Schiaffi e… affini

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              Schiaffi e… affini

                                                Monologo  semiserio

                                                                 di

                                                    Antonio Sapienza

Personaggi:

Un attore cabarettista e la sua spalla.

Torre del Grifo,  dicembre 2018

Sul palco vuoto entra in scena il cabarettista.

Cabarettista- Signori, oggi vi parlerò degli schiaffi e dei suoi affini. Chi di voi non  ha avuto la sua piccola o grande esperienza con questa vecchia pratica, magari da testimone. Ebbene, io vi propongo la mia, che all’ottanta per cento, è frutta della mia modesta e povera esistenza.  Rullo di tamburi, prego!

A tumbulata co sgrusciu, cioè il regale siculo ceffone. ( Pausa di raccoglimento, poi a “cuntari” cioè a raccontare).

Avevo dieci anni, ero legato al palo della luce, abbagliato dal sole, e guardavo con aria di sfida, Pippu Cacaredda- un ragazzo di sei anni più grande di me-  che mi aveva  punito così, legato al palo, per non aver voluto raccogliergli le cicche di sigarette, che gli Alleati gettavano sul marciapiedi. Perchè, lui con le cicche ci faceva piccoli cumuli di tabacco assortito, che poi vendeva in piazza, appoggiato sul muretto che separa i resti dell’antico tempio, dalla modernità.

Ma proprio in quel momento passava da li per caso, mio fratello più grande di me di oltre quindici anni - che faceva il militare e si trovava in licenza-il quale, senza pensarci due volte, molla a Pippu una “tumpulata co scrusciu” , come a dire un santo ceffone, e gli intima di slegarmi. E quello mi slegò, sì, ma se la legò al dito.  

Poi mio fratello riparti e io restai. E un giorno, sugli scogli d’o Purtusu, intanto che camminavo sul cemento, che ricopriva un tubo di scarico al mare, ecco che incrocio Pippu, che veniva dal senso opposto. Dal suo sguardo intuisco tutto, ma col coraggio dell’incoscienza, continuo a camminare, finchè non ci trovammo l’uno di fronte all’altro - questione di precedenza, tipo Medio Evo - e la tumbulata, ovvero  ceffone, mi arrivò sulla guancia destra come una zampata di leone. Barcollai, mi bruciava la guancia, me la toccai per accertarmi che non ci fosse nulla di rotto, poi mi scansai e quindi ripresi il mio cammino. Pensai: ha saldato il conto, ora mi lascerà in pace. E così fu.   

Poi venne il ceffone

l prof di disegno passeggiava tra i tavoli e sbirciava il nostro lavoro, che consisteva nel copiare sul foglio adatto, un vaso che troneggiava sulla cattedra. Io non ne potevo più di copiare tazze, vasi, anfore, ecc. e, se potevo, scarabocchiavo qualcosa sul foglio-tanto per farmi vedere che facevo qualcosa- e me ne stavo là a pensare, fantasticare, progettare. Ma quell’omone –  alto e grosso come una quercia - non era dello stesso parere, e mi riprendeva, mi rimproverava, in una parola mi stava addosso.

Un giorno, dopo quattro ore di lezione, stanco e annoiato, nel copiare un’anfora- per sbrigarmi, e per fare lo scemo- la disegnai con le sembianze del corpulento professore, con le mani sui fianchi -come usava lui nello spiegare la lezione-al posto dei manici e con un pancione prominente al posto della pancetta della incolpevole anfora.

Ma il caso volle che l’omaccione passasse proprio nella mia fila, alle mie spalle, silenziosamente, e sbirciasse sul mio foglio. E subito arrivò la tempesta perfetta!  I tuoni che emanava col suo vocione erano i peggiori che abbia potuto sentire, ma il lampo che mi trafisse il cervello - dovuto a un ceffone come Dio comanda - mi causarono uno stordimento che preoccupò l’energumeno; il quale a posteriori, pensò al pasticcio in cui s’era messo a causa della sua rabbia mal contenuta. Mi portò in bagno, con un fazzoletto bagnato mi rinfrescò il viso rosso come un’arancia sanguinella, si accertò che non ci fosse qualche osso rotto, poi mi riportò in aula e mi fece sedere, dicendomi diterminare il lavoro che avevo iniziato –cioè la sua caricatura. Naturalmente, data l’epoca, non mi passò per la mente di denunciarlo al Preside, ed era fuori discussione di parlarne ai genitori.Ma, a fine anno scolastico, fui promosso con un bell’otto in disegno ornato.

