Sciopero

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giacomo vallozza

 giacomo vallozza

Sciopero

 una storia di zopito

a mia madre

ai nostri padri

Il 22 marzo 1950 la Camera Generale Italiana del Lavoro indice uno sciopero generale per protestare contro la politica del governo di Alcide De Gasperi e contro il barbaro assassinio di due braccianti a Lentella, un paesino della provincia di Chieti, ai confini con il Molise.

Il Ministro degli Interni Mario Scelba, infatti, attuando una repressione militare feroce e intransigente contro ogni forma di lotta sociale, risponde con cariche dell’esercito e leggi antimobilitazione alle richieste di pane e lavoro di innumerevoli disoccupati, braccianti, mezzadri e operai.

La storia di Zopito, ambientata a Loreto Aprutino, un paese del pescarese che oggi conta circa settemila anime, vive di riflesso le lotte bracciantili di quegli anni, che vedono la mobilitazione pressoché generale del proletariato per l’attuazione del Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio. I fatti qui riportati sono forse minori, rispetto a un quadro generale di sommosse che interessano tutta l’Italia; ma hanno lasciato ferite profonde nel tessuto sociale e sono ancora ben presenti nella memoria dei loretesi.

I primi anni della repubblica italiana risultano cruciali per il cammino verso la democrazia, non meno caldi dei successivi anni di piombo. Morte, carcere, emigrazione sono il prezzo pagato per le numerose conquiste sociali.

Alla memoria di quelle lotte e degli uomini che le hanno vissute, il mio lavoro.

Un ringraziamento a Lucio Cutella, Donatella Di Pietrantonio, Elvira Nobilio Rita Di Leo e Caterina Donatelli che mi hanno aiutato a scioperare.

Avvertenza per il lettore

Nel testo vi sono alcuni termini dialettali che ho mantenuto perché non esistono i corrispettivi nella lingua italiana. In particolare la preghiera finale di Zopito è interamente in dialetto e con termini oggi non più in uso. Infatti, gli emigranti che tornano dopo decine di anni parlano un dialetto arcaico caratterizzato dall’accento tipico della lingua del paese dove sono emigrati.

La trascrizione di questi termini non sempre è fedele all’originale, perché i suoni che li contraddistinguono non esistono nell‘alfabeto della lingua italiana. Quello internazionale avrebbe comportato un surplus di segni e reso ancora più difficile la lettura. Ed il risultato sarebbe stato lontano dalla verità.

I canti a cui si fa riferimento sono canti tipici delle nostre terre, legati al lavoro dei campi e alle feste religiose. Per un’eventuale messinscena consiglio di usare canti e idiomi anche di altre regioni, ma legate alla terra.

Questo testo è stato finito di scrivere nell’agosto del 2005 quando lo spettacolo è stato presentato alla cittadinanza di Loreto, nell’ambito della XX edizione degli Incontri.

Non sarebbe stato possibile senza il lavoro degli attori del Teatro del Paradosso: Tommaso Di Giorgio, Federica Nobilio, Irene Cocchini e, in modo particolare, Fausto Roncone.

Foto di copertina

Braccianti di Loreto Aprutino durante lo sciopero a rovescio (1950)

Personaggi della vicenda

Zopito

un giovane loretese

Lucio, Giuseppe, Anna e Carmela

coetanei di Zopito

Maria

madre di Zopito

Donato

marito di Maria

Nonna

madre di Donato

Antonietta

coetanea di Maria

Felice

padre di Giuseppe

Zopito padre

padre naturale di Zopito, coetaneo di Donato e di Felice

Luigi D’Angelo

segretario della locale Cgil e della sezione del PCI di Loreto Aprutino

Giudice

della corte d’Assise d’Appello di Chieti

Suor Zopita

Madre di Felice

Popolo di paese

Il tempo passa, come un gioco, da un presente immaginario al 1950 e viceversa.

La scena è vuota. Sul fondo può collocarsi una finestra.

Gli oggetti usati sono quelli del lavoro.

Bicchieri colmi di vino rappresentano un continuum.

Lo stile recitativo alterna narrazione ed interpretazione collocate in un’atmosfera naive,

che, nei dipinti di alcuni nostri contadini, è quasi spontanea.

I figli sono i loro stessi genitori.

Preambolo

Piove

Zopito e i suoi amici, goliardicamente

Giuseppe – Avete sentito? Un’azienda agricola abruzzese, per la raccolta delle olive, vuol far venire

le scimmie dall’Africa. (bevono)

Carmela – (sfogliando una rivista) Ecco, l’ho trovato! E’ nel Rideau baissé  di Gaston Baty, del 1949:

“Il teatro d’oggi è sotto il segno del caos. Di quello del domani non sappiamo nulla.” (bevono)

Zopito – Sapete? Ho due padri! (Gli altri lo guardano sorpresi. Si ode un fischio di nave)

Di colpo la scena muta. Un flash-back. Si odono passi concitati, porte che cedono sotto colpi violenti. Maria balza in piedi. Zopito, padre, si veste velocemente. Si guardano, come se fosse l’ultima volta.

Quindi Zopito si allontana.

Maria – (appoggiando le mani sul ventre)  Zopito!

Chi è mio padre?

ovvero che a raccontare una storia, subito si offendono tutte le altre.

E’ autunno e si raccolgono le olive.

Zopito – Sono nato il 22 dicembre 1950. Questa data non è stata importante per me fino al giorno

che ho chiesto a mia madre: “Mamma, chi è mio padre?”

Lucio – Ma non sei il figlio di Donato?

Zopito – No, dico quello che mi ha generato. Quello che non ho mai visto. Quello che se n’è andato

in America e non è più tornato.

Giuseppe – Ah, quello che se n’è andato in America e non è più tornato!

Zopito – Perché, lo conosci?

Giuseppe – No!

Lucio – (Uscendo)  Ma non è il figlio di Donato?

Carmela – (Uscendo)  A Donato non assomiglia proprio.

Giuseppe – (Uscendo)  Ma assomiglia alla mamma. E’ il ritratto di Maria, sputato!

casa di Maria

Zopito – Mamma, chi è mio padre?

Maria – E’ successo tanti anni fa. I carabinieri lo volevano mettere in prigione. 

Zopito – Perché, che aveva fatto?

Maria – Niente… era giovane.

Zopito – Non si va in galera perché si è giovani.

Maria – Beh, era un tipo focoso… Ed era giovane.

Zopito – E il giudice gli ha detto: “Tu sei troppo giovane e troppo focoso, vattene in galera!”

Mamma, chi è mio padre?

Maria – No, non si va in galera perché si è giovani o perché si è focosi; ma quando s’incontrano

fuoco e vento…

Nonna – … s’abbrusce lu pajare! 

Maria – Sai come gli si diceva alla razza sua? Li socialiste.

Zopito – Ah, è per questo allora!

Maria – Non so se è per questo. Quella notte i carabinieri lo vennero a cercare a casa nostra,

allora stavamo in campagna. Io dissi che non era entrato nessuno e se ne andarono. Lui invece era lì, accanto a me.

Nonna – Puttana!

Maria – Poi scappò e non s’è fatto più vedere.

Zopito – E dopo sono nato io.

Maria – E dopo sei nato tu.

Nonna – Fije di puttane!

Zopito – Come si chiamava?

Maria – Zopito, come te.

Giuseppe – (Una voce da fuori)  Zopitoo!

Zopito – (Racconta)  Sì, lo so. Zopito è un nome strano. E’ il patrono del mio paese. Pare che un

canonico un po’ tonto, era di Penne, che è un paese vicino al nostro e noi con i pennesi ci siamo sempre presi a botte, beh questo canonico viene mandato a Roma per scegliere le reliquie di un martire e farlo protettore di Loreto; quello che c’era, tale San Michele, non funzionava più tanto, e allora il canonico va a Roma, scende nelle catacombe e legge su una lapide: “Sopitus in domino”, che vuol dire addormentato nel Signore. Tutto contento, il canonico torna con le reliquie del nuovo santo: San Sopitus!. Vero o no, dal 1711 San Zopito è il patrono di Loreto Aprutino.

Lucio – (Una voce da fuori)  Zopitoo!

Zopito – Sì, anche Aprutino è un nome buffo, perlomeno scomodo da dire, da scrivere, da ricordare.

