato, ne spesi a me stesso

in suo favore, sventurata anima!

I più orgogliosi tra voi hanno avuto

un qualche debito di gratitudine

con lui, mentr’era in vita, ma nessuno

è venuto da me ad impetrare

grazia per la sua vita! Dio Signore,

la Tua giustizia, temo, chiederà

per questo un duro conto a me, a voi,

ai miei parenti, ai vostri… Andiamo Hastings,

sorreggimi fino al mio gabinetto.

Mio povero Clarenza!…

(Escono Re Edoardo sorretto da Hastings, Elisabetta, Rivers, Dorset e Grey)

RICCARDO -

Ecco i frutti dell’impetuosità:

non avete notato qual pallore

nei volti dei colpevoli parenti

della regina, quando hanno sentito

l’annuncio della morte di Clarenza?

Oh, l’han voluta loro quella morte,

continuamente istigandovi il re.

Dio ne farà vendetta.

Andiamo adesso a confortare Edoardo,

signori, con la nostra compagnia.

BUCKINGHAM -

Seguiamo vostra grazia.

(Escono tutti)

SCENA II - Londra, altra sala nel palazzo reale.

Entra la vecchia DUCHESSA DI YORK con i due BIMBI,

maschio e femmina, figli di Clarenza.

BIMBO -

Nonnina, nostro padre è morto, vero?

DUCHESSA -

Ma no, bambino mio.

BIMBA -

Perché allora

stai sempre a piangere, e a batterti il petto,

e a gridare: “Oh, Clarenza,

povero figlio mio?”

BIMBO -

Perché allora

ci guardi e scuoti il capo,

e dici: “Poveri orfanelli miei?”,

se poi dici che nostro padre è vivo?

DUCHESSA -

Cari miei nipotini, tutti e due

mi fraintendete: io piango e mi lamento

per la presente malattia del re,

perché non vorrei perderlo; non piango

per vostro padre; è dolore sprecato

piangere per qualcuno che è perduto.

BIMBO -

Allora, nonna, con ciò vieni a dire

ch’egli è morto; e di questo ci ha la colpa

il re mio zio. Ma Dio farà vendetta,

ed io non cesserò d’importunarlo

a questo con ardenti mie preghiere.

BIMBA -

E così io.

DUCHESSA -

Bambini, buoni, zitti:

il re vi vuole certamente bene.

Siete troppo inesperti ed innocenti

perché possiate indovinar chi è stato

causa della morte di vostro padre.

BIMBO -

Sì, che possiamo, nonna: il buon zio Gloucester

m’ha lui detto che il re,

a ciò istigato dalla sua regina,

ha macchinato delle false accuse

per farlo imprigionare; e nel dir questo

mio zio piangeva e mi commiserava,

e mi diceva povero bambino,

e m’ha anche baciato sulla guancia.

E poi m’ha detto di pensare a lui

come a mio padre, che m’avrebbe amato

come se fossi stato figlio suo.

DUCHESSA -

Ah, che l’Inganno debba mascherarsi

di frodo sotto sì gentile forma,

ed il Vizio più nero travestirsi

in sì virtuosa foggia!

È figlio mio, purtroppo, a mia vergogna,

seppur non ha succhiato dal mio seno

tanta perfidia.

BIMBO -

Pensi allora, nonna,

che lo zio simulasse?

DUCHESSA -

Sì, bambino.

BIMBO -

Non lo credo… Ma che clamore è questo?

Entra, gemendo scarmigliata, la regina ELISABETTA; la seguono RIVERS e DORSET

ELISABETTA -

Ah, chi m’impedirà, povera me,

di lamentarmi e piangere e imprecare

alla mia malasorte,

e infliggermi da me tutti i tormenti?…

Voglio allearmi alla disperazione

contro l’anima mia,

e diventar nemica di me stessa!

DUCHESSA -

Che significa adesso questa scena

d’incivile scomposta intemperanza?

ELISABETTA -

È la scena finale

di un atto([44]) di mortifera violenza:

Edoardo, il mio signore, il figlio tuo,

il nostro re, è morto!…

Oh, perché i rami seguitano a crescere,

se la radice dell’albero è morta?

Perché non avvizziscono le foglie,

se non ricevon più linfa dal tronco?

Chi vuol vivere, pianga;

chi vuol morire, muoia, e che sia subito,

sì che l’anime nostre a volo d’ala

raggiungano l’anima del re,

e da obbedienti sudditi la seguano

nel nuovo regno dell’eterna notte.

DUCHESSA -

Io prendo tanta parte al tuo dolore

per quanti titoli potei vantare

sul tuo nobile sposo.([45]) Anch’io ho pianto

la morte, come te, d’un degno sposo,

e m’ha tenuto in vita

poterne contemplare nei suoi figli

riflessa la sua immagine vivente.

Ma la maligna sorte ha frantumato

quei due specchi del suo regal sembiante;

e non mi resta, ad unico conforto,

che uno specchio di vetro

che mi provoca solo altra tristezza

nel vedervi riflesso il mio squallore.

Tu sei vedova ora, ma sei madre,

e ti rimane il conforto dei figli:

la morte a me ha strappato dalle braccia

il marito, ed ha tolto dalle mani,

queste deboli mani, le mie grucce,

Clarenza ed Edoardo.

Oh, quante più ragioni non ho io

di soverchiar coi miei i tuoi lamenti,

le tue con le mie grida, il tuo dolore

essendo solo la metà del mio!

BIMBO -

(A Elisabetta)

Ah, zia, tu non hai pianto per la morte

di nostro padre; e noi come possiamo

unirci alle tue lacrime

con le lacrime nostre di nipoti?

BIMBA -

Il nostro smarrimento di orfanelli

è rimasto da te incommiserato,

resti perciò da noi illacrimato

il tuo duolo di vedova.

ELISABETTA -

Non chiedo aiuto di lamentazioni;

non sono sterile dal partorire

sospiri e lacrime; tutte le fonti

versino nei miei occhi il loro flusso,

ch’io, dall’umida luna governata,

possa a mia volta versar tante lacrime

da sommergere il mondo… Ah, mio signore,

Edoardo, mio diletto!

I DUE BIMBI -

Ah, padre nostro,

nostro amato Clarenza!

DUCHESSA -

Ah, l’uno e l’altro,

il mio Edoardo ed il mio Clarenza!

ELISABETTA -

Qual sostegno, all’infuori di Edoardo,

noi avevamo? Ed ora non c’è più.

I DUE BIMBI -

Qual sostegno, all’infuori di Clarenza,

noi avevamo? Ed ora non c’è più.

DUCHESSA -

Quali sostegni, fuor di loro due,

avevo io? E non ci sono più.

ELISABETTA -

Mai vedova soffrì più grave perdita.

I DUE BIMBI -

Mai soffrirono due orfanelli

più grave perdita.

DUCHESSA -

Mai soffrì madre

più grave perdita. Io son la madre,

di tutti questi lutti; i lor dolori

sono ripartiti, il mio li abbraccia tutti.

Ella piange un Edoardo, ed io lo stesso;

ma io piango un Clarenza, ed ella no;

Clarenza è pianto da questi bambini,

ed io piango Clarenza insieme a loro,

ma io piango Edoardo, e loro no.

Ahimè, voi riversate tutti insieme

sovra di me, tre volte addolorata,

le lacrime di tutti gli occhi vostri.

Son la nutrice del vostro dolore,

e ve lo nutrirò coi miei lamenti.

DORSET -

Coraggio, madre: spiace molto a Dio

chi riceve con tanta malagrazia

quello ch’Egli ci manda.

In questo mondo noi chiamiamo ingrato

chi ripaga di malavoglia un debito

che largito gli fu graziosamente

da mano generosa;

tanto più ingrato chi si oppone a Dio

quando Egli chieda la restituzione

del regal prestito che ci ha largito.([46])

RIVERS -

Signora, adesso, da madre amorosa,

pensate al principino vostro figlio.

Fatelo venir qui senz’altro indugio,([47])

perché sia senza indugio incoronato;

in lui vive il conforto di noi tutti.

Seppellite il dolore disperato

nella tomba dell’Edoardo morto,

e piantate le gioie di domani

sopra il trono dell’Edoardo vivo.

Entrano RICCARDO, BUCHINGHAM,

STANLEY, HASTINGS e RATCLIFF

RICCARDO -

Cognata, fate cuore;

abbiam tutti motivo di compiangere

lo spegnersi del nostro fulgido astro,

ma nessuno rimedia ai propri mali

con il piangersi sopra.

(Alla Duchessa)

Oh, madama mia madre, perdonatemi,

non vi avevo notata, vostra grazia!

Umilmente in ginocchio,

v’imploro di volermi benedire.

(S’inginocchia. La Duchessa gli pone una mano sul capo)

DUCHESSA -

Che Dio ti benedica, nel tuo cuore

e infonda nel tuo cuore mansuetudine,

umiltà, amore, carità, obbedienza

e fedeltà al dovere.

RICCARDO -

Così sia.

(A parte, rialzandosi)

… e mi dia buona morte a tarda età:

questa è la rituale conclusione

della benedizione d’una madre.

Chi sa perché se l’è dimenticata…

BUCKINGHAM -

Voi, principi, che siete scuri in volto,

e voi, Pari, che avete il cuore in doglio,

e che portate insieme il grave carico

di questo lutto, trovi ora conforto

ciascun di voi nell’affetto dell’altro.

Benché il nostro raccolto

con questo re sia stato consumato,

ora ci resta da far maturare

quello del figlio. L’astioso bubbone

dei vostri cuori traboccanti d’odio

testé inciso, sanato e ricomposto,

deve ora nobilmente esser protetto

e accudito, che non si formi più…

Sarebbe conveniente, a mio giudizio,

che con piccola scorta il giovin principe

sia prelevato subito da Ludlow

e ricondotto a Londra

per esser qui incoronato re.

RIVERS -

Perché “con piccola scorta”, Lord Buckingham?

BUCKINGHAM -

Eh, mio signore, perché se son molti

non s’abbia a riaprire la ferita,

testé rimarginata, del rancore;

ciò che sarebbe tanto più nefasto

quanto più giovane e ingovernato

è il nostro Stato. Dove ogni cavallo

dispone della briglia a suo talento

e può correre dove più gli aggrada,

occorre prevenire, a mio giudizio,

tanto il male futuro che il presente,

già in atto e manifesto.

RICCARDO -

La mia speranza è che il patto di pace

fra tutti noi dal re patrocinato,

sia saldo e fermo in tutti, com’è in me.

RIVERS -

E in me, e così credo in tutti noi.

Tuttavia, poiché esso è ancora verde,

sarebbe bene non venisse esposto

al pericolo d’essere violato;

il che potrebbe esser favorito

dalla presenza di una grossa scorta.

Perciò concordo col nobile Buckingham

sull’opportunità di dare al principe,

nel prelevarlo, una piccola scorta.

HASTINGS -

Sono d’accordo anch’io.

RICCARDO -

Come volete.

Andiamo allora a designare insieme

chi si dovrà recar subito a Ludlow.

Signora madre, e voi, cara cognata,

non vorreste venire a consigliarci

in questa scelta?

ELISABETTA e DUCHESSA -

Molto volentieri.

(Escono tutti meno Buckingham e Gloucester)

BUCKINGHAM -

Monsignore, per carità di Dio,

chiunque debba andare incontro al principe,

noi due non s’ha da rimanere a casa.

Perché lungo la strada,

io, come prologo a tutta la faccenda

di cui abbiam parlato ultimamente,

farò in modo di allontanar dal principe

i parenti della regina.

RICCARDO -

O Buckingham!

O tu altro me stesso! O concistoro

dei miei pensieri, oracolo, profeta,

caro cugino! Mi farò guidare

da te per mano, come un fanciullino.

A Ludlow! noi indietro non si resta!

(Escono)

SCENA III - Londra, una strada.

Entrano, incontrandosi, DUE CITTADINI, uno quasi correndo.

PRIMO CITTADINO -

Buongiorno, vicinante!

Che cos’è che vi chiama in tanta fretta?

SECONDO CITTADINO -

Nemmeno io lo so, ve lo confesso.([48])

Avete udito la grande notizia?

PRIMO CITTADINO -

Che il re è morto? Sì.

SECONDO CITTADINO -

Brutta notizia,

per la Vergine Santa! È sempre raro

che segua il meglio.([49]) Si sta preparando,

ho gran paura, un mondo squinternato.

Entra un TERZO CITTADINO

TERZO CITTADINO -

Che Dio vi mandi salute, vicini!

PRIMO CITTADINO -

E mandi a voi un buon giorno, signore.

TERZO CITTADINO -

È vera la notizia della morte

del buon re Edoardo?

SECONDO CITTADINO -

Vera, sì,

purtroppo; e Dio ci aiuti.

TERZO CITTADINO -

Allora, prepariamoci, maestri,

a vivere in un mondo turbolento.

PRIMO CITTADINO -

No, non lo credo; per grazia di Dio,

c’è suo figlio a regnare.

TERZO CITTADINO -

Misera quella terra il cui governo

si trova nelle mani di un bambino.

SECONDO CITTADINO -

Una speranza di governo c’è

comunque in lui: nella minore età

attraverso il Consiglio di reggenza,

e, quando avrà egli stesso maturato

la sua età, governerà da solo,

e governerà bene, senza dubbio.

PRIMO CITTADINO -

Così venne a trovarsi il nostro Stato,

quando, in età di nove mesi appena,

fu incoronato re Enrico VI,

a Parigi.([50])

TERZO CITTADINO -

Così? No, no, signori,

e lo sa Dio; ché allora questa terra

era famosa per la sua abbondanza

di gravi ed avveduti consiglieri

di politica; e il re teneva al fianco

zii virtuosi a proteggere sua grazia.

PRIMO CITTADINO -

Eh, quanto a zii, anche questo ce n’ha,

sia da parte di padre che di madre.

TERZO CITTADINO -

Meglio sarebbe se li avesse tutti

dalla parte del padre,

o che dal padre non ne avesse punto:

perché adesso la gelosia tra loro

a chi più sta più vicino al giovin re

ci toccherà fin troppo da vicino

tutti quanti, se Dio non lo previene.

Ah, che grosso pericolo per questo

è quel Duca di Gloucester!

E che boria e arroganza hanno i parenti

della regina, suoi figli e fratelli!

Se costoro, non che stare al governo,

fossero governati, questa terra

da malata che è, ritornerebbe

ad essere in salute come prima.

PRIMO CITTADINO -

Via, via, che noi temiamo sempre il peggio!

Tutto sarà per bene.

TERZO CITTADINO -

Quando compaiono nubi di pioggia,

i saggi indossano la palandrana;

quando cadono le più grosse foglie,

l’inverno è là; quando tramonta il sole

chi non s’aspetta il buio della notte?

I temporali fuori di stagione

di solito prometton carestia.

Tutto potrà andar bene; ma se è vero

che Dio ha decretato sia così,

sarà pur più di quanto meritiamo,

o di quanto io possa prevedere.

SECONDO CITTADINO -

Però la gente è piena di paura,

in cuor suo; e non c’è quasi persona

con cui si parli, che non si dimostri

tutta preoccupata e impaurita.

TERZO CITTADINO -

Sempre è stato così,

alla vigilia di rivolgimenti.

La gente avverte, per divino istinto,

nell’intimo, il pericolo imminente,

così come vediamo, nel palese,

bollir l’onda del mare

prima d’una burrasca fragorosa.

Ma lasciamo ogni cosa in mano a Dio…

Dove stavate andando?

SECONDO CITTADINO -

In tribunale.

Siamo stati citati avanti ai giudici.

TERZO CITTADINO -

E così io. Vi terrò compagnia.

(Escono)

SCENA IV - Londra, sala nel palazzo reale.

Entrano l’ARCIVESCOVO DI YORK, il giovane DUCA DI YORK,

la regina ELISABETTA, e la DUCHESSA di YORK.

ARCIVESCOVO -

La scorsa notte, da quanto ho saputo,

ha fatto sosta presso Stony-Stratford;

e questa notte dormirà a Northampton;

saranno qui domani o doman l’altro.

DUCHESSA -

Bramo con tutta l’anima

di rivedere il principino Edoardo;

sarà molto cresciuto, come penso,

da quell’ultima volta che l’ho visto.

ELISABETTA -

Mi si dice di no; mio figlio qui

pare che l’abbia quasi superato

nella crescita.

YORK -

Sì, mamma, è così,

ma vorrei che non fosse.

DUCHESSA -

E perché mai,

caro nipote mio? È bello crescere.

YORK -

Nonna, una sera ch’eravamo a cena,

lo zio Rivers, parlando allo zio Gloucester,

appunto gli diceva come io

crescessi meglio che non mio fratello,

e quello gli rispose:

“Già, l’erbe piccole hanno bellezza;

le grosse erbacce crescono più presto.”

E da allora ho pensato ch’era male

per me crescere tanto prestamente,

perché i bei fiori vengono su lenti,

le erbacce crescono in fretta.

DUCHESSA -

Alla faccia!

Però la massima non s’è avverata

in colui che l’ha adattata a te!

Perché quand’era piccolo, tuo zio

era la più striminzita creatura,

così stenta e tardiva nel suo crescere

che se mai quel suo detto fosse vero,

oggi sarebbe un fiore di bellezza.

ARCIVESCOVO -

E tale è senza dubbio, mia signora.

DUCHESSA -

Vorrei bene sperarlo anch’io, signore;

ma lasciate alle madri i loro dubbi…

YORK -

Ah, se di ciò mi fossi ricordato

in quel momento, gliel’avrei suonata

a sua grazia mio zio una stoccata

sopra il suo crescere, ben più sonora

di quella da lui data sopra il mio!

DUCHESSA -

E che gli avresti detto,

piccolo York? Sentiamolo, ti prego.

YORK -

Diamine, dicon tutti che mio zio

è cresciuto così rapidamente

che già due ore dopo essere nato,

si sgranocchiava una crosta di pane,

e a me ci sono occorsi ben due anni

prima che mi spuntasse il primo dente.

Penso sarebbe stato questo, nonna,

un frizzo ben mordace, non ti pare?

DUCHESSA -

Chi te l’ha raccontato, tesoruccio?

YORK -

La sua nutrice, nonna.

DUCHESSA -

La nutrice?…

Ma è morta che non eri ancora nato.

YORK -

Me l’avrà detta allora qualcun altro.

ELISABETTA -

Che bambino terribile!… Va’, va’

malizioso!

DUCHESSA -

Buona signora, no,

non siate sì severa col ragazzo!

ELISABETTA -

Le pareti hanno orecchi in questa casa.

Entra un MESSO

ARCIVESCOVO -

Un messaggero. Che notizie porti?

MESSO -

Ah, tali, monsignore,

che a riferirle mi fa male al cuore.

ELISABETTA -

Il principe sta bene?

MESSO -

Lui sì, signora, in ottima salute.

DUCHESSA -

E allora, quali son le tue notizie?

MESSO -

Lord Rivers e lord Grey spediti a Pomfret,([51])

e con loro lord Vaughan, in prigione.

DUCHESSA -

Per ordine di chi?

MESSO -

Per ordine dei due potenti duchi

di Gloucester e di Buckingham, signora.

DUCHESSA -

E la ragione?

MESSO -

Vostra grazia, io

v’ho riportato quello che sapevo;

del resto non so nulla.

ELISABETTA -

Oh, me meschina! Vedo la rovina

della mia casa! La tigre ha ghermito

coi suoi artigli il tenero cerbiatto.

La bieca tirannia comincia ora

ad allungar le mani sopra un trono

innocente e incapace di difendersi;

vedo, come segnata su una mappa,

la nostra fine.

DUCHESSA -

Giorni maledetti,

tormentose continue discordie!

Quanti di voi hanno visto i miei occhi!

Mio marito, per ottenere il trono,

ha perduto la vita; i figli miei,

tante volte innalzati e ricaduti,

sono stati per me lacrime e gioie

nell’alternanza delle lor fortune;

e una volta assestati, vincitori,

si fan tra loro guerra,

da fratello a fratello, sangue a sangue,([52])

da sé a se stessi!… O insensata discordia,

smetti questa dannata tua violenza,

o ch’io muoia, Signore,

per mai più rivedere questa terra!

ELISABETTA -

Vieni, ragazzo mio, vieni con me;

andiamo a rifugiarci al santuario.([53])

Addio, signora.

DUCHESSA -

Aspetta, vengo anch’io.

ELISABETTA -

Perché? Voi non ne avete alcun motivo.

ARCIVESCOVO -

Andateci anche voi, sì, vostra grazia,

e raccogliete là le vostre robe

ed il vostro tesoro.

(A Elisabetta)

Per parte mia, graziosa mia signora,

io riconsegnerò in vostre mani

il sigillo di cui sono custode;([54])

e mi riservi Iddio lo stesso bene

ch’io auspico per voi e per i vostri.

V’accompagno al santuario. Incamminiamoci.

(Escono)


ATTO TERZO

SCENA I - Londra, una strada.

Trombe. Entrano il giovane principe EDOARDO, i duchi RICCARDO DI GLOUCESTER e BUCKINGHAM; poi CATESBY, il CARDINALE BOURCHIER e altri

BUCKINGHAM -

Benvenuto, bel principe, a Londra,

la vostra capitale.

RICCARDO -

Benvenuto tra noi, caro cugino,

signor dei miei pensieri.

La fatica del viaggio v’ha stancato,

e reso triste, vedo.

EDOARDO -

Non il viaggio,

ma le contrarietà del viaggio, zio,

me l’han reso tedioso, e faticoso;

e avrei voluto fossero più zii

ad accogliermi qui.([55])

RICCARDO -

Mio dolce principe

la candida innocenza dei vostri anni

non s’è ancor tuffata nelle insidie

ingannevoli della società,

né sa ancora distinguere, in un uomo,

altro che l’esteriore sua apparenza,

la quale, Dio lo sa, di rado o mai

s’accorda col colore del suo animo.

Gli zii di cui sentite la mancanza

son persone malfide; vostra grazia

prestò sempre un orecchio compiaciuto

alle loro parole zuccherate,

senza mai avvedersi del veleno

ch’essi avevano in cuore.

Dio vi voglia proteggere da loro,

e da falsi parenti come loro.

EDOARDO -

Dio mi protegga da parenti falsi…

ma quelli non lo erano. Lo so.

Entra il LORD MAYOR di Londra con seguito

RICCARDO -

Il sindaco di Londra, mio signore,

viene a rendervi omaggio.

LORD MAYOR -

Dio salvi vostra grazia,

e vi conceda salute e letizia.

EDOARDO -

Grazie, mio buon signore, e grazie a tutti.

In verità, mi sarei aspettato

che mia madre con mio fratello York,

mi fossero venuti ad incontrare

lungo la strada. Vergogna, quell’Hastings,

che poltrone, che non mi torna a dire

s’essi verranno o no!

Entra Lord HASTINGS

BUCKINGHAM -

Eccolo, appunto,

il nostro lord, e tutto trasudato.

EDOARDO -

Oh, finalmente!… Verrà nostra madre?

Hastings -

Sua grazia la regina vostra madre

con il Duca d York vostro fratello

si sono rifugiati nel santuario,

per qual ragione, Dio lo sa, non io.

Il giovinetto sarebbe venuto

volentieri con me ad incontrarvi,

ma sua madre l’ha trattenuto a forza.

BUCKINGHAM -

Che maniera! Vergogna!

Un comportarsi subdolo e sgarbato.

Lord Cardinale, vuole vostra grazia

andar dalla regina e persuaderla

che mandi subito il Duca di York

a salutare il regal suo fratello?

E se rifiuta, andate voi, Lord Hastings,

col Cardinale, e strappatelo a forza

dalle gelose braccia della madre.

CARDINALE -

Monsignore di Buckingham,

se saprà la mia debole eloquenza

strappare il Duca di York dalla madre,

aspettatelo pure qui fra poco;

ma s’ella si mostrasse irremovibile

all’umili mie suppliche,

non voglia Dio che osiamo profanare

il sacro privilegio del santuario.

Io non mi macchierei d’un tal peccato

per tutto l’oro di questo paese.

BUCKINGHAM -

Questa è, da parte vostra, monsignore,

una caparbia troppo irragionevole,

legata a cerimonie d’altri tempi.

Ponderate la cosa nello spirito

più grossolano della nostra età.

Voi non profanerete il santuario

portando via il duca da quel luogo:

il diritto d’asilo è un beneficio

sempre concesso a chi l’ha meritato

con la propria condotta, ed a coloro

che furono solerti a reclamarlo.

Questo principe né l’ha reclamato,

né ha compiuto alcunché di meritevole;

e dunque, a parer mio, non può godere

del diritto. Portando via di là

uno ch’è come se non stesse là,

non violerete nessun privilegio

né alcuna legge scritta.

Finora ho sempre saputo di uomini

con diritto d’asilo in santuario,

mai di bambini con quel beneficio.

CARDINALE -

Per una volta tanto, monsignore,

m’arrenderò alla vostra opinione.

Andiamo; Hastings venite con me?

HASTINGS -

Eccomi, monsignore.

EDOARDO -

Fate al più presto, gentili signori.

(Escono il Cardinale e Hastings)

Zio Gloucester, se verrà nostro fratello,

ditemi, dove dovremo risiedere

finché io non sia stato incoronato?

RICCARDO -

Dove più piacerà a vostra altezza;

se posso darvi un consiglio, però,

vostra altezza dovrebbe, un giorno o due,

riposare alla Torre;

poi, dove meglio vi sarà gradito

e sarà ritenuto meglio adatto

alla vostra salute e al vostro svago.

EDOARDO -

La torre è il luogo che men d’ogni altro

mi gradisce. È stato Giulio Cesare

a costruirla, vero, mio signore?

RICCARDO -

Sì, vostra grazia, lui vi dette inizio,

ma da allora, nei secoli seguenti,

l’hanno ricostruita.

EDOARDO -

È dato storico,

o tradizione da secolo a secolo

che l’abbia fatta lui?

RICCARDO -

È dato storico,

mio grazioso signore.([56])

EDOARDO -

Ma diciamo, signore,

che non esista nessun documento:

la verità dovrebbe sempre vivere

dall’uno all’altro secolo

trasmessa ai posteri con la parola

fino al dì della fine generale.

RICCARDO -

(A parte)

Così giovani, eppure così saggi,

dicono che non abbian vita lunga…

EDOARDO -

Che dite, zio?

RICCARDO -

Dicevo che la fama,

pur senza documentazione scritta,

vive a lungo.