Quindi la sberla

Finì sulla vetrinetta delle ampolle e dei preparati dell’aula di chimica. Chi ci finì? Ci finì un mio compagno di classe che fece lo stronzo davanti alle ragazze.

Come fu? Fu che eravamo nella predetta aula in attesa che arrivasse il professore di chimica. E, come succede sempre, nell’attesa, coi miei compagni, scherzavamo e facevamo i galletti davanti alle nostre compagne di classe.

Una in particolare mi interessava perché ci stava a limonare “inconsapevolmente”, cioè intanto che si giocava allo “schiaffo del soldato”, riveduto e corretto, per la circostanza, dato la presenza delle fanciulle. E quel tizio sopraddetto -accortosi della preferenza che la compagna mostrava di stare vicino a me, durante le operazioni di carica e di scarica dello schiaffo – forse mirando a prendere lui il mio posto, oppure per gelosia, o per semplice stronzaggine, non mi va a toccare il dente che mi doleva? Era un dente, sì, ma non mi doleva perché cariato, mi bruciava invece perchè, da ragazzino, non vado a ruzzolare per terra durante un inseguimento tra compagni? E non mi vado a scheggiare propriouno “zappone”, cioè l’incisivo destro? Sul momento non detti importanza al fatto, ma crescendo e facendomi giovanottello, quel dentequasi a triangolo rettangolo, mi dette un sacco di dispiaceri: mi sentivo brutto, inferiore, complessato, nei confronti degli altri miei amici. E, con le ragazze, purtroppo, le cose andavano peggio.

Quindi, quando quell’imbecille mi gridò: sgangalato! – dispregiativo di dente scheggiato-mi partì una sberla da campionato mondiale, da Guinnes dei primati, da medaglia d’oro, scaricata con tutta l’anima e il braccio, che lo mandò a fracassare la povera malcapitata vetrinetta.  

Eppoi lo schiaffo

Quando compii diciassette anni, dovetti allontanarmi dalla mia città perché andai a cercare la fortuna e il lavoro altrove.

Fino a quell’età ero sempre in  compagnia degli amici del quartiere, coi quali, dopo la scuola, passavo intere ore a giocare al calcio, nel quale gioco, al di là del solito ruolo all’ala destra- quindi in disparte rispetto all’area calda dell’agone delle nostre interminabili partite, correndo appresso ad una palla da tennis- ero una mezza schiappa; oppure giocando a carte – soprattutto preferivamo una specie di poker paesano, che noi chiamavamo lo stoppi - in un luogo appartato sugli scogli della riviera.

E’ da premettere che allora, tra i ragazzi della borgata c’era una vera scala gerarchica che si rispettava rigorosamente perché condivisa da tutti. Per esempio, al mare, c’erano i picciriddi che avevano al massimo sei o sette anni, per i quali era previsto che facessero il bagno nella vaschicedda profonda meno di mezzo metro e imparavano a nuotare a cagnolino; poi c’erano i carusi di dieci-undici anni, che facevano il bagno negli scogli dove l’acqua era profonda due-tre metri e iniziavano a nuotare a rana con puntate al crawl; e, infine i picciotti, ragazzotti già impennati, che erano i padroni degli scogli “due frati”, alti tre metri, da dove si tuffano in acqua profonda più di dieci metri e battevano il crawl già da piccoli campioni; e per amore della verità, questo controllo sociale, non produsse mai alcun incidente in acqua. E questo per quando riguarda il mare. Ma anche nella vita normale, i picciotti avevano la supremazia assoluta sui loro carusi  ”sottoposti”, i quali accettavano i loro cosiddetti rimbrotti –per non dire le infuocate parolacce- e i loro scappellotti, senza reagire.