Prima si chiamava solo Loreto. Ma alla fine dell’Ottocento il sindaco, Felice Sericòla, chiede al re Vittorio Emanuele di aggiungere Aprutino a Loreto, per differenziarlo dagli altri Loreto esistenti nella penisola. Ma dico, don Felice, non potevi chiamarlo Lauretum, che è il nome suo latino e a sentirlo fa pure importante? Potevi chiamarlo Laureto, che il nostro è un paesino pieno di lauro, tanto che c’è tutta una scalinata che taglia in due il paese, quello vecchio dico, e si chiama proprio Salita Montelauro; oppure chiamalo Loreto degli Abruzzi, come Anversa o Roseto, che fa pure la sua figura, ma non Aprutino! Che poi si sono continuati a sbagliare lo stesso, anche con Aprutino attaccato al collo di Loreto. Un arbitro di calcio non è andato a finire a Loreto Marche? e la partita si è dovuta ripetere; un sacerdote non si è trovato davanti la Madonna nera, ché nella basilica di Loreto Marche c’è una Madonna nera, e lui, tutto convinto, ha detto “Sono il nuovo parroco!” E quelli, i loretini, i loretesi, i loretani, insomma quelli di Loreto Marche, lo hanno cacciato in malo modo, che ce l’avevano già un parroco, e questo sacerdote, che aveva sbagliato Loreto, si è ritrovato a bestemmiare davanti a un bambino in groppa a un bue bianco che gli si inginocchia davanti…

Giuseppe – (entrando in casa con Lucio)  Buongiorno Maria, Zopito?

Maria – Sta ‘rcità li diasìlle! (1)

Lucio – (a Zopito)  Zopì, quella è un’altra storia!

Zopito – E’ vero, questa è un'altra storia. Ma è che le storie sono collegate fra loro e non puoi

raccontarne una senza che ti tiri appresso tutte le altre e così finisci per raccontare tutte le storie del mondo e non basta più il mondo per raccontarle. Fatto sta che mi chiamo Zopito e sono nato il 22 dicembre 1950 e negli anni cinquanta metà popolazione di Loreto si chiamava Zopito. Pure le donne … Annazopita, Mariazopita… suor Zopita. Al giorno d’oggi, però, nessuno chiama Zopito il proprio figlio. Tanto che il sindaco, anni fa, ha fatto un’ordinanza: “ Do un milione a chi chiama Zopito il proprio bambino.” Lo hanno detto pure al Tg2: “Un milione per un nuovo Zopito!” Beh, quel milione sta ancora lì, perché nessuno chiama Zopito un bambino. Così sono uno degli ultimi Zopito della storia di Loreto, …d’Italia, … del mondo! E mi ritrovo due padri, uno che ha sposato mia madre e si chiama Donato e uno che mi ha generato e si chiama Zopito. Col primo non faccio altro che litigare: sono troppo giovane, dice, per capire. L’altro non l’ho mai conosciuto, né visto: “Era troppo giovane”, dice mia madre. Ma io voglio sapere chi è mio padre. O chi era, perché non lo so mica se è vivo o se è morto.

Giuseppe – Zopì, dobbiamo andare a raccogliere le olive!?

Lucio – Adesso si mette a piovere un’altra volta.

Zopito – (Li presenta al pubblico)  Giuseppe, Lucio.

Giuseppe – (al pubblico)  Giuseppe.

Lucio – (al pubblico)  Lucio.

Zopito – Ma’, portagli un bicchiere di vino! Facciamo i braccianti, proprio come i nostri genitori nel

‘50. Con scala, pannelli e rastrelli.

Lucio – Prima coglievano a mano; le olive le mettevano dentro la saccùte. (2)

Zopito – Qui da noi gli olivi li stanno spiantando, al posto loro ci mettono il tabacco; e lo stato gli dà

pure i soldi.

Giuseppe – E dopo fa le leggi antifumo.

Lucio – Perché non ci va più nessuno a raccogliere le olive; e a potarli, gli ulivi.

Zopito – E le olive marciscono sugli alberi. Ci sono tante di quelle piante incolte che i proprietari ti

dicono: “Quello che cogli ti prendi, a me non devi dare niente!” per non far marcire le olive sugli alberi. Ma anche così, nessuno va a raccogliere le olive e le olive marciscono sugli alberi.

Giuseppe – Ed è un peccato, perché l’olivo è una pianta che non puoi abbandonare, bisogna

averne cura; all’olivo devi rispetto.

Lucio – Intanto campa più di noi; e poi noi siamo un po’ come gli olivi, sofferti, contorti.

Zopito – L’olivo è un’opera d’arte. Che poi ce ne sono di storie da raccontare sull’olivo. 

Giuseppe e Lucio – (Uscendo)  Sì, stiamo freschi!

Zopito – Beh. ve le racconto un’altra volta, se no quello che raccogliamo non basta manco per un

pacchetto di sigarette.

La raccolta delle olive

Sul campo

Si lavora e si canta (3)

Coje la live e coje lu livàstre, coje la live e la frunne ci reste;

Amore amore acciùccheme la rame, fàmmele coje a me le chiù belle fiore;

A vu lu fiure nin vi è distinàte, ji vi li accénne e vu nin li cujéte;

Chi ti l’ha dette amor ca nin ti vuéje, fatte na pajarèlle ca mi ti pije;

Arréte arréte ti voglio venire, cume nu sande ti voglio adorare;

L’amore me sa fatte americane, l’Italie la lassàte in abbandone;

L’amore de la mamme fina alla porta, lu bene di l’amore fine alla morte.

Pausa di lavoro, si vuotano bicchieri colmi di vino

Giuseppe – Te lo dico io cosa è successo a tuo padre.Visto che nel ‘50 la situazione era

drammatica, lui prende e parte: emigra. Va in Sudamerica, che so… in Venezuela. Però sbaglia nave e si ritrova a Cuba. Conosce il Che e finisce al ministero dell’agricoltura sotto Fidel.

Zopito – Mio padre un guerrigliero?

Lucio – Zopito, detto il Che!

Carmela – In Nicaragua con i sandinisti o in Messico con gli zapatisti.

Giuseppe – Il subcomandante Zopitos! (intonano scherzosamente un canto rivoluzionario)

Zopito – Smettetela di dire idiozie.

Anna – Non ti piacerebbe avere un padre rivoluzionario?

Zopito – Sì, ma è più probabile che abbia fatto la fine di tanti emigranti. Se gli è andata bene avrà

messo su una catena di ristoranti, o un allevamento.

Carmela – Come Zopito Valentini?

Zopito – E chi è?

Carmela – Uno scrittore di Loreto. Un grande artista. S'è inventato la Settimana Abruzzese e

l’Aprutium, la più grande rivista degli anni ‘20. Poi i debiti, o i fascisti, lo hanno costretto a scappare e lui se ne va in America. Ci rimane parecchi anni, mettendo su un allevamento di polli.

Giuseppe – Sarà mica tuo padre?

Carmela – No, questo è morto nel ‘39.

Zopito – E’ bello sognare di avere un padre che ha compiuto grandi imprese, un eroe della

rivoluzione, ma la realtà è ben diversa. Leggete, li ho trovati nell’archivio comunale

(porge dei fogli).

Lucio – (legge) Il sottoscritto Di Giorgio Zopito, fu Guglielmo, avendo avuto la casa distrutta dal

bombardamento e senza beni di fortuna, chiede alla S.V. di essere iscritto nell’elenco dei poveri, rattrovandosi nelle condizioni di assoluto bisogno. Loreto Aprutino, 15 gennaio 1950.

Giuseppe – (ironico)  Una coscienza di classe!

Zopito – La coscienza di chiedere tutto a tutti, per sopravvivere.

Anna – (legge)  Il sottoscritto Di Giorgio Zopito, bracciante disoccupato, chiede che gli venga

assegnato un paio di scarpe UNRRA. UNRRA?

Carmela – United Nations Relief and Rehabilitation Administration. (Gli altri la guardano, sorpresi) 

Gli aiuti internazionali.

Zopito – Doveva essere proprio un disperato.

Anna – Chissà come ha conosciuto Maria, tua madre.

Giuseppe – Tra fronde d’ulivo. (Riprendono il lavoro e il canto)

La foje di la live è verde e gialle, cuscì l’amore mie Brunétte belle; 

Ji ti li diche sutte na piande di live, fémmene cume te ngi sta suspìre;

Facce l’amore chi nu giuvinotte, ancore ji ‘ddure la vocche di latte;

Pecura marfalùse e peti zizze, nnì ‘ndrà ‘lla casa a me ca mi li zizze.

Zopito – Poi scompare. Nelle carte non risulta più. Viene cancellato dalle liste elettorali.

Lucio – Beh, se è stato in prigione…

Zopito – Ma che aveva fatto? E perché è scomparso?

Giuseppe – Bisogna chiedere ai nostri genitori. Erano coetanei, sapranno cosa è successo.

Lucio – Andiamo a parlare con Donato.