(A parte)

Così, allo stesso modo

del personaggio dell’Iniquità,

quando viene rappresentato il Vizio,

io moralizzo con i doppi sensi.([57])

EDOARDO -

Quel Giulio Cesare fu un uomo illustre:

con quel che il suo valore di soldato

arricchì la sua mente, la sua mente

poi ne arricchì il valore;

sicché la morte non può conquistare

questo genere di conquistatori.

Vi voglio dire una cosa, zio Buckingham…

BUCKINGHAM -

Che cosa, vostra grazia?

EDOARDO -

Che se vivo

tanto da diventare un uomo adulto,

voglio riconquistare all’Inghilterra

gli antichi suoi diritti sulla Francia,

o morir da soldato,

così come da re avrò vissuto.

RICCARDO -

(A parte)

Annuncia corta estate

una troppo precoce primavera.

Rientrano HASTINGS e il CARDINALE

con il giovane DUCA DI YORK.

BUCKINGHAM -

Oh, ecco il giovane duca di York,

giunge a buon punto!

EDOARDO -

Riccardo di York!

Come sta il nostro caro fratellino?

YORK -

Sto bene, mio sovrano riverito:

ora è così che ti debbo chiamare,

è vero?

EDOARDO -

Sì, fratello, a mio rammarico,

non minore del tuo; ché troppo presto

ci ha lasciato colui cui questo titolo

avrebbe ben potuto ancor spettare,

e che ha perduto, dopo la sua morte,

molto della regale sua maestà.

RICCARDO -

Ebbene, come sta nostro nipote,

il nobilissimo Duca di York?

YORK -

Grazie, cortese zio. Oh, monsignore,

mi ricordo che mi diceste un giorno

che le malerbe crescon molto in fretta:

ebbene, il principino mio fratello

è cresciuto assai più di me.

RICCARDO -

È vero.

YORK -

Che vuol dire, che egli è una malerba?

RICCARDO -

Nipote bello, ma che mi fai dire?

YORK -

Capisco: a lui dovete più riguardo.

RICCARDO -

Egli mi può comandar da sovrano;

tu puoi su me quel che puole un parente.

YORK -

Zio, per favore, dammi quel pugnale.

RICCARDO -

Il mio pugnale? Volentieri, caro.

EDOARDO -

Che fai, fratello, chiedi l’elemosina?

YORK -

Al mio nobile zio,

che son certo non me la negherà;

anche perché non è che una bazzecola,

e a donarla non è che costi molto.

RICCARDO -

Doni ben più importanti

son pronto a fare al mio caro nipote.

YORK -

Dono più grande? Oh, anche la spada?

RICCARDO -

E perché no? Se fosse più leggera,

mio gentile nipote.

YORK -

Ah, vedo allora

che vi mostrate solo ben disposto

a separarvi da cose leggere,

ma neghereste doni più pesanti

a un mendicante che ve ne chiedesse.

RICCARDO -

(Mostrando la spada)

Questa, per vostra grazia,

è un po’ troppo pesante da portare.

YORK -

Le darei ugualmente scarso peso,

anche se fosse ancora più pesante.

RICCARDO -

Eppoi, perché vorresti la mia spada,

piccolo?

YORK -

Per potervi dire un grazie,

come quello con cui chiamate me.

RICCARDO -

Cioè a dire?

YORK -

“Piccolo”.

EDOARDO -

A mio fratello York

piace molto giocar con le parole.

Vostra grazia ha imparato a sopportarlo.

YORK -

“Sopportarmi”… portarmi sopra a lui?

Zio, l’avete sentito?

Mio fratello si fa gioco di noi:

io son piccolo come uno scimmiotto,

e voi, secondo lui,

mi dovreste portare sulle spalle!

BUCKINGHAM -

Che spirito sottile, il giovinetto!

Con graziosa accortezza,

rivolge su se stesso il proprio scherno,

per mitigar quello fatto allo zio.

Davvero straordinario!

Così giovane eppur così sagace!

RICCARDO -

(A Edoardo)

Mio signore, vogliamo proseguire?

Io e il mio bravo cugino Lord Buckingham

ora andremo a pregare vostra madre

di venire alla Torre ad incontrarvi

e darvi il benvenuto.

YORK -

Che! alla Torre?

State andando alla Torre, mio signore?

EDOARDO -

Così ha deciso il mio Lord Protettore.

YORK -

Io là non ci potrò dormir tranquillo.

EDOARDO -

Perché, di che dovresti aver paura?

YORK -

Eh, dello spettro dello zio Clarenza,

chi sa come adirato!

È proprio là che è stato assassinato,

me l’ha detto la nonna.

EDOARDO -

Gli zii morti a me non fan paura.

RICCARDO -

Nemmeno vivi, spero?

EDOARDO -

Dei vivi spero non aver cagione

d’aver paura. Ma andiamo, signori:

pensando a loro, con un peso al cuore,

io m’avvio alla Torre.

(Fanfara. Escono Edoardo, York, e tutti gli altri tranne Riccardo, Buckingham e Catesby)

BUCKINGHAM -

Non credete, signore,

che quel pettegolino dello York

sia stato dalla sua subdola madre

istigato a insultarvi ed a schernirvi,

come ha fatto, in maniera sì offensiva?

RICCARDO -

Ah, sì, senza alcun dubbio.

Oh, un bambino pestifero: sagace,

temerario, precoce, intelligente,

tutto sua madre, dalla testa ai piedi.

BUCKINGHAM -

Beh, lasciamoli andare… Senti, Catesby:

tu ci hai fatto solenne giuramento

sia di tradurre in atto i nostri piani,

sia di serbare un geloso segreto

su ciò di cui t’abbiamo messo a parte.

Adesso ne conosci le ragioni

che t’abbiam detto nel venire qui.

Che ne pensi? Sarà facile o no

guadagnare Lord Hastings all’idea

di porre noi questo nobil duca

sul trono di quest’isola famosa?

CATESBY -

Quello è talmente affezionato al principe,

per l’amor che portava al di lui padre,

che sarà impossibile convincerlo

a far cosa che sia contro di lui.

BUCKINGHAM -

E Stanley? Che ne pensi, ci starà?

CATESBY -

Farà in tutto e per tutto come Hastings.

BUCKINGHAM -

Bene, allora non c’è altro da dire:

va’ tu, mio bravo Catesby, da Hastings,

e vedi, un po’ alla larga, di sondarlo

su come prenderebbe il nostro piano;

invitalo alla Torre per domani

al Consiglio che sarà lì adunato

per parlare dell’incoronazione.

Se lo trovassi appena disponibile,

farai del tutto per incoraggiarlo,

e gli esporrai tutti i nostri argomenti;

se invece si mostrasse irremovibile,

gelido, riluttante, mal disposto,

fa’ lo stesso anche tu: piantalo lì,

e vieni a riferirci il suo pensiero.

Domani noi terremo due Consigli,

divisi uno dall’altro,

ed in ciascuno tu avrai gran parte.

RICCARDO -

Salutalo, lord Williams, da mia parte,

Catesby, e digli, che la vecchia cricca

dei suoi nemici più pericolosi

avrà domani, al castello di Pomfret,

il suo salasso. E di’ a monsignore

che a festeggiar questa lieta novella

dia un bacio di più a Madama Shore.([58])

BUCKINGHAM -

Vedi, buon Catesby, di sbrigar bene

questa faccenda.

CATESBY -

Va bene, signori,

con tutta la mia buona volontà.

RICCARDO -

Allora ci farai sapere, Catesby,

prima che andiamo a letto?

CATESBY -

Sì, signore.

RICCARDO -

A Crosby Place. Ci raggiungerai là.

(Esce Catesby)

BUCKINGHAM -

Che fare, monsignore, se Lord Hastings

mostrasse di non esser disponibile

ai nostri piani?

RICCARDO -

Tagliargli la testa;

e poi vedremo. E quando sarò re,

per te reclama la contea di Hereford

con tutti i beni mobili

già posseduti dal re mio fratello.

BUCKINGHAM -

Non mancherò, graziosa maestà,

di reclamar da voi questa promessa.

RICCARDO -

E la vedrete mantenuta in pieno,

da parte mia, col massimo piacere.

Venite, andiamo a cena un po’ per tempo

affinché poi possiamo digerire

le nostre trame più comodamente.

(Escono)

SCENA II - Davanti alla casa di Lord Hastings

Entra un MESSO e bussa alla porta

MESSO -

Signore! Monsignore!

HASTINGS -

(Da dentro)

Chi è alla porta?

MESSO -

Da parte di Lord Stanley.

Entra HASTINGS, aprendo la porta

HASTINGS -

Che ore sono?

MESSO -

Sul tocco delle quattro.

HASTINGS -

Ma Lord Stanley

non riesce dormire in queste notti

di tedio, eh?

MESSO -

Pare di no, signore,

da quel che manda a dirvi per mio mezzo.

Prima di tutto invia il suo saluto

a vostra signoria.

HASTINGS -

Bene. E poi?

MESSO -

Poi fa sapere a vostra signoria

che stanotte ha sognato

un cinghiale che gli strappava l’elmo.([59])

Vi fa sapere inoltre

che oggi si terranno due Consigli

separati, e che in uno può decidersi

qualcosa che potrà far male a voi,

come nell’altro a lui.

Perciò mi manda da voi per sapere

se vostra signoria non sia disposta

ad inforcare subito un cavallo,

e al galoppo volare, insieme a lui,

a spron battuto verso settentrione,

per schivare un pericolo,

ch’egli sente in cuor suo come imminente.

HASTINGS -

Compare, va’, torna dal tuo padrone

e digli che per sé non tema nulla

dai due Consigli; in uno sarò io

insieme con suo onore,

nell’altro c’è il mio buon amico Catesby,

e nulla vi può essere deciso

che ci tocchi, ch’io non ne sia avvertito.

Digli che i suoi timori

sono campati in aria ed infondati.

E quanto ai sogni, son meravigliato

ch’egli sia tanto ingenuo da credere

agli scherzi degli incubi notturni.

Fuggire dal cinghiale

senz’essere inseguiti dalla bestia,

è come aizzare questa ad inseguirti,

mentr’essa non aveva alcuna voglia

di cacciar preda. Va’, di’ al tuo padrone

di levarsi e venire qui da me;

insieme poi ce n’andremo alla Torre,

dove il cinghiale, com’egli vedrà,

ci tratterà nel modo più cortese.

MESSO -

Vado, signore. Gli dirò così.

(Esce)

Rientra CATESBY

CATESBY -

Mille buongiorno al mio degno signore.

HASTINGS -

Buongiorno, Catesby. Diggià in faccende?

Ebbene, che notizie, che notizie

su questo nostro traballante Stato?

CATESBY -

Avete detto bene, monsignore:

è veramente un mondo traballante,

e che non starà mai ben ritto in piedi

finché Riccardo non avrà sul capo

la ghirlanda del regno.

HASTINGS -

La ghirlanda?…

Forse intendevi dire la corona?

CATESBY -

Appunto, mio signore.

HASTINGS -

Mi farò scoronare dalle spalle

questa mia, di corona,([60])

avanti di veder sì mal piazzata

la corona del regno.

Pensi davvero ch’egli miri a tanto?

CATESBY -

Oh, sì, per la mia vita. E spera, pure,

di trovarvi tra i primi di sua parte

a fargliela ottenere; e a tal proposito

vi manda questo gradevole annuncio:

oggi i vostri nemici,

i parenti della regina, a Pomfret,

saran decapitati.

HASTINGS -

Non mi coprirò certo di gramaglie

per tale annuncio, perché quella gente

m’è stata sempre ostile.

Ma ch’io dia voce a sostener Riccardo

per escluder gli eredi del mio re

dalla legittima lor successione,

Dio sa che questo non lo farò mai,

a costo della vita.

CATESBY -

Iddio conservi vostra signoria

in questi nobili proponimenti.

HASTINGS -

Ma vorrò ancor pur ridere di cuore,

a un annetto da qui, di tutti quelli

che m’hanno messo in odio al mio signore,

se vivrò tanto da poter assistere

alla loro rovina. Intanto, Catesby,

prima che il tempo m’abbia fatto vecchio

d’altre due settimane, faccio conto

di far fare bagaglio([61]) a qualcun altro

che a tutt’oggi nemmeno se l’aspetta.

CATESBY -

Brutta cosa, grazioso mio signore,

morire quando non si è preparati

e non ce lo si aspetta.

HASTINGS -

Oh, sì, mostruoso!

E così è di Rivers, Vaughan, Grey:

e sarà d’altri, come tu ed io,

che si ritengono ora al sicuro,

perché, come tu sai, noi siamo cari

al cuore di Riccardo e Lord Buckingham.

CATESBY -

Di voi fanno gran conto questi principi.

(A parte)

Sì, quello di vedere la sua testa

infissa in cima al Ponte.([62])

HASTINGS -

Lo so. E me lo son ben meritato.

Entra Lord STANLEY

Oh, venite, venite!… Ma, mio uomo,

dov’è il vostro spiedo da cinghiale?

Voi avete paura del cinghiale,

e andate in giro così disarmato?

STANLEY -

Buon giorno, mio signore;

buongiorno, Catesby. Scherzate pure,

ma a me questi Consigli separati

non vanno a genio, per la Santa Croce!

HASTINGS -

Amico, la mia vita mi sta a cuore

quanto la vostra a voi.

E, v’assicuro, dacché sono al mondo,

mai m’è stata preziosa come adesso.

Se non sapessi d’essere al sicuro,

credete voi che me n’andrei in giro

glorioso e trionfante come faccio?

STANLEY -

Quei signori che son rinchiusi a Pomfret

erano ben sereni ed esultanti

allorché cavalcarono da Londra,

e pensavano d’essere al sicuro.

E infatti non avevano motivo

di diffidare; eppure, ecco, vedete,

come in sì poco tempo

per loro il cielo s’è rannuvolato.

Questa improvvisa pugnalata d’odio

m’insospettisce molto; voglia Dio

che il mio timore si dimostri vano.

Ci avviamo alla Torre? È giorno fatto.

HASTINGS -

Andiamo, andiamo, eccomi con voi.

Sapete, monsignore:

oggi quei lords dei quali parlavate

saran decapitati.

STANLEY -

Per la loro lealtà alla corona,

essi avrebbero invece più diritto

di conservar la testa sulle spalle

che non abbiano di portare in testa

i lor cappelli quelli che li accusano.([63])

Ma andiamo, monsignore, incamminiamoci.

Entra un MESSO DEL TRIBUNALE([64])

HASTINGS -

Andate pure avanti. Vi raggiungo.

Voglio parlare con questo brav’uomo.

(Escono Stanley e Catesby)

Felice d’incontrarti, caro amico.

Come ti va la vita?

MESSO -

Tanto meglio dacché vossignoria

si degna domandarmelo.

HASTINGS -

Ti dirò, amico, che anche per me

va meglio che non quando t’incontrai

l’ultima volta qui; ero condotto

in quel momento in carcere alla Torre

per ordine del re, su istigazione

dei famigliari della sua regina;

ma ora quegli stessi miei nemici

- te lo dico, ma tienilo per te -

son messi a morte, e la mia condizione

è migliore di quanto fosse prima.

MESSO -

Che Dio ve la conservi, vostro onore,

per vostra gioia e bene.

HASTINGS -

Grazie, amico.

Toh, prendi, e bevici alla mia salute.

(Gli getta una borsa)

MESSO -

Ringrazio vostro onore.

(Esce)

Entra UN PRETE

PRETE -

Quale felice incontro, monsignore!

Son lieto di vedervi, vostro onore!

HASTINGS -

Grazie di cuore, buon padre Giovanni.

Padre, vi sono ancora debitore

dell’ultimo servizio religioso.

Passate sabato, e vi salderò.

(Gli bisbiglia qualcosa all’orecchio)

PRETE -

Agli ordini di vostra signoria.

(Esce)

Entra BUCKINGHAM

BUCKINGHAM -

E che! Voi a colloquio con un prete,

lord Ciambellano? I vostri amici a Pomfret,

quelli, sì, n’han bisogno. Vostro onore

non ha davvero di che confessarsi.

HASTINGS -

Eh, certo, no davvero.

Però quegli uomini di cui parlate

mi son venuti in mente

nell’incontrar testé questo sant’uomo.

Andavate alla Torre?

BUCKINGHAM -

Sì, signore.

Ma non potrò trattenermici a lungo.

Me ne tornerò via prima di voi.

HASTINGS -

Già, mi sembra probabile,

dato ch’io debbo rimanerci a pranzo.

BUCKINGHAM -

(A parte)

E non lo sai, ma ci resti anche a cena!

(Forte)

Allora andiamo?

HASTINGS -

Andiamo, v’accompagno.

(Escono)

SCENA III - Il castello di Pomfret

Entra sir Richard RATCLIFF con alabardieri che

conducono al patibolo RIVERS, VAUGHAN e GREY.

RIVERS -

Sir Richard Ratcliff, ch’io ti dica questo:

oggi vedrai un suddito

andare a morte per la sua lealtà,

il suo dovere e la sua obbedienza.

GREY -

Iddio protegga il principe

dalla vostra masnada. Siete tutti

un maledetto branco di vampiri.

VAUGHAN -

Voi, vivi, piangerete amaramente

per tutto questo.

RATCLIFF -

Sciocchezze! Sbrighiamoci:

le vostre vite son già oltre il limite.

RIVERS -

O Pomfret, Pomfret, cruenta prigione!

Nefasto augurio per nobili pari!

Qui, dentro il condannevole recinto

delle tue mura, il Secondo Riccardo

fu pugnalato a morte;

ed a maggiore infamia dell’orribile

tua realtà, noi diamo a te da bere

nostro sangue innocente.

GREY -

Su di noi cala la maledizione

di Margherita, quand’ella inveì

contro Hastings e contro voi e me

per esser stati senza muover dito

quando Riccardo pugnalò suo figlio.

RIVERS -

Ma maledisse allora anche Riccardo,

e maledisse Buckingham,

e maledisse Hastings. Dio Signore,

ricòrdati anche di prestare orecchio

alle preghiere sue contro costoro,

come ora alle sue contro di noi;

e quanto a mia sorella

e ai suoi regali figlioli, Dio santo,

possa Tu restar pago, in lor favore,

di questo nostro sangue a te fedele,

che, lo sai, ci vien tolto ingiustamente.

RATCLIFF -

Affrettatevi: l’ora della morte

per voi è già spirata.

RIVERS -

Andiamo Grey,

Vaughan, andiamo. Abbracciamoci qui.

Addio, addio! A rincontrarci in cielo!([65])

(Si abbracciano ed escono tutti)

SCENA IV - La Torre di Londra

Intorno a un tavolo siedono BUCKINGHAM, STANLEY, il VESCOVO DI ELY,

HASTINGS, RATCLIFF, LOVELL e altri.

HASTINGS -

Dunque nobili pari,

siamo qui riuniti per decidere

sulla data dell’incoronazione.

Parlate, in nome di Dio: a che giorno

la grande cerimonia?

BUCKINGHAM -

È tutto pronto?

STANLEY -

Tutto; rimane da fissar la data.

ELY -

Che sia domani, allora, il fausto giorno.

BUCKINGHAM -

C’è qualcuno che sa qual è il pensiero

del Duca Lord Protettore al riguardo?

Chi di voi qui è più vicino al duca?

ELY -

Vostra grazia, pensiamo, più degli altri,

ne dovrebbe conoscere il pensiero.

BUCKINGHAM -

Conoscere, ci conosciamo bene

in faccia, sì, l’un l’altro; quanto al cuore,

lui non sa più del mio che io del vostro,

o voi del mio, signore.

Ma per affetto voi gli siete, Hastings,

più vicino.

HASTINGS -

Lo so, mi vuol molto bene,

sua grazia e gli son grato;

ma in merito ai suoi intendimenti

a riguardo dell’incoronazione

non l’ho sondato, né m’ha fatto parte

dei suoi propositi sull’argomento.

Ma voi potete, onorevoli pari,

fissare il giorno, ed io darò il mio voto

anche a nome del Duca, che, presumo,

benevolmente lo confermerà.

Entra RICCARDO

ELY -

Eccolo, il Duca: arriva giusto in punto.

RICCARDO -

Nobili pari e nobili cugini,

buongiorno a tutti! Ho dormito un po’ troppo,

ma spero tuttavia che la mia assenza

non sia stata cagione per bloccare

decisioni importanti del Consiglio

che richiedessero la mia presenza.

BUCKINGHAM -

Se voi non foste entrato al tempo giusto,

monsignore, Lord Hastings era pronto

a recitare qui la vostra parte:([66])

intendo dire dare il vostro voto

per quando incoronare il nuovo re.

RICCARDO -

Nessun altro all’infuori di Lord Hastings

potrebbe ardire più: sua signoria

mi conosce e mi vuol molto bene.

Monsignore di Ely,

l’ultima volta che passai per Holborn([67])

ho ammirato delle stupende fragole

in quel vostro giardino;

vorrei pregarvi di mandar qualcuno

a cogliermene un po’.

ELY -

Con gran piacere,

signore, diamine, manderò subito.

(Esce)

RICCARDO -

Cugino Buckingham, una parola.

(Lo trae in disparte)

Catesby è stato a sondare Lord Hastings

sulla nostra faccenda: il nobiluomo

è sì cocciutamente infervorato

che è disposto a rimetterci la testa

prima d’indursi a dirsi favorevole

a che il figlio del “suo signore e re”

- com’ei s’esprime reverentemente -

perda il diritto al trono d’Inghilterra.

BUCKINGHAM -

Uscite un attimo, vi vengo dietro.

(Escono Riccardo e Buckingham)

STANLEY -

Ancora non abbiamo stabilito

allora questa data trionfale.

Domani, a mio giudizio, è troppo presto,

perché io stesso non mi trovo pronto

come sarei, se venisse protratta.

Rientra il VESCOVO DI ELY

ELY -

Dov’è il duca di Gloucester?

Ho già mandato per quelle mie fragole.

HASTINGS -

Sua grazia ha oggi un’aria allegra e affabile;

deve avere qualcosa per la testa

o altro assai piacevole per lui,

quando dice buongiorno in quell’umore.

Credo che non ci sia persona al mondo

meno di lui capace di celare

amore e odio, perché dal suo viso

traspare subito quello che ha dentro.

STANLEY -

E che cosa scorgete nel suo viso

che possa esser stampato nel suo animo

dalla vivacità che mostra oggi?

HASTINGS -

Eh, che non c’è nessuno dei presenti

col quale sia crucciato;

ché, se fosse, gli si vedrebbe in faccia.

STANLEY -

Io prego Dio che non lo sia con me.

Rientrano RICCARDO e BUCKINGHAM

RICCARDO -

Vi prego tutti che qui siete, ditemi:

che pensate che debban meritare

coloro che, con trame diaboliche

di dannata stregoneria complottano

la mia morte, e che hanno affatturato

con infernali pratiche il mio corpo?([68])

HASTINGS -

L’affetto che io porto a vostra grazia

mio signore, mi fa per primo ardito,

davanti a questa nobile assemblea,

a scagliare la mia fiera condanna

sui colpevoli, quali che essi siano:

io dico, monsignore,

ch’essi son meritevoli di morte.

RICCARDO -

E siano testimoni gli occhi vostri

del loro maleficio: ecco, guardate,

se non è vero che m’hanno stregato.

(Si denuda il braccio stroppio)

Osservate il mio braccio: disseccato,

come uno sterpo da un colpo di fulmine.

E a marchiarmi così, come vedete,

con i loro infernali sortilegi,

sono state la moglie di Edoardo,

quella mostruosa strega, consociata

con quella gran puttana della Shore.

HASTINGS -

Se sono state loro, monsignore…

RICCARDO -

Ah, “se”, mi dici, eh? Tu, protettore

di questa maledetta prostituta!([69])

Traditore tu sei! Via la sua testa!

Per San Paolo, io non andrò a pranzare

se prima non l’avrò vista mozzata!

Lovell e Ratcliff, provvedete voi

che sia fatto. Di tutti gli altri qui,

chi mi vuol bene si alzi e mi segua.

(Tutti si alzano ed escono con lui, meno Lovell, Ratcliff e Hastings)

HASTINGS -

O Dio, pietà, pietà per l’Inghilterra;

non averne per me che, troppo stolto,

avrei potuto impedir tutto questo.

Stanley l’aveva ben visto nel sogno

il cinghiale che gli stracciava l’elmo,

e io lo presi a scherno

per questo e fui sdegnoso di fuggire;

tre volte il mio cavallo oggi è inciampato,

è diventato ombroso e s’è impennato

a vedere la Torre,

come fosse d’istinto riluttante

di portarmi al macello….

Oh, adesso sì, ho bisogno di quel prete

che m’ha parlato!… Adesso, sì, mi pento

d’aver detto a quel messo di giustizia,

con aria ingiustamente trionfale,

che i miei nemici a Pomfret

stavan per esser tutti messi a morte,

ed io vivevo libero e sicuro

in grazia ed in favore. Oh, Margherita!

Margherita! La tua maledizione

è questa che s’abbatte ora sul capo

di Hastings sventurato!

RATCLIFF -

Andiamo, andiamo,

presto; che il Duca vuole andare a pranzo.([70])

Fate una breve contrizione, e via;

è ansioso di veder la vostra testa.

HASTINGS -

Oh, caduco favore dei mortali

che ricerchiamo con maggior fervore

di quanto non mettiamo a ricercare

il favore di Dio!

Chi sulle vuote, aeree fondamenta([71])

dei tuoi sguardi benigni e compiacenti

fonda le sue speranze

somiglia a quel briaco marinaio

salito in cima all’albero maestro,

che ad ogni ondeggiamento della nave

corre il rischio di capitombolare

nelle fatali gole dell’abisso.

LOVELL -

Lamentarsi non serve. Via, sbrighiamoci.

HASTINGS -

Sanguinario Riccardo!

Sventurata Inghilterra, io ti predico

i giorni più terribili e sinistri

ch’abbia mai visto un’era di sciagure!

Avanti, su, conducetemi al ceppo.

E poi gli porterete la mia testa.

Ma molti che sorridono di me

morte tra breve troveranno anch’essi.

(Escono)

SCENA V - Sugli spalti della Torre di Londra

Entrano RICCARDO e BUCKINGHAM in armature vecchie e sfasciate,

e con aspetto squallido e sinistro([72])

RICCARDO -

Forza, cugino! Ti senti capace

di tremare, cambiare di colore,

ansare a fiato mozzo ad ogni frase,

poi riprender da capo,

ed interromperti come stordito

ed impazzito quasi di spavento?

