SALVAMI
Monologo
Il testo che andremo a rappresentare con la struttura del monologo, tratta le tematiche che in questo periodo storico risultano essere di maggior risalto sociale. In particolare viene messo in evidenza il tema dell’immigrazione, del bullismo e della disabilità.
Data la complessità dei temi in questione, abbiamo preferito ridurre al minimo l’azione fisica dell’attore recitante per dare maggiore spazio alla parola netta, asciutta ma incisiva, contornata dalle immagini in 3D e dalle coreografie.
Le quali coreografie dovranno essere realizzate sia nei momenti di recitazione che negli stacchi della parte recitata.
Dal punto di vista della scrittura del testo si è voluto mettere insieme le tre tematiche facendole legare, come filo conduttore, dall’esperienza diretta dell’interprete protagonista.
Un medico di origine libica vive da diversi anni in Italia, svolgendo la propria attività professionale al servizio delle strutture di recupero dei migranti. Ormai è avanzato in età e quindi prossimo alla fine della sua carriera ma, sconvolto per i recenti fatti di cronaca sociale, decide di raccontarsi e raccontare una storia umana di vita vissuta che per anni ha tenuto dentro di sé.
Affronterà il tema dell’immigrazione raccontando la propria esperienza di profugo; parlerà del bullismo dilagante nella società italiana partendo dalla sua infanzia e dalle violenze subite. In particolare verranno messe a confronto le violenze fisiche tipiche di un popolo in guerra con le violenze psicologiche della nostra società democratica ed “evoluta”.
Infine, ma pur sempre intrecciato nella trama, il tema della disabilità. In questo caso si è voluto impostare il racconto del narratore sulla propria esperienza con un bambino profugo. Il tema verrà snocciolato partendo dalla consapevolezza che i diversamente abili possiedono una comprensione assoluta di tutto ciò che nella vita è essenziale e ci riportano ai valori di amicizia gratuita e alla totale mancanza di preconcetti.
Ivan Giumento
SAID: (entrando si siede, apre la carpetta e ne estrae un foglio visibilmente strappato. Poi inizia a leggere)
“Carissimo Said, figlio mio, sento un forte groppo in gola nel cercare le giuste parole da scrivere in questa assurda lettera di addio. Assurda come questa guerra senza fine, come questa vita disperata, come questo buio che mi sovrasta e questa luna che non vuole andare via. Quando leggerai queste parole io non sarò più accanto a te e le tue piume, ancora troppo piccole e deboli, dovranno spiccare il volo nella solitudine di un cielo troppo grande per i tuoi piccoli occhi scuri. Ma se terrai lo sguardo alto troverai anche tu il puntino luminoso che ti indicherà una via d’uscita, una strada alberata, un’idea di libertà. Perdonami se non sono con te in questo momento ma questa guerra ci ha tolto….” (smette di leggere e piega il foglio)
“Questa guerra ci ha tolto…Cosa ci ha tolto “questa guerra”? Ho trascorso una vita intera cercando di chiudere quella frase; trovare le parole che mio padre ha voluto rivolgermi per l’ultima volta con la stessa dolcezza di un bacio spezzato dal pianto.
(dialogando col foglio) La guerra ci ha tolto quasi tutto caro papà…ma la storia, la nostra storia, ci ha insegnato tante cose…Ci ha insegnato che tra il bene e il male e tra la pace e la guerra vince sempre quel piccolo frammento di cuore che batte…batte e per fortuna non può fermarlo nessuno!! (ripiega il foglietto e lo conserva nella carpetta. Musica-danza).
Era una calda giornata di maggio. La primavera, in Libia, arriva quasi all’improvviso, con dei soffi di vento così leggeri da muovere appena le foglie degli alberi in giardino. I bambini si incontrano per le strade dei quartieri in festa, e le mamme dai balconi scambiano qualche parola con la vicina di casa, mentre con lo sguardo non perdono di vista i propri figli….
Era una calda giornata di maggio e io la ricordo bene..