La bottega di Donato

 

Carmela, Giuseppe e Zopito ascoltano

Donato – A da minì baffune! (4) Questo era. Tutte le litigate con i signorotti locali, i proprietari delle

terre, finivano così. Dopo, nel ‘53 Stalin è morto e allora abbiamo cambiato politica: A da ‘rminì, baffune!  Questo era. Tutto quello che tenevamo da dire ai padroni. Insomma, gioventù, noi volevamo fare la rivoluzione, volevamo il comunismo! Dope sa viste come a ite a finì!  Eh, Zopito, chi lo sa dove si trova! Stavamo sempre insieme, allora, Felice, Zopito e io; compagni di lotta, di miseria… e di bicchieri. Mariii, porta una bottiglia di vino che qui c’è la gioventù! Dovete assaggiare il vino nuovo. L’ho fatto io, così mi dite se è buono. Quest’anno è venuta una specialità! (Bevono).

Noi eravamo tutti iscritti al partito: Partito Comunista Italiano. Ci ho ancora la tessera col faccione di Togliatti, da qualche parte. Lo sciopero a rovescio l’abbiamo cominciato, se non ricordo male, nel febbraio del ‘50. La sera, finito il lavoro, andavamo in via Baio, la via dei nobili, quella che porta dalla chiesa al castello, per mettere paura ai padroni! Quando passavamo noi, con le scarpe nghe li vulle, lo sapete voi cosa sono le scarpe nghe le volle? … le scarpe con i chiodi, sembreje lu terremote! bum, bum, bum… 

Giuseppe – Volevate fare la rivoluzione?

Donato – Figuriamoci, la rivoluzione! Non è partita quando hanno fatto l’attentato a Togliatti?

La famosa ora X. Però ci stava un’aria che si tagliava col coltello. Solo quella, perché da mangiare ci stava ben poco, la miseria ci veniva appresso come l’ombra. D’altronde c’era stata la guerra e tutte le campagne erano disastrate, Loreto bombardata più volte dagli alleati. Zopito poi era stato proprio sfortunato. Aveva avuto la casa distrutta dal bombardamento. E non solo la casa. La vita ebbe distrutta, la vita…

(Tira fuori un fazzoletto e si asciuga la bocca) 

Quel giorno, il 14 di gennaio 1944, me lo ricordo come se fosse ora; i partigiani uccisero un tedesco in un’azione di guerriglia. Allora i tedeschi, per rappresaglia, presero parecchi loretesi. Fra di questi ci stava pure Guglielmo, il padre di Zopito. Gli ordinarono di scavare una fossa, e poi gli chiesero chi era stato a mettere la bomba. Ma quello non sapeva niente. E i tedeschi gli spararono, a freddo, come un animale…. Poi un altro; e un altro. Dopo suonò la sirena del coprifuoco e arrivarono le bombe. Tutti ci rifugiammo nelle cantine di Vallozza e di Talamonti. Quando il coprifuoco cessò, Zopito non trovò più né la casa né la famiglia! Teneva sedici anni, come me.

(Si soffia il naso sonoramente) 

Ma erano altri tempi! E ti dirò che anche se c’era una fame nera, chi ste pazzià, chi n’ove ci magnavame quattre persune , però eravamo più uniti, come se la miseria ci rendesse uguali, più del comunismo. E ti dirò che erano proprio….

Zopito – … bei tempi!

Donato – Proprio così, bei tempi.

Carmela – Ma sei stato in prigione!?

Donato – Un anno e mezzo, niente di grave. Come fare il soldato due volte! Il bello è che io non

avevo fatto niente!

Una voce – Cittadini, tra pochi istanti parlerà il compagno Luigi D’Angelo (5), segretario della CGIL di

Loreto Aprutino. Cittadini … 

Donato – Quel 22 marzo 1950 c’era uno sciopero contro i proprietari terrieri, che non volevano

applicare il lodo De Gasperi e farci lavorare. E poi c’erano stati i morti …

Una voce – … parlerà il compagno Luigi D’Angelo, segretario della sezione del Partito Comunista di

Loreto Aprutino.

D’Angelo – “Compagni, oggi che tutto il paese è fermo per questo grande sciopero nazionale

indetto dalla Camera Generale Italiana del Lavoro, un ennesimo eccidio è stato commesso dagli sgherri del ministro Scelba. A Lentella, due braccianti, due compagni, che manifestavano pacificamente il loro diritto al lavoro, sono stati brutalmente uccisi dalle forze di polizia, e cioè dallo Stato fascista che ancora governa questo Paese! Noo, no compagni, non dobbiamo farci prendere dallo sconforto e nemmeno dal legittimo sentimento di rabbia che agita i nostri petti. Dobbiamo rimanere calmi e dimostrare che questo sciopero avviene nel rispetto delle leggi democratiche, nel rispetto della Costituzione italiana. La nostra Costituzione che ha messo al primo posto la dignità della persona, il diritto al lavoro, il diritto a manifestare le proprie idee, diritti che costoro continuano a calpestare! Calma, compagni, mantenete la calma!”

Donato – Calma nu pare di cujune!  La polizia ti sparava addosso, come potevi stare calmo E

quando arrivarono, prima il ragionier Di Clemente, dopo quel disgraziato dell’avvocato Acciavatti, n’avome fatte passà! 

Un Giudice – La corte d’assise d’Appello di Chieti dichiara Soccio Donato colpevole del delitto di

blocco stradale e violenza privata aggravata, anni uno e mesi sei di reclusione.

Donato – (Si siede lentamente)  Fu una sentenza politica! per fermare le nostre lotte, con tutti i

mezzi. Perché il criterio era: “Tu ci stavi in piazza?” Sì! “Sei iscritto al partito comunista?” Sì! “Allora sei un facinoroso e hai partecipato al blocco stradale!” Così hanno preso le persone. Sennò non si spiega che a me mi hanno preso e a Rocco di Blattapizze, che stava a fianco a me, no! L’avvocato Ghiotti, che era venuto su da Pescara con Acciavatti a prendere Di Clemente per portarlo al tribunale a Pescara, andava con un blocchetto a segnare tutti quelli che non gli piacevano. E, guarda caso, ha segnato il mio nome, ha segnato Giggine di Riche, che sarebbe Luigi D’Angelo, il segretario che continuava a dire di stare calmi; Pina la Capparelle, che sarebbe Eliseo Annazopita, segretaria della sezione femminile del PCI. Ma se pensi che il testimone oculare dell’accusa era uno di Loreto che non ci vedeva da qua a là! Fu un ordine politico arrivato dall’alto!. E noi ne pagammo le conseguenze.

Quando sono uscito dal carcere non avevo più niente. L’unica era partire, emigrante. Sai che dei venticinque arrestati tredici hanno emigrato? Mio padre morì, in quei giorni. Faceva lo scarparo. Ho ereditato la sua bottega, uno stanzino di quattro metri quadrati e la stanza sopra, dove vivevo con mia madre prima, con tua madre dopo. Tu adesso la vedi aggiustata, ma prima la stanza dove stai tu non c’era e il bagno stava fuori. Pure l’acqua potabile non c’era. Si andava a prenderla alla fonte, con la conca. Poi sono arrivate le comodità …

Carmela – E Maria dove l’hai conosciuta?

Donato – Quando Maria uscì incinta, la famiglia la cacciò di casa. Allora ci stava l’ECA, l’ente

comunale di assistenza che si occupava dei poveri. Ma, siccome risultava che Maria una famiglia ce l’aveva, il sussidio non le fu assegnato. Chiese allora alle suore che l’accolsero insieme al bambino che stava per nascere.

Zopito – Sono nato tra le cocce di pezza! 

Donato – Proprio così! Un giorno andai su, alla chiesa di San Giuseppe, e dissi a suor Zopita:

“Mi voglio prendere Maria!”

Suor Zopita – Lo sai che ha un figlio?

Donato – Lo so.

Suor Zopita – Ce l’hai un lavoro?

Donato – Faccio lo scarparo

Suor Zopita – E quanto guadagni?

Donato – Nin z’arvatte nu chiove! (6)

Suor Zopita – Due Ave Maria e un Pater Noster!

Donato – Me ne andai. Un mese dopo arrivò Maria, col figlio in fasce.

Sant’Antonio

casolare di Carmela

E’ inverno

Carmela – Nevica a cielo aperto. Speriamo faccia un metro di neve.

Giuseppe – Come nel ‘56.

Carmela – Qui tutto è come nel ‘56. Guarda noi: io sono laureata in lingue, tu in agraria, siamo

senza lavoro, senza soldi e senza futuro, in una società violenta e individualista. Pensare ad una famiglia in queste condizioni è impossibile.