BUCKINGHAM -

Poh, mi sento di fare a perfezione

il più bravo e provetto attore tragico:

parlar sbirciando dietro alle mie spalle,

spiarmi in giro, aver la tremarella,

trasalire al cadere d’un fuscello,

con aria fortemente sospettosa;

ho al mio servizio, pronti a secondare

ogni momento i miei infingimenti,

sguardi spettrali e sorrisi forzati.

Ma Catesby è andato?

RICCARDO -

È andato, sì; ed eccolo che torna,

e ci conduce il sindaco di Londra.

Entra CATESBY con il LORD MAYOR di Londra

BUCKINGHAM -

Omaggi, signor Sindaco…

RICCARDO -

Attenti, voi, là, al ponte levatoio!

(Rullo di tamburo, lontano)

BUCKINGHAM -

Odi, un tamburo…

RICCARDO -

Catesby,

va’ a dare una guardata dalle mura!

(Esce Catesby)

BUCKINGHAM -

Signor Sindaco, vi abbiam qui chiamato

per la ragione che…

RICCARDO -

Guàrdati indietro!

Difenditi, arrivano i nemici!

BUCKINGHAM -

Iddio Signore e la nostra innocenza

sian la nostra difesa e protezione!([73])

Entrano LOVELL e RATCLIFF con la testa di Hastings

RICCARDO -

Tranquillo, sono amici: Ratcliff, Lovell…

LOVELL -

Signore, ecco la testa

di quel pericoloso traditore:

l’ignobile ed insospettato Hastings.

RICCARDO -

A quest’uomo ho voluto tanto bene

che non riesco a frenarmi dal piangere…

Lo tenevo per l’essere più innocuo

che respirasse sopra questa terra:

di lui avevo fatto il mio diario

sul quale la mia anima annotava

i più segreti ed intimi pensieri.

Ha ricoperto sì bene il suo vizio

con un lucente orpello di virtù

e con un tocco sì ben levigato,

che, a parte quel notorio suo commercio…

sì, voglio dire la sconcia sua tresca

con la moglie di Shore… era vissuto

immune da ogni macchia di sospetto.

BUCKINGHAM -

Bene, bene, costui fu il traditore

il più insidioso, il meglio camuffato

che fosse mai vissuto sulla terra.

Avreste immaginato, o mai creduto

- non fosse che noi, vivi per miracolo,

lo potessimo ora raccontare -

che codesto scaltrito traditore

avesse complottato, qui, oggi stesso,

proprio nella seduta del Consiglio,

di assassinare me,

ed il mio nobile Duca di Gloucester?

LORD MAYOR -

Oh, davvero?

RICCARDO -

Che! Vi meravigliate?

Ci prendete per Turchi o miscredenti,

a ordinar di proceder così in fretta,

a spregio d’ogni legal procedura,

a giustiziare un simil traditore,

se a tanto non ci avessero costretto

l’estrema urgenza delle circostanze,

voglio dire la pace d’Inghilterra,

e la nostra salvezza personale?

LORD MAYOR -

Bene ve ne provenga. La sua morte,

se così è, costui l’ha meritata,

e bene han fatto le signorie vostre

a scoraggiar con questo ammonimento

da simili attentati i traditori.

Da uno come lui, in verità,

non m’aspettavo più nulla di buono,

dacché si mise con Madama Shore…([74])

BUCKINGHAM -

Era nostra intenzione, in verità,

di non procedere all’esecuzione

se non dopo che vostra signoria

fosse presente alla sua fine;

nostro malgrado, ha tutto anticipato,

l’affettuosissima sollecitudine

di questi nostri amici. Perché noi

avremmo ben voluto, monsignore,

che sentiste parlare il traditore

e confessare, in tutta compunzione,

i modi e i fini dei suoi tradimenti,

sì da poterne poi rendere contro

pubblicamente alla cittadinanza;

che può giudicar male il nostro agire

su di lui e compiangerne la morte.

LORD MAYOR -

Ma, caro monsignore,

le parole di vostra grazia bastano

per me; esse hanno lo stesso valore,

che avessi io stesso tutto visto e udito.

Non temete, miei nobili signori:

mi farò io stesso buon interprete

presso i nostri devoti cittadini

della legalità del vostro agire

in una circostanza come questa.

RICCARDO -

Ed è a tal fine che abbiamo richiesto

qui la presenza di vossignoria:

a prevenire maligne censure

dalla parte della cittadinanza.

BUCKINGHAM -

E voi, se pure giunto un po’ in ritardo

su quelle ch’eran le nostre intenzioni,

potrete tuttavia sempre attestare

quali vi è stato detto ch’esse fossero.

E con ciò, Sindaco, vi salutiamo.

(Esce il Lord Mayor)

RICCARDO -

Seguilo, seguilo, cugino Buckingham.

Egli va difilato alla Guildhall.([75])

E là, quando vedrai giunto il momento,

cerca d’insinuare avanti a tutti

che i figli d’Edoardo son bastardi;

di’ loro apertamente come Edoardo

abbia mandato a morte un cittadino,

solo per aver detto, il disgraziato,

che avrebbe fatto ereditar dal figlio

la “corona”, intendendo con tal nome

la sua casa, così denominata

per l’insegna che ha sulla facciata

e che ha disegnata una corona.

Insisti sull’odiosa sua lascivia,

di’ loro la sua foja animalesca,

che nell’estrosità delle sue voglie

si spingeva financo alle lor serve,

alle lor figlie ed alle loro mogli,

ovunque, insomma, il suo occhio smanioso

e l’istinto selvaggio del suo cuore

bramassero predare, senza freni.([76])

Anzi, se lo ritieni necessario,

ti puoi spingere anche tanto in là

da parlar della stessa mia persona

e rivelare che quando mia madre

rimase incinta del Duca di York,

l’insaziabile mio fratello Edoardo,

mio padre si trovava a guerreggiare

in Francia; e calcolando il tempo esatto

di quella gravidanza di sua moglie,

scoprì che il figlio non era suo seme;

ciò che apparve, del resto, chiaramente

dalle di lui fattezze, in nulla simili

alle fattezze del Duca mio padre.

Bada però di toccar questo tasto

con discrezione, e molto alla lontana,

perché, lo sai, mia madre è ancora viva.

BUCKINGHAM -

Non dubitate: mi farò oratore

in questo, come se fosse per me

l’aureo onorario della mia arringa.

E con ciò, mio signore, vado. Addio.

RICCARDO -

Se tutto girerà per il suo verso,

menateli al castello di Baynard;([77])

mi troverete in buona compagnia

di reverendi padri e dotti vescovi.

BUCKINGHAM -

Bene. Aspettate tra le tre e le quattro

notizie dalla Guildhall.

RICCARDO -

(A Lovell)

Corri dal dottor Shaw;

(A Ratcliff)

e tu da frate Penker;([78]) dite a entrambi

che vengano a raggiungermi fra un’ora

al castello di Baynard.

(Escono Lovell e Ratcliff)

Io vado intanto a intendermi in segreto

per sottrarre i marmocchi di Clarenza

alla vista di tutti,

e ad ordinare che nessun estraneo,

chiunque sia ed a qualunque ora,

abbia contatto alcuno con i principi.([79])

(Esce entrando nella Torre)

SCENA VI - Londra, una strada.

Entra uno SCRIVANO

SCRIVANO -

Questo è l’atto d’accusa di Lord Hastings,

scritto con bella mano

e con bella calligrafia curiale;

ne sarà data pubblica lettura

oggi stesso, alla chiesa di San Paolo.

Notate come è ben concatenato

lo svolgersi dei fatti: per copiarlo,

da quando Catesby me l’ha mandato

ieri sera, ci ho messo undici ore;

lo stesso tempo ci sarà voluto

certamente a stilar l’originale;

eppure meno di cinque ore fa,

Hastings viveva, immune da sospetti,

non inquisito, in piena libertà.

Quanta onestà nel mondo d’oggi, eh?!

Ma chi è così cretino

da non scorgere un trucco sì evidente!

E tuttavia chi ha tanto coraggio

da affermare di essersene accorto?

Il mondo è perfido e andrà in malora,

se un’azionaccia turpe come questa

dev’esser vista solo col pensiero!

(Esce)

SCENA VII - Londra, il castello di Baynard.

Entrano RICCARDO e BUCKINGHAM, incontrandosi

RICCARDO -

Dunque, dunque, che han detto i cittadini?

BUCKINGHAM -

Mah! Per la santa Madre del Signore,

tutti morti: nemmeno una parola.

RICCARDO -

E della bastardìa

dei figli di Edoardo hai fatto cenno?

BUCKINGHAM -

Oh, sì, e anche della sua promessa

di sposar lady Lucy,([80])

e di quell’altra fatta per procura

in Francia;([81]) delle sue voglie insaziabili;

delle sue violenze sulle mogli

e le figlie dei nostri cittadini;

del suo tiranneggiare per quisquilie;

della sua stessa origine bastarda,

dato che quand’è stato concepito

vostro padre era a guerreggiare in Francia,

e le fattezze sue non hanno nulla

che possa farlo assomigliare al Duca.

Ho alluso quindi ai vostri lineamenti,

esatta copia di quelli paterni,

per forma esterna e per nobiltà d’animo.

Ho decantato le vostre vittorie

sugli Scozzesi,([82]) il vostro portamento,

rigido in guerra, giudizioso in pace,

la vostra generosità e virtù,

e graziosa umiltà: nulla ho lasciato,

nel mio discorso, nulla ho sorvolato

che potesse giovare al vostro scopo;

e quando la mia arringa è giunta al termine,

ho rivolto un appello

a tutti quelli ai quali stava a cuore

il bene del paese e li ho invitati

a gridare con me: “Viva Riccardo,

legittimo sovrano d’Inghilterra!”

RICCARDO -

E l’hanno fatto?

BUCKINGHAM -

No, che Dio m’assista!

Non han fiatato: muti come statue,

o meglio come pietre che respirano,

si guardavano fissi, l’un con l’altro,

pallidi come morti. Ed a vederli,

io li ho sgridati, ed ho chiesto al Lord Mayor

il perché di quel lor sordo silenzio.

La sua risposta fu che quella gente

non era avvezza a sentirsi arringare

da nessun altro che dallo scabino.([83])

Questi, allora, da me sollecitato

a ripetere loro il mio discorso

si mise a bofonchiare: “Il Duca dice…

il Duca ha detto…”, senza aggiunger nulla

di propria personale autorità.

Finito ch’ebbe, alcuni del mio seguito

che si trovavano in fondo alla sala,

lanciarono i lor berretti in aria

e una diecina di voci han gridato:

“Dio salvi Re Riccardo!”

Al che, io stesso, facendo tesoro

di quei pochi consensi, ho lor gridato:

“Vi ringrazio, gentili cittadini;

questa unanime vostra acclamazione

e questo vostro grido di esultanza

dimostrano la vostra assennatezza

e la vostra affezione per Riccardo”.

E lì ho troncato e son venuto via.

RICCARDO -

Diavolo! Tutti ciocchi senza lingua?

Tutti senza parlare!

Allora il Sindaco e i suoi consiglieri

verranno o no?

BUCKINGHAM -

Sono già tutti qui.

Ma ostentate una certa riluttanza

nel dare loro udienza; non lo fate

se non in seguito a molte insistenze;

e, ricordate, fatevi trovare

con nelle mani un libro di preghiere,

in mezzo a quei due uomini di chiesa;([84])

perch’io imbastirò, su quella base,

un discanto canonico.([85])

Cercate di non ceder troppo presto

alle richieste che noi vi faremo;

fate la parte della verginella

che dice sempre “no” per dire “sì”.

RICCARDO -

Bene, vado, e se tu

reciterai sì bene la tua parte

nel perorar la loro richiesta

com’io la mia nel risponderti “no”,

il successo è senz’altro assicurato.

(Colpi alla porta)

BUCKINGHAM -

È il sindaco. Salite, andate su.([86])

(Esce Riccardo)

Entra il LORD MAYOR di Londra con i consiglieri

Benvenuto, signore.

Son qui a fare anticamera; ma il Duca

penso che non gradisca dare udienza.

Entra CATESBY, scendendo dal soppalco

Catesby, allora che cosa risponde

alla mia istanza il vostro signor Duca?

CATESBY -

Il mio signore prega vostra grazia

di tornare domani o doman l’altro.

È dentro con due reverendi padri

per le meditazioni spirituali

e non desidera venir distolto

da quel sacro esercizio dello spirito

da qualsivoglia mondana richiesta.

BUCKINGHAM -

Buon Catesby, ritorna da sua grazia,

digli ch’io sono qui

col Sindaco di Londra e i consiglieri([87])

per conferire con sua signoria

su cose di grandissima importanza

che riguardano il bene generale.

CATESBY -

Vado subito a dirglielo, signore.

(Esce Catesby)

BUCKINGHAM -

Ah, ah, Lord Mayor, questo nostro Duca

non è certo un Edoardo!

Non se ne sta sdraiato a trastullarsi

su un letto di lascivia, ma in ginocchio

a meditare; non sta sollazzandosi

in compagnia d’un paio di baldracche,

ma se ne sta raccolto, a meditare,

fra due reverendissimi prelati;

non dorme, ad ingrassare il pigro corpo,

ma vigila in preghiera, a far più ricca

la vigile sua anima.

Sarebbe la fortuna d’Inghilterra

se un principe virtuoso come lui

volesse assumer sulla sua persona

il sovrano potere; ma ho paura

che non sapremo convincerlo a tanto.

LORD MAYOR -

Diamine! Dio non voglia che rifiuti!

BUCKINGHAM -

Ho paura di sì.

Rientra CATESBY

Ma ecco Catesby

che torna. Ebbene che dice sua grazia?

CATESBY -

Sua grazia si domanda con stupore

a quale scopo abbiate radunato

e qui condotto un così folto stuolo

di cittadini senza che sua grazia

ne fosse stato affatto prevenuto.

Questo gli fa temere, monsignore,

che le vostre intenzioni a suo riguardo,

non sian delle migliori.

BUCKINGHAM -

Mi dispiace che il mio degno cugino

possa mai sospettare ch’io non nutra

delle buone intenzioni a suo riguardo.

Sa il cielo se veniamo qui da lui

animati dal più sincero affetto.

Torna di nuovo da sua grazia, e diglielo.

(Esce Catesby)

Eh, quando questa specie di sant’uomini

così devotamente religiosi

si trovano il rosario tra le mani,

è certo ben difficile distoglierli,

sì dolce ed esclusivo è il rapimento

nella fervida lor contemplazione.

Nel soppalco compare RICCARDO in mezzo a due prelati; a fianco CATESBY.

LORD MAYOR -

Ecco lassù sua grazia, fra due vescovi.

Vedete?

BUCKINGHAM -

Due pilastri di virtù

a sostegno di un principe cristiano,

per tenerlo lontano e preservato

dal peccato di vanità; e, vedete,

in mano tiene un libro di preghiere…

gli autentici ornamenti

dai quali riconoscere un sant’uomo.

Plantageneto illustre,

graziosissimo principe,

degnati porgere un orecchio amico

alle richieste nostre,

e perdonaci d’essere venuti

a interrompere le tue devozioni

ed il tuo cristianissimo fervore.

RICCARDO -

Non dovete scusarvi, mio signore,

son io, piuttosto a chiedere perdono,

ché, assorto nel servizio del Signore,

ho protratto l’attesa a questi amici.

Ma, a parte questo, qual è il desiderio

di vostra grazia?

BUCKINGHAM -

Lo stesso, e non altro,

spero, quale anche piaccia a Dio lassù,

e a tutti gli uomini buoni ed onesti

di quest’isola priva di governo.([88])

Riccardo -

Non vorrei aver fatto qualche errore

che possa essere apparso offensivo

alla cittadinanza, e voi veniate

a rinfacciarmi la mia ignoranza.

BUCKINGHAM -

Difatti, mio signore: e a quell’errore

speriamo che, su nostra preghiera,

piaccia alla grazia vostra riparare.

RICCARDO -

Perché vivrei, se no, in cristiana terra?

BUCKINGHAM -

Sappiate allora qual è il vostro errore:

la persistente vostra riluttanza

ad occupare l’altissimo seggio,

l’augusto trono, lo scettrato ufficio

che è stato dei vostri avi;

la vostra abdicazione al vostro rango

e ad un diritto ch’è vostro per nascita,

alla gloriosa vostra discendenza

dalla casa reale; e tutto questo

a favore d’un ceppo secco e marcio;

mentre nella blandizie

della vostra assopita iniziativa,

che noi qui, per il bene del paese,

siamo appunto venuti a ridestare,

questa nobile isola è privata

dei naturali membri del suo corpo,

il volto deturpato dalle stigmate

dell’infamia, il regal ceppo innestato

a ignobili virgulti e quasi spinto

violentemente nel vorace gorgo

del più profondo e tenebroso oblio.

Per riparare a ciò, noi, di gran cuore,

siam qui a sollecitare vostra grazia

di assumer su di sé tutto il gravame

e il governo di questa vostra terra,

non già in veste di mero protettore,

o di amministratore, o di vicario,

o d’umile massaro, a lavorare

per il conto e per il vantaggio altrui,

ma in virtù del diritto di natali,

che vi deriva per generazioni,

da sangue a sangue, vostro in assoluto.

Perciò, in accordo con i cittadini,

vostri devoti ed ossequienti amici,

e per loro pressante incitamento,

io vengo a supplicare vostra grazia

di non negarsi a questa causa giusta.

RICCARDO -

Non so dire se sia più consentaneo

al mio rango o alla vostra condizione

ch’io m’allontani senza dir parola,

o vi rivolga un severo rimprovero.

Se scegliessi di non darvi risposta,

voi potreste pensare giustamente

che l’ambizione, rendendomi muto

ed impedendomi di replicare,

cedesse ad accollarsi l’aureo giogo

della sovranità che, bontà vostra,([89])

qui mi volete imporre… D’altra parte,

biasimarvi per questa vostra supplica,

così condita di fedele affetto,

sarebbe rendere male per bene

a degli amici. E questo non lo voglio.

Ad evitare dunque il primo rischio,

ed a scansare, parlando, il secondo,

eccovi la decisa mia risposta.

Il vostro affetto merita senz’altro

il mio ringraziamento;

ma i miei meriti son troppo scarsi

per fare ch’io m’induca ad aderire

alla vostra ambiziosa petizione.

Primo: quand’anche fossero rimossi

tutti gli impedimenti e tutta piana

fosse la strada verso la corona,

siccome maturato mio possesso

e diritto spettantemi per nascita,

è sì grande la mia povertà d’animo,

e tanti e tanto gravi i miei difetti,

che della mia grandezza farei schermo

per occultarmi alla sovranità

- come un vascello inetto ad affrontare

il mare grosso - anziché agognare

a rimaner nascosto e soffocato

soltanto dai vapori della gloria.

Ma, grazia e Dio, di me non c’è bisogno;

ché se vi fosse, avrei bisogno io stesso

di troppe cose, poi, per aiutarvi.

La regal pianta del defunto re

ha lasciato al paese un regal frutto

che, portato che sia a maturazione

dal furtivo trascorrere del tempo,

si mostrerà certamente ben degno

della maestà del trono, ed il suo regno

ci renderà certamente felici.

Io lascio dunque volentieri a lui

quel che volete consegnare a me,

vale a dire il diritto alla corona

e le sorti della sua buona stella

che Dio non voglia io debba strappargli.

BUCKINGHAM -

Tutto ciò testimonia, monsignore,

quale coscienza alberga in vostra grazia;

ma, in fede mia, codesti vostri scrupoli,

a ben vagliar tutte le circostanze,

son senza consistenza e trascurabili.

Voi affermate che il principe Edoardo

è bene il figlio di vostro fratello;

noi diciamo lo stesso,

però non della moglie di Edoardo;

ché prima ei si promise a Lady Lucy,([90])

(vostra madre è vivente testimone

della promessa); e poi si fidanzò

per procura con Bona di Savoia,

la cognata del re di Francia. In seguito,

dopo ch’ebbe scartate queste due,

una misera donna postulante,

con il corpo sfiancato dalle doglie

di molti parti, una bellezza sfatta,

una vedova nelle ristrettezze,

al meriggio dei suoi giorni migliori,

fece preda dei suoi sguardi lascivi

e lo sedusse al punto da ridurlo

ad un vituperevole degrado

e ad una vergognosa bigamia.([91])

Da costei, nel suo talamo illegittimo

egli ebbe questo Edoardo,([92])

che noi per cortesia chiamiamo principe.

Altre e più amare recriminazioni

potrei fare, non fosse pel rispetto

che sento per certuni ancora in vita

e che impone ritegno alla mia lingua.

Vogliate, dunque, amabile signore,

accogliere con animo benigno

addosso alla regal vostra persona

quest’offerta di dignità regale:

se non proprio per rendere con essa

felici noi ed il paese tutto,

per trarre il vostro nobile lignaggio

fuor da un’età corrotta ed abusata

e riportarlo sul retto cammino

della legittima sua discendenza.

LORD MAYOR -

Accettatelo, amabile signore,

ve lo implorano i vostri cittadini.

BUCKINGHAM -

Non rifiutatevi, possente principe,

a questa nostra profferta d’amore.

RICCARDO -

Ahimè, perché volete caricarmi

di questo peso? Io non son tagliato

per il rango e la dignità di re.

Vi scongiuro, non la prendete a male,

ma non posso né voglio accontentarvi.

BUCKINGHAM -

Se rifiutate perché affetto e zelo

v’ispirano ripugna a spodestare

quel bimbo, figlio di vostro fratello

- ché conosciamo bene la bontà

del vostro cuore, e la gentile, amabile,

quasi femminea vostra tenerezza

verso i vostri parenti, e, in verità,

verso gente d’ogni altra condizione -,

è bene che sappiate, signor Duca,

che, consentiate o no alla nostra istanza,

mai quel figliolo del fratello vostro

regnerà da sovrano su di noi;

perché noi pianteremo su quel trono

un altro qual che sia, ad ignominia

ed a rovina della vostra casa.

E in tale decisione vi lasciamo.

Andiamo, cittadini, andiamo via!

Per le piaghe di Cristo, io sono stufo

di stare qui più oltre a supplicare!

(Buckingham, il Lord Mayor e tutti gli altri si avviano per uscire)

RICCARDO -

Non imprecate, signore di Buckingham!

CATESBY -

Richiamateli indietro, dolce principe,

e consentite alla loro richiesta.

Se gliela respingeste, monsignore,

se ne dorrebbe tutta la nazione.

RICCARDO -

Volete dunque sospingermi a forza

entro un mare d’affanni?… Richiamateli.

Non son fatto di sasso,

io, dopo tutto; sono ben sensibile

a queste vostre garbate insistenze,

se pur contrarie ai miei sentimenti

ed alla mia più intima coscienza.

Rientrano BUCKINGHAM e gli altri

Cugino Buckingham, e voi, signori,

uomini saggi e gravi,

poiché vi vedo sì deliberati

a impormi sulla schiena questa sorte,

perch’io, volente o no, ne porti il carico,

mi devo rassegnare a sostenerlo.

Ma se da questa vostra imposizione

dovesse uscir la nera maldicenza

e la rampogna dalla grinta amara,

il fatto d’esserci stato costretto

m’assolva da ogni macchia o traccia impura

ch’abbia per avventura a derivarne.

Dio sa - e voi ne siete testimoni

con l’occasione - quanto io sia lontano

dal nutrire un siffatto desiderio.

LORD MAYOR -

Dio benedica sempre vostra grazia;

ne siamo testimoni, e lo diremo.

RICCARDO -

E direte la pura verità.

BUCKINGHAM -

Dunque con questo titolo regale

io vi saluto qui: “Viva Riccardo,

degno re d’Inghilterra!”

TUTTI -

Così sia!

BUCKINGHAM -

Domaniallora vi compiacerete

di farvi incoronare?

RICCARDO -

Domanio quando gradirete voi,

dal momento che voi così volete.

BUCKINGHAM -

Domani allora vi faremo scorta

all’incoronazione, vostra grazia;

e così, con il cuore in esultanza,

da voi ci congediamo.

RICCARDO -

E noi torniamo al nostro sacro offizio.

Addio, cugino. Addio, gentili amici.

(Escono tutti)


ATTO QUARTO

SCENA I - Londra, davanti alla Torre.

Entrano, da una parte, la REGINA ELISABETTA, la DUCHESSA DI YORK,

il MARCHESE DI DORSET; dall’altra ANNA, duchessa di Gloucester,

con la figlioletta di Clarenza.

DUCHESSA -

Oh, guarda chi incontriamo:

la nipotina mia Plantageneta,([93])

condotta per la mano

dalla gentile zia Anna di Gloucester!([94])

Scommetterei che sta andando alla Torre,

spinta dal suo sincero cuoricino,

a recare il saluto al dolce principe.

Bene incontrata, figlia!

ANNA -

Conceda Dio felice e lieto giorno

a entrambe vostre grazie.

ELISABETTA -

E così a voi,

cara cognata. Dove ve ne andate?

ANNA -

Non più in là della Torre e, come immagino,

con lo stesso affettuoso vostro intento:

a salutare i due giovani principi.

ELISABETTA -

Grazie, mia cara. Allora entriamo insieme.

Entra BRAKENBURY

Ecco il luogotenente della Torre,

e a buon punto: signor Luogotenente,

di grazia, come stanno i miei figlioli,

il principe con il fratello York?

BRAKENBURY -

Benissimo, signora; ma purtroppo

non posso consentirvi di vederli.

Il re m’ha dato una consegna ferrea.

ELISABETTA -

Come sarebbe “il re”… c’è forse un re?

BRAKENBURY -

Volevo intendere il Lord Protettore.

ELISABETTA -

Ah, lui! Che Dio lo scarti da quel titolo!

E che! Vuol forse porre uno steccato

fra l’amore dei miei figlioli e me?

Io son la loro madre:

chi mi può impedire di vederli?

DUCHESSA-

Ed io sono la madre del lor padre:

voglio vederli.

ANNA -

Io son la loro zia,

per legge, la lor madre per affetto;

e dunque conducetemi da loro.

Rispondo io per voi: e a mio rischio

vi dispenso dalla vostra consegna.

BRAKENBURY -

No, signora; non posso liberarmene

così; vi son tenuto a giuramento.

E pertanto vi chiedo di scusarmi.

(Esce)

Entra STANLEY, conte di Derby

STANLEY -

Ch’io vi rincontri appena di qui a un’ora,

dame, e saluterò la grazia vostra,

(Indicando la Duchessa di York)

madre ed ammiratrice reverenda

di due belle regine.

(Ad Anna)

Voi, signora,

dovete venir subito a Westminster

per essere colà incoronata

regina di Riccardo.