Giocavamo per strada, io e il mio amico Rashad. Ci stavo bene con Rashad perché era sempre allegro e mi faceva ridere. Eravamo inseparabili come due fratelli…Anche Rashad aveva origini italiane, come me! I nostri nonni erano venuti in Libia dopo che Mussolini ne aveva ordinato la colonizzazione. Mio nonno in Italia aveva imparato a lavorare il ferro, era un grande fabbro. Certo…a quei tempi non c’era molto spazio per la creatività…per il design… A quei tempi si realizzavano ferri di cavallo…chiavi e serrature per le porte…e qualche cintura di castità commissionata dai soldati che andavano a combattere in qualche guerra sperduta per il mondo. Mio nonno amava raccontare che di tanto in tanto, ma solo sotto lauto compenso, oltre alla cintura consegnava alle donne pure la chiave!! Era un grande uomo mio nonno! E quando gli proposero di partire per la Libia non ebbe un attimo di esitazione e partì, insieme a mia nonna e a mio padre adolescente.
Quando misero piede in quella terra martoriata da mille guerre e altrettante dominazioni, si accorsero subito che l’aria non era poi così diversa rispetto a quella lasciata alle spalle. Guerra, invasione, distruzione e ricostruzione : erano queste le parole che volteggiavano nell’aria e in quei piccoli e fradici dammusi diventati saloni di barbiere.
Eppure, nei loro discorsi così appassionati e soprattutto nei loro occhi….c’era una straordinaria voglia di riscatto…una forza quasi selvaggia che li proiettava verso un futuro senza certezze ma che li faceva sognare e progettare…così…all’infinito…
Era una calda giornata di maggio e io la ricordo bene…Io e Rashad facevamo la gara su chi fosse arrivato per primo alla fontana che troneggiava imponente alla fine della strada. Lo facevamo ogni giorno, era il nostro primo gioco del pomeriggio! Ai bambini basta poco per divertirsi e noi eravamo felici di correre, di vincere e anche di perdere….Ma io vincevo sempre ...ero proprio una saetta! E quando io e Rashad iniziammo a contare il 3..2..1..per darci il via alla partenza…sentii una forte scossa alla gamba destra. Ero accovacciato e pronto per partire…ma la scossa divenne dolore…forte…inaspettato e lancinante…che al confronto un fuoco è niente. Mi buttai a terra urlando e Rashad non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo…che già mia madre e altre donne del vicinato si strinsero intorno a me…e da quei momenti non ricordo più nulla. Anzi…ricordo che quel dolore alla gamba destra segnò la fine della mia infanzia e l’inizio di un nuovo e per nulla esaltante progetto di vita. (STACCO)
Mio padre nacque in Sicilia, dalle parti di Castelbuono…sulle Madonie. Tra quelle montagne si respira l’aria più pulita del mondo. Io ci sono stato parecchie volte, da grande. E ogni volta che mi sono trovato in quei posti ho sentito dentro di me la voce di mio padre. Non è facile da credere…ma è così! E tutto questo mi ha sempre dato una bellissima sensazione di pace e riconciliazione della mia anima con l’universo infinito…
Quando mio padre arrivò in Libia aveva appena compiuto 12 anni…e mio nonno, come regalo, lo mandò a lavorare nei campi!
Aveva sempre gli occhi rossi quando mi raccontava la storia della sua vita…e io lo ascoltavo con lo sguardo fisso su di lui e senza quasi respirare. Perché capivo già allora che quelle parole sarebbero state l’unica eredità che avrei avuto in dono da lui. Ma nonostante tutto…sono certo che avrebbe voluto raccontarmi di più…tante altre cose…Quante altre cose?
Mia madre invece era una ragazzina dal viso dolcissimo e dai lunghi capelli lisci e neri. Nata e cresciuta a Bengasi, sulla costa Libica più bella e soleggiata di tutto il mondo e dove i ricchi di tutto il mondo amano approdare le loro imbarcazioni da gran turismo!
Quando mio padre e mia madre si conobbero si innamorarono in un istante... ed erano bellissimi come la primavera…
Poi si sposarono…poi nacqui io…e poi...è tutta una piccola grande storia! (STACCO)
Fare il medico in Italia è stata l’esperienza più sensazionale della mia vita. Mi ha sempre affascinato il mistero di questo corpo umano così perfetto e così fragile, un insieme di cellule ordinate l’una accanto all’altra, dove io, con le mie mani, posso intervenire per curarne un eventuale malfunzionamento.