Giuseppe – Siamo ottimisti, oggi! Per tirarti su il morale ti racconto di me. Il mio bisnonno s’è fatto

brigante, giovanissimo; infatti a mio padre gli si dice Felice di brigande.  Mio nonno se ne è andato sui monti a fare il partigiano e di lui non abbiamo saputo più nulla; mio padre, comunista, si è fatto diciotto mesi di carcere per uno sciopero.

Carmela – Il mondo migliora.

Giuseppe – Sai perché mi hanno chiamato Giuseppe?

Carmela – Perché sei buono come San Giuseppe!

Giuseppe – No, perché ci si chiamava Stalin!

Carmela – Allora baffone è tornato!

Giuseppe – Mio padre è sempre stato orgoglioso del suo passato, ma ora è sempre davanti alla

televisione, bestemmia. e invoca la pena di morte. Carme’, se potessi mi farei brigante, pure io, per rubare ai ricchi e dare ai poveri; come Robin Hood. O per far paura ai padroni, come le prime BR. Ma non servirebbe a niente.

Carmela – Non serve a niente lottare?

Giuseppe – Per me questa è stata sempre una certezza: stare dalla parte dei deboli, dei poveri, ma

chi sono i poveri? Forse siamo noi, che non abbiamo un lavoro, uno stagionale malpagato se ci va bene, e poi subito a cercarne un altro. Oppure a presentare domande infinite per concorsi in cui ci sono due posti e cinquemila concorrenti. Tutti i politici devono andare in … Ecco, ho cominciato a parlare come mio padre.

Carmela – A me non fa paura la povertà. Mi spaventano altre cose.

Giuseppe – Cioè?

Carmela – Che tu scompaia senza un perché, come i tuoi nonni, o come il padre di Zopito. Per

Maria deve essere stato terribile.

Giuseppe – Chissà perché se n’è andato!? Forse ha avuto paura. Eppure stavano sempre

insieme. Compagni di lotta e di miseria, dice Donato! E per metterci riparo, alla miseria, se ne andavano in giro a cantare il Sant’Antonio, così si buscavano un tozzo di pane e magari un pagliericcio al caldo delle stalle.

Carmela – Certo se faceva così freddo… (Si stringono)  Guarda quanta neve!

Giuseppe – I vecchi dicono sempre: “Eh, ma nel ‘56!” (giocano ad imitare i vecchi)

Carmela – Chi ‘se matte, quande na fatte!?

Giuseppe – Nzi puteje caminà!

Carmela – La bonanime di Za’ Cungettine n’ome potute assutterrà, picché lu cariamuerte nin puteie

passà!

Giuseppe – Che ninquende, che ninquende! (Si sente bussare)  Chi è?

Una voce – Bonasere, jamme candenne lu Sand’Andonie! 

Giuseppe – Era ora!

Carmela – Siete in ritardo!

Anna – Sta nevicando.

Lucio – E fa freddo!

Giuseppe – Carmé, va a prendere una bottiglia di vino.

Carmela – Dopo, prima proviamo.

Giuseppe – Che cosa vuoi cambiare?

Lucio – Beh, sostanzialmente poco, volevo solo fare una versione più agile, per fare più case.

Giuseppe – Così aumentano le offerte.

Anna – Ma ci stanchiamo di più.

Carmela – Potremmo fare solo le case che sappiamo generose!

Lucio – E’ una tradizione, non lo facciamo per i soldi. D’altronde il centro storico si sta spopolando.

Si e no ci saranno una ventina di famiglie.

Carmela – Gli inglesi stanno comprando tutte le vecchie case.

Anna – Dici che ci faranno entrare?

Giuseppe – Certo, vanno a caccia di cose tipiche, di folclore! La descrizione più dettagliata della

processione del bue di San Zopito l’ha scritta un inglese.

Carmela – E poi sono pieni di soldi!

Lucio – Ma dove sta scritto che i ricchi sono generosi? Cinque anni fa, lu metiche Pallune,  che è

miliardario, ci diede venti lire.

Anna – Valentini (7) cacciava sempre il biglietto da cinquanta!

Carmela – Quello era un’altra stoffa.

Giuseppe – Da Valentini ci tornerei solo per un po’ di vino cotto.

Zopito – (Entrando)  Del ‘48! Purtroppo è finito da un pezzo.

Giuseppe – E’ arrivato Sant’Antonio!

Anna – Finalmente!

Zopito – Ricordate quando si arrabbiò perché Sant’Antonio portava un bastone di sambuco?

Giuseppe – E citò d’Annunzio. “I miei pastori… rinnovata han verga d’avellana … ”

Zopito – Mi sono scervellato a capire che diavolo era st’avellana.

Carmela – Cos’è, la quercia?

Anna – L’olivo!?

Zopito – Sì, il centrosinistra!

Giuseppe – L’ignoranza dilaga!

Zopito – E’ il nocciolo, l’albero di nocciolo, con cui i pastori intagliavano i loro

bastoni. Ma dove lo trovo io un albero di nocciolo dalle nostre parti?

Lucio – Va bene, adesso però basta chiacchierare e cominciamo la prova. La prima parte rimane

uguale; poi entra il santo e recita la preghiera. Te la ricordi o la vuoi provare?

Zopito/Sant’Antonio – (Comincia a ripassare per vedere se ricorda tutto, poi si inginocchia e entra

lentamente nella parte del santo, un eremita vecchio e saggio) 

Jasu Criste me, patre Onnipotente, (8)

dòneme a lu core e ‘mbriésteme la mende.

Che ji pozze, na vota l’anne, aiutà sta gende, veramende.

Binidìce, Dòmmini Iddì, viécchie, giùvine e citilànze;

sti cambàgne di live e grane, senza scurdàrte di li limane.

Na limane a me care, tu li se, è lu purcelle;

nin zi spreche proprie niende e ci s'abbòtte a crepapelle.

Tra prisutte e salamine, tra sacìcce e capilùmme,

nin t'artòcche manghe n’ugne, forse mbo’ di pane unde!

Diavolo – (Ha una maschera di zanni, un uccellaccio furbo e cattivo. Maltratta il santo e lo umilia) 

Ve’ chi me dua jace l’ore, lu diavule che ti è cumbagne

mai chiù nin te’ trimùre, mai chiù nin te’ trimùre.

‘Nni sta chiù senza magnà, ca t’aspette l’abbunnànze

piénze a ‘ffa la vita ‘bbone pi li juérne che t’avanze.

N’arcità cume nu matte piccò Ddie nin gi sta,

accandùnete a ‘ssu pindùne, nì di’ chiù si fazità.

Iamme ve chi me, ca ti ote la vita belle,

a magnà a crepapelle e fémmene a vulundà.

La fede è bucijàrde, vo nu mucchie di sacrifìzie

nin ti fa caccià li sfizie e manghe ti porte in ciel.

Angelo – (Mentre il diavolo si allontana, entra lentamente e si avvicina con dolcezza al santo.

Porta con sé una spada che affiderà al santo) 

Sand’Andò, statti cujéte,

Lu Signure nghi lu core ti li da la binizzùne

Ddije ti manne spada d’ore pi cumbatte lu piccate

Lu dijàvule, turmindate, nin si pò chiù salvà!

Sant’Antonio – (con un urlo terribile il diavolo rientra in scena e minaccia il santo e

l’angelo con una forca. La lotta con il santo sarà violenta) 

Vidi dua di ji, scappe da sta terre,

curri pi lu munne, arvàttene all'unfèrne!

Nni sta turmindà, la gende che sta in pace,

sule a ‘ffa lu male tu se capace!

sule a ‘ffa lu male tu se capace!

sule a ‘ffa lu male tu se capace!

Tutti

(Mentre Carmela distribuisce bicchieri colmi di vino)

Salutéme allegramende, frastére e gende e amice,

Sand’Andonie, nghi lu core, tutti quande vi benedice!

Sand’Andonie, benedetto, allundàne la tentazione,

Ma la strate è ‘ngure longhe e ci vo la cumpressiòne

Sand’Andonie, lemme lemme, si n’arvà allu pajarìcce,

Ma ci'armàne chiù cundènde chi ddù dete di sacìccie.

Sand’Andonie mu sta satùlle, ma na ‘mbette ci te nu spine

Signurine, belle belle, va ppijà na buttìje di vine.

Viva Sand’Andonie!

(alzano i bicchieri e bevono)

Zopito

contro Zopito

Zopito – (Racconta)  Sant’Antonio è una tradizione loretese, … abruzzese, …del centro Sud.