ELISABETTA -

Ahimè, che sento!

Slacciatemi, strappatemi i legacci,

che il mio povero cuore abbia più spazio

per pulsare, perché sta soffocando!

Ah, ch’io svengo ad un tal ferale annuncio!

ANNA -

Dispettosa notizia! Amaro annuncio!

DORSET -

Madre, coraggio, state di buon animo:

come sta vostra grazia?

ELISABETTA -

Oh, fuggi, Dorset!

Mettiti in salvo! Non star lì a guardarmi!

I due mastini, Morte e Distruzione,

ti son già alle calcagna.

Il nome di tua madre è malo auspicio

per i figli. Se vuoi scampar la vita,

figlio mio, va’, passa il mare, va’ da Richmond,

a vivere al riparo dall’inferno.([95])

Presto, fuggi da questo scannatoio

se non vuoi far che il numero dei morti

s’accresca del tuo nome,

e se non vuoi veder morire me,

la vittima della maledizione

di Margherita, né più madre ormai,

né moglie, né regina d’Inghilterra.

STANLEY -

Saggio consiglio e premuroso il vostro,

signora. Dorset, via, sfruttate subito

il vantaggio del tempo, andate via,

non v’attardate in indugi imprudenti.

Manderò una lettera a mio figlio([96])

perché vi venga incontro sulla strada

e vi dia ogni appoggio.

DUCHESSA -

Oh, mefitico vento di sciagura!

Grembo mio maledetto,

culla di morte! Hai portato al mondo

un basilisco, che con il suo sguardo

uccide chi gli càpita sott’occhio.

STANLEY -

(Ad Anna)

Signora, andiamo, venite con me.

Son qui stato spedito di gran fretta.

ANNA -

Verrò con voi, ma assai di malavoglia.

E Dio volesse che quel cerchio d’oro

che cingerà fra poco la mia fronte

fosse acciaio rovente

da bruciarmi il cervello; ch’io sia unta

con veleno mortale, da morire

prima che gli uomini possan gridare:

“Dio salvi la regina”.

ELISABETTA -

Va’, va’, povera anima,

non invidio davvero la tua gloria.

Ma non t’auguro male,

a nutrire con questo la mia collera.([97])

ANNA -

Non m’invidii, lo so; e so il perché.

Quando colui ch’è ora mio marito

venne da me, che seguivo in gramaglie

il feretro d’Enrico,

e s’era appena lavato le mani

del sangue di quell’angelo

di mio marito e di quel caro santo

ch’io seguivo piangendo in quel momento,

quando, dico, levai gli occhi a Riccardo,

questo augurio gli feci: “Maledetto

sii tu - dissi - d’aver fatto di me,

così giovane, una sì vecchia vedova;

e se ti sposerai, non abbandoni

il dolore il tuo letto, e sia tua moglie

- se mai vi sarà donna tanto folle

da maritarsi ad uno come te -

resa più misera dalla tua vita

di quanto misera hai reso me

con la morte del mio sposo adorato!”

Dio mio, Signore! Ed ecco, in un momento,

prima che m’accingessi a reiterargli

la mia maledizione, stoltamente

il mio cuore di donna fu impigliato

nella dolcezza delle sue parole

e divenne esso stesso, all’improvviso,

l’oggetto della mia maledizione;

che da allora ha tenuto gli occhi miei

senza riposo, perché nel suo letto

non ho ancora, nemmeno per un’ora,

goduto l’aurea rugiada del sonno,

destata come sono di continuo

dai suoi sogni paurosi.

Egli mi odia, inoltre, per mio padre,

Warwick,([98]) e son sicura

che si sbarazzerà di me al più presto.

ELISABETTA -

Addio, povero cuore.

Ho pietà delle tue tribolazioni.

ANNA -

Non quanta n’abbia io di quelle vostre.

DORSET -

Addio, tu che con l’anima in gramaglie

ti prepari a ricevere la gloria.

ANNA -

Addio, povera anima,

che dalla gloria invece ti congedi.

DUCHESSA -

Tu, Dorset, va’ da Richmond,

e ti sia guida la buona fortuna;

tu, Anna, da Riccardo,

e ti siano custodi angeli buoni;

tu, Elisabetta, vattene al santuario,

e ti accompagnino santi pensieri.

Io vado là dove pace e riposo

si giacciono con me: nella mia tomba.

Ho vissuto ottant’anni di sventure

ed ogni ora di gioia m’è costata

sette giorni di pianto.

ELISABETTA -

Aspettate: volgiamo ancora insieme

uno sguardo alla Torre… O pietre antiche,

pietà di quei due teneri fanciulli

che l’umana perfidia ha rinserrato

dentro le vostre mura, rude culla

per quelle piccole dolci creature,

rozza nutrice, squallida, decrepita,

cupa e tetra compagna ai loro giochi!

Pietre, trattate bene i miei bambini!

Questo è l’addio del mio pazzo dolore.

(Escono)

SCENA II - Londra, la sala del trono al palazzo reale.

Trombe.([99]) Entrano RICCARDO, in pompa magna, con in testa la corona; BUCKINGHAM, CATESBY, RATCLIFF, LOVELL, un PAGGIO e altri del seguito.

RICCARDO -

Fatemi largo. Cugino di Buckingham!

BUCKINGHAM -

Miograzioso sovrano…

RICCARDO -

La tua mano.

(Buckingham gli dà la destra e lo accompagna al trono)

(Squillo di tromba)

(I due restano a parlare da soli)

A questa altezza siede re Riccardo

per tuo consiglio e con il tuo ausilio.

Ma dovremo portarle, queste glorie,

per un giorno, o saranno per durare

nel tempo, e noi potremo rallegrarcene?

BUCKINGHAM -

Vivanosempre, e durino perenni!

RICCARDO -

Ah, Buckingham, mi faccio ora con te

pietra di paragone, per saggiare

se tu sei veramente d’oro schietto.

Il giovinetto Edoardo è ancora vivo…

Tu capisci che cosa voglio dire.

BUCKINGHAM -

Continuate, amato mio signore.

RICCARDO -

Diamine, Buckingham, intendo dire

che vorrei esser re.

BUCKINGHAM -

Ma voi lo siete,

mio tre volte degnissimo sovrano!

RICCARDO -

Ah, sì? È così… ma Edoardo è vivo.

BUCKINGHAM -

Vero, nobile principe.

RICCARDO -

Amara conclusione, questa tua,

che Edoardo sia vivo…

“Vero, nobile principe”… Cugino,

un tempo tu non eri così ottuso.

Debbo essere chiaro?

Li voglio morti, questi due bastardi!

E che sia fatto subito!

Che dici adesso? Rispondi e sii breve.

BUCKINGHAM -

Vostra grazia può fare ciò che vuole.

RICCARDO -

Va’, va’, mi pare che sei tutto ghiaccio!

La parentela ti si è congelata.

Di’, sei d’accordo che devon morire?

BUCKINGHAM -

Datemi un po’ di respiro, una pausa,

mio buon signore, avanti che su ciò

possa parlare positivamente.

Vi darò subito una risposta.

(Esce)

CATESBY -

(Agli altri nobili)

Il re è in preda all’ira;

guardate come si morde le labbra.

RICCARDO -

Voglio avere a che fare, d’ora innanzi

solo con imbecilli teste dure

o con giovanottelli senza scrupoli:

non mi piacciono quelli che mi scrutano

come volessero leggermi dentro.

Si fa guardingo l’ambizioso Buckingham…

(Al Paggio, a parte)

Ragazzo!

PAGGIO -

Mio signore?

RICCARDO -

Conosci tu qualcuno

che l’oro corruttore possa indurre

a una segreta faccenda di morte?

PAGGIO -

Conosco un gentiluomo

scontento perché i suoi modesti mezzi

non s’accordano colle sue pretese:

l’oro per lui sarebbe un argomento

più convincente di venti avvocati,

senza dubbio capace di tentarlo

a compiere qualunque malefatta.

RICCARDO -

Come si chiama?

PAGGIO -

Tyrrell, mio signore.

RICCARDO -

Mi pare di conoscerlo:

vallo a chiamare, e mandalo da me.

(Esce il paggio)

Quel Buckingham che rumina pensieri

e fa il furbo con me,

non sarà più da oggi il confidente

dei miei pensieri. Con me ha retto il passo

per tanto tempo, senza mai stancarsi,

ed ora, ecco, si ferma a prender fiato…

Ebbene, così ho detto e così sia!

Entra STANLEY

Ebbene allora, Lord Stanley, che nuove?

STANLEY -

Sappiate, dunque, amato mio signore,

che il marchese di Dorset, come ho udito,

se n’è fuggito a raggiungere Richmond,

dove questi si trova.

RICCARDO -

Catesby, senti: spargimi la voce

che mia moglie è malata, molto grave;

io darò l’ordine a chi dico io

che sia tenuta strettamente al chiuso.

Rintracciami un qualche nobiluomo

di mezza tacca, oscuro, squattrinato,

al quale potrei dar subito in moglie

la figliola del Duca di Clarenza.([100])

Quanto al maschio, è un autentico cretino,

e non mi mette il minimo pensiero.

Ma non star lì a guardarmi a bocca aperta!

Sveglia!… Ripeto: va’, spargi la voce

in giro che la mia regina, Anna,

è malata, in pericolo di vita.

Datti daffare, ché mi preme assai

soffocare sul nascere speranze,

che se vengono poi alimentate,

potrebbero riuscirmi perniciose.

(Esce Catesby)

È necessario ch’io mi prenda in moglie

la figlia di Edoardo, mio fratello;

altrimenti il mio regno poggerà

sopra un fragile vetro…

Uccidere i fratelli, e poi sposarla…

È via di malsicura riuscita,

ma sono ormai tanto avanti nel sangue,

che un delitto ne chiama dietro un altro.

Ormai negli occhi miei non ha più stanza

la pietà lacrimosa.

Entra TYRRELL

Sei tu, Tyrrell?

TYRRELL -

Son io: Giacomo Tyrrell,

obbedientissimo suddito vostro.

RICCARDO -

“Obbedientissimo”… Lo sei davvero?

TYRRELL -

Vostra Grazia può mettermi alla prova.

RICCARDO -

Avresti tu tanto fegato in corpo

da uccidermi un amico?

TYRRELL -

A vostro grado;

meglio però sarebbe due nemici.

RICCARDO -

Bene, allora ci sei: son due nemici

quelli di cui vorrei che t’occupassi,

che non dànno più tregua alla mia pace,

disturbatori dei miei dolci sonni,

Tyrrell; intendo dire i due bastardi

che si trovan rinchiusi nella Torre.

TYRRELL -

Apritemi la strada per raggiungerli,

e vi libererò dal loro incubo.

RICCARDO -

Tu mi canti una musica dolcissima.

Tyrrell, ascolta, fatti più vicino;

Va’ là con questo: è il mio lasciapassare.([101])

Alzati([102]) e dammi orecchio.

(Tyrrell si alza e Riccardo gli sussurra qualcosa) all’orecchio)

Null’altro.([103]) Dimmi solo: “È stato fatto”,

e io ti vorrò bene in sempiterno,

e ti ricoprirò di benefici.

TYRRELL -

Sbrigherò la faccenda in poco tempo.

(Esce)

Rientra BUCKINGHAM

BUCKINGHAM -

Mio signore, ho considerato a fondo

la richiesta su cui m’avete dianzi

voluto scandagliare.

RICCARDO

Ah, non importa,

lasciamola pur lì. Dorset, piuttosto:

ha preso il largo, è fuggito da Richmond.

BUCKINGHAM -

L’ho saputo, signore.

RICCARDO -

Stanley, Richmond

è figlio di tua moglie… Stacci attento…

BUCKINGHAM -

Monsignore, mi par giunto il momento

di reclamarvi quella concessione

che m’è dovuta per una promessa

sulla quale impegnaste il vostro onore:

intendo, sire, la contea di Hereford

coi beni mobili da voi promessimi.

RICCARDO -

(Senza badargli, e sempre rivolto a Stanley)

… tieni d’occhio tua moglie,

se dovesse mandar messaggi a Richmond,

me ne risponderai tu di persona.

BUCKINGHAM -

Che dice vostra altezza

riguardo a questa mia giusta richiesta?

RICCARDO -

(Sempre senza badargli, rivolto a Stanley)

Enrico Sesto, a quanto mi ricordo,

profetizzò che Richmond

sarebbe stato re, quand’egli, Richmond,

era ancora un monello impertinente….

Sarebbe stato re… Forse… chissà…

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

(c.s.)

Come mai quel preveggente

non seppe presagire al tempo stesso,

me presente, che io l’avrei ucciso?

BUCKINGHAM -

La promessa della contea, signore…

RICCARDO -

Richmond!… Recentemente fui ad Exeter,

ed il suo sindaco cortesemente

mi volle far vedere quel castello

e lo indicò col nome di Rougemont;([104])

ad udire il qual nome ebbi un sussulto,

perché un bardo d’Irlanda un certo giorno

mi predisse che non sarei vissuto

per molto tempo ancora,

dopo che avessi visto Rougemont.

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

Buckingham, che ore sono?

BUCKINGHAM -

… ardisco ricordare a vostra grazia

la promessa…

RICCARDO -

Sì, sì, ma che ore sono.

BUCKINGHAM -

Stanno quasi per battere le dieci.

RICCARDO -

Bene, lasciale battere.

buckingham -

Perché “lasciale battere”, signore?

RICCARDO -

Perché come l’automa d’una pendola

tu sei lì che continui a battere

tra il postulare come un accattone

e il mio almanaccare per mio conto.

Oggi non sono in vena di regali!

buckingham -

Compiacetevi almeno

di dire sì o no alla mia richiesta.

RICCARDO -

Non sono in vena. Non seccarmi più!

(Esce seguìto da tutti, meno Buckingham)

buckingham -

Ah, così lui compensa i miei servigi?

Con quel fare sprezzante ed offensivo?

Per questo, dunque, l’avrei fatto re?…

Ahimè, pensiamo a quel ch’è capitato

ad Hastings, ed andiamo a rifugiarci

a Brecon,([105]) finché resta sulle spalle

questa mia testa ormai pericolante!

(Esce)

SCENA III - Altra stanza del palazzo

Entra TYRRELL

TYRRELL -

La più cruenta impresa, la più infame,

il più spietato, il più empio massacro

che il mondo abbia mai visto, è consumato!

Perfino quei cagnacci sanguinari

di Dighton e Farrest, due spietati,

cinici ed incalliti delinquenti,

che col denaro avevo subornato

a questa barbara carneficina

lacrimavano come due mocciosi,

sopraffatti da tenera pietà,

a raccontarmi tanta efferatezza.

“Oh - mi fa Dighton - quelle due creature

dormivano… così”. “Così, così -

fa Forrest - abbracciati l’uno all’altro

con quelle loro braccine innocenti,

color dell’alabastro….

Le loro labbra, quattro rose rosse

su di un unico stelo, e si baciavano

nel bel rigoglio della loro estate.

Sul lor guanciale un libro di preghiere,

che per un attimo - prosegue Forrest -

stava quasi per farmi mutar d’animo…

Ma oh, il diavolo!…” E così dicendo,

s’interruppe, lo scellerato. E Dighton:

“Abbiamo soffocato nella morte

il più dolce prodotto, il più perfetto

che la Natura abbia mai modellato

dal primo giorno della Creazione!”

E con questo, senza più altro dire

si sono allontanati,

con la coscienza rosa dal rimorso;

e così io li ho lasciati,

per venire a recarne la notizia

a questo re sanguinario… Ma eccolo.

Entra RICCARDO

Salute al mio signore.

RICCARDO -

Caro Tyrrell!

Qual felice notizia tu mi porti?

TYRRELL -

Se l’aver fatto quanto m’ordinaste

vi può fare felice, ebbene siatelo,

perché è fatto.

RICCARDO -

Ma li vedesti morti?

TYRRELL -

Sì, signore.

RICCARDO -

E sepolti?

TYRRELL -

Ad interrarli

provvide il cappellano della Torre;

come ed in quale luogo, non lo so.([106])

RICCARDO -

Passa da me subito dopo cena.([107])

Voglio sapere nei particolari

come son morti. Pensa, nel frattempo,

al modo come posso compensarti,

e conta di ottenere quel che chiedi.

Va’ ora.

TYRRELL -

Prendo umilmente congedo.

(Esce)

RICCARDO -

Il maschio di Clarenza l’ho rinchiuso

sotto stretta custodia; la sua femmina

l’ho sposata a un oscuro gentiluomo;

i due figli di Edoardo ora riposano

nel gran grembo d’Abramo; Anna, mia moglie,

ha detto buona notte a questo mondo.

Adesso, poiché sono a conoscenza

che il bretone Richmònd ha messo l’occhio

su Elisabetta, la giovane figlia

di mio fratello Edoardo,([108]) e con quel nodo

mira spavaldamente alla corona,

vado da lei fare la mia parte

di prosperoso ed allegro aspirante.

Entra RATCLIFF, di corsa

RATCLIFF -

Mio signore…

RICCARDO -

Che irrompi a questo modo?

Buone o male notizie?

RATCLIFF -

Male, signore: Morton è fuggito

a raggiungere Richmond, e Buckingham,

spalleggiato dai validi gallesi,

è in campo, e va ingrossando le sue forze.

RICCARDO -

Ely con Richmond m’intriga di più

che Buckingham con tutte le sue forze

racimolate in tutta fretta e furia.

Non ci perdiamo in chiacchiere:

ho imparato che il trepido commento

è servo inerte al torpido indugiare;

e l’indugiare porta all’impotenza

ed a muoversi a passo di lumaca.

Sia dunque la bruciante speditezza

ala al mio volo, Mercurio di Giove,

e araldo per un re.

Vammi d’urgenza ad arruolare uomini.

Il mio scudo di guerra è questo avviso:

essere più fulminei possibile,

quando in campo ci sono traditori.

(Escono)

SCENA IV - Londra, davanti al palazzo reale.

Entra la vecchia REGINA MARGHERITA

MARGHERITA -

Ecco che adesso la loro fortuna

comincia a rinfrollirsi ed a disfarsi

nelle putride fauci della morte.

Son rimasta nascosta

accortamente entro questi paraggi,

per assistere al dissolvimento

di quelli che son stati i miei nemici.

Ho assistito ad un prologo feroce.

Ora tornerò in Francia,

sperando che lo svolgersi del dramma,

non sia meno crudele, fosco e tragico.

Entrano la DUCHESSA DI YORK

e la REGINA ELISABETTA

Chi viene?… Sventurata Margherita,

ritirati di nuovo!

(Si fa da parte)

ELISABETTA -

Ah, miei poveri principi!

Mie tenere creature!

Miei fiorellini non ancor sbocciati!

Mie dolcezze in germoglio!

Se ancora le vostre anime gentili

aleggiano nell’aria, non fissate

dal giudizio di Dio in lor dimora,

fluttuate con le vostre ali d’aria

intorno a me, ascoltate il lamento

di questa vostra disperata madre!

MARGHERITA -

(A parte)

Sì, aleggiatele intorno,

per dirle che, giustizia per giustizia,

giustizia è anche quella

che ha offuscato in decrepita notte

il bel mattino della vostra infanzia.

DUCHESSA -

Tante sventure m’han rotto e infiochito

la voce; e la mia lingua,

esausta dal dolore, è inerte e muta….

Edoardo Plantageneto, ahimè,

perché sei morto? Perché t’hanno ucciso?

MARGHERITA -

(c.s.)

Plantageneto per Plantageneto:

Edoardo paga un debito di morte

per un altro Edoardo.

DUCHESSA -

Come hai potuto, Dio Onnipotente,

involarti da sì teneri agnelli,

per sbalestrarli nel ventre del lupo?

Dormivi forse, tu,

quando si consumava quello scempio?

MARGHERITA -

(c.s.)

Come quando morì il mio santo Enrico

ed il mio dolce figlio.([109])

DUCHESSA -

Vita morta ch’io sono, vista cieca,

povero spettro mortale vivente,

spettacolo di lutto, onta del mondo,

diritto della tomba

dalla vita usurpato, breve sunto

e testimonio di giorni dolenti,

(Si siede per terra)([110])

ch’io racqueti la mia inquietudine

sul leal suolo inglese, slealmente

ubriacato con sangue innocente.

ELISABETTA -

Ah, potessi tu, terra,

apprestarmi qui subito una tomba,

come m’appresti un seggio di tristezza!

Potessi là nasconder le mie ossa,

senza doverle riposare qui!

(Si siede anch’essa per terra)

Chi ha cagione di lutto più di me!

MARGHERITA -

(Uscendo e facendosi avanti)

Se più antico dolore

è più degno di venerazione,

riconoscete al mio il beneficio

della priorità, e alle mie pene

il primo posto nell’indignazione.

E se il dolore ammette compagnia,

rifate il conto delle vostre pene

e poi paragonatele alle mie:

io avevo un Edoardo

fino a quando un Riccardo non l’ha ucciso;

io avevo un marito,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

(A Elisabetta)

tu avevi un Edoardo,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

tu avevi un Riccardo

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso.

DUCHESSA -

Avevo anch’io un Riccardo;

e tu me l’hai ucciso; avevo un Rutland,

anche, e tu hai concorso a farlo uccidere.

MARGHERITA -

Tu avevi un Clarenza,

e Riccardo l’ha ucciso.

Tu, dal canile della tua matrice,

hai partorito un segugio infernale

che dà caccia mortale a tutti noi.

Tu, quel cane che prima d’aver occhi

ebbe denti per azzannare a morte

teneri agnelli e berne il dolce sangue;

quel turpe insulto all’opera di Dio;

quel supremo tiranno della terra

che regna in mezzo ad occhi tumefatti

d’anime in pianto, tu l’hai sguinzagliato

dal tuo grembo perché ci desse caccia

fino alla tomba tutti. Dio Signore,

retto, giusto ed esatto dispensiere,

oh, come ti ringrazia Margherita

che codesto carnivoro cagnaccio

si sia dato a sbranare anche la prole

partorita dal ventre di sua madre

e faccia sì che s’accompagni a noi

sopra uno stesso banco di lamenti!

DUCHESSA -

Non esultare delle mie sventure,

moglie d’Enrico; Dio m’è testimone

di quanto ho lagrimato per le tue.

MARGHERITA -

Compatiscimi, ho fame di vendetta,

ed ora me ne sazio a contemplarla

messa in atto. Il tuo Edoardo è morto,

che uccise il mio Edoardo; l’altro Edoardo,

morto per ripagare il mio Edoardo;

il giovinetto York è solo un peso

aggiunto alla bilancia

a compensare il più alto valore

da me perduto. Il tuo Clarenza è morto,

che uccise il mio Edoardo, pugnalandolo;

e tutti che di quel folle spettacolo

furono spettatori: Vaughan, Grey,

Rivers e quell’adultero di Hastings,([111])

tutti precocemente soffocati

nelle lor tombe. Ancor vivo è Riccardo,

tenebroso sensale dell’inferno,

risparmiato per fare incetta d’anime

e spedirle laggiù; ma la sua fine

seguirà molto presto, lacrimosa

e illacrimata. Si squarci la terra,

vada a fuoco l’inferno, urlino i diavoli,

preghino i santi affinché quel demonio

sia trascinato via di qui al più presto!

Annulla, Dio, ti prego, quanto prima

il buono di sua vita,([112])

perch’io possa esclamare, ancora viva,

“È morto quel cagnaccio!”

ELISABETTA -

Ohimè, tu ben me lo preconizzasti

che sarebbe venuto per me il giorno

in cui t’avrei chiamata a unirti a me

nel maledire insieme questo ragno,

questo immondo cagnaccio tumefatto,

questo gibboso, ributtante rospo!

MARGHERITA -

Io ti chiamai allora vuota immagine

della grandezza mia; misera ombra,

io ti chiamai, regina dipinta,

brutta copia di quel ch’io ero stata;

prologo lusinghiero

d’uno spettacolo terrificante;

issata in alto per cader più in basso;

madre da burla di due bei bambini;

rutilante vessillo, destinato

a bersaglio d’ogni esiziale colpo;

simulacro regale, fiato, bolla;

regina da burletta, destinata

solo a riempitivo della scena.

Dov’è più tuo marito?

Dove i fratelli tuoi, i tuoi due figli?

Che ti rimane più di cui gioire?

Chi più s’inchina supplice ai tuoi piedi

esclamando: “Dio salvi la regina”?

Dove son più gli inchini adulatori

dei Pari; dove son le moltitudini

che s’accalcavano a farti seguito?

Ripensa a tutto questo

e poi rifletti a quel che sei ridotta:

da una moglie felice

a una vedova affranta dal dolore;

da una madre beata d’esser madre

ad una che ne maledice il nome;

da una adusa a ricevere suppliche

ad una che ora supplica umilmente;

da regina ad autentico relitto,

coronato di triboli e d’affanni;

da una che di me si fece scherno

ad una ch’è schernita ora da me;

da una ch’era temuta da tutti

ed ora vive temendo uno solo;

da una adusa a comandare a tutti,

ad una da nessuno più obbedita.

Così ha virato il corso la Giustizia

e t’ha ridotto a una misera spoglia

preda del tempo, senza più con te

che il ricordo di quello che sei stata,

per tuo maggior tormento,

ora che sei ridotta a quel che sei.

Usurpasti il mio posto,

ed è giusto che usurpi ora una parte

della mia afflizione;

ed è giusto che il tuo collo orgoglioso

ora sopporti per metà con me

il mio pesante giogo, mentre io

ne ritiro da sotto il capo stanco

per lasciarne sul tuo l’intero peso.

Addio, moglie di York,

e regina di triste malasorte!

Sorriderò, una volta giunta in Francia,

a ripensare alle sventure inglesi.

ELISABETTA -

Ah, tu, maestra di maledizioni,

rimani un poco e dimmi come fare,

ti prego, a maledire i miei nemici.

MARGHERITA -

Imponiti di rinunciare al sonno

la notte, e al cibo il giorno;

confronta la felicità tua morta

col tuo dolore vivo;

pensa ai tuoi bimbi come a due creature

più tenere di quello che son state,

e a chi li uccise come a un assassino

più nefando di quanto egli già sia:

col pensare migliore la tua perdita,

tanto peggiore penserai l’ autore.

Tutto questo rimuginando in mente,

avrai imparato come maledire.

ELISABETTA -

Ma le parole mie son molli e fievoli;

rendimele più forti con le tue.

MARGHERITA -

Saranno sufficienti le tue pene

a renderle taglienti e penetranti.

