ROMA ZERO, GENOA UNO
di Giuseppe Manfridi
Primo campetto sotto un cavalcavia. Stessa scuola, ma non stessa classe. Polvere e fango. Palloni sbrecciati. Rifiuto della divisa. A San Siro l’anno dello scudetto con la macchina a gas. Avellino. Napoli. Terni. Pistoia. Firenze. Bologna. E Genova col jet del Roma Club La Garbatella. Una foto persa. Una bandiera conservata. Sogni nati con noi. Spinti nello stesso urlo. Infinite volte, sulle stesse pietre. Poi le lotte del giorno per giorno. Le compagne. Le cadute. Le rivincite. Per tutto questo, per tutto ciò che la vita induce a condividere, dedico il mio racconto a Massimo Billi.
L’hanno cacciato dalla città che si era scelto. A riaccoglierlo, quella dove è nato. Mai disamata, ma contestata. Non ha più casa, in questa. Sennonché, la Provvidenza si è rivelata sotto forma di un amico che gli ha trovato quindici metri quadri porta a porta da sé, sullo stesso pianarettolo, lì in Borgo. Una cuccia a cui l’intero quartiere fa da cortile. Il palazzo è di quelli che assemblano, tra le stesse murature, ricoveri sparutissimi e dimore da copertina. - Appena messo piede nel corridoietto mozzo in cui consiste l’intero appartamento, Marco è corso ad affacciarsi alla finestra campita nella parete di fondo che fa da punto di fuga a quel microscopico tutto. Eccolo, Borgo. Una viuzza che Roma si era riservata di tenergli quasi nascosta per offrirgliela adesso, come lo scenario in cui allestire la sua nuova esistenza. Proprio di fronte, legge una grande scritta a svolazzi lilla che battezza un bar di cui si intuiscono i vastissimi interni. Punto di ristoro, senz’altro, per i pellegrini in marcia verso San Pietro. Scialanga. Capito. Lì mi vedranno tutte le mattine a fare colazione. Di fianco, sicuramente parte dello stesso esercizio, una pizzeria. E lì a cena. Poi, abbassando lo sguardo, nota a sinistra la croce verde smeraldo di una farmacia. Altra comodità. Per quando avrò le mie prime ospiti. Ma stavolta il pensiero suona quasi a denigrazione di sé. Ora Marco sente solo un bisogno famelico di amici. Amici, amici, amici. Che lo vengano a trovare. Che stiano il più possibile con lui. Che non lo lascino solo. Tutti quegli amici che hanno costitutito il vero tesoro della sua vita e che, abbandonando Roma, lui si era rassegnato a vedere assai di rado, confidando che qualcuno di loro potesse sporadicamente raggiungerlo a Parigi, eventualità tanto auspicata quanto disattesa, o approfittando dei suoi ciclici ritorni per rimpatriate in cui riabbandonarsi a chiacchiere e abitudini d’un tempo. Lo Stadio, tanto per dirne una. Separarsi dalla sua squadra non fu prezzo da poco. Chissà se sua moglie ne è mai resa conto. Ma và. Figurarsi. Per quello che le importa. No, no... non dico di me. Ma per quello che le importa di qui. Di dove sto. Di dove sono. Di tutto ciò che è stato mio e a cui sono appartenuto prima di conoscerla. Mi ha trascinata dove ha voluto, dandomi l’illusione che fossi io a proporlo. Bene. Allora, una volta per tutte: non sia più la perdita a governare i miei giorni. Non più la perdita. Quel che resta, ecco l’importante. E quel che resta è quanto riemerge dal profondo di me, del mio passato, e che si rifà nuovo, quasi mai conosciuto prima. E ripensa all’unica volta in cui lui, romano di Ponte Lanciani, fosse venuto in precedenza a Borgo Pio. Per far visita all’amico che ora gli ha risolto la vita trovandogli quel buco in subaffitto, e che, altre volte, evitando di forzare un’innata pigrizia, aveva preferito incontrarlo altrove. Marco sente che questo flusso di fosforescenze in cui le emozioni si mescolano ai ricordi, e i ricordi al dolore presente, e il dolore presente al ragionamento sta per formulare una sorta di apodittico aforisma da tramutare in motto su cui improntare gli anni a venire. Tenta di formularlo, quell’aforisma, e bisbiglia a fior di labbra: La mia città non si è scordata di me, ma si è scordata che volevo scordarla e mi carezza sussurrandomi: Beato colui a cui è dato di rincontrare nel futuro il proprio passato. Scrive l’ultima frase su un foglietto che appiccica con dello skotch su una parete. Il primo segno di appartenenza a quanto gli si offre. E’ nell’ombelico di Roma. Le campane che sente sono quelle di San Pietro. Da oggi in poi scandiranno le sue giornate. Mai stato dentro le pietre, le mura, i selciati, le fibra della sua città come adesso. Ma è presto per poterlo apprezzare. Il lutto lo devasta ancora. Camminando per vicolo delle