Quel giorno scesi in mare e andai a vedere come procedeva il gioco a carte sul solito scoglio, al riparo di occhi indiscreti. Avevo compiuto diciotto anni da un mese, ero al mio primo giorno di ferie e avevo voglia di rivedere i picciotti, ma non di giocare. Poco dopo, uno di essi, di qualche anno più di me – ottimo giocatore di calcio con la palla da tennis, sull’unica strada asfaltata, che mi aveva sempre “maltrattato” perché ero scarso in quel gioco, mentre eccellevo nel nuoto- per un futile motivo, forse per un mio commento, mi offese con parolacce, come soleva fareai tempi passati.

Ma quei tempi erano veramente passati, perché di fronte a lui ora c’era più un carusu, ma un prestante giovanotto che, con un ben assestato schiaffo, lo mandò a gambe all’aria e col sedere a mollo nell’acqua bassa. E lui non reagì. E io non infierii, anzi me ne andai con un generico: “Salutiamo picciotti.”

…lo schiaffetto

Ero già adulto, molto adulto, quasi di mezza età, quando fui costretto dalle circostanze a dare un altro schiaffo, o meglio, uno schiaffetto, e questa volta ad un’altra persona adulta.

Eravamo al ristorante a festeggiare un compleanno, quando, purtroppo, una discussione generò in litigio a causa di qualche parola detta male o capita male.

E siccome tutti i commensali erano parenti, ed io il più anziano, fui costretto a intervenire per calmare un tipo che s’era acceso come un fiammifero e stava per passar alle vie di fatto. E con che cosa potevo calmarlo, oltre alle parole di circostanza che quello nemmeno udiva? Come potevo fermarlo? Ma con uno schiaffetto –come avevo visto fare in certi films- che lo riportasse alla realtà delle cose. E così fu. 

…lo schiaffino

La gelosia fa fare sciocchezze anche a persone serie e avanti con gli anni. E questa volta mi trovai implicato, come non mai, in una situazione imbarazzante.

Si, perché quello era un sentimento, fuori luogo e fuori dalla realtà perchè la persona che aveva suscitato la gelosia, di mese ne fregava altamente. Insomma, era proprio l’opposto di quella figura,chesi credeva fosse per me.  Era una collega, e non si fece scrupolo nel farmi le cosiddette “scarpe” in occasione di un certo lavoro, e che mi mise out, senza alcuna possibilità di poterlo ottenere.

Ma la persona gelosa questo non lo sapeva, non lo credeva o non volle crederlo, perché mi ossessionò talmente e con una tale isteria, che mi costrinse a usare il solo modo per farla tornare in se: un vigliacco schiaffino - che mi portai per sempre sulla coscienza… che era pulita.

Poi divenni vecchio e tutto finì. Come finironoignorate quelle sberle, non tanto metaforiche,che la vita,purtroppo, ancora ti scodella; e che, ormai, finalmente vicino alla saggezza, fai finta di non capire, di non vedere e di non sentire… e amen.

… i schiaffoni

Un mancato incidente- sorpasso audace – qualche segnale d’intesa tra i due automobilisti che, poi, si fermano in un autogrill per chiarirsi. Si chiariscono, si danno la mano, poi uno offre un caffè all’altro, il quale accetta ma vuole pagare lui; l’uno insiste, l’altro pure e …finisce a schiaffoni: l’uno va via con l’occhio destro nero, l’altro con un bisteccone sull’occhio sinistro.

E, quindi i sganassoni a sgrusciri e a furriari

Entra in scena la spalla del cabarettista

Cabarettista, io farò la parte di Turi, il mio amico e collaboratore, farà l’avvocato. allora  (col giornale in mano, segnalando un articolo alla spalla, quasi tra se)

Turi-  … dategli corda che quelle t’impiccano.-

Avvocato – Scusi… non la seguivo…-

Turi – Guardi…questa qui come t’ha ridotto il marito … (pensieroso) sarebbero bastati quattro santi sganassoni a “sgusciuru e a furriari”  e tutto si risolveva… Uno schiavo! Perdinci!(colpisce il giornale con la mano)-