(Esce)

DUCHESSA -

Perché poi la sventura

dev’esser così piena di parole?

ELISABETTA -

Avvocati ventosi degli affanni

dei lor clienti, ariosi legatari

di gioie non iscritte in testamenti,

ansimanti oratori di miserie,

le parole: lasciatele sfogare;

anche se ciò che vanno perorando

non serve ad altro, può servire almeno

ad alleviare il cuore.

DUCHESSA -

Se è così,

non tener dunque la lingua legata;

vieni con me, e insieme soffochiamo

col soffio di amarissime parole

quello stramaledetto figlio mio

che ha soffocato i dolci tuoi bambini.

(Tromba all’interno)

È lui. Non lesinargli le invettive.

Entrano RE RICCARDO, CATESBY, altri, marciando, con vessilli e tamburi. Le due donne gli si fanno incontro.

RICCARDO -

Chiintercetta la strada alla mia marcia?

DUCHESSA -

Chi, sciagurato? Oh, guardami: colei

che avrebbe ben potuto intercettarti,

strozzandoti nel suo dannato grembo,

dal consumare tutti gli assassinii

di cui ti sei macchiato!

ELISABETTA -

Credi tu forse di poter nascondere

con la corona d’oro quella fronte

su cui, se la giustizia fosse giusta,

dovrebb’essere impresso l’assassinio

di chi quella corona possedeva

da sovrano, e la morte scellerata

dei miei figli e fratelli?

DUCHESSA -

Rospo Rospo!

Dov’è Giorgio Clarenza, tuo fratello?

Dove sono i suoi figli? Su, rispondi!

ELISABETTA -

E dove sono Rivers, Vaughan, Grey?

DUCHESSA -

Ed il nobile Hastings!… Dov’è Hastings?

RICCARDO -

Squillate, trombe! Rullate tamburi,

sì che i cieli non abbiano ad udire

queste ciarliere femmine

urlare insulti all’Unto del Signore!

Suonate, ho detto. Avanti, che aspettate?

(Squilli di tromba e rullìo di tamburi)

Ora voi state calme,

e mi trattate come si conviene,

o annegherò le vostre imprecazioni

sotto più sordi clamori di guerra.

DUCHESSA -

Sei tu mio figlio?

RICCARDO -

Che domanda, madre!

E ne ringrazio Dio, mio padre e voi.

DUCHESSA -

Allora devi ascoltar con pazienza

ciò che ti dice qui la mia impazienza.

RICCARDO -

Signora, ho tratto da voi questo vizio:

che non sopporto accento di rimprovero.

DUCHESSA -

Oh, lasciami parlare.

RICCARDO -

Parlate pure, ma io non vi ascolto.

DUCHESSA -

Dirò parole miti e misurate.

RICCARDO -

E brevi, buona madre, perché ho fretta.

DUCHESSA -

Hai proprio tanta fretta?…

Io t’ho aspettato Dio sa quanto tempo,

in tormento ed angoscia.

RICCARDO -

Ed alla fine,

non son venuto a recarvi conforto?

DUCHESSA -

No, per la Croce Santa, e lo sai bene!

Tu sei venuto al mondo

per far di questo mondo il mio inferno.

Grave e dura per me fu la tua nascita;

iraconda e proterva la tua infanzia;

terribili, selvaggi, furibondi

i tuoi anni di scuola; scapestrata

la prima giovinezza: insidiosa,

scaltrita, sanguinaria, burbanzesca;

più tranquilla, ma solo in apparenza,

perché ammantata d’odio sorridente

e perciò stesso ancora più nefasta,

la tua età matura.

Puoi menzionare un’ora di sollievo

che m’abbia dato la tua compagnia?

RICCARDO -

Nessuna, no, salvo quell’ora d’Humphrey,

che vi chiamò a rompere il digiuno

senza la mia presenza.([113])

Ma se son così in odio agli occhi vostri,

fatemi proseguire la mia marcia

senza attardarmi qui ad irritarvi.

Tamburi!

DUCHESSA -

Aspetta, no, fammi finire!

RICCARDO -

Parlate troppo amaro.

DUCHESSA -

Una parola…

l’ultima. Non ce ne diremo più.

RICCARDO -

E sia, parlate.

DUCHESSA -

O sarai tu a morire

per giusto e santo decreto di Dio

prima di ritornare vittorioso

da questa spedizione; o sarò io,

carica d’anni e di tribolazioni,

a non poter veder più la tua faccia.

Voglio perciò che tu ti porti dietro

la più pesante mia maledizione,

sì ch’essa possa il dì della battaglia

gravarti addosso più dell’armatura.

Le mie preghiere scenderanno in campo

a combattere a fianco ai tuoi nemici,

e l’anime dei piccoli d’Edoardo

aliteranno là, a sussurrare

promesse di successo e di vittoria

ai tuoi nemici. Sanguinario sei,

e sanguinosa sarà la tua fine.

L’infamia che ti fu ministra in vita

ti sarà pur compagna nella morte.

(Esce)

ELISABETTA -

Ed io, per ben più valide ragioni,

se pur con meno forza e veemenza,

dico “Amen” alla sua maledizione.

(Fa per andarsene, ma Riccardo la ferma)

RICCARDO -

Fermatevi, signora,

debbo parlarvi.

ELISABETTA -

Parlarmi di che?

Non ho più figli di sangue reale

che tu possa scannare; e le mie figlie,

Riccardo, si faran monache oranti,

non regine piangenti;

non mirare perciò alle lor vite.([114])

RICCARDO -

Voi avete una figlia, Elisabetta,

virtuosa e bella, regale e graziosa.

ELISABETTA -

E deve ella morir per questo? Ah no,

lasciatemela vivere, Riccardo;

ed io corromperò i suoi costumi,

imbratterò la sua verde bellezza,

getterò su me stessa la calunnia

d’aver tradito il letto di Edoardo,

la coprirò col velo dell’infamia;

e dirò in giro, purché possa vivere

in salvo dal cruento tuo pugnale,

che essa non è figlia di Edoardo.

RICCARDO -

Non fare tale offesa ai suoi natali:

è principessa di sangue reale.

ELISABETTA -

Ed io dirò, per salvarle la vita,

che non lo è.

RICCARDO -

Ma sono i suoi natali

la miglior garanzia della sua vita.

ELISABETTA -

Sì, quella stessa per cui sono morti

i suoi fratelli.

RICCARDO -

Quelli ebbero avverse

alla lor nascita infauste stelle.

ELISABETTA -

No, ebbero avverse alle lor vite

infami parentele.

RICCARDO -

Il volere del fato è ineluttabile.

ELISABETTA -

Sì, quando a fare il volere del fato

è il ripudio della divina grazia.

A ben più degna morte

erano destinati i miei bambini,

se la Grazia t’avesse benedetto

con l’elargire a te più degna vita.

RICCARDO -

Parli come se fossi stato io

a uccidere i nipoti.

ELISABETTA -

Sì, nipoti!([115])

E dallo zio di tutto rapinati:

regno, famiglia, libertà e vita.

Di chiunque sia stata quella mano

che ha trafitto quei cuori di fanciulli,

fu la tua mente a guidarla in segreto;

ché senza dubbio il pugnale omicida

si fece prima la punta ed il filo

sopra la pietra dura del tuo cuore

per essere affondato nelle viscere

dei miei due agnellini.([116])

Se la continua morsa del dolore

non ne ammansisse il selvaggio furore,

questa mia lingua non saprebbe fare

ora al tuo orecchio il nome dei miei figli

senza ch’io ancorassi le mie unghie

al cavo dei tuoi occhi,

e, simile ad un barco alla deriva

rimasto senza vele né cordame

in questa squallida baia di morte,

andassi a fracassarmi disperata

incontro alla scogliera del tuo petto.

RICCARDO -

Signora, possa io aver successo

in quest’impresa e nel rischioso esito

di questa sanguinosa spedizione,

com’è vero ch’è mia buona intenzione

ora di far del bene a voi e ai vostri

più del male che v’ho fatto in passato.

ELISABETTA -

Quale bene può esistere,

coperto sotto la faccia del cielo,

che, una volta scoperto,

si possa rivelare per me un bene?

RICCARDO -

L’elevazione della vostra prole,

nobile dama.

ELISABETTA -

Sì, sopra un patibolo,

per perdervi la testa!

RICCARDO -

No, all’altezza

di dignità regale e di fortuna,

ai fastigi imperiali della gloria

su questa terra.

ELISABETTA -

Con questo tuo dire

tu vuoi sol lusingare il mio dolore.

Ma quale stato, quale dignità,

quale onore, puoi trasferire tu

ad uno dei miei figli?

RICCARDO -

Tutto ciò che posseggo… sì, me stesso

e tutto io mi sento di donare

ad uno dei tuoi figli

sì che tu possa in tal modo annegare

nel Lete del tuo animo adirato([117])

la triste rimembranza delle offese

che supponi che io t’abbia arrecato.

ELISABETTA -

Di’ presto, allora, avanti;

che codesto tuo sprazzo di bontà

non abbia a durar meno

dell’attimo che impieghi a dargli voce.

RICCARDO -

Ebbene sappi ch’io amo tua figlia

con tutta l’anima.

ELISABETTA -

E con tutta l’anima

la madre di mia figlia è pronta a crederlo.

RICCARDO -

Che vuoi dire?

ELISABETTA -

Che tu ami mia figlia

con tutta l’anima, come hai amato

con tutta l’anima i suoi fratelli,

ed io con tutta l’anima

ti ringrazio.

RICCARDO -

Non affrettarti troppo

a prender per traverso le parole;

intendo dire questo:

amo con tutta l’anima tua figlia

Elisabetta, e intendo far di lei

la regina del regno d’Inghilterra.

ELISABETTA -

Bene, e chi intendi che sarà il suo re?

RICCARDO -

Lo stesso che l’avrà fatta regina.

Chi altri dovrebbe essere?

ELISABETTA -

Che! Tu?

RICCARDO -

Precisamente. Perché, che ne pensi?

ELISABETTA -

E in che modo vorresti corteggiarla?

RICCARDO -

È quello che vorrei saper da te

come da quella che meglio di tutti

conosce il suo carattere.

ELISABETTA -

Da me?…

RICCARDO -

Da te, signora, sì, con tutto il cuore.

ELISABETTA -

Mandale allora, per lo stesso uomo

che le ha trucidato i due fratelli

una coppia di cuori insanguinati

con sopra incisi i nomi “Edoardo” e “York”.

E poiché forse lei scoppierà in lagrime,

mandale un fazzoletto - come quello

che mandò a suo padre Margherita

tutto intriso del sangue del suo Rutland -

e dille che è lo stesso fazzoletto

che è servito per asciugare il sangue

sul capo del suo dolce fratellino,

e invitala a servirsene anche lei

per tergersi le lacrime dal viso.

Se tutti questi stimoli amorosi

non riusciranno a farla innamorare,

falle avere un bel resoconto scritto

di tutte le tue meritorie gesta:

narrale, per esempio, come hai fatto

a sbarazzarti di suo zio Clarenza,

di suo zio Rivers… sì, e a liquidare

per amor suo la cara zia Anna.

RICCARDO -

Ti fai gioco di me, signora; questa

non è la via per conquistar tua figlia.

ELISABETTA -

Un’altra non ce n’è; salvo che tu

non possa reincarnarti in altra forma,

sì da non essere più quel Riccardo

autore di quel cumulo di crimini.

RICCARDO -

Diciamo che l’ho fatto, tutto questo,

per amore di lei.

ELISABETTA -

Peggio che mai!

Ché allora non potrebbe altro che odiarti

per aver tu sprecato tanto sangue

per comprarti il suo cuore.

RICCARDO -

Insomma, senti:

quello che è fatto è fatto, e capo ha.

Talvolta gli uomini maldestramente

compiono cose delle quali, in seguito,

hanno agio di pentirsi e ravvedersi.

Se ho sottratto il regno ai tuoi figlioli,

lo renderò, come ammenda, a tua figlia;

se ho depredato i frutti del tuo grembo,

genererò in compenso, da tua figlia,

per dare vita alla tua discendenza,

creature del tuo sangue.

Nonna è nome, per peso d’affezione,

non inferiore al titolo adorante

di madre; e saran come figli tuoi,

solo un grado più giù, ma stesso sangue,

stessa tempra del vostro,

tutti usciti da un unico travaglio,

eccettuata la notte di doglie

ch’ella dovrà soffrire a partorirli,

e che tu stessa soffristi per lei.

Se i figli tuoi sono stati il tormento

della tua giovinezza, quelli miei

saranno il gaudio della tua vecchiaia.

Se la tua perdita non è che un figlio

votato ad esser re, per quella perdita

una tua figlia si farà regina.

Non posso offrirti la riparazione

che pure avrei voluto; accetta dunque

i benefici che può offrirti questa.

Tuo figlio Dorset che, col cuore in pena,

calca con passo inquieto estranio suolo,

potrà, per questa fausta nostra unione,

tornare in patria ed anche ricoprirvi

cariche alte e di grande prestigio.

Il re che chiama col nome di moglie

la tua leggiadra figlia,

chiamerà con il nome di fratello

il tuo Dorsét; e tu sarai pur sempre

la madre d’un sovrano d’Inghilterra,

e ti saranno tutte restaurate,

da questa doppia ondata di letizia,

le rovine dei giorni procellosi.

Oh, ci sorridono giorni felici.

Le lacrime versate

ti torneran mutate in vive perle,

e il loro prestito ti frutterà

un interesse di felicità

dieci volte maggiore al loro pregio.

Va’, dunque, madre mia, va’ da tua figlia,

e fa’ più ardite con la tua esperienza

le ritrosie della sua scarsa età;

preparale il verginale orecchio

ad ascoltar parole innamorate,

accendi nel suo cuore di fanciulla

l’ambiziosa scintilla

della dorata maestà regale;

rendi la principessa consapevole

della dolcezza delle silenziose

ore di gioia tra marito e moglie.

E quando questo braccio

avrà dato il castigo che si merita

al piccolo ribelle testadura

Buckingham, tornerò;

e cinto di ghirlande trionfali

io guiderò tua figlia Elisabetta

al talamo di un conquistatore,

le farò dono delle mie conquiste,

e sarà lei la sola vincitrice

di questa guerra, il Cesare di Cesare.

ELISABETTA -

Come pensi sia meglio presentargliela?

Col dirle che il fratello di suo padre

aspira a diventare suo marito?

O dovrò dir suo zio?

Oppure l’uomo che le ha trucidato

i fratelli e gli zii? Sotto qual titolo

dovrò parlarle d’amore per te,

per fare in modo che Dio, e la legge,

e la mia dignità, ed il suo amore

ti facciano apparire bene accetto

ai suoi giovani anni?

RICCARDO -

Dille la pace che con questa unione

potrà godere la bella Inghilterra.

ELISABETTA -

Una pace che ella pagherà

al prezzo di una guerra permanente.

RICCARDO -

Dille che il re, che può ordinare, supplica.

ELISABETTA -

Per ottener da lei

cosa che a lei proibisce il Re dei re.

RICCARDO -

Dille ch’ella sarà una regina

alta e potente.

ELISABETTA -

Per versare lacrime,

come sua madre, sopra questo titolo.

RICCARDO -

Dille che l’amo d’un amore eterno.

ELISABETTA -

Ma quanto durerà quel tuo “eterno”?

RICCARDO -

Dolcemente costante

sino al fine della sua bella vita.

ELISABETTA -

Ma quanto a lungo “bella”

potrà durare la sua dolce vita?

RICCARDO -

Quanto a lungo vorran farla durare

il volere del cielo e la natura.

ELISABETTA -

Quanto a lungo sarà di gradimento

all’inferno e a Riccardo.

RICCARDO -

Dille ch’io, suo sovrano,

son suo umile suddito.

ELISABETTA -

Ma lei,

tua suddita, di tal sovranità

ha repugnanza.

RICCARDO -

Dille insomma

con le parole più belle e eloquenti

l’amore mio per lei.

ELISABETTA -

L’amore onesto

non ha bisogno di belle parole

per dichiararsi più efficacemente.

RICCARDO -

Diglielo allora con parole semplici.

ELISABETTA -

Semplice e disonesto

non s’accordano a fare un bel discorso.

RICCARDO -

Son troppo pronte e troppo terra-terra

le tue ragioni.

ELISABETTA -

Ahimè, le mie “ragioni”

sono fin troppo sprofondate in terra,

e morte, povere le mie creature!([118])

RICCARDO -

Non arpeggiare sulla stessa corda,

signora, queste son cose passate.

ELISABETTA -

Seguiterò a toccar la stessa corda,

fino a farmi spezzar quella del cuore.

RICCARDO -

Ma io ti giuro sopra il mio San Giorgio,

sulla mia Giarrettiera,([119])

la mia corona…

ELISABETTA -

Bestemmiato il primo,

macchiata di disdoro la seconda,

usurpata la terza…

RICCARDO -

… giuro…

ELISABETTA -

No!

Giurare tu non puoi su questi tre!

Il tuo San Giorgio, da te profanato,

ha perduto la sua sacralità;

la Giarrettiera, insozzata, ha impegnato

tutta la sua virtù cavalleresca;

la corona, usurpata,

ha infamato il regale suo fulgore.

Se per esser creduto vuoi giurare

su qualche cosa, giura su qualcosa

che tu non hai offeso.

RICCARDO -

Sul mondo, allora…

ELISABETTA -

Il mondo

è pieno degli infami tuoi delitti.

RICCARDO -

Allora sulla morte di mio padre.

ELISABETTA -

Con la tua vita l’hai disonorata.

RICCARDO -

Allora, su me stesso…

ELISABETTA -

Quel te stesso

s’è svilito finora da se stesso.

RICCARDO -

Bene, allora su Dio!

ELISABETTA -

Ohibò! A Lui

tu hai recato le offese più gravi.

Se tu avessi temuto di violare

un giuramento fatto nel Suo nome,

non avresti spezzato, come hai fatto,

la concordia raggiunta in questo regno

dai buoni uffici del re mio marito,

né sarebbero morti i miei fratelli.

Se tu avessi temuto

di venir meno a un voto fatto a Lui,

quell’imperial metallo

onde si cinge adesso la tua testa,

avrebbe ornato le tenere tempie

di mio figlio e sarebbero ancor vivi

e respiranti i due piccoli principi

- ahi troppo dolci compagni di letto

per giacersi abbracciati nella polvere! -

che il giuramento a Dio da te spezzato

ha dato in pasto ai vermi.

Allora, su che cosa puoi giurare?

RICCARDO -

Sull’avvenire.

ELISABETTA -

L’hai discreditato

col tuo passato, per il quale io stessa

dovrò tergermi ancora molte lacrime.

I figli ai quali hai trucidato i padri,

giovani e privi ormai di quel sostegno,

vivono sol per piangerli in vecchiaia;

i padri ai quali hai trucidato i figli,

vivono, sterili piante invecchiate,

sol per piangerli nella lor vecchiaia.

Non giurare sul tempo che verrà:

l’hai male usato già prima d’usarlo

per il mal uso fatto del trascorso.

RICCARDO -

Potessi avere in pugno la vittoria

contro l’armi nemiche,

nell’impresa rischiosa cui m’appresto,

com’è vero che ho l’animo disposto

a prosperar nel mio ravvedimento!

Mi maledico da me. Dio, fortuna,

interditemi ogni futura gioia!

Giorno, più non largirmi la tua luce,

né il tuo riposo, notte! E voi, pianeti

che presiedete alla buona fortuna,

siate avversi ai miei piani in quest’impresa,

se non è vero che con cuore pieno

di pura e immacolata devozione

io adoro tua figlia Elisabetta!

In lei siede la mia felicità

non meno che la tua: senza di lei,

per me, per te, per lei, per il paese

e per molte altre anime cristiane

sarà tristezza, consunzione, morte.

E tutto ciò non si potrà evitare

se non con questo. Perciò, cara madre

- così debbo chiamarti - sii con lei

una buona avvocata in mio favore,

e descrivimi a lei come sarò,

non come sono stato fino ad oggi;

non parlare dei meriti passati

ma dei futuri miei; insisti, insomma,

sulla necessità di queste nozze

e sulla situazione del momento,

non farti prender dal risentimento

davanti a sì fulgenti prospettive.

ELISABETTA -

Mi lascerò tentare dal demonio

fino a tal punto?

RICCARDO -

Sì, se quel demonio

ti tenta a fin di bene.

ELISABETTA -

Dovrò dimenticar dunque me stessa?

RICCARDO -

Sì, se il ricordo te ne porta danno.

ELISABETTA -

Hai ucciso i miei figli.

RICCARDO -

Ma sepolti

io li farò nel grembo di tua figlia,

e in quel nido di aromi profumato

a tuo grande conforto,

essi potran riprodurre se stessi.

ELISABETTA -

Dovrò io dunque andare da mia figlia

e persuaderla alla tua volontà?

RICCARDO -

A diventare una madre felice.

ELISABETTA -

Ci andrò. Scrivimi presto,

e ti farò sapere il suo pensiero.

RICCARDO -

Portale intanto, a pegno del mio amore,

questo bacio.

(La bacia)

Va’ dunque. Arrivederci.

(Esce Elisabetta)

S’è arresa. Femmina vuota e volubile!…

Entra RATCLIFF

Che notizie?

RATCLIFF -

Sovrano potentissimo,

al largo della costa, ad occidente,

ha messo l’ancora una grossa flotta.

Sulla spiaggia s’accalca una gran folla

di nostri, disarmati, malsicuri,

e, a quanto sembra, non molto decisi

a battersi e respingere il nemico.

Si pensa che sia Richmond l’ammiraglio

di quella flotta; e sono lì alla fonda

in attesa che arrivino da terra,

da Buckingham, gli aiuti per sbarcare.

RICCARDO -

Corra alcuno di voi, di buona gamba,

dal Duca di Norfolk… tu stesso, Ratcliff…

o Catesby… dov’è?

CATESBY -

Qui, monsignore.

Riccardo -

Catesby, vola tu dal Duca.

CATESBY -

Subito,

più celere che posso, monsignore.

Riccardo -

Vieni qui, Ratcliff, senti: corri a Salisbury.

Quando sei lì…

(A Catesby)

E tu che fai, che aspetti,

furfante pappamolla? Va’ dal Duca!

CATESBY -

Se non mi dite quel che devo dirgli,

vostra grazia…

RICCARDO -

Oh, è vero, caro Catesby!

Digli che arruoli a tamburo battente

il più grande e robusto nerbo d’uomini

che riesce a raccogliere, e poi subito

mi venga incontro a Salisbury.

CATESBY -

Vado.

(Esce)

RATCLIFF -

Che devo fare a Salisbury io,

vostra grazia?

RICCARDO -

Perché, che ci vuoi fare,

prima che arrivi là io?

RATCLIFF -

Non lo so.

Vostra altezza m’ha detto poco fa

di precederla là.

RICCARDO -

Ho cambiato idea.

Entra STANLEY

Stanley, quali notizie?

STANLEY -

Nessuna tanto buona, mio signore,

che possiate ascoltare con piacere;

nessuna, tuttavia, tanto cattiva

da non potersi proprio riferire.

RICCARDO -

Ehilà, un indovinello!…

Né buone, né cattive… C’è bisogno

però che tu ci giri tanto intorno,

quando puoi dire in modo più diretto

quello che devi? Insomma, che notizie?

STANLEY -

Richmond è sul mare.

RICCARDO -

Che ci affondi,

e il mare si richiuda su di lui!

Che ci fa là, quel vile rinnegato?

STANLEY -

Non so, ma posso ben indovinarlo,

mio possente sovrano.

RICCARDO -

E che indovini?

STANLEY -

Istigato da Dorset, Morton, Buckingham,

egli dirige sopra l’Inghilterra

per reclamarvi il trono.

RICCARDO -

E perché mai?

È forse vuoto il trono?

La spada non ha mano che l’impugni?

Il re è morto? L’impero è vacante?

Quale erede di York è ancora vivo,

all’infuori di me?

E chi ha diritto al trono d’Inghilterra

se non l’erede dell’augusto York?

E allora, che ci fa costui sul mare,

me lo sai dire?

STANLEY -

Non so dirvi altro,

mio signore, che quello che v’ho detto.

RICCARDO -

Sicché tu, all’infuori di pensare

ch’egli venga per essere tuo re,

non sai indovinare altro motivo

perché venga il Gallese.

Ho paura che tu stai meditando

di voltare gabbana,

e volare da lui.

STANLEY -

No, mio sovrano;

non pensate così male di me.

RICCARDO -

Allora dove sono le tue truppe

per ricacciarlo indietro? Dove sono

i tuoi fittavoli e i tuoi seguaci?

Non saranno per caso sulla spiaggia

a ponente a proteggere lo sbarco

di quei ribelli?

STANLEY -

No, mio buon signore,

i miei uomini sono tutti al nord.

RICCARDO -

Tiepidi amici! Che ci fanno al nord,

se il re ha bisogno di loro a ponente?

STANLEY -

Non ne hanno ricevuto nessun ordine,

mio possente sovrano.

Piaccia a vostra maestà di congedarmi,

ed io andrò a raccogliere i miei uomini,

e vi raggiungerò con essi, vostra grazia,

dove e quando vorrà vostra maestà.

RICCARDO -

Eh, già, tu ti vorresti allontanare

per unirti con Richmond. Non mi fido.

STANLEY -

Sovrano potentissimo,

non ci può essere alcun motivo

che voi siate portato a dubitare

della mia amicizia. Traditore

non sono stato mai, né mai sarò.

RICCARDO -

E allora va’, e raduna i tuoi uomini;

ma lascia qui con me tuo figlio Giorgio.

E bada a tener salda la tua fede,

o si farà precaria la saldezza

della sua testa.

STANLEY -

Vogliate trattarlo

così com’io saprò provare a voi

tutta la mia lealtà.

(Esce)

Entra un PRIMO MESSO

PRIMO MESSO -

Mio grazioso sovrano, nel Devonshire,

come m’hanno informato degli amici,

Sir Edward Courtney con suo fratello,

il tracotante vescovo di Exeter,

sono in armi, e con loro un grande numero

di lor confederati.

Entra un SECONDO MESSO

SECONDO MESSO -

Mio sovrano,

nel Kent i Guilford sono ora in armi,

e d’ora in ora convengono a gara

molti e molti altri a fianco dei ribelli,

ingrossando vieppiù le loro file.

Entra un TERZO MESSO

TERZO MESSO -

Sire, l’esercito del grande Buckingham…

RICCARDO -

Al diavolo, uccellacci di sventura!

che! venite a cantar solo di morte?