Anticamente lo narravano i cantastorie ed era un canto di questua. Oddio anche adesso, solo che prima i contadini davano il frutto delle loro fatiche: uova, salsicce, formaggi, galline, oggi i borghesi danno soldi, perché gli conviene. E non a caso si svolge a gennaio, “quando il freddo inchioda le albe e taglia la faccia”, come dice il poeta. Perché a gennaio si scanna il maiale. Non so se avete mai visto qualche antica stampa di Sant’Antonio, forse si trova ancora nelle vecchie stalle. Viene rappresentato con un bastone e un maialino al seguito. Dico Sant’Antonio abate, non quello di Padova, col giglio, non confondiamoci; Sant’Antonio, il protettore del raccolto e degli animali. Il giorno della sua festa si accendono dei fuochi enormi, alti anche venti metri. E negli anni ‘50, i contadini ritagliavano una piccola croce sul pelo delle vacche, qui, sulla testa, in mezzo alle corna. Ma bisognava farlo proprio il giorno di Sant’Antonio, il 17 gennaio, dopo la mezzanotte, e comunque prima dell’alba. Certi lo fanno ancora, ma sono come le mosche bianche. “Era usanza” diceva nonna Concetta. Poi arrivava fra’ Genesio e benediceva gli animali e la stalla. Alla sera, accanto al fuoco, arrivavano Donato, Felice e Zopito a cantare il Sant’Antonio e mia madre, senza farsi vedere, metteva sempre un pollo nella bisaccia di Zopito. (Si ode un fischio di nave) 

Zopito! Chissà dove si trova adesso. E se tornasse? Non saprei cosa dirgli! Forse dovrei chiamarlo papà… (immagina di incontrarlo) 

Papà, sei tornato. E che vuoi, ora?… Sei stato proprio una bella carogna a lasciare mia madre, sola e pure incinta, … di me. Sei un vigliacco, ecco quello che sei, un vigliacco!… 

Ma che diritto ho io di giudicare? Non sono certo migliore di lui, visto che sto pensando di andare a lavorare su una piattaforma, in mezzo al mare, e non ho detto niente a nessuno! … No, Zopito, senza rancore, … niente, una nuvola passeggera. … Sì, sono Zopito, il figlio di Donato, quello col tuo nome. Allora dimmi, perché te ne sei andato? Non ti sei mai fatto vivo, non hai mai scritto, in questi anni! Racconta dài, ne avrai di cose da raccontare. Parlami del Che, e come sta Fidel? La catena di ristoranti va bene? no, ho sbagliato, hai un allevamento di bufali, …di bisonti, … di struzzi. Oh lo sapevo, di polli!

Mezzadria

E’ primavera

 casa di Felice

Felice – (davanti alla televisione)  E’ una porcheria. Nel ‘50 D.C. e P.C. non si potevano sparare per

la polvere, e adesso quello dice “la storia che ci accomuna!” In galera dovete andare, in galera!

Antonietta – (con una bacinella per l’acqua)  Felì, dài, vatt’a’vistì, ca la processione mu esce!

Vieni, Zopito, aiutami, ché se n’è andata pure l’acqua! Sembra di stare ai tempi della guerra!

(porge la bacinella a Zopito e si lava, alla maniera contadina, prima la faccia, poi le braccia, sotto le ascelle e infine le mani)

Eh, se sapessi, quanto ho dovuto rubare per campare, quanto ho dovuto nascondere per mangiare, io, mio marito, i figli miei. Quattro figli, uno non è neanche venuto su bene, eccolo là, seduto sulle scale, a bocca aperta e nzi sa a ché penze. Quanto ho patito sotto al padrone e a quel demonio del fattore. Sudavamo sa ngue sotto il sole, sopra la terra, nella stalla, faticavamo come asini disperati e loro arrivavano ogni momento a prendere il più e il meglio, che pozze fa lu vommiche di lu sangue!   E quanti animali che ho allevato, e maiali e galline; sono stata attenta ai pulcini, che non li mangiasse la volpe. A volte sembrava che un pulcino o una paperetta stesse per morire e allora la portavo in casa accanto al fuoco, la mettevo dentro una vecchia calza di lana di pecora per tenerla al caldo. Piano piano le facevo beccare una pappetta di farina di granturco dalle mie dita. Poteva capitare di ritrovarla morta quando mi alzavo all’alba, ma il più delle volte guariva. Dopo, quando era cresciuta e andava razzolando per l’aia, arrivava Don Antonio, il fattore, e diceva: “Quella vicino al recinto dei maiali, spennamela per stasera”. Spennarla significava uccidere, spennare, fiammeggiare e sviscerare. Felì, armore ‘ssu ciòcchele! (Felice spegne la televisione e va a sistemare i lumini alla finestra, per la processione del Venerdì Santo. Antonietta siede al posto suo e si toglie le scarpe. Zopito le lava i piedi) 

La signora, quella non veniva mai, quella comandava da lontano. Ordinava al marito, il marito al fattore e il fattore al mezzadro: quesse ere lu gire. Il padrone veniva ogni tanto e se non c’era mio marito dovevo pure stare attenta che non allungasse le mani. Rosetta lo sa, la moglie dell’altro mezzadro, che ha fatto un figlio tale e quale al padrone. Ma il più schifoso di tutti è sempre il fattore: quello contava pure le cipolle, gli agli, i piedi di insalata, i finocchi, tutto, pure li piduécchie!  Perciò m’è toccato rubare la roba venuta su col sudore mio. Quando l’annata era buona non era troppo grave, il brutto è quando andava male: a spartire la miseria non rimane niente. Ma quello la metà sua la voleva lo stesso e a noi non restava neanche di che mangiare. Ma sempre gli abbiamo rubato e senza mai vergognarci!

No, non per avidità! Quando bisognava aiutare il prossimo noi eravamo sempre pronti. Durante lo sciopero a rovescio ci sono andata io a portare da mangiare a quei disgraziati che lavoravano senza né paga né marchette. Perché i padroni si rifiutavano di dare lavoro ai braccianti. E chi poteva obbligare Amorotti, Corsi, il barone Casamarte a pagargli le giornate? Se provavi a protestare ti sparavano addosso, se occupavi le terre i carabinieri ti arrestavano. Noi gli portavamo qualcosa il giorno e poi, la sera, preparavamo un callarone  di pasta e fagioli. Gli luccicava gli occhi. Mangiava in silenzio e ti guardava  con gli occhi bassi, di bestia che ti riconosce. Sì, gli abbiamo rubato al padrone e senza mai vergognarci. Solo così si poteva andare avanti, crescere i figli: faticando e rubando, con la forza e il sentimento e con la schiena dritta, sempre. Felì, se’ prunde? Ve’ ecche, fàmmite aggiustà lu colle! (Dà una sistemata al marito) 

Pure Felice s’è fatto la parte sua: alla trebbiatura sapeva lui come far mancare il grano sotto gli occhi del fattore senza che se ne accorgesse. Io gli offrivo un bicchiere di vino e mio marito aveva già fatto sparire un sacco; pane futuro, frittelle, fettuccine. Era giusto così, perché se non c’è legge che difende il poveruomo, il poveruomo deve difendersi da sé, con la testa e con le mani. (Si sente la banda che suona una marcia funebre) 

Zopito – C’era pure mio padre, quello che se n’è andato in America, a fare lo sciopero?

Antonietta – Certo che c’era. Era bravo Zopito, lavorava per quattro. Mangiava pure per quattro. A

lui glie ne dovevo rimettere sempre un pochino perché non gli bastava mai. Dopo ci fu quella bravata del blocco stradale e tutto finì. Cominciò l’emigrazione forte. Li giuvine si ni joie cume li rundinelle.  Zopito s’è fatto due anni di carcere; dopo da queste parti non l’ha visto più nessuno. Si dice che ha emigrato, in America, ma l’America è grossa e vattelappesca dove si trova!

Zopito – Ma non voleva bene a mia madre?

Antonietta – Certo!

Zopito – E allora perché se n’è andato?

Antonietta – E chi li sa, lu fije me, che ci passe nalla cocce di nu cristijane!

Venerdì santo

La processione. Un colpo di tamburo cupo e dolente ne annuncia l’inizio.

Donato – (Maria, Donato, Zopito, Antonietta e Felice seguono la processione, cantando e pregando.

Ogni tanto viene ordinato di fermarsi per serrare i ranghi. Nelle attese si commenta)  Quest’anno alla processione ci sta poca gente! Mi ricordo, ai tempi di prima, Cristo passava in piazza, e la Madonna stava ancora in piazzetta.

Maria – Ha diventate nu mercate!  Alla piazza ci si mette lu nocellare, alla piazzetta lu porchettare.

Ha ragione don Giorgio che non la vuol fare più, la processione!

Antonietta – E li sippuliche?(9) Prima, ci mettevano due giorni per preparare le chiese. 