Palline vede i polpacci di lei che lo sopravanzano svelti di un paio di metri; polpacci troppo tondi e poco slanciati e perciò così tremendamente suoi - suoi di lei, di sua moglie, di quella che... di quella con cui... della donna che ormai non più... - e già occhi gli si riempiono di lacrime. Va bene, d’accordo... è ancora troppo presto, troppo presto. Prevedo che smetterò di aspettare, ma è ancora troppo presto. E sorride molando la frase in maniera che suoni come un calambour. Aspetto il momento in cui avrò smesso di aspettare... aspetto con ansia di non aspettare più con ansia una certa cosa, cioè a dire che forse lei... no, no, addirittura lei sarebbe troppo! Ma un segno di lei, almeno questo sì. La voce del padre, uno squillo, un messaggio, ma è ancora troppo presto. Ce ne vorrà prima che il telefono si tramuti in qualcos’altro da ciò che al momento è: l’idolo presso cui rimettere ogni possibile sogno di gioia presente. Di poter riamare dopo aver smesso di amare. Questo aspetto. Questo aspetta. Vorrebbe comprarsi, sentite che assurdità, una guida tipo Beadeker di un tempo, d’inizio secolo; uno di quei vademecum, insomma, che fanno da Bibbia a certe turiste di Forster, e mettersi a girare Roma come uno straniero nascondendosi a se stesso e al ventre-madre che in tutti i modi ha saputo dirgli e ripetergli sino allo sfinimento: “Eri partito? Non me ne sono mai accorta. Te n’eri andato? Sei tu a saperlo. Volevi sostituirmi? Io, te, mai.” Marco pensa tra sé e sé quante volte, con Giovanna, ha esclamato tronfio, quasi a sottolineare una conquista da spillare sul bavero come un distintivo: “Qui si sta meglio di lì”. Ma no, abbi il coraggio di pronunciarla per bene la sentenza. Scandendo i nomi. “Parigi è meglio di Roma. Parigi è più bella di Roma”. Quante volte. Con Giovanna, ovviamente, d’accordo. Con Giovanna che Roma non l’ha mai amata. Né conosciuta. Né desiderata conoscere. E adesso lui teme, d’un tratto, che la città senta quello che sta pensando, quello che sa di aver pensato. Parigi è più bella di Roma. Dio mio, dovrò dunque percorrere queste strade braccando un perdono perenne? Già mi basta di aver rinunciato a meritare quello di una donna. Eppure, questa contorta astrazione lo affligge come un pruno vero. Entra da Scialanga e si rifugia in un angolo, presso quello che ormai è diventato il suo tavolino consueto e quotidiano. Vi poggia sopra un cappuccino tiepido e un cornetto. E’ già l’ennesima colazione consumata così. Rimpiangerai anche questo. Di tutto si può avere nostalgia, purché la vita persista. Il suono delle campane si è impastato al suo corpo. Anche la facciata della Basilica si è impastata al suo corpo. Anche la voce del Papa all’Angelus si è impastata al suo corpo. Assieme al campetto dei Monti Tiburtini, al cavalcavia delle Circonvallazione Nomentana, alla ferrovia della Tiburtina, alla scarpata del Mengarini, alla statua verderame nell’atrio del Liceo. Borgo era prescritto nel suo destino al di là di ogni intenzione. Possibile, dunque, che Parigi sia stata solo una tappa di avvicinamento? Sì, possibile. Lo fontanella a vasca sormontata dal mascherone di un dèmone pietrificato segnala l’esatto punto di mezzo della stradina. Di notte lui la sente ruscellare e pensa alle parole di una sua antica insegnante che tornando da una visita a Micene confidò commossa all’intera classe: “Dal fondovalle veniva il suono di un torrente. Allora mi sono ricordata di Elettra che, piangendo il padre ucciso, si confortava, di notte, al suono di onde lontane. Eccole... erano le onde del torrente che secoli dopo, stavo sentendo io.” Oggi Marco può finalmente interpretare a pieno il senso di quel palpito. Eccola!... Ecco la mia acqua... il mio Stige vivificante mescolato al chiasso del Pub affianco della farmacia. Dal mio fondovalle, il mio torrente di Elettra. - Poi, un giorno, il telefono suona in modo decisivo. All’altro capo del filo, una voce che lo fa capitombolare dentro di sé. Sua moglie vuole vederlo. Verrà lei. E’ importante. E’ un Big Bang da cui le percezioni cominciano ad amministrarsi secondo un ritmo tutto loro rimodellando il tempo da cima a fondo. Giovanna a Roma?... Sponte sua?... Un evento! Come accoglierla? Che fare? Bene, perlomeno vedrà dove vivo. Si renderà conto. Confida a chiunque gli capiti a tiro la clamorosa notizia. Cerca consiglio con orecchio sordo. Ne rivece di ogni tipo. Esortazioni alla calma, e che non deve aspettarsi nulla. Che si prepari anzi