Eh si…proprio come il meccanico con il motore dell’auto! Salvare la vita delle persone è un privilegio che ti accompagna per tutta la vita. Ti fa stare bene nel momento in cui lo fai e anche anni dopo…quando è il momento di fare un bilancio di ciò che sei stato e di quante impronte hai lasciato nel cammino dei tuoi anni. Ma i bilanci..come i ricordi…ci fanno sempre un po’ di paura. Soprattutto quando affiorano alcune cicatrici che non si sono sanate nonostante…nonostante tutto…(STACCO)
Mi chiamo Said, sono nato in Libia da padre italiano e madre Libica. Avevo 7 anni quando la mia famiglia fu costretta a scappare da quella terra benedetta dal sole e maledetta dall’uomo in cui un dittatore aveva deciso di porre la propria residenza. Di notte scappammo…di notte…proprio in quelle ore in cui i bambini dormono rassicurati dal calore delle braccia di una madre e dalla tenue luce della luna che entra tagliente dalla persiana socchiusa. Dormivo cullato dai miei sogni di figlio bambino…
Così fui svegliato…”vestiti e non fare domande…subito”, e non capivo cosa stava succedendo, “prendo i giocattoli mamma”, non c’è tempo…la nave sta partendo…Proprio così mi disse mio padre…”la nave sta partendo”.
Non capivo...non capivo…ma avevo percepito da tempo che tutto era cambiato. Il Regime di Gheddafi non vedeva più di buon occhio noi italiani e mio padre fu costretto a lavorare per pochi spiccioli e con l’obbligo del silenzio. Nell’aria non sentivo più il profumo del mare ma un odore acre di libertà negate…di parole non dette…di saloni di barbiere senza parole, risate e fumo di sigarette.
“La nave sta partendo”…e nel mio cuore si aggiungevano battiti ai battiti…mentre il sangue scorreva veloce bruciandomi la pelle…Un ultimo sguardo alla mia stanza..ai miei giochi…al mio tutto…Un ultimo sguardo alla casa che si allontanava sempre di più…Istintivamente sollevai il braccio per salutare con la mano quel palazzo in cui ero nato e cresciuto ma che non mi avrebbe mai visto invecchiare…Sentivo parlare i miei genitori e a poco a poco ogni tassello andava al proprio posto…Ero piccolo per rendermi conto del pericolo di quel viaggio…ma abbastanza grande per capire che stavamo scappando dalla Libia verso un posto migliore, più libero e con tutte le risorse mediche che mi avrebbero permesso di tornare a correre coi miei amici...curandomi la maledetta “displasia delle anche” che mi fece urlare quel pomeriggio…di quella calda giornata di maggio. (STACCO)
Ci sono giorni che avresti voluto non vivere mai e altri che rivivresti identici l’uno all’altro fino al tuo ultimo respiro. Nel pentagramma della vita ci sono fogli bianchi che dobbiamo riempire con le note dei nostri respiri, con le immagini riflesse nei nostri occhi e con i segni delle rughe che affiorano sulle nostre candide guance….I miei giorni erano stati fiori di melodie…ma quando arrivammo al piccolo porticciolo e non vidi alcuna nave, chiesi a mia madre cosa diavolo stesse succedendo. Non ebbi risposta…e da questo compresi che qualcosa di insolitamente brutto stava per accadere. Nonostante il buio profondo di quella terribile notte riuscivo a vedere in lontananza un gruppo di uomini e donne che si stringevano in silenzio intorno ad un uomo sulla cinquantina, basso quasi quanto me e dal viso bruciato dal sale. Anche noi ci unimmo a quel gruppo di gente silenziosa e singhiozzante. L’uomo dal viso bruciato con un cenno della mano ci chiese di seguirlo. Io camminavo a malapena e provavo forti dolori dal basso ventre in giù,…perché le mie gambe non funzionarono più dopo quel pomeriggio con Rashad. Quando arrivammo in riva al mare, su quel bagnasciuga che tante volte mi aveva carezzato i piedi, sentii improvvisamente il calore di due lacrime scendermi tra le gote e raggiungere, salate, le mie labbra. Anche mia madre piangeva...ma almeno lei sapeva il perché!
Non ebbi neanche il tempo di pensare…che mi ritrovai seduto su una barchetta tanto piccola quanto fragile e incerta nel suo navigare. Stretto tra queste persone che non potevano più muoversi, per non pensare, iniziai a contare ogni sagoma umana…dalla prima all’ultima fila…Uno..due…tre…settanta…settantuno e io…settantadue!
Freddo..buio..silenzio..paura..molta paura!