(Lo percuote)

Toh, prendi questo tu,

finché non porti migliori notizie!

TERZO MESSO -

Ma la notizia per cui son venuto

da vostra maestà, sire, era questa:

che improvvisi diluvi e inondazioni

hanno tutto disperso e sparpagliato

l’esercito di Buckingham,

e che lui se ne va solo e ramingo,

dove diretto, nessuno lo sa.

RICCARDO -

Scusami, allora. Prendi questa borsa,

per sollevarti dalle mie percosse.

E dimmi: qualche amico preveggente

ha proclamato una buona mercede

a chi catturerà quel traditore?

TERZO MESSO -

La promessa, signore, fu bandita

per pubblico proclama.

Entra un QUARTO MESSO

QUARTO MESSO -

Corre voce, maestà,

che il marchese di Dorset e lord Lovell

siano in armi nella contea di York;

ma reco a vostra altezza questo annuncio

che la conforterà: la flotta bretone

dispersa in mare dalla gran tempesta;

Richmond, al largo della costa Dorset,

ha fatto andare a terra una scialuppa

a chiedere alla gente ch’era a riva

se fossero dalla sua parte o no;

e quelli gli han risposto ch’eran là

mandati da lord Buckingham

appunto per proteggere il suo sbarco.

Ma Richmond, non fidandosi di loro,

ha levato le vele e nuovamente

ha fatto rotta verso la Bretagna.

RICCARDO -

In marcia, in marcia; giacché siamo in armi,

se non per affrontar nemici esterni,

almeno per schiacciar questi ribelli

di casa nostra. Avanti!

Entra CATESBY

CATESBY -

Mio sovrano, lord Buckingham è preso;

questo è quanto di meglio posso dirvi.

Ma il Conte Richmond è sbarcato a Milford

con un potente esercito:

è una notizia meno confortante,

ve la dovevo dare tuttavia.

RICCARDO -

Avanti, avanti, in marcia sopra Salisbury!

Mentre qui discutiamo, una battaglia

che vale un regno potrebb’esser vinta

oppure persa! S’occupi qualcuno

di far tradurre Buckingham a Salisbury

prigione; gli altri in marcia insieme a me!

(Tromba. Escono tutti)

SCENA V - Londra, in casa di Lord Stanley.

Entrano STANLEY e don([120]) Cristoforo URSWICK

STANLEY -

Don Cristoforo, dirai questo a Richmond,

da parte mia: che Giorgio, il mio figliolo,

è tenuto all’ingrasso nel porcile

di quel temibilissimo cinghiale;([121])

se a lui mi rivoltassi apertamente,([122])

la testa di mio figlio salterebbe;

che la paura di ciò mi trattiene

dal fargli avere subito il mio aiuto.

Parti, e salutami il tuo signore.

Informalo altresì che la regina

ha consentito molto di buon cuore

ch’egli sposi sua figlia Elisabetta.

Ma, dimmi, dov’è ora acquartierato

il nobilissimo Richmond?

urswick -

A Pembroke,

o forse anche ad Hardforest, nel Galles.([123])

STANLEY -

Chi c’è con lui, di nobili?

urswick -

Sir Walter Herbert, famoso soldato,

Sir Gibert Talbot e sir William Stanley,

Oxford, il temutissimo lord Pembroke,

e poi Sir James Blunt e Rice ap Thomas,([124])

con tutto un seguito di valorosi

e molti altri di nome e gran valore.

Puntano con gli eserciti su Londra,

salvo che non si trovino impegnati

a dar battaglia prima.

STANLEY -

Bene, va’,

affrettati a tornar dal suo signore.

Io gli bacio la mano. Questa lettera

gli chiarirà le mie intenzioni. Addio.

(Escono)


ATTO QUINTO

SCENA I - Salisbury, una piazza.

Entra lo SCERIFFO con alabardieri, che scortano BUCKINGHAM al supplizio

BUCKINGHAM -

Non mi vuole ascoltare re Riccardo?

SCERIFFO -

No, signore; dovete rassegnarvi.

BUCKINGHAM -

O William Hastings, o figli d’Edoardo,

o Grey, o Rivers, o santo re Enrico

e il tuo diletto figlio Edoardo, o Vaughan,

e tutti voi che perdeste la vita,

per occulta e nefanda iniquità,

se le vostre anime crucciate e inquiete

vedon di tra le nuvole quest’ora,

fatevi scherno della mia rovina,

non foss’altro che per vostra vendetta!

Oggi è il giorno dei Morti, amico, è vero?

SCERIFFO -

Sì.

BUCKINGHAM -

Ecco, allora, ci siamo: il dì dei Morti

è il giorno del Giudizio del mio corpo;

è il giorno ch’io, vivente re Edoardo,

m’augurai che segnasse la mia fine

se mai avessi tradito i suoi figli

ed i parenti della sua regina;

è il giorno ch’io m’augurai di morire

vittima della falsa lealtà

dell’amico di cui più mi fidassi.

Questo giorno dei Morti, proprio questo,

è, per la spaurita anima mia,

il termine assegnato ai miei delitti.

Quell’altissimo Iddio che tutto vede,

e col quale ho creduto di scherzare,

ecco che ora ritorce sul mio capo

le mie false ed ipocrite preghiere,

e mi dà seriamente

quello ch’io spesso Gli ho chiesto per burla.

Così Egli alle spade degli infami

ordina di ritorcere la punta

contro il petto di quelli che le impugnano;

così cade pesante sul mio collo

l’amara profezia di Margherita:

“Quand’egli - mi predisse quella volta -

t’avrà spezzato il cuore dal dolore,

tu ti ricorderai di Margherita,

che te l’ha profetato!”… Andiamo, guardie,

conducetemi al ceppo dell’infamia.

Al male tocca il male,

all’ignominia tocca l’ignominia.

(Esce con gli alabardieri)

SCENA II - Il campo presso Tamworth([125])

Entrano RICHMOND, OXFORD, BLOUNT, HERBERT,

e soldati, con tamburi e vessilli

RICHMOND -

Commilitoni, amici fedelissimi

oppressi sotto il giogo del tiranno:

fin qui ci siamo spinti molto avanti

nelle viscere stesse del paese,

senza incontrare ostacoli di sorta;

e qui ricevo da mio padre Stanley,([126])

un messaggio con valida promessa

di sostegno e d’incoraggiamento.

Lo scellerato, sanguinario verro

usurpatore, che ha messo in rovina

i vostri campi opimi di raccolti

e le vigne ubertose, ora trangugia

come brodaglia il vostro sangue caldo

e fa dei vostri petti dilaniati

il suo trogolo. Questo immondo verro

ora si trova al centro di quest’isola,

come m’informano, davanti a Leicester,([127])

a un giorno appena di marcia da qui.

Miei prodi amici, nel nome di Dio,

avanti, con fiduciosa baldanza,

a raccoglier le messe d’una pace

che duri eterna, attraverso la prova

di questa cruda e sanguinosa guerra.

Di mille spade è fatta la coscienza

di ciascuno di quanti siamo qui

contro questo colpevole assassino.

HERBERT -

E passeranno a noi, sono sicuro,

tutti che sono adesso suoi alleati.

BLOUNT -

Altro alleato non gli resta infatti

se non che chi lo è solo per paura

e che nell’ora estrema del bisogno

gli volterà le spalle.

RICHMOND -

Tutto a nostro vantaggio; e allora, in marcia!

Speranza che procede da virtù

rapida vola con ali di rondine;

d’un re fa un dio, e d’un umile un re.

(Escono)

SCENA III - Il campo di Boswort

Entrano RE RICCARDO, in armi, il DUCA DI NORFOLK,

il CONTE DI SURREY e altri

RICCARDO -

La nostra tenda piantatela qui,

qui, sul campo di Bosworth…

Monsignore di Surrey,

perché avete quell’aria così grave?

SURREY -

Ho il cuore cento volte più leggero

della mia aria, sire.

RICCARDO -

Dov’è Norfolk?

NORFOLK -

Sono qui, vostra grazia.

RICCARDO -

Norfolk, domani ci sarà da dare

gran botte, eh, non è vero?

NORFOLK -

Darne, e pigliarne, amato mio signore.

RICCARDO -

Che aspettate ad issare la mia tenda?

Questa notte voglio dormire qui…

Domani chissà dove… Ma che importa…

(La tenda è rizzata su un lato della scena)

Chi ha potuto contare

il numero di questi traditori?

NORFOLK -

Un sei o settemila, non di più.

RICCARDO -

Il nostro esercito è tre volte tanto,

e in più di tanto c’è il nome d’un re,

un bastione che manca a quelli là.

Su la tenda!… Venite, gentiluomini,

andiamo a fare una ricognizione,

e studiare i vantaggi del terreno.

Fate venire con voi alcuni esperti

che sappian darci una stima sicura.

Badate a tener l’ordine nel campo

e a non sciupare il tempo, ché domani,

signori, ci sarà un bel daffare.

(Escono)

Entrano, dall’altra parte del campo, RICHMOND, sir William BRANDON, OXFORD, DORSET e altri, tra i quali James BLOUNT; soldati si mettono a montare la tenda di Richmond.

RICHMOND -

Un sole affaticato ci ha mostrato

un dorato tramonto,

e con la scia del suo fulgido carro

tutta luce, promette per domani

una gloriosa giornata. Voi, Brandon,

del mio stendardo sarete l’alfiere.

Portatemi da scrivere,

penna ed inchiostro sotto la mia tenda;

voglio tracciare il piano di battaglia

e la pianta del nostro schieramento,

assegnare ai diversi comandanti

i rispettivi compiti in dettaglio

e ripartir le scarse nostre forze

in giusta proporzione per ciascuno.

Voi, Oxford, William Brandon, Walter Herbert,

mi resterete a fianco; il Conte Pembroke

terrà la testa del suo reggimento…([128])

Sir James Blount, mio bravo generale,

portategli per me la buona notte,

e per le due di domani mattina

ditegli di venire alla mia tenda.

Devo pregarvi ancora d’un favore:

sapete dirmi dove sta accampato

il Conte Stanley con il suo esercito?

BLOUNT -

Se ho ben riconosciuto i suoi vessilli

- e son certo di sì - il suo reggimento

è accampato ad un mezzo miglio a sud

del poderoso esercito del re.

RICHMOND -

S’è possibile, senza rischiar troppo,

mio caro Blount, trovate voi un mezzo

per parlargli e per dargli da mia parte

questo messaggio: è di somma importanza.

BLOUNT -

A costo della vita, mio signore,

lo farò. Dio vi conceda questa notte

un tranquillo riposo.

RICHMOND -

Buona notte, buon capitano Blount.([129])

(Esce Blount)

Signori, ci dobbiamo consultare

per quanto c’è da fare per domani;

nella mia tenda, però, ché qui fuori

l’aria è cruda e pungente.

(Con Richmond si ritirano nella sua tenda Brandon, Oxford e Herbert. Gli altri si allontanano)

Entrano RE RICCARDO, RATCLIFF, NORFOLK e CATESBY

RICCARDO -

Catesby, che ora è?

CATESBY -

Le nove, monsignore: ora di cena.

RICCARDO -

Non cenerò stasera.

Portami carta e inchiostro nella tenda.

M’hanno allentato la celata all’elmo?

È pronta nella tenda l’armatura?

CATESBY -

Sì, mio sovrano, tutto pronto e in ordine.

RICCARDO -

Sarà bene, Norfolk, che tu t’affretti

al tuo posto; fa’ attenta vigilanza;

scegliti sentinelle ben fidate.

NORFOLK -

Bene, vado, signore.

RICCARDO -

E domattina, nobile signore,

àlzati con l’allodola.

NORFOLK -

Va bene;

potete star tranquillo, monsignore.

(Esce)

RICCARDO -

Catesby…

CATESBY -

Sì, signore?

RICCARDO -

Manda un messo di corsa da Lord Stanley,

a dir che venga qui con i suoi uomini;

ma presto, prima del levar del sole,

se non vuol far piombar suo figlio Giorgio

nell’antro buio della notte eterna.

(Esce Catesby)

(A Ratcliff)

Prendi una coppa, versami del vino.

E procurami un lume per la notte.

Per lo scontro campale di domani

fammi trovar sellato il bianco Surrey.

Bada che le mie lance sian robuste

e non troppo pesanti a maneggiare…

Ratcliff!

RATCLIFF -

Sì, mio signore?

RICCARDO -

Hai visto il malinconico Northumberland?

RATCLIFF -

L’ho visto mentre, col conte di Surrey,

verso l’ora che vanno a letto i polli,

rassegnava le schiere, una per una,

e andava incoraggiando i suoi soldati.

RICCARDO -

Bene, mi fa piacere…

Quella coppa di vino, per favore.

Non mi sento l’alacrità di spirito

e la gaiezza d’animo mia solita.

(Beve, poi porge la coppa vuota a Ratcliff)

Posala là. Son pronti inchiostro e carta?

RATCLIFF -

Son qui pronti, signore.

RICCARDO -

Di’ alla scolta

di fare buona guardia alla mia tenda.

Lasciami adesso. Intorno a mezzanotte

vieni di nuovo qui ad aiutarmi

a indossar l’armatura.

Va’ pure adesso; lasciami, t’ho detto.

(Esce Ratcliff. Riccardo si ritira nella tenda)

Entra STANLEY, e s’affaccia alla tenda di Richmond, che sta all’interno attorniato dai suoi ufficiali

STANLEY -

La Fortuna benigna e la Vittoria

si posino propizie sul tuo elmo!

RICHMOND -

E s’accompagni con la tua persona

ogni conforto che la buia notte

possa offrire, mio nobile patrigno!

Dimmi, che fa la nostra buona madre?

STANLEY -

Ella t’invia attraverso di me

la sua benedizione, e prega sempre

per il bene di Richmond. Ma ti basti

di sapere di ciò, veniamo a noi.

L’ora notturna scorre via furtiva

e già si va sfaldando dall’oriente

la tenebra squamosa. Eccoti quanto,

in breve, poiché l’ora ce lo ingiunge:

appena giorno, schiera le tue forze

e affida la tua sorte all’arbitraggio

dei colpi d’uno scontro vita o morte.

Io, per quanto potrò - né posso tutto

ciò che vorrei - guadagnerò del tempo

per aiutarti nel modo migliore

in questo incerto scontro;

ma non mi posso spinger troppo in là

da mostrare che son dalla tua parte,

perché se ciò divenisse palese,

mio figlio Giorgio, tuo giovin fratello,

sarebbe certamente messo a morte

sotto gli occhi del padre. E dunque addio.

L’ora pericolosa e il poco tempo

troncano le effusioni dell’affetto

e l’ampio scambio di dolci parole

su cui sarebbe gradito indugiare

a parenti sì a lungo separati.

Dio ci conceda miglior agio in seguito

per tutti questi amorevoli riti.

Ancora addio. Sii prode e vittorioso.

RICHMOND -

Riaccompagnatelo al suo reggimento.

Io cercherò di riposare un poco,

nonostante l’assillo dei pensieri,

perché domani non mi pesi addosso

un plumbeo sonno, quando avrei bisogno

di librarmi con ali di vittoria.

Di nuovo, degni amici e cavalieri,

la buona notte a tutti.

(Escono tutti. Richmond, rimasto solo, s’inginocchia)

O Tu, di cui mi sento capitano,

volgi un occhio benigno alle mie forze,

metti nel loro pugno

i contundenti ferri di tua ira,

che s’abbattano gravi e poderosi

sugli elmi del nemico usurpatore;

fa’ delle nostre persone i ministri

del tuo castigo, sì che, vittoriosi,

possiamo innalzar lodi alla tua gloria.

A Te affido la vigile mia anima,

prima che il sonno abbassi sui miei occhi

le sue cortine. Oh, difendimi sempre!

(Si alza, si corica e si addormenta)

Appare lo SPETTRO DEL PRINCIPE EDOARDO, figlio di Enrico VI, nello spazio tra la tenda di Riccardo e quella di Richmond

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Possa il mio peso opprimere domani

grave come un macigno la tua anima:

Pensa a come mi pugnalasti a Tewsbury

nel fiore della prima giovinezza.

Perciò dispera e muori.

(Rivolto a Richmond)

Richmond, sta’ di buon animo,

ché l’anime dei principi scannati

combattono per te. Chi ti conforta,

Richmond, è la prole di Re Enrico.

Entra lo SPETTRO DI ENRICO VI

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Quando ero mortale,

tu apristi sul mio corpo consacrato

mortali bocche con il tuo pugnale.

Pensa alla Torre e a me. Dispera e muori.

Questo ti ordina il Sesto Enrico.

(Rivolto a Richmond)

Sii tu, virtuoso e santo, il vincitore.

Enrico re, che ti vaticinò

che re saresti diventato un giorno,([130])

ti viene in sogno a infonderti coraggio.

Vivi e prospera, Richmond.

Entra lo SPETTRO DI CLARENZA

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Ch’io possa con il peso d’un macigno

seder sulla tua anima domani…

io, che fui immerso a morte,

povero me, in nauseabondo vino,

tradito a morte dalla tua perfidia…

Domani, alla battaglia, pensa a me,

e la tua spada cada senza taglio

dovunque colpirai. Dispera e muori.

(Rivolto a Richmond)

Tu, progenie della Casa di Làncaster,

gli offesi eredi di quella di York

pregano in tuo favore: angeli buoni

proteggan le tue forze. Vivi e prospera.

Entrano gli SPETTRI DI RIVERS, GREY e VAUGHAN

SPETTRO DI RIVERS -

(A Riccardo)

Su te pesi domani la mia anima,

io, Rivers, che fui messo a morte a Pomfret.

Gloucester, dispera e muori.

SPETTRO DI GREY -

(A Riccardo)

Pensa a Grey, e disperi la tua anima.

SPETTRO DI VAUGHAN -

Pensa a Vaughan, e possa la tua lancia

caderti dalle mani per il tremito

delle tue colpe. Muori disperato.

TUTTI INSIEME GLI SPETTRI -

(A Richmond)

Svegliati, e pensa che le iniquità

da Riccardo commesse su di noi

son tutte a gravar sul suo petto

e lo conducono alla sconfitta.

Svegliati e vinci, Richmond.

Entra lo SPETTRO DI HASTINGS

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Svegliati, sanguinario criminale,

nel risveglio del reo,

ed in una battaglia sanguinosa

finisci oggi i tuoi giorni. È Lord Hastings

che ti ricorda a lui. Dispera e muori.

(Rivolto a Richmond)

Quieta, serena anima,

svegliati, svegliati: impugna l’armi,

combatti e vinci per la buona causa

della tua Inghilterra!

Entrano gli SPETTRI DEI DUE PRINCIPI FANCIULLI

I DUE SPETTRI -

(Rivolti a Riccardo)

Sogna i tuoi due nipoti

che nella Torre hai fatto soffocare;

ti gravi il peso di questo delitto

come piombo, domani, sopra al petto,

Riccardo, sì da poterti piegare

alla rovina, all’infamia, alla morte.

Disperazione e morte

t’impongon l’anime dei tuoi nipoti.

(Rivolti a Richmond)

Dormi, Richmond, riposa pure in pace,

e svegliati in letizia: angeli buoni

ti guardino dai morsi del cinghiale.

Vivi e metti alla vita

una felice progenie di re.

Ti esortano a fiorire e prosperare

gli sventurati figli di Edoardo.

Entra lo SPETTRO DI ANNA

SPETTRO -

Riccardo, sono io, Anna, tua moglie,

sventurata, che mai poté dormire

un’ora sola tranquilla con te,

e vengo a riempire d’inquietudini

il tuo sonno. Domani alla battaglia,

pensa a me, e ti caschi giù la spada

che non uccide più. Dispera e muori.

(Rivolta a Richmond)

Tu, anima serena, dormi e sogna

il tuo successo e una lieta vittoria:

questo pregando chiede a Dio colei

che fu la moglie del tuo avversario.

Entra lo SPETTRO DI BUCKINGHAM

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Io sono stato il primo ad aiutarti

ad ottenere la corona; l’ultimo

a cader sotto la tua tirannia.

Oh, pensa a Buckingham, domani, e muori

terrorizzato dalla tua nequizia!

Sogna, sogna di azioni sanguinarie

sogna di morte; e con il fiato mozzo,

dispera, e disperando rendi il fiato.

(Rivolto a Richmond)

Caddi nella speranza

di poterti prestare il mio aiuto,

ma tu fa’ cuore e non perderti d’animo;

Dio e gli angeli buoni

combattono con Richmond; e Riccardo

cada dal vertice della sua boria.

(Gli spettri svaniscono. Riccardo si scuote dal sonno con un sussulto e balza in piedi)

RICCARDO -

Datemi un altro cavallo!… Fasciatemi

le ferite!… Gesù, abbi pietà!…

Calma, Riccardo, è stato solo un sogno….

Ah, vil coscienza, come mi tormenti!…

(Guardando fuori dall’apertura delle tenda)

Luci azzurrognole: è l’ora morta

della mezzanotte… Sento un sudor gelido

per tutto il corpo e tremo di paura….

Di che cosa ho paura? Di me stesso?

Non c’è nessuno qui oltre di me.

Perciò di chi ho paura?…

Riccardo ama Riccardo, io son io.

C’è forse un assassino qui?… No… Sì,

son io!… Fuggire, allora?… Ma da chi?

Da me stesso? Perché dovrei fuggire?

Per non fare vendetta su me stesso?

Ne avrei grande ragione…

Io su me stesso?… Ahimè, amo me stesso!

Perché? Forse per qualche buona azione

fatta da me a me stesso… Oh, no, ahimè,

io lo odio, se mai, questo me stesso

per i crimini odiosi che ho commesso.

Sono uno scellerato… eppure no,

io mento a me stesso, non lo sono…

Stolto, non parlar male di te stesso!

Stolto, non incensar troppo te stesso!

La mia coscienza in bocca ha mille lingue

e ciascuna ha una storia da narrare,

e ogni storia mi bolla da furfante.

E spergiuro. Spergiuro oltre ogni limite.

Assassino; crudele oltre ogni limite.

Tutti i peccati miei,

perpetrati da me oltre ogni limite

s’affollano alla sbarra

e gridano: “Colpevole, colpevole!”

Mi resta solo la disperazione.

Non c’è chi m’ami al mondo,

e se muoio, nessuna anima viva

avrà pietà di me.

Perché, del resto, ne dovrebbe avere,

se sono io stesso a non trovare mai

in fondo all’anima alcuna pietà

verso me stesso? M’è parso nel sogno

come se tutte l’anime

di coloro che ho assassinato

fossero convenute alla mia tenda

e ognuno minacciasse per domani

vendetta sulla testa di Riccardo.

Entra RATCLIFF

RATCLIFF -

Monsignore…

RICCARDO -

(Sussultando)

Chi è là?

RATCLIFF -

Ratcliff, signore.

Il gallo del villaggio qui da presso

ha salutato l’alba già due volte.

I vostri amici son già tutti in piedi,

e si stanno affibbiando le armature.

RICCARDO -

Ratcliff, ho fatto un sogno spaventoso.

Che pensi, i nostri amici

si manterranno tutti a me fedeli?

RATCLIFF -

Ma senza dubbio, sire.

RICCARDO -

Oh, Ratcliff! Ho paura! Sì, ho paura!

RATCLIFF -

Ma no, mio buon signore!

Delle ombre non s’ha da aver paura.

RICCARDO -

Per l’Apostolo Paolo, questa notte

nel cuore di Riccardo han suscitato

delle ombre più paura che non possa

la realtà di diecimila uomini

di tutto punto armati e comandati

da quello zero più zero di Richmond.

Non è ancor l’alba. Su, vieni con me:

voglio andare a origliar da tenda a tenda

per accertarmi che non c’è nessuno

che si prepari a disertar da me.

(Escono)

Entrano, da RICHMOND che sta seduto sotto la sua tenda, i NOBILI suoi alleati

TUTTI -

Buongiorno, Richmond.

RICHMOND -

Vogliate scusarmi,

nobili Pari e alacri gentiluomini,

se avete qui sorpreso un gran pigrone.

PRIMO NOBILE -

Come avete dormito, monsignore?

RICHMOND -

Dacché siete partiti ieri sera

ho avuto, amici, il sonno più piacevole

e ho fatto i sogni più propiziatorii

ch’abbian mai visitato mente d’uomo.

M’è parso come se nella mia tenda

venissero a vicenda tutte l’anime

di quelli assassinati da Riccardo

e mi gridassero tutte: “Vittoria!”.

Ho l’animo giulivo ed esultante,

credetemi, per tal splendido sogno.

PRIMO NOBILE -

Sono quasi le quattro, monsignore.

RICHMOND -

È tempo d’indosssare le armature

e di emanare gli ordini.

(Esce dalla tenda)

LA SUA ORAZIONE AI SOLDATI

Amati compatrioti,

l’ora che urge ed il tempo tiranno,

non mi permettono di dirvi più

di quanto v’ho già detto.

Tuttavia ricordatevi di questo:

Dio dal cielo e la nostra buona causa

combattono con noi. Innanzi a noi

si levano come alti baluardi

le preghiere dei santi in paradiso

e delle anime offese.

Tranne solo Riccardo, tutti quelli

che ci accingiamo oggi ad affrontare

vorrebbero veder vincere noi

piuttosto che quel loro condottiero.

Giacché, nobili amici, chi è l’uomo

ch’essi seguono in armi?

Nient’altro che un tiranno sanguinario,

un omicida cresciuto nel sangue

e nel sangue insediatosi sul trono;

uno che ha messo in atto ogni mala arte

per procacciarsi quello che possiede,

e poi ha massacrato un dopo l’altro

tutti coloro che gli han dato mano

a procurarselo: una pietra ignobile,

falsa, resa preziosa dal castone

rutilante del trono d’Inghilterra,

nel quale s’è insediato con l’inganno;

uno che sempre fu nemico a Dio,

e Dio, perciò, nella sua gran giustizia,

vi darà appoggio come suoi soldati,

se combattete contro il suo nemico.

Se adesso voi sudate

a lottare ed abbattere il tiranno,

ucciso lui, poi dormirete in pace;

se adesso combattete

contro i nemici della vostra patria,

il futuro benessere di questa

ripagherà ad usura il vostro sforzo;

se vi battete per le vostre spose,

le vostre spose accoglieranno liete

i lor mariti vincitori a casa;

se salverete da spada nemica

i figli vostri, i figli dei figli

ve ne daranno giusta ricompensa

nella vostra vecchiaia.

Avanti dunque, nel nome di Dio,

e di tutti i diritti a noi spettanti,

bandiere al vento e spade sguainate!