a... No, zitto, so che vuoi dire! Zitto! E l’altro non aggiunge altro. Lui pure non aggiunge altro, supponendo di aver capito e di essersi fatto capire. Vive di equivoci braccando malintesi. Si fa leggere la mano da chiunque abbia un minimo requisito per tentare l’impresa. Seleziona solo ciò che gli serve credere, scartando il resto. Così si prepara a uno di quegli appuntamenti che, nell’arco di un’intera esistenza, si contano sulle punte delle dita. Passa davanti alla vetrina di una boutique per sacerdoti. Osserva apatico i merletti delle tonache, le giacche da clergymen grigioferro e i collari di cellulosa. Si spinge fino alla piazza dove già hanno cominciato a montare le strutture del presepe. Oggi il suo quartiere è questo. Di nuovo, dunque, una lotta fra città. Si impianta sulla stella di pietra da cui lo sguardo cancella la prospettiva dell’intercolonno e ogni singolo fusto di marmo è nascosto da quelli della prima fila evocando la perfezione di un emiciclo senza retrovie. Immagine perfetta. Una coppia di giapponesi aspetta che si scansi per prendere il suo posto. Lui muove un passo, e il colonnato si frange di nuovo in una selva. Ha fame. Rimpiange di non poter entrare in un bistrot. Poi i passi di lei per l’angustia delle due rampe. Ha i capelli corti. Sempre avuti, perché stupirsi? Forse la frangetta...? “Complicato arrivare!” “Dipende.”. Sembra si sia fatta più piccolina, e sì che già di suo!... E’ il primo pomeriggio di una domenica dal cielo smagliante. “Dicembre, a Roma, può riservare di queste sorprese. Freddo?” “No. Poco.” “Posso accendere. Si scalda in un attimo”. “No, davvero”. “Se vuoi, dillo.” Tacciono. Poi parlano. Di conoscenze comuni. Gli amici di lui, quelli di lei. Nuovamente spartiti. “Quando pensi di riprendere le tue cose?” “Per metterle dove?”, e la induce a guardarsi attorno. Giovanna lo fa. Considera lo spazio. Realizza di trovarsi in un guscio. Non replica. Per lui, si tratta quasi di una vittoria dentro una sconfitta. Dio mi preservi da una partita a scacchi! Non è di questo che ho bisogno. Devo parlare col sangue, coi nervi. Silenzio. Le offre un caffè. “Va bene, grazie. Mio padre ha provveduto al trasferimento delle tue obbligazioni” “Ah!” “Mi dice di dirti che stanno andando bene” “Ah”, e questi ‘ah!’ sarebbero il linguaggio del sangue, dei nervi?... Intanto mette acqua nel serbatoio della moka. Capisce quanto sia inutile aprire bocca. Non si può duellare impugnando la spada per la lama. Anche la partita a scacchi gli è vietata. Lei non è qui per discutere, ma per dire. Lui le sbircia le mani. Nude. Dieci dita nude. “Voglio la separazione” “Non ora.” “Che vuol dire ‘non ora’?” “Non ora”. La donna è scossa da un fremito di nervi. E’ quasi ridicolo sentirle domandare “Dov’è il bagno?”. La risposta di lui si limita a un cenno del volto. Tanto basta per indirizzarla a un paio di metri da dove se ne sta seduta. Giovanna scompare per preservarlo, forse, da una crisi di collera. E’ così senz’altro. Perché altrimenti quell’assurdo rumore di doccia? Lui non si è mai azzardato ad aprirla, quella doccia. O meglio, una volta sì, dopodiché ha dovuto passare due ore ad asciugare per terra. C’è un pensiero, però, che in tutto quel frattempo non ha smesso un istante di tenersi all’erta. Guarda l’ora. Le quattro e venti. Di Domenica. Prende il telecomando e accende l’accrocco che ha recuperato a casa di sua madre. Si sintonizza su un canale fra i pochi di accettabile ricezione. In una tempesta di pulviscoli vibranti, legge: Roma zero, Genoa uno. Skuravy. Quel perticone ceko! Ha una smorfia. Ingoia. Sorride. Che avrebbe pensato Dino Campana di una siffatta collisione, pressoché perfetta, fra l’universo e l’io? Tra il minuscolo e l’enorme? E cosa ne avrebbe pensato il suo mèntore Nietzche? Un verso gli attraversa l’anima: Tutto è Simbolo e Analogia. Il primo del Faust di Pessoa. Voglio la separazione. Roma zero, Genoa uno. Skuravy. Squadra mia adorata... chi tra noi due sta vivendo la vita dell’altro?... Chi, tra noi due, è l’altro? Ma poi... siamo davvero due, noi due? Mai si era sentito tanto solo prima di qualche minuto fa. Mai tanto vincolato come adesso. Quando lei esce dal bagno col volto prosciugato e pallido come una parete sgombra, e quando lo fissa come a intimargli: “Prova a ripeterlo il tuo ‘non ora’!”, lui, spegnendo il video, mormora senza girarsi: “C’è ancora tutto un tempo.” Getta il telecomando sul divano-letto e, sforzandosi, pensa di nuovo ad altro. Pensa a lei.