Mia madre era accanto a me e stringeva le mie mani alle sue…e mio padre, due file più avanti, teneva stretta al petto una carpetta lucida e rossa. Nessuno parlava e nessuno poteva muoversi da quella morsa in cui erano incastrati alla perfezione questi disgraziati senza passato né presente e né futuro. (STACCO)
Non ho mai raccontato a nessuno questa esperienza così assurda alla quale nessun uomo dovrebbe mai essere sottoposto. Mi tremano ancora le gambe, adesso come allora. Quel viaggio in barca fu infinito…E nella tenera ingenuità dei miei anni, trovai nel mio cuore un angolo di pace in cui raggomitolare le mie paure e cedere i miei occhi al sonno. Non so per quanto tempi dormii…ma ricordo bene che mi svegliai di soprassalto completamente bagnato e con altra acqua che mi veniva addosso. C’era qualcuno che urlava di paura, i bambini addirittura piangevano! Una forte burrasca stava spezzando i legni della barca, ad ogni onda scricchiolava tutto. Mia madre mi stringeva sempre più forte e sempre più impaurita. Mio padre era più avanti e ci guardava con gli occhi fissi e impietriti dalla consapevolezza di non poter fare nulla… Il cuore mi batteva forte, avevo la sensazione che mi dovesse scoppiare il petto….Intorno a me c’era un inferno di acqua e onde, vento gelido e odore di speranze ormai perse...
Le stelle e la schiuma delle onde erano la cornice di un quadro di disperazione e morte. Non riuscivo neanche a piangere, tanta e tale era la mia paura…e quando un bambino prova la paura della morte è allora in quel momento che diventa uomo. (STACCO)
Pochi ricordi…molte immagini…
Il vento che continua a soffiare forte…le urla delle donne e dei bambini…gli uomini che vorrebbero proteggere la loro famiglia…e le onde…le onde sempre più violente e forti…
…l’ultimo abbraccio di mia madre…l’ultimo sguardo di mio padre…che finalmente riesce ad avvicinarsi a me, tra le onde violente e forti,…per darmi un bacio…un bacio di addio dal sapore amaro delle cose incompiute, delle parole non dette e dal calore ormai crudelmente gelido. “In questa carpetta ci sono tutti i tuoi documenti”…dammi un bacio papà…”Non perderla e stai sempre attento” …abbracciami papà…”Non perdere questa carpetta e dalla ai dottori che ti faranno stare bene”….non mi lasciare papà…”Fatti onore figlio mio…fatti onore in Italia”…Non lasciarmi da solo…”Ti amo figlio mio”….ti amo papà.. (STACCO)
Quando riaprii gli occhi sul mondo, la luna era ancora alta e pallida sopra di me. Intorno a me c’erano ormai poche persone e da subito mi resi conto che soltanto in pochi respiravano ancora. Nessuna traccia di mio padre…fredde tra le mie le mani di mia madre. Sotto i miei piedi una carpetta chiusa con un elastico…una carpetta rossa…anzi…era proprio QUELLA carpetta rossa che mio padre aveva gelosamente custodito durante la mareggiata. Alzai lo sguardo per un attimo e vidi tanti uomini vestiti tutti uguali che urlavano parole in una lingua che di certo non era la mia ma che capivo bene. Erano i soccorritori…arrivati troppo tardi…e parlavano la lingua di mio papà.
I pochi sopravvissuti venivano presi per le braccia e fatti distendere su una grande nave. Io ero sul fondo della barca, al buio e quasi letteralmente schiacciato da mia madre. Mi videro tardi, quando ormai la barca era quasi vuota e il sole si alzava timidamente sulle acque siciliane. Mi vennero a prendere, mi aiutarono ad alzarmi e quando fui in piedi ricaddi su me stesso. Provai molto dolore ma non piansi e non dissi nulla. Da quella posizione mi venne facile prendere la cartella rossa e stringerla al mio petto. Un uomo grande e grosso mi prese tra le sue braccia e mi portò sulla grande nave. Mi asciugò alla buona e con un pennarello di colore nero mi scrisse sulla mano un numero che non andò più via…settantadue! Poi fui affidato ad una signora dagli occhi lucidi…che mi fissò per qualche secondo e mi rassicurò sussurrandomi parole dolcissime che arrivavano come gocce di vita dritte dritte al cuore…(STACCO)