Avv.- (evasivo, annoiato) Capita…-

Turi – (infervorandosi) Macchè, macchè.Avvocato! E’ capitato perché quella era emancipata…lavorava, faceva la dirigente, qua c’è scritto tutto… (scuotendo la testa) Avvocato (scuotendoli il  braccio per attirarne l’attenzione) avvocato, in confidenza, la donna deve stare in casa. Quello è il suo legittimo posto e lì deve svolgere il suo compito naturale. E qual è questo compito ? È il servizio verso il suo uomo, caro avvocato. Vuole un esempio? Esempio: Mia madre, quando mio padre tornava dal lavoro, lo faceva sedere sulla poltroncina migliore, gli toglieva i calzini, gli  lavava i piedi, gli portava la pipa e gli preparava la cena. E mio padre si sentiva un pascià. E che volete che un uomo, dopo le sue fatiche di pesante lavoro, non trovi in casa la sua “sistemazione”? Avvocato, lei cosa dice? ( e senza dargli il tempo di rispondere, riprende ad esternare) Vede, caro avvocato, mia moglie sta in casa, è analfabeta e idiota, ed io sono un uomo felice. Felice? Macchè! felicissimo.  (pausa) Ma anch’io, in passato, feci qualche errore… come quella volta, quando andai al Nord per lavoro. Sappi! Sappi che io, attivo e intrepido, ebbi la debolezza- dico debolezza-di mandare al lavoro anche mia moglie. Ma fu pazzia di pochi giorni, perché dopo rinsavito, la rifilai in casa. Le dissi: march, altrimenti sono sganassoni a sgrusciri e a furriari! (pausa) Vede, avvocato-quella, mia moglie, non se l’è fatto dire due volte – ma certo lei, nel suo naturale elemento- è l’angelo della casa: Devota, affettuosa, disciplinata, efficiente, e, se mi posso permettere, senza offesa per nessuno, anche sensuale. Esì, il lavoro è libertà e piacere, egregio avvocato. Ma ciò si gusta di più stando in casa.-

Avv.-  Ehilà, lei dalle donne passa al lavoro, senza darmi il tempo di risponderle? E, soprattutto a proposito di sganassoni, io…-   

Turi – E che cosa vorrebbe dire? Lei, anche se è avvocato, non è forse un uomo? Quindi è d’accordo con me? Dunque?-

Avv.-  (con gesto di esasperazione) Sorvoliamo, per adesso, sull’argomento donne al quale vorrei ritornare… (poi tra se) Accidenti, sono di fronte al classico tipo che parla e non ascolta. Ma, prima di contraddirlo,vorrei sapernedi più su questo tizio pieno di certezze d’altri tempi.  (poi a Turi) Ma scusi, per curiosità, ora lei che lavoro fa? –

Turi -  Io? Nessuno? Perché? ( meravigliato della domanda).

Avv.-   E come vive?-

Turi-   Perché, per vivere bisogna lavorare?-

Avv.-   Almeno io lo credo.-

Turi-   No, caro avvocato, lei sta in un altro pianeta, glielo assicuro: per vivere bisogna contemplare e godere. Il lavoro è per campare. Vita e lavoro sono incompatibili.-

Avv.-   Ma lei ha appena detto che il lavoro è libertà e piacere.-

Turi - …  Per gli altri. Per me il lavoro è sola fatica e schiavitù.-

Avv.-   Ma scusi, e come viv... volevo dire, come fa per campare?-

Turi -   Campare? Io vivo! Vivo! Vivo, sogno, godo e contemplo. Poi, quando mi rimane un pochino di tempo libero, vado in banca e ritiro il fruttato dei Bot.-

Avv. -   Sorprendente! Lei vive di rendita.-

Turi -  Io campo con la rendita, ed è differente. E comunque è poca roba, quanto basta a mia moglie per mettere la pentola sul fuoco.-

Avv.-  Ma non ha detto che andò al Nord per lavoro? Quindi ha anche lavorato in vita sua, o mi sbaglio?-

Turi -  Io ho detto che andai per lavoro, non ho detto che lo trovai e che lavorai. Comunque, sì, lo confesso, ho lavorato a bottega con mio padre per cinque anni, facevo il restauratore di mobili antichi, o vecchi, se preferisce. E lavoro ce n’era, sa con la mania dei pezzi d’epoca, veri o falsi. Poi mio padre, buonanima ebbe la fortuna d’andarsene all’altro mondo – presumo – ed io vendetti tutto, misi in Bot il ricavato e vissi...d’arte.-

Avv.-  Insomma fa il fannullone…-

Turi -  Ehi, avvocato, ma com’ha fatto a capirlo?-