Donato – Guarda, guarda come va vestita la gioventù. Ciciòlle da fore e caze scarsciate. (9). E’

possibile?

Zopito – E’ la moda! E poi che fastidio ti dà?

Donato – Ma lu Criste morte!?  E’ una questione di rispetto!

Felice – E’ inutile Donà, ngi sta chiù la fede di Dije. Io, da piccirille, so sembre purtate lu alle. Prima

si faceva a gara a chi lo portava. Muh, jisa rutte la cocce e nisciune l’argiuste.

(La processione riprende il cammino. Ogni tanto si sente intonare il prete, a cui segue la preghiera dei fedeli. Si ode la banda in lontananza)

Maria – Antonié, che bella acconciatura!

Antonietta – Ti piace? Ho cambiato parrucchiera, mo  vado da Sciantal!

Maria – Sciantal! Sciantal?

Antonietta – Sciantal, la fije di Sabbatine!

Maria – Ah, Sciantal che ha preso Francesco, lu fije de la Petrichicche. Ho capito.

E’ una brava ragazza!

Antonietta – Ci so ‘rmaste proprie cundende! Felì, che diamine, ndi li putije cagnà ‘sa camicie!?

Felice – Picché, che ja manghe?

Antonietta – Ma ‘nni vide ca lu colle è nere!

Felice – Ndunijé, mu mi ni vaje!

Antonietta – (A Maria)  Gli avevo preparato una bella camicia, pulita e stirata. Niente, s’è rimessa

quella sporca!

Felice – Ndunijé, mu mi ni vaje!

Antonietta – (Felice si allontana)  Felì, dua ve'?; Felì, dua ve'?

(La processione riparte; Felice rimane in scena e Zopito lo affianca; in lontananza il canto.

Felice ripete le parole della moglie e ricorda quel 22 marzo quando uscì di casa)

Felice – Felì, dua ve'?

Mamma – Felì dua ve’? E’ li quattre? Ve’ ‘fatijà?

Felice – Ma duérme, ndi priuccupà!

Mamma – E cuma facce a ‘durmì si fìjeme ‘nni dorme?

Felice – Ji sindìte ca successe esse pa balle? Ddù giuvene, ‘ddu bracciande cume me, a state

‘ccise dalla pulizie!

Mamma – E chi ji putòme fa nu puviriélle si lu munne è stuerte!? Felì, chi vo cagnà lu munne?

Felice – (Beve)  Ci alzavamo la mattina alle due e andavamo in piazza a piedi. Alle tre arrivava il

fattore che stabiliva il prezzo a giornata, il numero delle giornate e le squadre. Se accettavi senza contrattare lavoravi, sennò….

Appena arrivati, pure dopo otto ore di cammino, si attaccava a lavorare, fino al tramonto. E così il giorno dopo, dall’alba al tramonto, a volte pure quattordici ore. Un po’ di pane a mezzogiorno e il resto alla sera prima di andare a dormire, tutti insieme, nella cafoneria. Il fattore scioglieva i cani e caricava il fucile. Se scappavi eri morto.

Nella cafoneria, accanto a me, dormiva uno di Montebello, Michele si chiamava, aveva moglie e tre figli. Era alto quasi due metri, non diceva mai una parola. Alla sera comprava un litro di vino dal fattore e andava a dormire. Alle tre ci alzavamo e si lavorava fino a mezzogiorno. Poi il padrone ci chiamava con la campana e ci dava metà della razione. L’altra metà la sera. Un giorno era avanzato un pezzo di pane. Michele allungò la mano ma il padrone sbattè il pane per terra e urlò a Michele di andarsene: gli avrebbe pagato subito la giornata, ma un ladro non ce lo voleva a lavorare. Michele, col terrore negli occhi era rimasto fermo, di sasso. Alla notizia che perdeva il lavoro cominciò a piangere. E’ brutto vedere un uomo che piange, che chiede perdono in nome dei figli, di Cristo, di tutti. (Beve)

Zopito – Per questo sei emigrato?

Felice – Sono andato a Charleroi, in Belgio, alle miniere, dieci anni. Poi mi sono comprato un

pezzetto di terra, balle alle Fundicille, e sono tornato. Sono solo a lavorare. Antonietta pensa alla casa e alle bestie. Ma i figli la campagna non la vogliono sentire; dicono che è troppo lavorato, e forse hanno ragione. Sono andati in fabbrica, a Pescara. Ma, domando io, stare sotto padrone è meglio? Uno l’hanno licenziato e fa gli scioperi, come noi nel dopoguerra. Solo che oggi se uccide uno scioperante il poliziotto va in galera. Allora lo passavano di grado. E i morti ammazzati dalla polizia ne erano una morra. E per questo stavamo in piazza, quel 22 marzo 1950. A dire basta, che era ora di finirla di ammazzare la povera gente che chiedeva solo pane e lavoro, lavoro e pane. Eravamo disperati e con la rabbia nel cuore. Abbiamo fermato delle persone, usato parole minacciose, ma non abbiamo fatto violenza a nessuno. Sai cosa hanno scritto i benpensanti, i sacrestani di Loreto? “Cittadini, abbiate sempre fede nella D.C. Contro i nemici della pace e della libertà non mancherà la giustizia di Scelba!” (In lontananza la banda suona una marcia funebre) 

E la giustizia è arrivata il sedici di giugno, alle due di notte, come fossimo dei criminali pericolosi. Hanno scassato la porta, puntato i mitra, sono entrati come soldati in guerra. Mia madre come paralizzata dalla paura. Mi hanno dato un colpo col calcio del fucile, qua, nella pancia che stavo per soffocare e dopo mi hanno messo sulla camionetta. Sopra ci stava Donato, Lucio di Carmellone, Cumba’  Ennio, Vincenzo Sablone e Leonarde Piticune. Eravamo una ventina, sopra tre, quattro camionette. Alla stazione ci hanno incatenato, come le bestie, messo sul treno per portarci al carcere di Chieti. Capisci, noi chiedevamo pane, lavoro, e lo stato rispondeva, botte, carcere! Esiste la giustizia a questo mondo? Esiste? (Il coro intona il miserere) 

La lettera

Casa di Maria

Estate

Maria – Non trovi pace, vero?

Zopito – Già..

Maria – Gli assomigli così tanto che mi sembra di rivederlo!

Zopito – Vorrei saperne di più. Ho capito che tutto è finito dopo quel maledetto sciopero. Ma

finiscono anche le notizie e si ha una sensazione di impotenza. Immagino che sia successo anche a te.

Maria – Sì, ma dopo mi sono messa l’anima in pace… quando arrivò la lettera.

Zopito – La lettera!? Che lettera?

Maria – La lettera di Zopito.

Zopito – Ti ha scritto? E perché non me l’hai detto?

Maria – Allora eri piccolo. Poi ho pensato che non avresti voluto conoscerlo. Lui pure voleva così.

Ora sei grande, è giusto che tu sappia. La lettera è arrivata a Natale del ‘52, il giorno del tuo compleanno, come se lo sapesse… (prende la lettera e legge) 

“Maria cara, detto questa lettera a uno di Lanciano che fa il viaggio con me e quasi mi vergogno di dire a lui quello che voglio dire a te. Vado via, Maria, lontano, per il bene tuo e mio, perché non ho niente da offrirti, niente: non ho un lavoro, non ho una rendita, niente. Tutto quello che avevo è distrutto per sempre: famiglia, casa, ideale. La mia è vita rovinata, non voglio rovinare la tua. So che qualcosa di me è lì accanto a te, che hai un figlio, mio. L’ho saputo quando stavo in carcere. So pure che ti trovi dalle suore. Appena uscito dal carcere sono venuto a Loreto; ho aspettato, nella chiesa di San Giuseppe, di vederti, anche solo un momento. Poi ho sentito un pianto e sei arrivata tu, con un bambino in braccio. Stavo per correre, abbracciarvi, ma è cominciato il vespro e ti ho vista, serena, pregare la Madonna. Ho pianto… come adesso che la terra è lontana e il pensiero di non vederti più mi atterra. Non parlargli di me, abbraccialo di tanto in tanto, forte. Saluta pure Felice e Donato e chiedigli perdono. Il resto lo sa solo Dio.” Porta il timbro di Caracas, 19 novembre 1952.

Zopito – (con un soffio di voce)  Venezuela (Maria cerca di nascondere il suo turbamento andando

a riporre la lettera. Zopito è attonito)  Perché tutta questa sofferenza, mamma? Perché?