In quanto a me, sarà degno tributo

a questa mia pericolosa impresa

questo mio corpo, gelido cadavere

sopra la fredda faccia della terra.

Ma se m’arriderà la buona sorte,

dei vantaggi di questa audace impresa

avrà parte anche l’ultimo di voi.

Squillate, trombe, rullate tamburi,

ardimentosamente e lietamente.

Dio e San Giorgio! Richmond e vittoria!

(Escono Richmond e tutti del suo seguito)

Rientrano RICCARDO e RATCLIFF con soldati

RICCARDO -

Che diceva Northumberland di Richmond?

RATCLIFF -

Che non fu mai istruito nelle armi.

RICCARDO -

Diceva il vero. E Surrey?

RATCLIFF -

Ho inteso che diceva, sorridendo:

“Tanto meglio per noi”.

RICCARDO -

Giusto, è così.

(Un orologio batte)

Conta i rintocchi… Dammi un almanacco.

(Ratcliff gli dà qualcosa che Riccardo consulta

rapidamente)

Chi ha visto oggi il sole?

RATCLIFF -

Io no, signore.

RICCARDO -

Allora stamattina questo sole

non vuol degnarsi di farsi vedere,

perché secondo quanto è scritto qui,

avrebbe già dovuto sfolgorare

a oriente già da un’ora. Per qualcuno

questa sarà una giornata nera…

Ratcliff!

RATCLIFF -

Sì, monsignore?

RICCARDO -

Il sole oggi non si fa vedere.

Il cielo è in broncio con il nostro esercito.

Queste lacrime di rugiada, Ratcliff,

non le vorrei vedere, qui per terra.

Non splende oggi?… Che mi può importare

più di quanto possa importare a Richmond?

Lo stesso cielo accigliato con me

guarda anche lui con occhio cupo e triste.

Entra NORFOLK

NORFOLK -

All’armi, mio sovrano! All’armi! All’armi!

Il nemico è già in campo, e che baldanza!

RICCARDO -

Avanti, su, alla svelta,

mettete la gualdrappa al mio cavallo.

Qualcuno corra subito da Stanley

e gli dica di avvicinarsi a noi.

I miei li guido io nella pianura.

L’ordine di battaglia sarà questo:

l’avanguardia, composta d’egual numero

di cavalieri e di fanti appiedati,

andrà a disporsi lungo tutto il fronte

in prima linea, con gli arcieri al centro.

Norfolk e Surrey saranno al comando

di questa fanteria-cavalleria.

Così schierati, seguiremo noi

a far massa col grosso dell’esercito,

la cui forza sarà bene appoggiata

dall’un corno e dall’altro,

da truppe scelte di cavalleria.

Questo è il mio piano, e San Giorgio ci aiuti!

Che dici tu, Norfòlk?

NORFOLK -

Ottimo piano,

mio pugnace signore.

(Gli dà un foglio)

Questo scritto

era stamane dentro la mia tenda.

RICCARDO -

(Leggendo)

“Giannetto di Norfolk, non fare il dritto,

“ ché il tuo padron Riccardo è bell’e fritto”([131])

Una sciocca trovata del nemico.

Signori, ai posti di combattimento!

E nessuno si lasci sgomentare

da pettegoli sogni: la coscienza

è parola ch’è in uso presso i vili,

da loro primamente escogitata

per trattenere a freno gli animosi.

Nostra coscienza sian le nostre braccia,

nostra legge le spade che impugniamo.

In marcia, tutti bravamente uniti!

Avanziamo nel folto della mischia.

Se non in cielo, entreremo all’inferno

tutti tenendoci stretti per mano.

LA SUA ORAZIONE AI SOLDATI

Che cosa vi dirò,

in aggiunta a quanto v’ho già detto?

Vi esorto solamente a ricordarvi

con chi avete a che fare: un’accozzaglia

di vagabondi, gente di galera,

di furfanti, la schiuma di Bretagna,

di vili contadini parassiti,

che la lor terra, sovrappopolata,

vomita disperati alla ventura,

mandandoli a sicura distruzione.

Voi dormite tranquilli i vostri sonni,

e questi vengon nelle vostre case

a turbarvi il riposo.

Voi possedete terre e in casa vostra

il godimento di splendide spose,

e costoro vorrebbero venire

a spogliarvi di quelle

e stuprarvi le altre. E chi li guida?

Un abbietto figuro, mantenuto

per tanti anni in Bretagna sulle spese

di mio fratello, un vero smidollato,

che non ha mai sofferto in vita sua

più freddo delle proprie soprascarpe

fra la neve. Ma ributtiamo a mare

a frustate quest’orda di sbandati,

questi arroganti straccioni di Francia,

questi affamati squallidi straccioni,

gente stanca di viver come vive,

che, se non fosse stato pel miraggio

di questa loro scellerata impresa,

si sarebbero andati ad impiccare

per assoluta mancanza di mezzi.

Se è scritto che dobbiamo essere vinti,

che a sconfiggerci siano almeno uomini,

e non questi bastardi di Bretagna,

che i nostri padri già hanno battuto,

pestato, tartassato in casa loro,

lasciandoli nel libro della storia

eredi di vergogna. E questi ceffi

si dovranno goder le nostre terre?

Dovran giacersi con le nostre mogli?

Dovranno violentar le nostre figlie?

(Tamburi all’esterno)

Eccoli, udite, sono i lor tamburi.

Nobili d’Inghilterra, alla battaglia!

Arcieri, pronti a tendere i vostri archi!

Cavalieri, spronate a tutto sangue

i vostri belli e nobili corsieri,

e in mezzo al loro sangue cavalcate!

E voi, lancieri, spaurite il cielo

con gli spezzoni delle vostre lance!

Entra un MESSO

Stanley che fa? Mena qui le sue truppe?

MESSO -

Ricusa di spostarsi, mio signore.

RICCARDO -

Beh, giù la testa di suo figlio Giorgio!

NORFOLK -

Il nemico, signore, è già avanzato

di qua dalla palude;

sarà meglio che del figlio di Stanley,

ci occupiamo finita la battaglia.

Adesso non c’è tempo.

RICCARDO -

Sento pulsarmi in petto mille cuori!

Avanti gli stendardi, sotto, sotto!

Il nostro antico grido di battaglia

“Bel San Giorgio” infonda a tutti noi

il furore del suoi draghi infuocati!

Addosso! La vittoria è sui nostri elmi!

(Escono)

SCENA IV - Un’altra parte del campo

Allarmi. Scorrerie di soldati. Entra NORFOLK con soldati, combattendo.

Gli viene incontro di corsa CATESBY

CATESBY -

Correte, aiuto, signor di Norfolk!

Il re compie prodigi sovrumani

di valore, incurante d’ogni rischio.

Gli hanno ucciso il cavallo,

e lui, a piedi, seguita a combattere;

e nell’ansia di battersi con Richmond

si caccia nelle fauci della morte.

Soccorretelo, nobile signore,

o la giornata per noi è perduta.

(Escono Norfolk e soldati)

Entra RE RICCARDO

RICCARDO -

Un cavallo! Un cavallo!

Il mio regno per un cavallo!

CATESBY -

Sire,

ritiratevi! Cerco io un cavallo

per vostra altezza.

RICCARDO -

Schiavo!

Ho messo la mia vita come posta

per un colpo di dadi, e starò al gioco.([132])

Credo ci siano sei Richmond sul campo;

cinque ne ho fatti fuori, quello no!

Un cavallo! Un cavallo!

Il mio regno per un cavallo!

(Escono tutti)

SCENA V - Un’altra parte del campo

Allarme.

Entrano RE RICCARDO e RICHMOND, battendosi alla spada.

Riccardo cade ed è ucciso.

Richmond esce, e il corpo di Riccardo è portato via.

Fanfara. Rientra RICHMOND con STANLEY, che reca la corona, signori e soldati.

RICHMOND -

Sia lode a Dio e alle armi vostre, amici!

Avete vinto. La giornata è nostra.

Il cane sanguinario è stato ucciso.

STANLEY -

Bene ti sei condotto, prode Richmond.

Ecco a te la corona, così a lungo

usurpata. L’ho tratta via io stesso

dalla sua fronte esanime

per cingerne la tua regal persona.

Portala, godine e falla onorata.

RICHMOND -

Gran Dio, di’ “così sia” a tutto questo.

Ma ditemi, il giovin Giorgio Stanley

è vivo?

STANLEY -

Vivo, sire, ed al sicuro

a Leicester, dove, se voi lo gradite,

potremo pel momento ritirarci.

RICHMOND -

Quali uomini di nome

sono caduti da entrambe la parti?

STANLEY -

Giovanni di Norfolk, lord Walter Ferrer,

sir Robert Brakenbury e William Brandon.

RICHMOND -

Date ai lor corpi quella sepoltura

degna dei lor natali.

Proclamate un indulto ai disertori

che vogliano tornar nei nostri ranghi;

e poi, così come abbiam deciso

a sacro giuramento innanzi a Dio,

faremo ritornare in buona pace

la rosa rossa con la rosa bianca.

Sorridi, cielo, a questa bella unione,

dopo aver tanto a lungo riguardato

con cipiglio la loro ostilità.

E chi sarà quel bieco traditore

che, ciò vedendo, non dirà “Amèn”?

Per troppo tempo è stata a matteggiare

l’Inghilterra ed a sfigurar se stessa,

il fratello versando ciecamente

il sangue del fratello;

il padre massacrando pazzamente

il proprio figlio, ed il figlio costretto

a farsi macellaio di suo padre.

Tutto questo ha diviso York e Làncaster

in un’acerba, cruda divisione.

Oh, adesso Richmond ed Elisabetta,

successori legittimi

di quelle due reali dinastie,

per fausto ordine di Dio Signore,

si ricongiungano, e i loro eredi,

Dio Signore, se tale è il tuo volere,

arricchiscano il tempo che verrà

con una pace dal volto disteso,

con ridente liberalità,

e giorni lieti di prosperità.

Grazioso Dio Signore, spunta il ferro

nelle mani di tutti i traditori

che vorrebbero riportarci indietro

a quei giorni cruenti ed a far piangere

in mezzo a fiumi di sangue fraterno

l’infelice Inghilterra. In mezzo a noi

fa’ che non viva chi, col tradimento,

mediti di trafiggere la pace

di questa bella terra.

Le ferite fraterne ora son chiuse,

torna di nuovo a vivere la pace.

Fa’ Tu, Signore Iddio, che viva a lungo.

fine


([1]) Questa didascalia è arbitraria del traduttore. I testi non ne portano nessuna. Il lettore - o il regista - può dunque immaginare il luogo a suo talento; che può essere anche un interno della corte.

([2]) “By this sun of York”: alcuni testi hanno “son”, “figlio”, invece dell’omofono “sun”, “sole”, che leggerebbe pertanto: “ad opera di questo figlio di York ” riferito a Re Edoardo IV; “figlio” di York e fratello di Riccardo è infatti questo Edoardo, che ha tolto il trono a un Lancaster, Enrico VI. È verosimile che il drammaturgo abbia inteso sfruttare l’omofonia dei due termini per uno di quei giochi di parole assai graditi al pubblico elisabettiano; ma la lezione “sun” è la più probabile, anche perché il sole era l’emblema gentilizio degli York (cfr. in “Enrico VI - Parte terza”, il dialogo dei due fratelli Edoardo e Riccardo York alla prima scena del II atto).

([3]) “… sent before my time”, cioè partorito in parto prematuro.

([4]) Il nome del Duca di Clarenza, fratello di Riccardo, è “George”.

([5]) Jean Shore, la favorita di Edoardo IV, nata Elisabetta Lambert e sposata al mercante William Shore. Sulle avventurose vicende della vita di questa donna scriverà una tragedia nel ’700 (“Jane Shore”, 1714) Nicholas Rowe, poeta e drammaturgo e primo sistematore, ordinatore e commentatore dell’opera di Shakespeare.

([6]) La regina è la già nominata Lady Grey, al secolo Elisabetta Woodville, vedova di John Grey, gentiluomo morto combattendo contro Edoardo IV dalla parte dei Lancaster. Edoardo l’aveva sposata a 25 anni, rompendo la promessa del suo matrimonio con la sorella della regina di Francia, Bona di Savoia. (Questa avrà una parte nell’“Enrico VI - Terza parte”). Il “nobile dama” di Riccardo è naturalmente sarcastico.

([7]) Il testo ha un bisticcio omofonico tra “nought” e “naught”. Brakenbury ha detto: “Non ho nulla a che fare con…” (“Have nought to do”); Riccardo ha finto di capire “Ho da trescare (“naught”) con…”.

([8]) “I will deliver you or lie for you”: la frase si può anche intendere: “Io ti libererò o mentirò per te”, per il doppio significato di “lie” che vale “giacersi”, “porsi”, ma anche “mentire”. Ed è verosimile che Shakespeare abbia volutamente attribuito a Riccardo questo gioco di doppi sensi, per sottolinearne la perversità.

([9]) La notazione è storicamente vera. Edoardo IV, salito al trono in età di 20 anni, succedendo a suo padre Enrico VI nel 1461, “appena si vide possessore del trono, abbandonossi senza ritegno alla sua inclinazione per le donne, piacere che mancare non gli poteva, stante l’età, la posizione e le grazie della persona. Era il principe ricevuto nell’intimità da parecchi abitanti di Londra; vi trovava indulgenza per tutte le sue tendenze e grandi facilità per soddisfare i suoi capricci. Codesta frequentazione lo abituò insensibilmente a non arrestarsi dinanzi a verun ostacolo per soddisfare le sue brame: tutto doveva cedere alla sua volontà” (L. Galibert & C. Pellé, “Storia d’Inghilterra”, trad. A. F. Falconetti, Venezia, Antonelli edit., 1845).

([10]) “But yet I run before my horse to market”: letteralm.: “Ma io sto correndo al mercato davanti al mio cavallo”.

([11]) Si tratta, per la storia, di Edoardo principe di Galles, figlio di Enrico VI - il predecessore, per altra linea, di Edoardo IV al trono d’Inghilterra - ucciso nel 1471 nella battaglia di Tewksbury, combattuta da Edoardo IV contro le forze di Margherita d’Angiò, vedova di Enrico VI e quindi madre di questo Edoardo; il quale aveva sposato questa Anna Nevill, la più giovane figlia di Riccardo Warwick, la quale nel corso del dramma diverrà la moglie di Riccardo III. Quest’ultimo confesserà più sotto di aver ucciso lui Edoardo.

([12]) Cittadina sul Tamigi, presso Staines, a circa 20 miglia a sud-ovest di Londra, già sede di una grande abbazia di benedettini. Il testo ha: “… trasportato dalla chiesa di San Paolo” (“… taken from Paul’s”) che si è tralasciato di tradurre. C’è da chiedersi però perché un sì lungo tragitto, a piedi, con un corteo di poche persone, per andare ad inumare la salma di un re. Ma Shakespeare non si pone il problema: a lui interessa, ai fini del dramma, il tempo e il luogo per la lunga e decisiva scena dell’incontro di Anna con Riccardo.

([13]) Naturalmente Riccardo mente: è stato lui a uccidere deliberatamente il marito di Anna, Edoardo, che era suo nipote perché figlio del fratello re Edoardo V, dal quale avrebbe dovuto ereditare il trono. Riccardo l’ha ucciso nel corso della battaglia di Tewksbury, come egli stesso confesserà in seguito.

([14]) Per capire questa risposta da Anna, bisogna intendere che ella abbia inteso che Riccardo le abbia detto: “Sarà così (che io mi giaccia insieme con te) finché io continuerò a mentire (cioè non sarà più così al momento in cui dirò la verità)” (“So will it, madam, till I lie with you”). È il solito quibble basato sul doppio senso di “lie”, che vale “mentire” e “giacersi” (in senso sessuale).

([15]) Basilisco, il mitico mostro, a forma di drago, i cui occhi fiammeggianti avevano il potere di uccidere ogni creatura vivente, eccetto il gallo. È citazione ricorrente in Shakespeare.

([16]) Il conte Rutland, ultimo figlio giovinetto del Duca di York, e dunque fratello di Riccardo e di Edoardo marito di Anna, nella battaglia di Wakefield, combattuta tra le truppe del Duca e quelle della regina Margherita moglie di Enrico VI, fu preso dai seguaci di questa e assassinato per mano di Lord Clifford, uno dei capi delle forze dei Lancaster. L’episodio è rappresentato nella terza scena del I atto della terza parte dell’“Enrico VI”.

([17]) “… to him that has most cause to be a mourner”: cioè lui stesso, Riccardo, che ha riconosciuto essere l’autore della morte di Re Enrico VI.

([18]) Crosby Place è la residenza del Duca di Gloucester. Sarà anche la dimora di Tomaso Moro sotto Enrico VIII.

([19]) Località del Surrey, Inghilterra, già sede di un famoso monastero di benedettini fondato nel 666 d. C., ora distrutto.

([20]) “… to Whitefriars”: “Frati Bianchi” si chiamavano in Inghilterra i Carmelitani, per il loro saio bianco. Di quale località si tratti qui, non è chiaro. In Inghilterra, all’epoca del dramma, c’erano una quarantina di monasteri di carmelitani.

([21]) “My dukedom to a beggarly denier”: letteralm.: “Il mio ducato contro una monetina da elemosina”.

([22]) La contessa di Richmond, come dirà più sotto Elisabetta, è la moglie di Lord Stanley. “Vostra moglie” non è nel testo.

([23]) Si legga, qui come altrove, “Glo-ster”.

([24]) “… to enoble those that scarce some two days since were worth a noble”: bisticcio tra “enoble”, “nobilitare”, “dare titoli di nobiltà” e “noble”, moneta di scarso valore (circa 6 scellini), corrente in Inghilterra fino al 1461.

([25]) “What marry may she? Marry with a king”: nel testo inglese c’è un gioco di doppi sensi sulla parola “marry”, interiezione esclamativa , che sta per: “Per la Vergine Maria” (contrazione di “by Virgin Mary”), e per il verbo “maritarsi”. Riccardo l’ha usato nel primo senso quando ha detto: “She may - ay, marry, may she…”, e nel secondo quando, rispondendo a Rivers, ha detto: “What marrry may she? Marry with a king!”.

([26]) Leggasi, per la metrica, “Tiù-sbury”.

([27]) Margherita, andata in moglie a Enrico VI nel 1445, era la seconda figlia di Renato d’Angiò, che allora portava il titolo di re di Sicilia, Napoli e Gerusalemme. Enrico l’aveva sposata per procura inviando in Francia il marchese di Suffolk. Il matrimonio fece scandalo, perché la principessa non portò nulla in dote, suo padre essendo re solo di nome, perché di fatto non aveva il possesso dei domini di cui aveva il titolo; l’Angiò era in mano inglese, a Napoli c’erano gli Aragonesi, a Gerusalemme c’era il Sultano. Lo sdegno dei cortigiani, capeggiati dal Lord Protettore Duca Humphrey Gloucester, è nella prima scena dell’atto I dell’“Enrico VI - Seconda parte”. Margherita si dimostrò tuttavia regina di grande carattere e abilità politica. Gli storici francesi Léon Galibert e Clément Pellé (“Storia d’Inghilterra”, vol. I, Venezia 1845) la descrivono come una donna “giovane, ardente, piena d’energia, d’intelligenza, di ambizione”. Era ella stessa al comando delle truppe dei Lancaster nella battaglia di Sant’Albano contro i rivoltosi di York e Warwick: “La regina d’Inghilterra trovavasi allora nelle province settentrionali del regno, in mezzo a popolazioni guerriere, gelose delle iniziative che le province meridionali nelle contee della famiglia regia… Margherita colle sue truppe portossi a marce forzate sopra Londra; mossa ardita che non intimorì Riccardo (Riccardo di York, padre di Riccardo III, n.d.t.), perché credette solo di aver a che fare con alquanti partigiani (della regina, n.d.t.); infatti venne loro incontro con cinquemila uomini soltanto”.

Qui, nella vicenda del dramma, siamo nel 1483, Margherita è già vecchia.

([28]) Warwick (conte Riccardo Nevill) era alla testa delle forze regie nella battaglia di Sant’Albano. Giorgio di Clarenza aveva sposato una delle sue figlie; l’altra era Anna, vedova di Edoardo principe di Galles (figlio di Enrico VI), protagonista della scena precedente.

([29]) “Guardami bene in faccia” non è nel testo, che ha semplicemente: “Do not turn away”, “Non voltarti da un’altra parte”; ma il “guardami in faccia” è implicito: Margherita ha sfidato tutti poc’anzi a guardarla in faccia senza tremare.

([30]) Come si è visto (v. sopra la nota 16), il giovanissimo conte Rutland, ultimo figlio del Duca di York, nella battaglia di Wakefield tra le truppe del Duca e quelle regie condotte personalmente dalla regina Margherita, fu catturato dai seguaci di questa e pugnalato a morte da Lord Clifford, uno dei capi delle forze dei Lancaster.

([31]) “… vain flourish of my fortune”: per “flourish” nel significato di “abbellimento” in Shakespeare, v. anche in “Fatiche d’amore perdute”, II, 1, 14: “… needs not to be painted flourish of your praise”, “… non ha bisogno degli abbellimenti / del vostro elogio”.

([32]) V. sopra la nota 18.

([33]) “… the melancholy flood”: è il tratto di fiume infernale - per alcuni l’Acheronte, per altri lo Stige, per altri ancora il Flegetonte - che Dante, con Stazio, chiama “palude”, attraverso il quale Caronte (“Il nocchier della livida palude”, Inferno, III, 98) traghetta le anime dannate.

([34]) La verità storica cui si riferisce questo passo è piuttosto diversa. Non fu il Duca di Clarenza a tradire Warwick, ma questi ad abbandonare puntigliosamente la causa degli York, e a schierarsi coi Lancaster. Clarenza, come s’è visto (v. sopra la nota 28), aveva sposato la figlia maggiore di Warwick, Isabella. Egli era, con il suocero, alla testa delle forze degli York. Enrico VI è un Lancaster, perché discende per li rami da Giovanni di Gaunt, duca di Lancaster. Al figlio di lui, Edoardo, Warwick dà in sposa la sua seconda figlia, Anna; e da allora si schiera con i Lancaster. Giorgio Clarenza è uno York, perché discende per li rami da Edmondo di Langley, duca di York, fratello di Giovanni di Gaunt. Quando Warwick cambia fazione, Clarenza entra segretamente in contatto con Edoardo e s’impegna con lui ad abbandonare la fazione di Warwick.

Quanto all’ombra erratica in sembianza d’angelo” (“… a shadow like an angel”), è verosimilmente quella di Rutland. Anche qui, come s’è visto, per la verità storica chi ha pugnalato il piccolo Rutland (uno York) a Tewksbury è stato Lord Clifford.

([35]) Sempre, per spezzare la pesante atmosfera dei momenti più drammatici e strappare un sorriso al pubblico, Shakespeare mette in bocca ai personaggi minori, o solo occasionali, un tratto di comicità. Qui è palese il melenso “nonsense” del pugnalato a morte che si sveglia e si mette a dare del vigliacco al suo assassino.

([36]) “Nor you as we are, loyal.”: “loyal” sta verosimilmente per “leale suddito del re”; il sicario sembra essere convinto che Clarenza è in carcere e condannato a morte per alto tradimento.

([37]) Cioè: “Io ti parlo in nome del re, da cui ho ricevuto mandato.”

([38]) Il marchese di Dorset è figlio di primo letto della regina Elisabetta, quindi figliastro di Edoardo; il titolo di marchese conferitogli da questo è uno degli “onori d’accatto” ottenuti dai parenti della regina, e contro i quali s’è scagliato prima Riccardo.

([39]) Il testo ha ha ridondante perifrasi: “When I have most need to employ a friend, / And most assured that he

is a friend”: Quando avrò maggior necessità di servirmi di un amico e più sia sicuro della sua amicizia…”.

([40]) I testi danno qui l’entrata di Riccardo in compagnia di sir Richard Ratcliff; ma questo personaggio in questa scena non parla, e il Lodovici, uomo di teatro tra tutti i traduttori italiani di Shakespeare, opportunamente lo ignora. Noi lo seguiamo.

([41]) “… and no man in the presence / But his red colour hat forsook his cheeks”, letteralm.: “… e non c’è nessuno dei presenti a cui il colorito rosso (l’incarnato) non abbia abbandonato le guance”.

([42]) Cioè giunse al carnefice velocemente: Mercurio è l’alato messaggero degli dèi dell’Olimpo, simbolo di celerità e destrezza.

([43]) Per questo episodio, v. sopra la nota 34.

([44]) “… an act of tragic violence”: “atto” è qui nel senso squisitamente teatrale: Elisabetta prosegue il traslato introdotto dalla Duchessa che ha parlato di “scena”. Shakespeare non perde mai di vista il suo mestiere.

([45]) La duchessa è la madre di Re Edoardo.

([46]) Cioè la vita. Lo stesso concetto in “Enrico IV - Seconda parte”, I, 1, 18-19: “O Lord that lends me life…” È il concetto cristiano - ripreso dalla dottrina di Epittetto - che la vita umana sia un prestito da restituire al Creatore.

([47]) Il giovane figlio di Elisabetta, Principe di Galles ed erede al trono, si trova a Ludlow, come si vedrà più sotto. Ludlow, nello Shrapshire, era stata, fino al 1700, la residenza dei principi di Galles (questo era, ed è tuttora, il titolo dei principi reali eredi al trono), nonché la sede del consiglio dei feudatari delle marche gallesi. Il nome deriva verosimilmente, da Lud, il mitico re celto; e “Lud” era chiamata anticamente Londra (cfr. “Cimbelino”, III, 1, 29-32: “The famed Cassibelan… made Lud’s town with rejoicing fires bright…).

([48]) In realtà, il cittadino sa bene dov’è diretto: in Tribunale, come dice dopo; non sa perché vi è stato citato dal giudice.

([49]) “Seldom comes the better”: alcuni intendono: “Raramente ne arrivano di migliori (riferito a notizie); altri: “Raramente segue uno migliore (riferito a re). Secondo questo traduttore, la frase è più generica, sul tipo dell’italiano: “Il peggio non è morto mai”.

([50]) Per la verità storica, Enrico VI Lancaster, figlio di Enrico V - il vincitore dei Francesi ad Azincourt - alla morte del padre (a Vincennes, 31 agosto 1422) era stato proclamato re a 9 mesi d’età, ma fu incoronato a Parigi nel 1431, dopo 9 anni di reggenza.

([51]) Il castello di Pomfret (o Pontefreat) nello Yorkshire, lo stesso dove è stato rinchiuso nel 1399 Riccardo III da Enrico IV Lancaster, e da questo fatto assassinare per mano di sir Robert.