E’ passato tanto tempo da quella notte….e ancora oggi, a distanza di così tante notti e tante lune, non riesco a capire com’è stato possibile che io non abbia mai versato una lacrima. Quella notte fu tragica e io non piansi. Avevo perso entrambi i genitori in quella traversata. Non riuscivo a camminare e le mie gambe erano mollicce e dannatamente inutili! Non avevo nulla con me, se non una carpetta con dentro un referto medico, una lettera dal finale strappato e una fotografia. Non avevo nulla con me…se non la triste consapevolezza che quella notte…con quella luna…salìì sulla barca con le ferite di un bambino e ne scesi qualche ora dopo con le cicatrici di un uomo.. (STACCO)
Quando arrivammo al porto siciliano mi prese in cura un medico anziano e senza alcuna espressione. Mi visitò e capì subito che ero un portatore di handicap. Non sapeva e non poteva sapere che soffrivo di displasia alle anche. Ma quando aprì quella carpetta che tenevo stretta al cuore, vide il referto del mio medico Libico e ordinò per me un immediato ricovero. Nel libricino che teneva sul tavolo scrisse un numero seguito da una parola: 72 HANDICAPPATO. (STACCO)
La vita in comunità non è poi così male! Si mangia si dorme si studia e si gioca anche un po’. Da quando ero stato affidato alla casa-famiglia avevo ricominciato a camminare zoppicando vistosamente…ma con calma e senza correre. Mi divertivo parecchio a fare gli scherzi ai grandi che si occupavano di me. Il signor Nino, il portinaio, era quello più simpatico. A volte, nei pomeriggi estivi e caldi mi chiamava in portineria e mi strizzava l’occhio senza parlare. Quello era il segnale che Carmela la cuoca era uscita a fare la spesa e che la cucina era incustodita. Pertanto toccava a me intrufolarmi nella dispensa e prendere dal frigorifero un’aranciata per me e un bicchiere di vino fresco per il signor Nino. Poi ci si sedeva insieme e si beveva come due vecchi amici di osteria. Nel frattempo rientrava Carmela e ci trovava con la refurtiva nelle mani ed erano rimproveri su rimproveri… Per me e Nino non c’era scampo!…Una volta presi dalla dispensa non un bicchiere di vino…ma tutta una bottiglia intera. Il portinaio mi disse che non avrei dovuto farlo e che ero stato troppo azzardato! Ma senza pensarci poi così tanto, se la scolò tutta d’un fiato. Ancora rido pensando all’immagine di quest’uomo che ubriaco corre da una punta all’altra del lungo corridoio cantando a squarciagola e ridendo come un pazzo per tutto il pomeriggio.
Mi piaceva troppo stare con lui…era la mia parte allegra…era adolescente quanto me, pur avendo ormai superato di gran lunga le 50 primavere.
Era una famiglia la comunità. Eravamo come fratelli e ci volevamo veramente bene. Nelle nostre vene non correva lo stesso sangue ma era la muta consapevolezza di una diversità sociale che rendeva comuni le nostre vite. (STACCO)
Avevo appena 7 anni quando quelle mura mi accolsero e mi diedero un tetto. Era l’ora del pranzo e fui accompagnato su una sedia a rotelle direttamente nel refettorio dove altri bambini stavano già mangiando. Mi sistemarono in un tavolo in fondo alla sala…da solo. E quando alzai leggermente il mio sguardo imbarazzato vidi che alcuni di loro mi guardavano con occhi fissi e incuriositi…altri ridevano di me…e alcuni tra i più grandi cominciarono a insultarmi con una parola più tagliente di un pugnale: STORPIO! Abbassai nuovamente lo sguardo e sentìì un calore fortissimo agli occhi. Era una lacrima che avrebbe voluto segnarmi il viso…ma che invece non venne giù..
Una voce di donna, squillante e austera allo stesso tempo, ordinò a quei ragazzi di smetterla con gli insulti e di ritornare al proprio posto. Improvviso calò il silenzio…e le risate divennero sorrisi sottovoce e ghigni senza suono. La donna dalla voce squillante si avvicinò a me e mi si sedette accanto.
“Ciao Said…io sono Francesca e da oggi mi occuperò di te. Adesso mangia qualcosa e stai tranquillo che gli altri ragazzi non ti derideranno mai più!”
Io non risposi…e istintivamente volli toccare le sue mani con le mie. Il calore delle mani di Francesca mi regalò un brivido sulla schiena e per un momento rivedevo mia madre e ne sentivo l’odore della pelle. Fu un attimo…e da lei non mi staccai mai più! Da quel momento e per sempre…fu per me MAMMA FRANCESCA.