Maria – E chi lo sa? E’ la vita, figlio mio, la vita che gioca con noi. Che ci dà cose brutte ma anche

cose belle. A me ha tolto un amore e me ne ha dato un altro, più grande. A te ha tolto un padre di fuoco e di vento ma te ne ha dato uno vero. (Si siede) 

Sai che penso? Che noi siamo dentro al sogno di Dio. Quando sogna bene noi viviamo contenti; ma quando fa lu mazzemarelle… (Zopito sorride)  Vieni, lasciati cullare come quando eri piccolo. (Maria canta una ninna nanna. Zopito appoggia il capo sul suo grembo) 

Epilogo

E tutta un’altra storia

Zopito – Lotte, violenze, carcere, morti, emigrazione. Una passione infinita, poi tutto si dimentica, e

la storia ricomincia, come un gioco, o una condanna: lotta per il lavoro, lotta per la libertà, lotta per la democrazia. Tragedie che continuano; l’uomo cerca un mondo che non sembra essere di questo mondo. Intanto il tempo lo consuma, ci consuma.

Giuseppe – Ehi, filosofo, rilassati!

Anna – (Gli si avvicina)  Dai, vieni. (Zopito le volta le spalle).

Lucio – Lascialo, forse vuole star solo.

Carmela – (Ad Anna) Gli vuoi bene, vero? (Anna fa di sì col capo.  Lentamente.si allontanano tutti) 

Zopito – Sono passati diversi anni. E mi sono sposato; no, non con Anna, con Carmela. Anna s’è

messa con un altro quando sono andato a lavorare sulla piattaforma petrolifera; poi s’è sposata pure lei. E così anche noi siamo diventati genitori. Di mio padre non m’ero più interessato e, invece, inaspettatamente, è tornato. Non so se per vedere il suo paese, Maria, i compagni di un tempo, oppure per vedere me. Capii che aveva amato molto la mamma. No, non fu lui a dirmelo, e nemmeno i loro occhi lucidi che si penetravano a cercare dentro non so più che cosa, atterriti e appagati, vinti e invulnerabili, vecchi e bambini. E’ che, da quando si videro, Zopito non riuscì più a parlare. Fisicamente, dico, non gli uscirono più i suoni. Non che prima avesse parlato granché però almeno aveva salutato, articolato, chiesto di quello e di quell’altro. Ora invece non parlava e forse nessuno parlava. I compagni di lotta si erano abbracciati, avevano cenato nelle loro case, bevuto insieme come un tempo. Ma nessuno parlava. Zopito faceva lunghe passeggiate a vedere il paese dalla collina di fronte, dove è adesso la parte nuova. E nessuno parlava. Era Natale e Loreto, coperta di neve, era proprio bella. Il sei gennaio Zopito sarebbe ripartito e tutti pensavamo che non lo avremmo più visto, che non avrebbe più parlato. Allora facemmo una cena per la sua partenza, nel casolare di Anna. Preparammo noi giovani, i prodotti della nostra terra che sono buoni, i pomodori, le insalate, le olive e gli arrosticini, e poi salsicce e prosciutto e formaggio di pecora, e vino a volontà. E c’erano tutti, padri madri, figli, animali. Sembrava un presepe, eravamo nella stalla e fuori nevicava. E nessuno parlava. Noi giovani avevamo una sorpresa, per Zopito, e sapevamo che gli sarebbe piaciuta. Gli cantammo il Sant’Antonio; d’altronde avevamo ereditato i loro canti e i loro modi di stare assieme.

I Santantoniari – Saluteme tutti chiende, (10)

viecchie, giuvene e bona gende

lu vende gnove a minite a purtà,

lu Sand’Andonie tineme a candà.

Ci l’aveme purtate appresse

na grazie ci pozza fa

salute e bene pozzicia esse,

raccolte bone ci pozza sta.

e poi entravo io, a dire la preghiera, ma Zopito, proprio in quel momentomi si avvicina e, nel silenzio generale, perché nessuno parlava, si inginocchia:

Dommini Iddì, chi ste ‘nciele e ‘nderre (11)

e dé la vite a tutti chiende.

Fa che pure uanne li live, lu grane

e l’etre frutte di li cambagne nostre

pozza vinì bone.

Manne na binidizzune a tutte chiende.

Pi prime a li puverielle, a chille che nin te na case,

nin te da magnà, che nin te niende.

E troppe ci ne sta pi lu munne.

Manne na binidizzune dua sta li guerre,

a chi li citile ca viste sule la morte

e penze ca tutte inturne è morte.

E troppe ci ni sta pi lu munne.

Manne na binidizzune a li carcirete,

picché di li vote dendre ci sta la gende sbajate

che vo fa bene a lu munne ma sbaje la strate,

a chille manneje na binidizzune ,

picché troppe ci ni sta pi lu munne.

Binidice domminiddì chi te bisuegne,

belle o brutte, giuvane e viecchie, ricche e tapine.

Binidici allure tutti li cristiéne, che n’è mai troppe pi lu munne.

E binidici tutti li limane ma chiù di tutte

t’arcummanne lu purcelle, na limane a me care,

dua ngi si spreche niende e ci s’arcava tanta rubba bone… 

e continuò Zopito ad elencare tutto quello che il maiale donava all’uomo senza pretendere nulla in cambio. E ci sentimmo tutti un po maiali e cioè esseri che prima o poi sarebbero stati sacrificati per il bene del mondo. Ed eravamo felici di questo. Così Zopito partì con una morte gioiosa nel cuore e seppi che fece un altro figlio. Lo chiamò Zopito come me, o come sé e l’amministrazione gli diede un milione che lui regalò alle suore.

E questa è la storia di Zopito, una storia veramente inventata. E’  la nostra storia, di noi padri e di noi figli, che poi è la stessa cosa, perché quando non riconosciamo i nostri padri non riconosciamo noi stessi o se preferite non ci conosciamo ancora, perché conoscere e riconoscere, … no il contrario, riconoscere è … (Zopito continua e come al solito se ne va per la tangente).

Lucio – Zopì, ji mi ni vaje! (esce)

Giuseppe – Ma quanto la fai lunga!

Anna – Lo spettacolo è finito!

Lucio – E poi quella è un’altra storia!

Zopito – E’ vero: questa è un’altra storia!

Buio

Note al testo

(1)  Sta recitando il dies irae!

(2)  La saccùtè  è un piccolo sacco che veniva appeso al collo o legato alla vita e dentro il quale i raccoglitori

facevano cadere le olive direttamente dai rami. La saccùte  poi si svuotava nei canestri, a terra. Con l’arrivo dei pannelli messi a terra, è passata d’uso.

(3)  I raccoglitori di ulivo (uomini e donne), negli anni ‘50, si muovevano in gruppi dal mattino, verso le tre. Lungo

la strada cantavano e lanciavano grida e motteggi. Al tramonto tornavano a casa a mangiare ma non sempre la stanchezza glielo permetteva.

Le strofe qui riportate sono alcune fra quelle raccolte da me e Fausto Roncone sul campo intorno agli anni Settanta. Sono a dispetto, cioè in contraddittorio con altri cantori. In genere all’uomo risponde la donna e viceversa, ma non sempre. Sono nella maggior parte dei casi a rima baciata.

(4)  Deve venire baffone!  e poco dopo Deve tornare baffone!  Baffone sta per Stalin. I comunisti lo invocavano

spesso nelle manifestazioni e soprattutto in risposta ai soprusi che dovevano subire.

(5)  Luigi D’Angelo era segretario sia della CGIl di Loreto che della locale sezione del PCI.

Calma un paio di palle!

(6)  Non si ribatte un chiodo.  Un modo per dire che non c’è lavoro che viene proprio dal mestiere del

ciabattino

(7)  Produttore vinicolo loretese, nel settore molto noto.

(8)  Il Sant’Antonio è un canto di questa, di origine medievale, tradizionale dell'Abruzzo e di altri regioni

meridionali. Si festeggia il 17 gennaio, ma alcuni gruppi, come quello di Loreto Aprutino, lo cantano dal primo gennaio fino al diciassette, per portarlo in tutte le case del paese e delle contrade.

Preghiera

Gesù Cristo mio, Padre Onnipotente

dammi coraggio e lucidità,

per aiutare davvero, una volta l’anno, questa gente,.

Benedici, signore Iddio, vecchi, giovani e bambini;

le campagne, piene di ulivi e di grano.

Ma non dimenticare gli animali.

Un animale a me caro, tu lo sai, è il maiale;

del quale non si spreca niente e tutti si possono abboffare.

Tra prosciutti e salami, tra salsicce e lonze,

a te non rimane nulla, forse un po’ di pane unto.

Entrata del diavolo

Vieni con me dove c'è l'oro. Con il diavolo per amico

non avrai più paura.