([52]) “Bool to blood”: questa espressione, che ricorre sovente in Shakespeare è verosimilmente un’eco della biblica massima: “Il sangue di colui che spanderà il sangue dell’uomo, sarà dall’uomo sparso” (“Genesi”, IX, 6). Cfr. in “Re Giovanni”, II, 1, 329: “Blood has brought blood”).

([53]) “… we will to sanctuary”: “sanctuary” era detta la chiesa o altro luogo sacro dove, secondo la legge medioevale, vigeva il diritto di asilo, onde ciascuno vi si poteva rifugiare per sottrarsi alla persecuzione da parte dei potenti o semplicemente dalla giustizia. Elisabetta teme imminente su di lei la mano di Riccardo. Il sacrario in cui si ritira Elisabetta con il suo secondo figlio maschio Riccardino e le cinque figlie femmine è la cappella del monastero di Westminster.

([54]) “… the seal I keep”: l’Arcivescovo di York era il Lord custode del sigillo privato della corona (“the seal”), ossia lo stampo metallico usato per l’autenticazione dei documenti emessi dal sovrano o in nome di esso da funzionari delegati; egli cumulava cioè la carica di arcivescovo con quella di Lord Cancelliere. Ancor oggi all’arcivescovo di York, al pari del sindaco di Londra, spetta di diritto il titolo di “lord”.

([55]) “I want more uncles here to welcome me”: il giovane principe è informato che i suoi zii lord Rivers, e lord Grey, fratelli di sua madre, sono stato mandati in prigione a Pomfret.

([56]) In verità, è solo leggenda: non vi sono documenti storici a prova che la Torre di Londra fossa stata iniziata a costruire dai Romani; si sa invece che la sua costruzione fu iniziata da Guglielmo II, duca di Normandia, nel sec. XI d. C.

([57]) “Thus, like the formal Vice, Iniquity, / I moralize two meanings in one word”: l’accenno è alle rappresentazioni dei “Morality Plays”, dove compariva, in funzione di uno dei “vizi umani”, il personaggio dell’Iniquità. Il doppio senso con quale Riccardo, sull’esempio di quel personaggio, moralizza, è quello della “vita lunga” della fama, alla quale egli associa la fama del giovane Edoardo, che sarà tutt’altro che lunga, perché s’appresta a sopprimerlo.

([58]) V. sopra la nota 5. Qui Riccardo insinua soltanto che la Shore, la favorita del re Edoardo VI, trescasse con Hastings. Più sotto (III, 4) inveirà contro la donna, chiamandola “puttana” e accusandola di stregoneria.

([59]) Il cinghiale era lo stemma araldico di Riccardo Gloucester.

([60]) “I’ll have this crown of mine cut from my shoulders”: gioco di parole: “crown” è nell’inglese antico sinonimo di “testa” (“the top part of the skull”, “la parte superiore del cranio”).

([61]) “I’ll send some packing”: per l’altro mondo, si capisce.

([62]) “… his head upon the Bridge”: le teste dei giustiziati per alto tradimento, mozzate dalla mannaia del carnefice, venivano issate, infisse su aste di legno, sul Ponte di Londra.

([63]) Tenere il cappello in testa nelle cerimonie ufficiali era segno di dignità, riservato ai nobili. Il popolo doveva scappellarsi. Dire di uno che non era degno di tenere il cappello in testa era come dirgli di essere di bassa estrazione.

([64]) Questo personaggio è indicato nell’in-folio come “Pursuivant”: così si chiamavano i commessi della Corte di giustizia incaricati di notificare gli atti della stessa. Si capisce, dal dialogo, che è lo stesso che aveva notificato ad Hastings l’ordine del re di imprigionarlo. Nei testi è anche nominato Hastings, come il suo nobile interlocutore. Ma il nome, ai fini dell’economia del dramma, è inefficiente; e noi, col Lodovici, lo saltiamo, anche perché il personaggio non compare più.

([65]) Anthony Rivers ci lascerà, per averla scritta in prigione in attesa di essere giustiziato, una composizione poetica sul tema dell’alterna vicenda delle umane sorti, opera che è storicamente considerata come la più importante testimonianza sul colpo di Stato perpetrato da Riccardo York, per diventare re Riccardo III.

([66]) Shakespeare, quasi per deformazione professionale, ogni tanto fa usare ai suoi personaggi un linguaggio teatrale. Prima ha fatto parlare le due donne di scena e di atto; qui è il Duca di Buckingham che dice a Riccardo: “Had not come upon your cue… Hastings had pronounced your part.” “To come upon one’s cue” si dice dell’attore che entra a tempo giusto in scena, o pronuncia a tempo giusto la sua battuta, avendo come segnale d’entrata l’ultima parola (“cue”, la “coda”) che il copione fa dire all’altro attore. (Cfr. in “Sogno d’una notte di mezza estate”, V, 1, 186: “… ‘deceiving me’ is Thisbie’s cue: she is not to enter”).

([67]) Località nel sobborgo londinese di Camden.

([68]) Questa battuta di Riccardo è la svolta del dramma. Da qui in poi esso è la rappresentazione della orrenda mostruosità morale del protagonista, della quale il corteggiamento ad Anna nel macabro ambiente di una esequia funebre è stato solo il prologo. Il Lodovici, uomo di teatro e traduttore di Shakespeare per il teatro, citando le cronache dell’Holinshed (Raphael Holinshed, “Chronicles of England, Scotland and Ireland”, London, 1577), premette a questo discorso di Riccardo ai nobili, una “Nota per l’attore” che deve sostenere la parte di Riccardo, avvertendolo del repentino mutamento di umore da mostrare al rientro in scena con Buckingham: da “affabile e gioviale”, come l’ha definito prima Hastings, a “ truce, stravolto e minaccioso”.

Gli storici Galibert e Pellé (op. cit., I, pag. 41) così raccontano l’episodio: “Dopo alcuni istanti di assenza, rientrò tutto smarrito, gridando: “Milordi, si attenta alla mia vita! Si cospira contro di me!”. “Coloro che si sono resi colpevoli di un tal delitto - disse Lord Hastings - siano puniti come traditori!”. E Gloucester: “Ebbene, milordi, sapete chi sono i traditori? Elisabetta, vedova di Edoardo, Giovanna Shore, di lui amante, che vogliono con sortilegi attentare alla mia vita: vedete che giàmmi si dissecca il braccio?” E Gloucester si snudò il braccio, e l’immagrimento di quell’arto atterrì il Consiglio. Il Protettore strumentalizza all’adempimento dei suoi disegni una sua infermità naturale”.

([69]) V. sopra la nota 58.

([70]) “Per una sadica ironia - osserva Vittorio Gabrieli nelle note alla sua traduzione del dramma (Garzanti, 1988) - Riccardo fissa il calendario delle sue mostruose stragi in relazione alle pause naturali della giornata e alle ore dei suoi pasti. Vuol vedere la testa mozzata di Hastings prima d’andare a pranzo e chiede a Tyrrel un resoconto dettagliato dell’assassinio dei nipoti dopo cena, prima di coricarsi”.

([71]) “Who builds his hope in air of your goor looks”: qui “air” è evidentemente usata nel suo senso di “spazio vuoto”, “unsubstantial” come contrario di “solido”, “concreto”, “substantial”.

([72]) Il Lodovici così annota questa scena: “Anche questa (come l’improvviso mutamento d’umore ostentato la scena precedente, N.d.t.) è tutta una commedia. Gloucester e Buckingham, ora che s’è sparsa la notizia dell’assassinio di Hastings, vogliono far credere di essere stati sorpresi da un attacco proditorio condotto contro di loro dallo stesso Hastings”.

([73]) Si capisce che i due fanno la scena davanti al Sindaco di Londra, perché sanno bene chi arriva.

([74]) L’Alexander, al cui testo generalmente m’attengo, attribuisce questa frase al Lord Mayor; altri - seguendo l’“Arden Shakespeare” - l’attribuiscono a Buckingham.

([75]) Il Palazzo di città, il Municipio.

([76]) La lascivia di Edoardo era in realtà proverbiale tra il popolo. (V. sopra la nota 9).

([77]) Era uno dei più antichi fortilizi della Londra normanna, costruito da Guglielmo il Conquistatore.

([78]) Sull’identità di questi personaggi, trascrivo dalle note del Lodovici (op.cit.): “John Shaw, fratello del Lord Mayor di Londra, dottore in teologia, tenne poi nella chiesa di San Paolo un sermone sulla lussuria del defunto re Edoardo e sulla condizione di bastardi dei due figli… Frate Penker: predicatore illustre, padre provinciale dei frati Agostiniani”.

([79]) Si capisce che i principi - i due figli di Clarenza - sono stati fatti trarre alla Torre da Riccardo. Da esperto drammaturgo, Shakespeare ci ha risparmiato la scena, lasciandola immaginare da ciascuno a suo talento.

([80]) Lady Elisabeth Lucy, dei conti di Suffolk, andata poi sposa al visconte Lisle.

([81]) “Ma intanto che questo matrimonio (di Edoardo con Elisabetta Woodville, vedova di John Grey) si celebrava misteriosamente a Grafton Vourt, Warwick, per incarico dello stesso re Edoardo, negoziava in Francia un legame con Bona di Savoia, sorella della regina; e tutte le convenzioni erano già concluse, allorché il conte riseppe della determinazione di Edoardo” (Galibert & Pellé, op. cit. I, pag. 406).

([82]) Riccardo aveva comandato vittoriosamente la spedizione contro gli Scozzesi, nemici tradizionali degli York (1482).

([83]) “… were not used to be spoken to but the Recorder”: “Recorder” si chiama oggi in Inghilterra il magistrato monocratico equivalente press’a poco a quello ch’era il nostro pretore. Al tempo di Shakespeare, era così denominata la persona, esperta di discipline giuridiche, nominata dal sindaco e dagli assessori comunali (“Aldermen”) per registrare o tenere a mente le procedure giudiziarie da suggerire che fossero da applicarsi nei casi singoli; la sua testimonianza orale faceva testo. La figura medioevale dello scabino è quella che più gli si avvicina.

([84]) “È sempre stato l’accorgimento più astuto del tiranno simulare la devozione religiosa” (John Milton, “The Complete Works”, vol VI, pag. 381, Yale University Press, 1962).

([85]) “For on that ground I’ll build a holy descant”: l’immagine è tratta dalla polifonia medioevale nella quale il “discanto” era la voce più acuta della composizione musicale, che cantava, sulla base musicale, la parte più alta. Buckingham vuol dire che fingerà di unirsi come prima voce alle richieste dei cittadini portate dal Lord Mayor.

([86]) “Go, go, up to the leads”: “lead” è qualsiasi luogo da cui si domina una vista, un gruppo di gente; in questo caso è il soppalco della scena (“the upper”)che dovrebbe raffigurare la galleria/loggia del palazzo, sulla quale si farà vedere Riccardo in mezzo a due prelati.

([87]) “… the aldermen”: erano quelli che sono oggi gli assessori del comune, i più stretti collaboratori del sindaco (prima li ha chiamati “brethren”, “confratelli”).

([88]) Il linguaggio di Riccardo e Buckingham è volutamente fiorito e artificioso, come dev’essere un linguaggio ipocrita.

([89]) “… which fondly you would here impose on me”: “fondly” è qui inteso nel senso che la parola aveva nell’antico inglese di “affectionately”, “tenderly”, “lovingly”; il senso peggiorativo di “foolisly”, “stoltamente”, “insensatamente”, con il quale l’hanno inteso molti curatori, è venuto alla parola successivamente. E del resto, a fil di logica, Riccardo, per quanto voglia fingere, non potrebbe trattare da insensati quelli che vengono a offrigli una cosa che egli vuole gli venga offerta.

([90]) V. sopra la nota 80.

([91]) Gli storici Galibert & Pellé (op. cit.) narrano così l’incontro di Edoardo con questa Elisabetta.

“In una partita di caccia ch’ebbe luogo nel Northamptonshire, a Grafton, ebbe (Edoardo) occasione di vedere Elisabetta Woodville, vedova di John Grey, gentiluomo addetto alle parti di Lancaster, stato ucciso nella seconda battaglia di Sant’Albano, e al quale erano stati confiscati i beni. Appena fu Edoardo entrato nella residenza di Elisabetta, essa dama gli si gettò alle ginocchia per supplicarlo di restituire ai suoi figli i beni del padre. Colpito Edoardo dalla bellezza della giovane vedova e dall’incanto del suo conversare, accordò tutto quello che gli si domandava, sperando che a vicenda egli non avrebbe che a domandare per ottenere. Ma Lady Grey fu incrollabile; e malgrado l’affetto reale che per Edoardo sentiva, seppe resistere all’abbagliante prestigio che circondava un re di venticinque anni. Edoardo, vinto da sì nobile resistenza, ma sempre preso, profferì la mano e la persona a colei che gli aveva ispirato sì viva passione. E il matrimonio si compì.”.

([92]) Per Buckingham il letto in cui nasce è “illegittimo” (“unlawful”) solo per comodità dialettica, perché in realtà Edoardo nasce in virtù di matrimonio.

([93]) Si tratta, storicamente, della piccola Margaret, contessa di Salisbury, nata nel 1473, e quindi in età di 10 anni al momento del dramma; la madre è Isabella Nevill, sorella maggiore di Anna, figlie entrambe del famoso conte Riccardo di Warwick detto il “Creatore di re” (“Kingmaker”).

([94]) Si capisce qui che il matrimonio con Riccardo di Gloucester è già avvenuto; non però l’incoronazione di Anna a regina, che avverrà nel cuore del dramma.

([95]) “… go, cross the seas and live with Richmond, from the reach oh hell”: questo Richmond, per la storia, è Enrico, conte di Richmond, ultimo rappresentante della casa Lancaster, nipote, per parte di padre, di Caterina di Francia, presso la quale si trova rifugiato dopo la disfatta definitiva subita dai Lancaster nella battaglia di Tewksbury. Su di lui i partigiani della “rosa rossa” (la rosa dei Lancaster) fermarono l’attenzione per rimetterlo sul trono e liberarsi dalla tirannia di Riccardo III. Ma la congiura fallì. Richmond riprenderà poi le armi contro Riccardo e sarà quello che lo ucciderà nella battaglia di Bosworth, diventando re col nome di Edoardo VII.

([96]) Richmond non era figlio ma figliastro di Lord Stanley. Sembra chiaro che le parole di Stanley: “You shall have letters from me to my son in your behalf” non può intendersi, come leggono molti: “Porterete con voi lettere da me a mio figlio…”; non si capisce come possa Dorset, recando egli stesso un messaggio a Richmond, fargli sapere di venirgli incontro per la strada, una volta sbarcato in Francia. A Calais non c’era posta pneumatica!

([97]) “To feed my humour, wish thyself no harm.”: cioè: “Non voglio uccidere in me l’equilibrio dei sensi, impazzire, abbandonandomi alla collera e all’invidia contro di te”. È un improvviso sprazzo di filosofia greca. Secondo Ippocrate, nel corpo umano sono presenti quattro liquidi (“humours”): il sangue, sede della passionalità; la bile, sede della collera; la flemma, sede del sentimento omonimo, e l’atrabile, sede della malinconia. Secondo che nell’uomo predomini l’uno o l’altro di questi “umori” si rompe l’equilibrio del suo essere. Elisabetta dice che se dovesse mettersi ad augurare male ad Anna, nutrirebbe uno dei suoi umori, la bile, a danno di altri e finirebbe con lo squilibrare il suo temperamento. Al tempo in cui Shakespeare scriveva il “Riccardo III” (il lavoro figura depositato allo “Stationer’s Register” nel 1597), il suo amico Ben Jonson scriveva la sua commedia “Ciascuno col suo umore” (“Every Man in His Humour”), rappresentata nel 1598; è probabile che questo accenno di Elisabetta agli “humours” ne sia un’eco.

([98]) Riccardo York odia il padre di Anna, Warwick (Sir Richard Nevill, conte di Warwick, detto il “Creatore di re”, “The Kingmaker”, v. sopra la nota 93) perché questi, nel dare in sposa la figlia Anna al principe Edoardo, figlio di Enrico IV e di Margherita, aveva avuto in animo di rimettere sul trono d’Inghilterra la casa Lancaster.

([99]) La didascalia che figura in tutti i testi è: “The trumpets sound a sennet”: il “sennet” è uno dei tre segnali musicali presenti nel teatro di Shakespeare, gli altri due sono il “flourish” e l’“alarm” (o “alarum”). Il “sennet” dei tre è il più solenne: annuncia solitamente l’entrata in scena in gran pompa di personaggi regali. Consiste, secondo la ricostruzione congetturata (non v’erano registratori di suoni all’epoca), in una serie di squilli di tromba o di corno, o degli uni e degli altri insieme. È anche usato per salutare l’entrata in scena di cortei, processioni, tornei, ecc. La sua durata pare non dovesse essere meno di due interi minuti. È detto anche “Fanfara”.

Il “flourish” è invece un semplice squillo di tromba, usato per circostanze analoghe, ma meno solenni o pompose.

L’“alarm” è normalmente un rullo di tamburo, usato per annunciare una battaglia in corso, l’ingresso di un esercito in marcia, un funerale. Può accompagnarsi con gli altri due segnali.

Quali forme musicali avessero questi segnali è, naturalmente, ignoto.

([100])All’epoca, tra le famiglie nobili si promettevano in sposa, e talvolta si maritavano anche, bambine non ancora puberi.

([101]) Il testo ha un generico: “Go by this token”, dove “token” è qualunque cosa che possa darsi come pegno, campione, segno di riconoscimento, ecc. Alcuni intendono “con questo anello”. Il fatto è che ciò che Riccardo consegna a Tyrrell non si sa: è una di quelle cose che Shakespeare lascia alla fantasia del regista o di chi legge.

([102]) “Rise and lend thine ear”: è da intendere che Riccardo sia sempre seduto in trono, e Tyrrell si sia inginocchiato ai suoi piedi.

([103]) Quel che Riccardo sussurra all’orecchio di Tyrrell ce lo farà sapere il racconto di questi nella scena seguente: Riccardo gli dice come deve uccidere i bimbi: soffocandoli. Con quale dinamica, però, non si sa. “We smothered”- dirà l’altro sicario Dighton; ed è lo stesso verbo che si ritrova nell’“Otello” nella didascalia della scena finale: “Smothers her”; dove, in verità, non fu mai pacifico tra i critici se si tratti di soffocamento mediante strozzamento, o mediante la pressione di un cuscino sulla bocca. Nel film di Laurence Olivier, Riccardo, a questo punto, per mostrare a Tyrrell come procedere, afferra un cuscino e glielo tiene pressato sulla bocca. Ma anche qui, regista e lettore immaginino a loro agio e talento.

([104]) Castello normanno sull’altura che sovrasta la città di Exeter, nel Devonshire.

([105]) Brecon, nella Contea del Galles, nella valle dell’Usk, feudo della famiglia Buckingham, con un famoso castello medioevale.

([106]) “I lor cadaveri, ancora caldi, furono portati a pié della scala, dove furono sepolti in una fossa all’uopo scavata. Tale è il racconto che fecero gli assassini alcuni anni dopo; ed alcune ossa trovate nel sito indicato durante il regno di Carlo I non permettono di dubitare della loro veridicità” (G. Galibert & C.Pellé, op. cit., I, pag. 415).

([107]) V. sopra la nota 70.

([108]) Edoardo IV, oltre ai due figli maschi, che Riccardo ha fatto trucidare alla Torre, aveva avuto da Elisabetta cinque femmine. La prima, Elisabetta, di cui qui si parla, andrà sposa a Richmond, venuto al trono come Enrico VII.

([109]) “When holy Harry died, and my sweet son.”: sottinteso “Dio dormiva”. Enrico VI e Edoardo, principe di Galles, erano rispettivamente marito e figlio di Margherita d’Angiò.

([110]) Il rito di sedere per terra a raccontare a se stessi e agli altri le proprie sventure è frequente nei personaggi shakespeariani (cfr. in “Re Giovanni”, III, 1, 73: “Here I and sorrows sit, here is my throne…”:

COSTANZA - (Si siede per terra)

“E qui sediamo io e il mio dolore,

“qui è il mio trono….”

([111]) V. sopra la nota 58.

([112]) “Cancel his bond of life”: “bond” è ogni documento legale con cui un governo o altra autorità si obbliga a pagare al cittadino creditore alla scadenza. Qui sta sta per il “buono” (nel senso di “buono del Tesoro”) che Dio rilascia agli uomini al momento della loro nascita, e annulla al momento della loro morte, secondo la dottrina di Epitteto (v. sopra la nota 46).

([113]) Nessuno, che non sia un Inglese “verace”, riuscirebbe a capire il senso di questa battuta di Riccardo; e anche tra gli Inglesi veraci credo siano pochi quelli che sanno che “l’ora di Humphrey” (“Humphrey hour”) è l’ora di colazione. L’espressione, secondo il Praz (“Riccardo III”, Sansoni, Firenze, 1943-47) è derivata forse con allusione al “Good Duke Humphrey”, come veniva chiamato dal popolo il Duca Humphrey di Gloucester, figlio minore di Enrico IV, e, alla morte di suo fratello Enrico V (1422), Lord protettore del minore figlio di quello, Enrico VI. Nella cattedrale di San Paolo a Londra, dove si credeva fosse sepolto (a torto, perché la sua tomba si trova nell’Abbazia di Sant’Albano), ci chiamò “Duke Humphrey Walk” la navata in cui si raccoglievano i mendicanti, e poiché è dei mendicanti saltare il pasto, l’espressione “pranzare con il Duca Humprey” passò a significare “saltare il pasto”, “digiunare”. Sicché il senso della battuta di Riccardo alla madre che gli ha chiesto di citargli una sola ora in cui ella abbia avuto conforto dalla sua compagnia, è: “L’unica ora in cui sei stata confortata, è stata quell’ora in cui io non c’ero, tu avevi appetito e hai fatto colazione senza aspettare la mia compagnia”.

([114]) In verità, Brigida, una delle quattro femmine avute da Elisabetta col primo marito - e perciò non “di sangue reale” come Elisabetta e i due maschi fatti trucidare da Riccardo -, si fece monaca; le altre tre, Cecilia, Anna e Caterina andarono tutte spose a nobili inglesi; così Elisabetta.

([115]) Nel testo inglese Elisabetta non risponde “Sì, nipoti”, anche se dice: “Cousins indeed!”, rispondendo a Riccardo, che aveva detto : “You speak as if that I had slain my cousins”; il testo inglese gioca sull’omofonia di “cousin”, “cugino”, “nipote”, “parente in generale”, e “cozen”, “ingannare”, “defraudare”. Sicché è come se l’attrice risponda: “Sì, ingannati!”. È uno di quei bisticci di parole con i quali Shakespeare, con un abile tocco di comicità, che è impossibile rendere in altra lingua, fa sorridere lo spettatore nei momenti più drammatici.

([116]) Come si è visto, le cose non sono andate come dice Elisabetta. Tyrrell, nel suo monologo all’inizio della scena 3a, non parla di pugnali e di sangue; i due piccoli principi furono soffocati, come racconteranno i due sicari alcuni anni dopo (C. Galibert & C, Pellé, op. cit. I, pag. 415); ma Elisabetta non sa ancora in che modo sono stati uccisi i suoi figli.

([117]) Il Lete, il fiume infernale della mitologia classica che scorreva nei Campi Elisi e le cui acque, che le anime morte dovevano bere, avevano il potere di cancellare dalla mente il ricordo del passato.

([118]) “Your reasons are too shallow and too quick”: “quick” detto di parole è “pronto” nel senso di “vivace”, “infiammato ma superficiale”; detto di persone è “vivo”, “animato da vita”, opposto a “dead”(cfr. in “Amleto”, V, 1, 122: “’Tis for the dead, not for the quick…”); e in tal senso lo intende Elisabetta, associando le “ragioni” ai suoi due figlioletti uccisi.

([119]) L’ordine della “Giarrettiera”, istituito nel 1344, era ed è la massima e più prestigiosa onorificenza cavalleresca inglese; essa veniva conferita in solenne cerimonia dal re in persona.

([120]) Cristoforo Urwick è un prete e ai preti gli Inglesi dànno del “Sir” che, in quel caso, corrisponde al nostro “don”.

([121]) V. sopra la nota 59.

([122]) S’intende: se passassi dalla parte di Richmond; del quale - come abbiamo visto - Stanley è patrigno.

([123]) Località imprecisata, che alcuni indicano - come noi qui - con Hardforest, altri semplicemente con Harford; l’Alexander ha un “Hardford West in Wales”, che non esiste egualmente sulle mappe dell’epoca.

([124]) “Rice ap Thomas”: “ap” è la particella patronimica dei nomi nobiliari gallesi, come “mac” degli scozzesi e il “de” degli italiani; ma il traduttore non se l’è sentita di tradurre qui “Riso de Tomaso”!

([125]) Centro dello Staffordshire, alla confluenza dei fiumi Tame e Anker, distante circa 20 km. da Birmingham, 150 da Londra.

([126]) V. sopra la nota 96.

([127]) Si legga “lai-ster”, per la metrica.

([128]) “ The Earl Pembroke keeps his regiment”: è inutile notare che all’epoca del dramma non esisteva un’unità militare chiamate “reggimento”.

([129]) “… good captain Blount”: “captain” e “general” nel linguaggio shakespeariano sono la stessa cosa.

([130]) Il vaticinio di Enrico VI a Richmond è nella terza parte dell’“Enrico VI”, VI, 6, 70-78.

([131]) “Jockey of Norfolk, be no so bold/ For Dickon thy master is bought and sold”: il messaggio reca in sottinteso l’annuncio del tradimento di Lord Stanley, passato con le sue truppe dalla parte del figliastro Richmond. Per la storia, fu l’apporto delle truppe di Stanley che decise la battaglia (1485) di Tamworth a favore di Richmond, determinando con essa la fine della dinastia degli York, e l’avvento di quella dei Tudor.

“Dickon”, da “Dick” vezzeggiativo di Richard, è usato qui in senso spregiativo/ironico, “Ricciardetto”; “bought and sold”, letteralm. “comprato e venduto” è espressione idiomatica per “tradito”. I due versi sono tolti in presti dalla traduzione di Vittorio Gabrieli (Garzanti, 1988).

([132]) “… and I will stand the hazard of the die”: letteralm.: “… e starò al rischio del dado”; “starò al gioco” è costrutto preso in prestito dal Lodovici (op.cit.).