Quella prima notte non riuscii a prendere sonno. Pensavo alla mia famiglia…al mio amico Rashad…ai giochi perduti. Quale sarebbe stata la mia vita? (STACCO)
C’è sempre una risposta per ogni domanda. Questo l’ho imparato nel corso dei miei 11 anni trascorsi in comunità. Ma la verità è che in tutta la mia vita non c’è stato un solo giorno in cui abbia perso la speranza. Avevo fame di conoscenza e a scuola ero così bravo che ogni anno vincevo il premio come migliore alunno! Mamma Francesca era sempre più orgogliosa e mi riempiva sempre di attenzioni e regali di tutti i tipi. Lei non voleva ammetterlo…ma quando la mia amica Sara mi chiese se potevamo fidanzarci, ebbe una reazione di gelosia che nessuno si aspettava. Ma cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto dire di no alla più bella della comunità? Del resto, ero carino anch’io....e Sara non fu l’unica fidanzata della mia vita…Insomma…diciamo “fidanzatina”…. Eravamo piccoli ancora!! Forse un po’ precoci…questo si…ma pur sempre dei bambini cresciuti prima del tempo. Bambini diventati uomini in mezzo alle guerre sparse nel mondo come tanti coriandoli senza colore, bambine ormai grandi e ormai mamme che hanno sopportato le violenze dei propri padri e di uomini senza senso e senza un dio nell’alto dei cieli. Violenza su violenza e tanto silenzio da parte di tutti. Oggi come allora fuggono dai luoghi più tremendi, dalle nazioni in guerra che non vogliono dare voce al cuore ma che si ritroveranno, un giorno, a dover pagare questi orrori...queste crudeltà…questi germi di terrore. Ma noi eravamo bambini…e i bambini sono fiori che non appassiscono mai…(STACCO)
E adesso eccomi qui! Qui con la mia carpetta e le mie gambe da tre soldi. Mamma Francesca volle che camminassi a tutti i costi e dopo 4 interventi chirurgici e tanto amore da parte sua, riuscii addirittura a correre! Mamma Francesca era tutto per me…Mi accolse, mi mise in piedi, mi fece studiare e mi prese con se, nella sua casa, quando i miei diciott’anni mi spalancarono le porte verso l’uscita della comunità. Avrei dovuto uscirne prima…come tutti i miei compagnetti che erano stati tutti adottati. Io ero malato…e quindi inadottabile! Scartato da una società che ti vuole sano e forte… Me ne sono fatto una ragione….anche se ancora oggi, la sera prima di addormentarmi, sento il peso delle lacrime che non sono più riuscito a versare dopo quella notte di barca e luna….
E adesso eccomi qui…(apre la carpetta ed estrae la lettera del padre)…con una carpetta sempre meno rossa e una lettera dal finale strappato. Cosa ci ha tolto la guerra papà? Ci ha tolto tutto papà…la guerra mi ha tolto te e la mamma…la casa…il mio amico Rashad…i miei sogni di fanciullo…E questa lettera incompleta è stata la ragione della mia vita…la stella polare verso cui ho guardato ogni notte, con la speranza di vedere te e la mamma abbracciati e sorridenti e finalmente felici per me. A volte mi piace pensare che sia stato proprio tu a strappare quest’angolo di carta perché io ne cercassi il significato e per regalarmi la forza di vivere giorno dopo giorno alla continua ricerca di qualcosa…..
(Uscendo di scena) Stasera la luna è più vicina del solito…Se ti avvicini puoi guardarla negli occhi…basta avvicinarsi, così…ancora un altro passo.. Eccoli, gli occhi della luna. Fissi, silenziosi e immobili. Gli occhi di chi ha capito ogni cosa e gli occhi di chi sa come andrà a finire… Occhi di pietà e occhi d’amore… Occhi di chi è partito per non ritornare più e di chi ha visto bruciare i propri sogni consegnandosi all’altare della vita con le mani vuote...i pugni chiusi e una rosa di carta rossa stretta al cuore.
Stasera la luna è più vicina del solito…e forse riuscirò a toccarla…o forse….forse è meglio che rimanga lì…più in alto di ogni cosa…per ricordarci che siamo davvero piccoli… per fare luce sulle nostre notti buie… e per far splendere…come rugiada… ogni dolce lacrima sulla nostra pelle…
(Entra una donna da fuori con un bambino tra le braccia) Dottor Said…dottor Said…un altro sbarco…sono 372…uomini donne e bambini…(passa il bambino tra le braccia di Said)
SAID: Benvenuto piccolino…non piangere…Io ce l’ho fatta: Adesso tocca a te!
Ivan Giumento