Smettila di digiunare, ché ti aspetta l’abbondanza;

pensa a far vita spensierata, per i giorni che ti mancano.

Non predicare come un folle, tanto Dio non esiste,

mettiti in un angoletto e smettila di mentire.

Dài, vieni con me, che farai la bella vita,

mangiare a sazietà e donne a volontà.

La fede è ingannatrice, chiede molti sacrifizi

non ti fa divertire e nemmeno ti dona il paradiso.

Entrata dell’angelo

Sant’Antonio, sii tranquillo

Il Signore con il cuore ti dà la sua benedizione.

Dio ti invia una spada d’oro per combattere il male.

Il diavolo, tormentato, non potrà salvarsi.

Cacciata del diavolo

Vai via, scappa da questa terra,

fugi dal mondo e torna all'inferno.

Non tormentare la gente che sta in pace

sei capace solo di compiere il male.

(9)  I sepolcri.

(10)  Saluto finale

Salutiamo con allegria, forestieri ed amici,

Sant’Antonio, di cuore, tutti vi benedice.

Sant’Antonio, benedetto, allontana la tentazione.

Ma molta strada ha da fare e ci vorrebbe una colazione.

Sant’Antonio, piano piano, torna alla suo giaciglio.

Ma sarebbe più contento con una fila di salsicce.

Sant’Antonio adesso è sazio, ma nello stomaco ha uno spino,

signorina bella, vai a prendere una bottiglia di vino.

Viva Sant’Antonio

(11)  Signore Iddio, che sei nei cieli e sulla terra,

fa che, anche quest’anno, il grano e gli altri frutti

delle nostre campagne possano essere abbondanti.

Benedici tutti

per primi i poveri, quelli che non hanno una casa,

non hanno da mangiare, non hanno niente.

E ce ne sono tanti nel mondo.

Benedici, dove ci son le guerre,

quei bambini che hanno visto solo morte,

e pensano che tutto intorno a loro sia morte.

E ce ne sono tanti nel mondo.

Benedici i carcerati,

perché a volte dentro ci son le persone sbagliate,

che vogliono far del bene al mondo, ma hanno sbagliato la strada.

a costoro manda una benedizione particolare,

ché ne sono tanti nel mondo.

Benedici chi ha bisogno,

bravo o cattivo, giovane o vecchio, ricco o povero.

Benedici tutti i cristiani,ché non sono mai abbastanza nel mondo.

E benedici tutti gli animali,

ma prima di tutti il maiale, un animale a me caro,

di cui non si spreca niente e si ricavano tante cose buone…

e continuò Zopito ad elencare tutto quello che il maiale donava all’uomo senza pretendere nulla in cambio. E ci sentimmo tutti un po maiali e cioè esseri che prima o poi sarebbero stati sacrificati per il bene del mondo. Ed eravamo felici di questo. Così Zopito partì con una morte gioiosa nel cuore e seppi che fece un altro figlio. Lo chiamò Zopito come me, o come sé e l’amministrazione gli diede un milione che lui regalò alle suore.

E questa è la storia di Zopito, una storia veramente inventata. E’  la nostra storia, di noi padri e di noi figli, che poi è la stessa cosa, perché quando non riconosciamo i nostri padri non riconosciamo noi stessi o se preferite non ci conosciamo ancora, perché conoscere e riconoscere, … no il contrario, riconoscere è … (Zopito continua e come al solito se ne va per la tangente).

Lucio – Zopì, ji mi ni vaje! (esce)

Giuseppe – Ma quanto la fai lunga!

Anna – Lo spettacolo è finito!

Lucio – E poi quella è un’altra storia!

Zopito – E’ vero: questa è un’altra storia!

Buio

Note al testo

(1)  Sta recitando il dies irae!

(2)  La saccùtè  è un piccolo sacco che veniva appeso al collo o legato alla vita e dentro il quale i raccoglitori

facevano cadere le olive direttamente dai rami. La saccùte  poi si svuotava nei canestri, a terra. Con l’arrivo dei pannelli messi a terra, è passata d’uso.

(3)  I raccoglitori di ulivo (uomini e donne), negli anni ‘50, si muovevano in gruppi dal mattino, verso le tre. Lungo

la strada cantavano e lanciavano grida e motteggi. Al tramonto tornavano a casa a mangiare ma non sempre la stanchezza glielo permetteva.

Le strofe qui riportate sono alcune fra quelle raccolte da me e Fausto Roncone sul campo intorno agli anni Settanta. Sono a dispetto, cioè in contraddittorio con altri cantori. In genere all’uomo risponde la donna e viceversa, ma non sempre. Sono nella maggior parte dei casi a rima baciata.

(4)  Deve venire baffone!  e poco dopo Deve tornare baffone!  Baffone sta per Stalin. I comunisti lo invocavano

spesso nelle manifestazioni e soprattutto in risposta ai soprusi che dovevano subire.

(5)  Luigi D’Angelo era segretario sia della CGIl di Loreto che della locale sezione del PCI.

Calma un paio di palle!

(6)  Non si ribatte un chiodo.  Un modo per dire che non c’è lavoro che viene proprio dal mestiere del

ciabattino

(7)  Produttore vinicolo loretese, nel settore molto noto.

(8)  Il Sant’Antonio è un canto di questa, di origine medievale, tradizionale dell'Abruzzo e di altri regioni

meridionali. Si festeggia il 17 gennaio, ma alcuni gruppi, come quello di Loreto Aprutino, lo cantano dal primo gennaio fino al diciassette, per portarlo in tutte le case del paese e delle contrade.

Preghiera

Gesù Cristo mio, Padre Onnipotente

dammi coraggio e lucidità,

per aiutare davvero, una volta l’anno, questa gente,.

Benedici, signore Iddio, vecchi, giovani e bambini;

le campagne, piene di ulivi e di grano.

Ma non dimenticare gli animali.

Un animale a me caro, tu lo sai, è il maiale;

del quale non si spreca niente e tutti si possono abboffare.

Tra prosciutti e salami, tra salsicce e lonze,

a te non rimane nulla, forse un po’ di pane unto.

Entrata del diavolo

Vieni con me dove c'è l'oro. Con il diavolo per amico

non avrai più paura.

Smettila di digiunare, ché ti aspetta l’abbondanza;

pensa a far vita spensierata, per i giorni che ti mancano.

Non predicare come un folle, tanto Dio non esiste,

mettiti in un angoletto e smettila di mentire.

Dài, vieni con me, che farai la bella vita,

mangiare a sazietà e donne a volontà.

La fede è ingannatrice, chiede molti sacrifizi

non ti fa divertire e nemmeno ti dona il paradiso.

Entrata dell’angelo

Sant’Antonio, sii tranquillo

Il Signore con il cuore ti dà la sua benedizione.

Dio ti invia una spada d’oro per combattere il male.

Il diavolo, tormentato, non potrà salvarsi.

Cacciata del diavolo

Vai via, scappa da questa terra,

fugi dal mondo e torna all'inferno.

Non tormentare la gente che sta in pace

sei capace solo di compiere il male.

(9)  I sepolcri.

(10)  Saluto finale

Salutiamo con allegria, forestieri ed amici,

Sant’Antonio, di cuore, tutti vi benedice.

Sant’Antonio, benedetto, allontana la tentazione.

Ma molta strada ha da fare e ci vorrebbe una colazione.

Sant’Antonio, piano piano, torna alla suo giaciglio.

Ma sarebbe più contento con una fila di salsicce.

Sant’Antonio adesso è sazio, ma nello stomaco ha uno spino,

signorina bella, vai a prendere una bottiglia di vino.

Viva Sant’Antonio

(11)  Signore Iddio, che sei nei cieli e sulla terra,

fa che, anche quest’anno, il grano e gli altri frutti

delle nostre campagne possano essere abbondanti.

Benedici tutti

per primi i poveri, quelli che non hanno una casa,

non hanno da mangiare, non hanno niente.

E ce ne sono tanti nel mondo.

Benedici, dove ci son le guerre,

quei bambini che hanno visto solo morte,

e pensano che tutto intorno a loro sia morte.

E ce ne sono tanti nel mondo.

Benedici i carcerati,

perché a volte dentro ci son le persone sbagliate,

che vogliono far del bene al mondo, ma hanno sbagliato la strada.

a costoro manda una benedizione particolare,

ché ne sono tanti nel mondo.

Benedici chi ha bisogno,

bravo o cattivo, giovane o vecchio, ricco o povero.

Benedici tutti i cristiani,ché non sono mai abbastanza nel mondo.

E benedici tutti gli animali,

ma prima di tutti il maiale, un animale a me caro,

di cui non si spreca niente e si ricavano tante cose buone…